CAPITOLO 15


L’apogeo dell’Internazionale



    15.1    ​​​Inghilterra, Francia, Belgio

Poco prima che uscisse il primo volume del Capitale si riunì a Losanna, dal 2 all’8 settembre 1867, il secondo Congresso dell’Internazionale. Esso non fu all’altezza di quello di Ginevra.

Lo stesso appello emanato nel luglio dal Consiglio Generale, che sollecitava a partecipare in gran numero al Congresso, colpiva per l’estrema laconicità del bilancio del terzo anno dell’associazione. Soltanto dalla Svizzera si aveva notizia di un costante progresso del movimento, e anche dal Belgio dove un eccidio di operai scioperanti, a Marchienne, aveva esasperato il proletariato.

Quanto al resto, il documento lamentava gli ostacoli che in circostanze diverse erano stati opposti alla propaganda nei diversi paesi: la Germania, che prima del 1848 aveva preso tanto interesse allo studio della questione sociale, era tutta presa dal suo movimento per l’unità; in Francia, pur nella limitata libertà di cui godeva la classe operaia, l’associazione non si era estesa quanto sarebbe stato da aspettarsi in seguito all’energico appoggio che l’Internazionale aveva dato agli scioperi. Si alludeva con ciò al grande sciopero iniziato nella primavera del 1867 dagli operai del bronzo parigini, che si era trasformato in una lotta a fondo per la libertà di coalizione e che era terminato con una vittoria degli operai.

Anche l’Inghilterra si buscò un leggero rimprovero perché, rivolgendo tutta la sua attenzione alla riforma elettorale, aveva perso di vista per un momento il movimento economico. Ma ora la riforma elettorale era cosa fatta. Sotto la pressione delle masse, Disraeli l’aveva dovuta concedere in una forma anche un po’ più ampia di quella originariamente progettata da Gladstone, estendendola cioè a tutti i locatari di abitazioni cittadine, qualunque fosse il fìtto. Il Consiglio Generale diceva quindi di sperare che fosse venuto il momento, per gli operai inglesi, di salutare l’utilità dell’Internazionale.

Il Consiglio Generale accennava infine agli Stati Uniti, dove gli operai erano riusciti ad ottenere, in parecchi Stati, la giornata di otto ore. Si precisava poi che ogni sezione, grande o piccola, poteva mandare un dele gato e le sezioni che avevano più di 500 membri potevano mandare un delegato ogni 500 membri. All’ordine del giorno del Congresso furono messe le questioni seguenti: 1) Con quali mezzi pratici l’Internazionale può creare per la classe operaia un centro comune per la sua lotta di liberazione, e 2) come può la classe operaia utilizzare per la sua emancipazione il credito che essa concede alla borghesia e al governo?

Questo programma entrava già in qualche misura nelle questioni generali, ma mancava il memorandum che avrebbe dovuto motivarlo nei particolari. Come rappresentanti del Consiglio Generale si presentarono a Losanna Eccarius e il fabbricante di strumenti musicali Dupont, segretario corrispondente per la Francia, un operaio molto capace, che tenne la presidenza in assenza di Jung.  Erano presenti 71 delegati, fra i tedeschi Kugelmann, F. A. Lange, Louis Bùchner, l’uomo della forza e della materia, e Ladendorf, un buon democratico borghese, ma nemico accanito del comunismo. Prevaleva nettamente l’elemento latino: francesi e Svizzeri francesi, oltre a pochi belgi e italiani.

Questa volta i proudhoniani si erano preparati più a fondo e con maggiore rapidità del Consiglio Generale: con tre mesi di vantaggio avevano steso un programma secondo cui dovevano essere trattati il mutualismo come base dei rapporti sociali, l’equiparazione del valore delle prestazioni, il credito e le banche del popolo, gli istituti di assicurazione reciproca, la posizione dell’uomo e della donna di fronte alla società, gli interessi collettivi e individuali, lo Stato come custode e tutore del diritto, il diritto a punire e ancora una dozzina di questioni di questo genere. Ne venne fuori un confuso miscuglio, su cui qui non c’è bisogno di fermarsi, in quanto Marx non aveva niente a che fare con tutto ciò e le risoluzioni, che in parte si contraddicevano a vicenda, hanno continuato ad esistere soltanto sulla carta.

Più che nelle questioni teoriche il Congresso ebbe successo nelle questioni pratiche. Confermò il Consiglio Generale con sede a Londra, fissò il contributo annuale a 10 centesimi o a un Groschen per ogni membro, e stabilì che il pagamento puntuale di questo contributo sarebbe stato condizione necessaria per aver il diritto di partecipare al congresso annuale. Il Congresso affermò inoltre che l’emancipazione sociale degli operai era inseparabile dalla loro azione politica, e che la conquista della libertà politica era la prima e assoluta necessità; dava tanta importanza a questa dichiarazione che decise di rinnovarla tutti gli anni. Il Congresso assunse infine la giusta posizione di fronte al Congresso della borghese Lega per la Pace e la Libertà, che si era formata di recente in seno alla borghesia radicale e che tenne il suo primo con gresso a Ginevra subito dopo quello di Losanna. A tutte le profferte d’amicizia, questo rispose col semplice programma: noi vi appoggeremo volentieri fin tanto che ciò possa servire ai nostri propri fini.

Strano a dirsi (o neppure strano), questo Congresso, meno riuscito, suscitò nel mondo borghese molto più chiasso del precedente, che si era riunito, questo va ricordato, mentre perduravano sensibilmente le ripercussioni della guerra tedesca. Specialmente la stampa inglese, con alla testa il Times che pubblicava i resoconti di Eccarius, manifestò un vivace interesse per il Congresso di Losanna, mentre si era disinte ressata quasi completamente del Congresso di Ginevra. Non mancavano naturalmente le ingiurie della borghesia, ma l’Internazionale cominciava ad essere presa sul serio. “Se si paragonava il Congresso — scrisse la signora Marx al Vorbote — col suo fratellastro, il Congresso della Pace, il confronto andava in tutto e per tutto a favore del fratello maggiore: in questo si assisté a una tragedia del fato, nell’altro a una semplice farsa”. Con questa considerazione si consolava anche Marx, che non poteva essere soddisfat to dei dibattiti di Losanna. “Le cose procedono... Ed inoltre senza mezzi finanziari! Con gli intrighi dei proudhoniani a Parigi, di Mazzini in Italia, e degl’invidiosi Odger, Cremer, Potter a Londra, con gli Schul ze-Delitzsch e i lassalliani in Germania. Possiamo esser molto contenti”. Ma Engels riteneva che tutto ciò che era stato deciso a Losanna fosse perfettamente inutile, se il Consiglio Generale restava a Londra. E in realtà ciò aveva importanza, perché col terzo anno di vita dell’Internazionale si chiuse il periodo del suo tranquillo sviluppo e cominciò un periodo di lotte infocate.

Si era appena concluso il Congresso di Losanna e subito si verificò un incidente che ebbe profonde con seguenze. Il 18 settembre 1867, a Manchester, un carro della polizia che trasportava due feniani arrestati fu attaccato in pieno giorno da feniani armati che aprirono il carro e liberarono i due prigionieri, dopo aver ucciso il poliziotto che li accompagnava. I veri colpevoli non furono scoperti; ma fra i feniani arrestati in massa ne furono scelti un gran numero, accusati di assassinio, e tre di essi furono condannati alla forca, nonostante che nel processo, parzialissimo, non potesse essere portata alcuna prova decisiva contro di loro. In tutta l’Inghilterra la cosa fece una grande impressione, che diventò un “panico feniano” quando, nel dicembre, l’esplosione di una carica di polvere predisposta da feniani davanti alle mura del carcere di Clerkenwell (quartiere di Londra abitato quasi esclusivamente da piccoli borghesi e proletari) uccise dodici persone e ne ferì più di cento.

L’Internazionale non aveva di per sé nulla a che fare con la congiura feniana, e Marx ed Engels condan narono l’attentato di Clerkenwell come una sciocchezza, che nuoceva più che ad altri agli stessi feniani, raffreddando o spegnendo del tutto la simpatia che gli operai inglesi sentivano per la causa irlandese. Ma il modo con cui il governo inglese aveva proceduto contro i feniani, che si ribellavano contro la vergognosa secolare oppressione della loro patria, trattandoli come delinquenti comuni, non poteva non fare insorgere ogni persona che nutrisse sentimenti rivoluzionari. Già nel giugno 1867 Marx aveva scritto ad Engels: “Questi porci esaltano come umanità inglese il fatto che i prigionieri politici non siano trattati peggio che gli assassini, i briganti da strada, i falsari e i pederasti”. Per Engels si aggiungeva anche il fatto che Liz zy Burns (su cui egli aveva riversato il suo amore dopo la morte della sorella di lei, Mary) era un’ardente patriota irlandese.

Ma il vivo interesse che Marx sentiva per la causa irlandese aveva motivi anche più profondi che la simpatia per un popolo oppresso. I suoi studi lo avevano portato alla convinzione che l’emancipazione della classe operaia inglese, da cui a sua volta dipendeva l’emancipazione del proletariato europeo, aveva come pre supposto necessario la liberazione degli irlandesi. La caduta dell’oligarchia terriera inglese, pensava Marx, era impossibile fin tanto che essa conservava in Irlanda i suoi avamposti ben fortificati. Appena la cosa fosse stata nelle mani del popolo irlandese, appena esso avesse preso a darsi le leggi e a governarsi da sé, appena fosse diventato autonomo, l’annientamento dell’aristocrazia terriera, che in gran parte era com posta da landlords inglesi, sarebbe stato infinitamente più facile che in Inghilterra, poiché in Irlanda questa non era soltanto una questione semplicemente economica, ma una questione nazionale, perché in Irlanda i landlords non erano, come in Inghilterra, dei magistrati tradizionali, ma erano gli oppressori, mortalmente odiati, della nazionalità. Se l’esercito e la polizia inglesi scomparivano dall’Irlanda la rivoluzione agraria era cosa fatta.

La borghesia, inglese, per parte sua, aveva in comune con l’aristocrazia inglese l’interesse a trasformare l’Irlanda in un semplice terreno da pascolo, che fornisse al mercato inglese carne e lana al prezzo più basso possibile. Ma aveva un interesse anche maggiore a mantenere l’economia irlandese così come si trovava allora. Per l’aumento costante della concentrazione della proprietà terriera, l’Irlanda riforniva il mercato inglese del lavoro con la sua sovrappopolazione e quindi provocava l’abbassamento dei salari e della posi zione materiale e morale della classe operaia inglese. In tutti i centri industriali e commerciali dell’Inghilterra la classe operaia era divisa nei due campi ostili dei proletari inglesi e irlandesi. L’operaio inglese comune odiava l’operaio irlandese come un concorrente e si sentiva di fronte a lui come un membro della nazione dominante, e appunto per questo si faceva strumento degli aristocratici e dei capitalisti contro l’Irlanda, rafforzando così il loro dominio sopra se stesso. Il proletario inglese nutriva dei pregiudizi religiosi, sociali e nazionali contro l’irlandese; di fronte a lui si comportava presso a poco come a suo tempo il lavoratore bianco si comportava di fronte al negro negli Stati schiavisti nordamericani. L’irlandese lo ripagava con la stessa moneta con in più gli interessi. Nell’operaio inglese egli vedeva in pari tempo il complice e lo stupido strumento del dominio inglese sull’Irlanda. In questo antagonismo, alimentato con la stampa, il pulpito, i giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi che sono a disposizione delle classi dominanti, aveva origine l’impotenza della classe operaia inglese, nonostante la sua organizzazione.

Questo male poi si estendeva di là dall’oceano. L’antagonismo fra inglesi e irlandesi impediva ogni leale e seria cooperazione fra il proletariato inglese e americano. Se il compito principale dell’Internazionale era di affrettare la rivoluzione sociale in Inghilterra, metropoli del capitale, l’unico mezzo per riuscirvi era di dare l’indipendenza all’Irlanda. L’Internazionale doveva prendere partito apertamente in favore dell’Irlanda, e il Consiglio Generale aveva lo speciale compito di far sorgere nella coscienza della classe operaia inglese la convinzione che per essa l’emancipazione nazionale dell’Irlanda non era una questione di giustizia astratta e di sentimenti umani, ma la prima condizione per la sua propria emancipazione sociale.

Negli anni seguenti Marx dedicò tutte le sue forze ali adempimento di questo compito: come nella questione polacca (che a partire dal Congresso di Ginevra era scomparsa dall’ordine del giorno dell’Internazionale) egli vedeva la leva che doveva rovesciare il predominio russo, nella questione irlandese vedeva la leva per rovesciare il predominio inglese. Non si lasciò neppure turbare dal fatto che gli “intriganti” tra gli operai, i quali volevano entrare nel parlamento alle successive elezioni (fra essi Marx annoverava lo stesso Odger, fino allora presidente del Consiglio Generale), trovassero in ciò un pretesto per unirsi ai liberali borghesi. Infatti, dato che era diventata bruciante, Gladstone sfruttò la questione irlandese come slogan elettorale, per tornare al governo. Il Consiglio Generale indirizzò al governo inglese, naturalmente senza successo, una petizione in cui si protestava contro l’esecuzione dei tre feniani condannati a Manchester, definita assassinio legale, e organizzò a Londra dei comizi pubblici per difendere i diritti dell’Irlanda.

Oltre a provocare in questo modo il malcontento del governo inglese, il Consiglio Generale offrì al governo francese il preteste per colpire l’Internazionale. Per mettere paura alla borghesia recalcitrante, Bonaparte aveva assistito tranquillamente per tre anni allo sviluppo dell’associazione; quando i soci francesi dell’Inter nazionale avevano istituito un ufficio a Parigi, ne avevano informato il prefetto di polizia parigino e il ministro degli interni, senza ricevere risposta né dall’uno né dall’altro. Non erano però mancati piccoli imbrogli e intrighi. Quando gli atti del Congresso di Ginevra, poiché non ci si fidava del gabinetto nero della posta

bonapartista, furono affidati a uno svizzero naturalizzato inglese, perché li portasse al Consiglio Generale, la polizia glieli sottrasse al confine francese, e il governo francese fece il sordo ai reclami del Consiglio Ge nerale. Ma il ministero degli esteri londinese si fece sentire, e il governo francese dovette restituir la preda. Un’altra delusione ebbe il viceimperatore Rouher quando volle che la pubblicazione di un manifesto, che era stato presentato dai membri francesi al Congresso di Ginevra, fosse permessa in Francia soltanto alla condizione che “vi fosse inserita qualche parola di gratitudine per l’imperatore, che tanto aveva fatto per gli operai”. Questa pretesa fu respinta, per quanto i membri francesi dell’Internazionale facessero molta attenzione, di solito, a non irritare il bestione in agguato, e i radicali borghesi li sospettassero per questo di essere bonapartisti camuffati.

Lasciamo da parte la questione se essi da questo si siano lasciati fuorviare tanto da partecipare a qualche manifestazione addomesticata della borghesia radicale contro l’Impero, come sostengono alcuni scrittori francesi. In ogni caso, i motivi che spinsero Bonaparte alla rottura aperta con la classe operaia erano più profondi. Il movimento degli scioperi provocato dalla crisi rovinosa del 1866 aveva assunto proporzioni pre occupanti; inoltre nella primavera del 1867, quando incombeva la minaccia di guerra con la Confederazione della Germania del Nord a causa della questione lussemburghese, gli operai parigini, sotto l’influenza del l’Internazionale, avevano scambiato messaggi di pace con gli operai berlinesi; infine la borghesia francese reclamava con sì alte grida la “vendetta per Sadowa” che alle Tuileries si fece strada l’idea maledettamente astuta di tapparle la bocca con delle concessioni “liberali”.

In queste circostanze Bonaparte credette di fare un viaggio e due servizi, predisponendo un colpo contro l’ufficio parigino dell’Internazionale, sotto il pretesto di avervi scoperto un centro della congiura feniana. Ma quantunque facesse sorprendere i membri dell’ufficio parigino con perquisizioni improvvise effettuate in piena notte, non riuscì a trovare la minima traccia di una congiura segreta. Per non lasciare che questo col po a vuoto si trasformasse in una figuraccia troppo grossa, non restava altro che far mettere sotto accusa l’ufficio parigino, perché era una società non autorizzata di più di venti membri. La causa fu discussa il 6 e il 20 marzo contro quindici membri dell’Internazionale, e la sentenza stabilì una multa di 100 franchi per ogni accusato e lo scioglimento dell’ufficio parigino. Le istanze superiori confermarono questa sentenza.

Ma prima di arrivare a questo era già in corso una nuova azione. Tanto l’accusa che la corte avevano trattato con molti riguardi gli imputati, e Tolain aveva difeso sé e gli altri in tono assai misurato. Eppure già il secondo giorno dopo la prima udienza, l’8 marzo, era sorto un nuovo ufficio, e questa beffa palese dette il colpo di grazia alle illusioni di Bonaparte. I nove membri del nuovo ufficio comparvero davanti al tribunale il 22 maggio, e dopo un discorso brillante e acuto di Varlin furono condannati a tre mesi di prigione ciascuno. Così furono rotti i rapporti fra l’imperatore e l’Internazionale, e da questa definitiva e pubblica rottura col carnefice di dicembre la sezione francese trasse nuova forza vitale.

Anche col governo belga l’Internazionale venne a un urto violento. I proprietari delle miniere del bacino carbonifero di Charleroi spingevano alla ribellione con continue vessazioni i loro operai, che ricevevano salari di fame, per poi gettare la forza armata contro la moltitudine inerme. In mezzo al panico la sezione belga dell’Internazionale assunse la difesa dei proletari maltrattati, rivelò la loro pietosa condizione sulla stampa e in pubbliche assemblee, soccorse le famiglie dei caduti e dei feriti e assicurò l’assistenza legale degli arrestati, che furono assolti dai giurati.

Il ministro della giustizia de Bara si vendicò prorompendo, alla Camera belga, in calunnie di ogni sorta contro l’Internazionale e minacciando di prendere misure violente, vietando fra l’altro il Congresso che do veva tenersi a Bruxelles. Ma i membri dell’Internazionale non si lasciarono sconcertare da questo attacco: pubblicarono una risposta in cui affermavano che non tenevano alcun conto degli ordini di nessuno e che il Congresso si sarebbe tenuto a Bruxelles, piacesse o non piacesse al ministro della giustizia.

    15.2    ​​​La Svizzera e la Germania

La spinta più efficace al grande slancio dell’Internazionale in questi anni fu il movimento generale degli scioperi causato dalla crisi del 1866 in tutti i paesi capitalisticamente più o meno sviluppati. Il Consiglio Generale non dette mai e in nessun luogo l’avvio a questo movimento, ma, quando esplodeva da sé contribuiva col consiglio e con l’azione ad assicurare la vittoria degli operai, mobilitando la soli darietà internazionale del proletariato. Ai capitalisti strappò di mano quell’arma comoda che consisteva nel paralizzare gli operai in sciopero con l’importazione di mano d’opera straniera; anzi, fra questi inconsape voli ausiliari del comune nemico si acquistò dei compagni pronti al sacrificio; il Consiglio Generale seppe far capire agli operai di tutti i paesi a cui estendeva il suo influsso che nel loro stesso interesse dovevano appoggiare te lotte per il salario sostenute dai compagni di classe di altri, paesi.

Questa attività dell’Internazionale si dimostrò efficacissima, e le creò una considerazione europea che andava persino di là dalla forza effettiva di essa fin allora conseguita. Infatti poiché il mondo borghese faceva finta di non capire, o realmente non capiva, che gli scioperi sempre più estesi avevano le loro radici nella miseria della classe operaia, credeva di trovarne la causa nelle segrete manovre dell’Internazionale. Se la immaginava come un mostro diabolico, che con ogni sciopero cercava di schiacciarlo. Tutti i grandi scioperi cominciarono a trasformarsi in lotte per l’esistenza dell’Internazionale, che da ogni sciopero usciva con nuove e maggiori forze.

Manifestazioni tipiche in questo senso furono lo sciopero degli operai edili a Ginevra, della primavera del 1868, e quello dei tessitori di nastri e dei tintori della seta che cominciò nell’autunno dello stesso anno a Basilea e si prolungò fino alla primavera seguente. A Ginevra gli operai edili cominciarono la lotta per un aumento del salario e per la riduzione delle ore lavorative, ma i padroni si dichiararono pronti all’accordo a condizione che gli operai uscissero dall’Internazionale. Gli operai scioperanti respinsero immediatamente questa pretesa, e, grazie all’aiuto che il Consiglio Generale seppe assicurare loro da parte dell’Inghilterra, della Francia e di altri paesi, riuscirono a far trionfare le loro iniziali rivendicazioni. A Basilea la presunzione dei capitalisti agì in una maniera enorme-mente più puerile: i tessitori di nastri di una fabbrica che in occasione dell’ultimo giorno della fiera autunnale avevano chiesto un paio d’ore di riposo, secondo un’antica tradizione, si ebbero senza nessun motivo un rifiuto, e per di più la minaccia: chi non obbedisce se ne va! Una parte degli operai non obbedì e il giorno dopo essi furono rimandati indietro alla porta della fabbrica dalla polizia, senza che fosse rispettato il termine di preavviso di quindici giorni. Questa provocazione brutale esasperò gli operai di Basilea, e si arrivò a lotte che durarono mesi e culminarono alla fine col tentativo del Gran Consiglio di intimidire gli operai con misure militari e con una specie di stato d’assedio.

Anche a Basilea si rivelò ben presto che lo scopo della bassa persecuzione era l’annientamento dell’In ternazionale. Per questo scopo i capitalisti non disdegnavano i mezzi crudeli, sfrattando gli operai rimasti senza lavoro dalle loro abitazioni e bloccando loro il credito presso i fornai, i macellai e i mereiai, e neppu re i tentativi ridicoli, come l’invio di un emissario a Londra che doveva investigare sui mezzi finanziari del Consiglio Generale. “Se questi buoni cristiani ortodossi fossero vissuti nei primi tempi del cristianesimo, per prima cosa avrebbero spiato a Roma i crediti in banca dell’apostolo Paolo”. Così scherzava Marx ricol legandosi a una frase del Times che aveva paragonato le sezioni dell’Internazionale alle prime comunità cristiane. Ma gli operai di Basilea rimasero saldamente legati all’Internazionale, e quando i capitalisti alla fine cedettero, festeggiarono la vittoria con un grande corteo sul mercato. Anch’essi ricevettero un largo appoggio da altri paesi. Le ondate sollevate da questi scioperi si propagarono fino agli Stati Uniti: anche qui l’Internazionale cominciò a poggiare su basi solide; F. A. Sorge, esule del 1848 e ora insegnante di musica, occupava a New York una posizione simile a quella di Becker a Ginevra.

Ma prima di tutto il movimento degli scioperi aprì all’Internazionale la strada della Germania, dove fino a quel momento si erano formate soltanto sezioni isolate. Dopo giavi lotte ed errori, l’Associazione Generale degli Operai Tedeschi era diventata un’organizzazione considerevole, e continuava a svilupparsi nel modo più soddisfacente, soprattutto dopo che i suoi membri avevano deciso di scegliere Schweitzer come loro capo riconosciuto. Come rappresentante di Elberfeld-Barmen, Schweitzer sedeva anche nel Reichstag della Germania del Nord, dov’era anche il suo vecchio avversario Liebknecht, eletto dalla circoscrizione sassone di Stollberg-Schneeberg. Essi erano venuti subito a un urto violento a causa delle loro opposte posizioni sulla questione nazionale: mentre Schweitzer si atteneva allo stato di cose creato dalla battaglia di Sadowa, concordando in questo con il punto di vista di Marx ed Engels, Liebknecht invece si scagliava contro la Confederazione della Germania del Nord, che considerava come il prodotto di una illegittima e iniqua violenza, da distruggere per prima cosa, lasciando anche da parte per il momento gli obbiettivi sociali.

Nell autunno del 1866 Liebknecht aveva fondato il Partito popolare della Sassonia, con un programma
radicale-democratico ma non ancora socialista, e al principio del 1868 cominciò a pubblicare a Lipsia il Demokratisches Wochenblatt, organo del partito. Questo reclutava i suoi aderenti soprattutto fra la clas se operaia sassone, distinguendosi a proprio vantaggio dal Partito popolare tedesco, che raccoglieva un gruppetto di rispettabili ideologi dello stampo di Johann Jacoby, commercianti democratici di Francoforte, repubblicani della Svevia seguaci della politica dei piccoli cantoni, e avversari indignati dello scellerato sopruso che Bismarck aveva perpetrato cacciando alcuni prìncipi di piccola e media grandezza. Il Partito popolare della Sassonia viveva in rapporti di miglior vicinato con la Lega delle associazioni operaie tede sche, che era stata fondata dalla borghesia progressista al primo apparire di Lassalle, come contrappeso alla sua agitazione, ma che si era sviluppata verso sinistra proprio nella lotta con i lassalliani: soprattutto quando era stato eletto presidente della Lega August Bebel, nel quale Liebknecht aveva trovato un fedele compagno di lotta.

Sin dal primo numero, il Demokratisches Wochenblatt parlava di Schweitzer come di un uomo al quale tutti i combattenti più avanzati per la causa socialdemocratica avevano voltato le spalle. Ma questa storia era ormai vecchia, perché la rottura voluta tre anni prima da Marx e da Engels non aveva mai fatto deviare Schweitzer dal suo proposito di dirigere il movimento operaio tedesco secondo lo spirito di Lassalle, senza però farne una setta servilmente legata alla parola di Lassalle. Così Schweitzer ave ve cercato di far conoscere agli operai tedeschi il primo volume del Capitale, prima dello stesso Liebknecht e con maggiore impegno, e nell’aprile del 1868 si rivolse personalmente a Marx per averne un consiglio a proposito di una diminuzione del dazio sul ferro progettata a quel tempo dal governo prussiano.

Se non altro per la sua qualità di segretario corrispondente per la Germania nel Consiglio Generale, Marx non poteva tralasciare di rispondere a una domanda che gli era rivolta da un parlamentare che rappre sentava gli operai di una circoscrizione industriale. Ma indipendentemente da ciò Marx era arrivato a farsi un giudizio sostanzialmente diverso sull’attività di Schweitzer. Per quanto osservasse le cose da lontano, egli riconosceva tuttavia “assolutamente l’intelligenza e l’energia” con cui Schweitzer agiva nel movimento operaio, e nelle discussioni del Consiglio Generale parlava di lui come di uno del suo partito, senza far parola delle divergenze fra i loro punti di vista.

Di queste divergenze ne esistevano tuttora. Marx ed Engels non avevano rinunciato neppure alla loro personale diffidenza contro Schweitzer: anche se non avevano più il sospetto che se la intendesse con Bi smarck, sospettavano però che il suo avvicinamento a Marx avesse lo scopo di scavalcare Liebknecht; non si liberavano dell’idea che l’Associazione Generale degli Operai Tedeschi fosse una “setta” e che Schwei tzer volesse prima di tutto avere un “suo proprio movimento operaio”. Ma nonostante tutto riconoscevano che la politica di Schweitzer era molto superiore alla politica di Liebknecht.

Marx riteneva che Schweitzer fosse assolutamente il più intelligente e il più energico di tutti i dirigenti operai tedeschi di quel tempo, e che soltanto da lui Liebknecht fosse stato costretto a ricordarsi che esisteva un movimento operaio indipendente dal movimento piccolo-borghese democratico. Similmente Engels rite neva che il “tipo” avesse idee molto più chiare nella interpretazione della situazione politica generale e nella posizione di fronte agli altri partiti, e fosse molto più abile nell’esposizione che non tutti gli altri. “Egli chiama tutti gli altri partiti che ci stanno di fronte, una unica massa reazionaria, le cui differenze non hanno per noi quasi alcun peso. Riconosce, è vero, che il 1866 e le sue conseguenze hanno rovinato le monarchie in sedicesimo, hanno minato il principio legittimista, scosso la reazione e hanno messo in moto il popolo, ma egli si scaglia — nel momento attuale — anche contro le altre conseguenze, la pressione fiscale, ecc., e ha nei confronti di Bismarck un atteggiamento molto più corretto , come dicono i berlinesi, che non Liebknecht di fronte p. es. agli ex principi regnanti”

A proposito di questa tattica di Liebknecht, Engels scrisse in un’altra occasione di averne abbastanza di sentirsi rimasticare ogni settimana la teoria che “non dobbiamo fare la rivoluzione prima che non siano restaurati la dieta federale, il cieco guelfo e il dabbene principe elettore di Assia, e che non ci si sia pre sa una crudele legittima vendetta contro l’empio Bismarck” 2. In queste parole v’era un po’ di rabbiosa esagerazione, ma anche una buona parte di verità.

In seguito Marx disse una volta, che fino allora si era creduto che la formazione dei miti cristiani, sotto l’Impero romano, fosse stata possibile soltanto perché non era ancora stata inventata la stampa, ma che era proprio il contrario: la stampa quotidiana e il telegrafo, che in un batter d’occhio divulga le sue invenzioni su tutta la terra, fabbricavano in un giorno più miti (e il bovino borghese ci crede e li diffonde) di quanti prima ne potevano venir confezionati in un secolo. Una prova particolarmente evidente della giustezza di questo giudizio è la tradizione accettata per decenni (e senza dubbio non soltanto da “bovini borghesi” ), secondo cui Schweitzer avrebbe voluto tradire per conto di Bismarck il movimento operaio, mentre Liebknecht e Bebel l’avrebbero rimesso in carreggiata.

Accadde proprio il contrario. Schweitzer rappresentava il punto di vista socialista di principio, mentre il Demokratisches Wochenblatt amoreggiava con i seguaci particolaristici degli “ex principi” e col liberale regime di corruzione di Vienna in un modo che da un punto di vista socialista non si può giustificare. Ciò che Bebel afferma nelle sue memorie, cioè che la vittoria dell’Austria sulla Prussia sarebbe stata desiderabile perché in uno Stato internamente debole come l’Austria la rivoluzione sarebbe stata più facile che nella Prussia, forte all’interno, è una spiegazione a posteriori, della quale, comunque stessero le cose, non esiste traccia nella letteratura del tempo.

Nonostante l’amicizia personale per Liebknecht e la personale diffidenza contro Schweitzer, Marx non fraintese la situazione reale. Alla domanda di Schweitzer intorno alla riduzione del dazio sul ferro egli rispose, anche se con cauta sostenutezza nella forma, in maniera esauriente quanto al contenuto. Poi Schweitzer mise in atto il progetto concepito già tre anni prima, e all’Assemblea generale dell’Associazione Generale degli Operai Tedeschi, che si riunì ad Amburgo alla fine di agosto del 1868, propose raffinazione all’Internazionale, che però non poteva essere conclusa formalmente a causa delle leggi tedesche sulle associazioni, ma soltanto sorto forma di solidarietà e simpatia. A questa Assemblea generale Marx era stato invitato come ospite onorario, al fine di porgergli il ringraziamento degli operai tedeschi per la sua opera scientifica. Ad una precedente richiesta di Schweitzer, Marx rispose in tono cortese, ma poi non andò di persona ad Amburgo, per quanto Schweitzer lo pregasse con insistenza.

Nel suo ringraziamento per l’“onorevole invito” egli adduceva come motivo della sua mancata presenza i preparativi del Consiglio Generale per il congresso di Bruxelles, ma rilevava con “gioia” che l’ordine del giorno dell’Assemblea generale conteneva quei punti che formavano realmente il punto di partenza di ogni serio movimento operaio: agitazione per la compieta libertà politica, regolazione della giornata lavorativa, e cooperazione internazionale pianificata della classe operaia. A Engels Marx scrisse che in quella lettera si era congratulato con i lassalliani perché avevano abbandonato il programma di Lassalle, ma veramente non si riesce a vedere nulla, in quei tre punti, su cui Lassalle avrebbe trovato da ridire.

Una vera e propria rottura con le tradizioni lassalliane fu invece operata, all’Assemblea generale di Amburgo, dallo stesso Schweitzer: lottando contro una violenta opposizione, e ponendo alla fine la questione di fiducia, egli riuscì a strappare per sé e per Fritzsche, suo collega al Reichstag, il permesso di convocare a Berlino per la fine di settembre un Congresso generale degli operai tedeschi, per dar vita ad una solida e larga organizzazione operaia per la preparazione degli scioperi. Schweitzer aveva imparato dal movimento europeo degli scioperi: senza sopravvalutarlo, vedeva bene che un partito operaio che vuol essere al l’altezza del suo compito non deve lasciare che gli scioperi scoppiati con elementare violenza seguano un corso confuso e senza regola. Non aveva timore di fronte all’idea di fondare delle leghe sindacali, ma aveva una concezione errata delle loro condizioni di vita, in quanto le voleva organizzare rigidamente così come era organizzata l’Associazione Generale degli Operai Tedeschi, e in certo modo come truppe ausiliarie ad essa subordinate.

Marx cercò inutilmente di metterlo in guardia contro questo grave errore. Del loro carteggio sono conservate tutte le lettere di Schweitzer, di Marx invece solo quella, che presumibilmente era la più importante, del 13 ottobre 1868. In forma perfettamente corretta, con leale cordialità nei riguardi di Schweitzer, Marx avanzava le sue più serie riserve contro l’organizzazione dei sindacati progettata da Schweitzer, ma attenuava l’impressione di questa critica definendo l’associazione fondata da Lassalle una “setta”, che avrebbe dovuto decidersi a entrare nel movimento di classe. Nella sua lettera di risposta, l’ultima da lui inviata a Marx, Schweitzer poté a buon diritto ricordare di essersi sempre sforzato di andare di pari passo col movimento operaio europeo.

Pochi giorni dopo l’Assemblea generale di Amburgo, si riunì a Norimberga la Lega delle associazioni operaie tedesche. Anch’essa capì le esigenze dei tempi; la sua maggioranza accolse come programma politico i princìpi contenuti negli statuti dell’Internazionale e scelse il Demokratisches Wochenblatt come organo della Lega, e in conseguenza la minoranza scomparve per non farsi più vedere. Poi la maggioranza

respinse una proposta per la fondazione di casse per l’assistenza della vecchiaia, affidate allo Stato, e ap provò invece una proposta p>er l’istituzione di associazioni sindacali che, come si sapeva per esperienza, sapevano provvedere nel miglior modo alle casse per vecchiaia, malattie e viaggi. Questa motivazione era più debole dell’appello alla lotta fra capitale e lavoro, che divampava negli scioperi, e anche l’affiliazione alla Internazionale, che fu motivata ad Amburgo col generale interesse di tutti i partiti operai, non fu messa a Norimberga in termini così decisi. Poche settimane dopo, il Demokratisches Wochenblatt annunciava con evidenza l’adesione del Partito popolare tedesco al programma di Norimberga, decisa in una conferenza a Stoccarda.

Tuttavia si era compiuto un avvicinamento fra l’Associazione Generale degli Operai Tedeschi e la Lega delle associazioni operaie tedesche, e Marx si dette un gran da fare per unificare il movimento operaio tedesco, attraverso una mediazione imparziale fra Liebknecht e Schweitzer. Ma non vi riuscì.  Le associazioni di Norimberga si rifiutarono con un pretesto insostenibile di mandare delegati al Congresso dei sindacati convocato a Berlino da Schweitzer e Fritzsche, Il Congresso si riunì numeroso e portò alla fondazione di una serie di “unioni operaie” che erano riunite in una “federazione”, al culmine della quale stava di fatto Schweitzer.

Le associazioni di Norimberga da parte loro procedettero alla fondazione di “associazioni sindacali interna zionali” (ebbero questa pomposa denominazione), sulla base di uno statuto che era stato redatto da Bebel e che era più consono dello statuto di Schweitzer alle condizioni di esistenza dei sindacati, e offrirono di intavolare delle trattative per l’unificazione e la fusione con l’altra tendenza, ma si ebbero un brusco rifiuto in questi termini: esse avevano rotto l’unità e potevano risparmiarsi il tentativo di ristabilire con un patto l’unità da loro rotta; se avevano a cuore la causa, potevano entrare a far parte della Federazione delle unioni operaie e lavorare all’interno di essa per quelle modifiche che sembrassero loro opportune.

Se non poté impedire la divisione del movimento operaio tedesco, Marx riuscì però ad assicurare l’affi liazione delle due tendenze all’Internazionale, e ora che provvisoriamente, anche se dappertutto ancora duttilmente, l’associazione circoscriveva almeno il loro terreno, gli venne il pensiero di trasferire il Consiglio Generale a Ginevra per l’anno successivo. In questo proposito aveva una parte anche l’irritazione contro la sezione francese di Londra, che pur essendo numericamente modesta faceva gran rumore e procurava all’Internazionale parecchi fastidi tributando il suo plauso allo sciocco commediante Pyat, che predicava l’assassinio di Bonaparte. Inoltre schiamazzava sulla “dittatura” del Consiglio Generale, che teneva a freno i suoi eccessi, e si preparava a metterlo sotto accusa al Congresso di Bruxelles.

Fortunatamente Engels lo dissuase da questo passo arrischiato, osservando che per quel paio di asini non si doveva affidare la faccenda a gente che pur avendo molta buona volontà e anche dell’istinto, non aveva i numeri per dirigere il movimento: quanto più esso diventava grandioso e si estendeva anche in Germania, tanto più era necessario che lo tenesse in mano Marx. Subito dopo si vide, proprio a Ginevra, che la buona volontà e il semplice istinto non bastavano davvero.

    15.3    ​​​L’agitazione di Bakunin

Il terzo Congresso dell’Internazionale si riunì dal 6 al 13 settembre 1868 a Bruxelles.

Fu più numeroso di tutti gli altri che lo precedettero e lo seguirono, ma ebbe un accentuato carattere locale: più della metà dei partecipanti venivano dal Belgio. I francesi erano circa un quinto. Fra gli undici delegati inglesi si trovavano sei rappresentanti del Consiglio Generale: oltre a Eccarius, Jung, Lessner, c’era il tradunionista Lucraft. Gli svizzeri presenti erano soltanto otto, i tedeschi addirittura tre soli, fra i quali Moses Hess della sezione di Colonia. Schweitzer, che aveva avuto un invito ufficiale, non poté intervenire di persona, dovendo comparire in giudizio parecchie volte, ma affermò per iscritto che l’Associazione Generale degli Operai Tedeschi concordava con le aspirazioni della Internazionale, e che l’adesione formale era impedita soltanto dalle leggi tedesche sulle associazioni. L’Italia e la Spagna mandarono un rappresentante ciascuna.

Nelle discussioni del Congresso si poterono osservare tracce sensibilissime del ritmo più vivace assun to dalla vita dell’Internazionale nei suo quarto anno.  La resistenza opposta a Ginevra e a Losanna dai proudhoniani contro le associazioni sindacali si era quasi trasformata nel suo contrario. Per altro essi fecero passare un’altra risoluzione accademica in onore della “banca di scambio” e del “credito gratuito”, nonostante Eccarius dimostrasse, in base all’esperienza inglese, la impossibilità pratica di questi rimedi proudhoniani e Hess ne dimostrasse l’inconsistenza teorica sulla base dello scritto polemico che vent’anni prima Marx aveva diretto contro Proudhon.

In compenso i proudhoniani furono completamente sconfitti sulla “questione della proprietà”: su proposta di de Paepe fu approvata una importante risoluzione accompagnata da una motivazione particolareggiata, che affermava che in una società ben ordinata le cave di pietra, il carbon fossile e tutte le altre miniere e le ferrovie dovevano appartenere alla collettività, vale a dire al nuovo Stato sottoposto alla legge della giusti zia, e che fino allora tutto ciò doveva essere affidato a compagnie di operai, con le necessarie garanzie per la collettività. Il terreno agricolo e i boschi dovevano parimente essere trasformati in proprietà collettiva dello Stato, ed essere affidati con le stesse garanzie a società agricole. Infine i canali, le grandi strade, i telegrafi e insomma tutti i mezzi di comunicazione dovevano restare proprietà collettiva della società. Nonostante le loro violente proteste contro questo “comunismo grossolano”, i francesi riuscirono soltanto ad ottenere che la questione venisse esaminata di nuovo al successivo congresso, per il quale si fissò la sede di Basilea.

Secondo quanto affermò lui stesso, Marx non ebbe parte alcuna nella stesura delle risoluzioni approvate a Bruxelles, ma non fu scontento di come il Congresso era andato. Non solo per la soddisfazione che poteva dargli, tanto da un punto di vista personale che per il suo valore obiettivo, il ringraziamento che la classe operaia gli aveva rivolto, come già ad Amburgo e a Norimberga, per la sua opera scientifica, ma anche perché le accuse rivolte dalla sezione francese di Londra contro il Consiglio Generale erano state respinte. Soltanto la risoluzione, suggerita da Ginevra e approvata dal Congresso, di respingere la minaccia di guerre con sospensioni generali di lavoro, con uno sciopero dei popoli, fu giudicata una “scemenza” da Marx. Invece non ebbe niente da obiettare contro la decisione del Congresso di romperla definitivamente con la Lega della Pace e della Libertà, che poco prima aveva tenuto il suo secondo congresso a Berna. Questa aveva proposto all’Internazionale una alleanza, ma si ebbe da Bruxelles una secca risposta: essa non aveva nessuna ragione di esistere, e avrebbe dovuto semplicemente indurre i suoi membri a entrare nelle sezioni dell’Internazionale.

Per questa alleanza aveva lavorato soprattutto Mikhail Bakunin, che era già stato presente ai primo Con gresso di Ginevra della Lega della Pace e della Libertà e che un paio di mesi prima del Congresso di Bruxelles era entrato anche nell’Internazionale. Dopo il rifiuto opposto al patto di alleanza egli cercò di indurre il Congresso di Berna della Lega della Pace e della Libertà ad accettare un programma che mirava alla distruzione di tutti gli Stati, per edificare sulle loro rovine una federazione di libere associazioni pro duttive di tutti i paesi. Ma rimase in minoranza, con Johann Philipp Becker e altri, e con Becker fondò una nuova Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista, che doveva confluire nell’Internazionale, ma porsi in pari tempo lo speciale compito di studiare le questioni politiche e filosofiche sulla base del grande principio della universale uguaglianza morale di tutti gli uomini della terra.

Nel fascicolo di settembre del Vorbote Becker annunciava già questa alleanza, il cui scopo consisteva nel dar vita a sezioni dell’Internazionale in Francia, in Italia e in Spagna, e dovunque arrivasse la sua influenza. Ma soltanto tre mesi dopo, il 15 dicembre 1868, Becker chiese al Consiglio Generale che accettasse nell’Internazionale l’Alleanza, dopo che la stessa richiesta era stata respinta dal Consiglio federale belga e da quello francese. Una settimana dopo, il 22 dicembre, Bakunin scrisse da Ginevra a Marx: “Mio vecchio amico! Ora più che mai capisco quanto tu abbia ragione a seguire la grande strada maestra della rivoluzione economica e a invitarci a percorrerla, e a disprezzare quelli di noi che sj perdono sui sentieri di imprese o nazionali o esclusivamente politiche. Ora io faccio quello che tu fai da più di vent’anni. Dopo avere solennemente e pubblicamente dato l’addio ai borghesi del Congresso di Berna, non conosco nessun’altra società, nessun altro mondo che il mondo dei lavoratori. La mia patria ora è l’Internazionale, di cui tu sei uno dei principali fondatori. Tu vedi dunque, caro amico, che sono un tuo discepolo, e sono fiero di esserlo. Questo sulla mia posizione e sui miei personali princìpi”. Non esiste alcun motivo per dubitare della sincerità di queste affermazioni.

I rapporti fra i due si possono individuare nel modo più rapido ed esauriente in base a questo confronto fra Marx e Proudhon che Bakunin tracciò alcuni anni dopo, quando era già in lotta violenta con Marx: “Marx è un economista molto serio, molto profondo. Rispetto a Proudhon ha l’immenso vantaggio di essere un autentico materialista. Nonostante tutti i suoi sforzi per liberarsi dell’eredità dell’idealismo classico, Proudhon è rimasto per tutta la vita un incorreggibile idealista, che si lasciava influenzare ora dalla Bibbia, ora dal diritto romano, come gli dissi due mesi prima della morte, e sempre metafisico fino alla punta delle unghie. La sua gran disgrazia è di non avere mai studiato le scienze naturali, e di non essersi appropriato il loro metodo. Per istinto egli giungeva, in certi momenti, a vedere la strada giusta, ma trascinato dalle cattive o idealistiche abitudini del suo spirito ricadeva sempre nei vecchi errori. Per questo Proudhon era una perenne contraddizione, un genio vigoroso, un pensatore rivoluzionario, che si difendeva dalle fantasie dell’idealismo, ma non arrivava mai a vincerle”. Così Bakunin giudicava Proudhon.

Proseguendo descriveva, subito dopo, la natura di Marx, quale gli appariva. “Come pensatore, Marx è sulla strada giusta. Ha posto come principio che ogni svolgimento religioso, politico e giuridico della storia è non la causa ma l’effetto dello sviluppo economico. Questo è un grande e fecondo pensiero, che Marx non ha inventato tutto d’un tratto; di questo pensiero avevano avuto sentore, e in parte lo avevano espresso, altri prima di lui, ma spetta infine a lui l’onore di averlo sviluppato scientificamente e di averlo posto saldamente alla base di tutto il suo sistema economico. D’altra parte Proudhon aveva capito e sentito la libertà molto meglio di Marx; se non valeva altrettanto per dottrina e fantasia, Proudhon aveva il vero istinto del rivolu zionario; onorava Satana e proclamava l’anarchia. E’ possibilissimo che Marx si sia innalzato a un sistema della libertà ancora più razionale di quello di Proudhon, ma gli manca l’istinto di Proudhon. Come tedesco e come ebreo è un autoritario da capo a piedi”. Fin qui Bakunin.

Da questo confronto traeva la conclusione finale di avere, lui stesso, afferrato la superiore unità dei due sistemi. Egli avrebbe sviluppato il sistema anarchico di Proudhon liberandolo da tutti gli annessi dottrinari, idealistici e metafisici, e gli avrebbe dato per fondamento il materialismo nella scienza e l’economia sociale nella storia. Questa però era un’illusione di Bakunin. Aveva oltrepassato di gran lunga Proudhon, sul quale aveva il vantaggio di una buona cultura europea, e capiva Marx molto meglio di quanto lo avesse capito Proudhon; ma non era passato attraverso la scuola della filosofia tedesca così a fondo come Marx, né aveva studiato altrettanto profondamente le lotte delle classi nei popoli dell’Europa occidentale. E la sua ignoranza dell’economia politica era tanto grave per lui quanto l’ignoranza delle scienze naturali per Prou dhon. Questa lacuna nella cultura di Bakunin si faceva sentire anche se la si poteva spiegare, ciò che gli faceva onore, con la lunga serie di anni, fra i migliori della sua vita, che in conseguenza della sua attività rivoluzionaria aveva passato languendo nelle carceri sassoni, austriache, russe, e nei deserti gelati della Siberia.

Il “Satana in corpo” era la sua forza e la sua debolezza. Quel che egli intendeva dire con questa sua frase preferita è stato espresso con parole belle e giuste dal famoso critico russo Bielinski: “In Mikhail vi sono molte colpe e peccati, ma c’è qualche, cosa in lui che vince tutti i suoi difetti: l’eterno principio motore, che vive nel profondo del suo spirito”. Bakunin era una natura in tutto e per tutto rivoluzionaria, e aveva il dono, come Marx e Lassalle, di essere ascoltato dagli uomini. Fu davvero un bel risultato, per un povero esule, che non possedeva niente altro che il suo spirito e la sua volontà, aver intessuto le prime fila del movimento operaio internazionale in una serie di paesi europei, in Spagna, in Italia e in Russia. Ma basta solo nominare questi paesi per trovarsi di fronte alla più profonda differenza fra Marx e Bakunin. Tanto l’uno che l’altro vedevano che la rivoluzione avanzava a passi veloci, ma mentre Marx scorgeva il nucleo principale del suo esercito ned proletariato della grande industria, come l’aveva studiato in Inghilterra, in Francia e in Germania, Bakunin contava sulle schiere della gioventù declassata, delle masse contadine e anche del sottoproletariato. Per quanto riconoscesse sempre chiaramente che Marx scientificamente gli era superiore, nella sua azione ricadeva sempre negli errori che erano stati propri dei “rivoluzionari della vecchia generazione”. Si rassegnava lui stesso al suo destino, quando affermava che la scienza è la bussola della vita, ma non la vita stessa, e che solo la vita crea veramente qualche cosa di reale.

Sarebbe insensato e per di più ingiusto tanto verso Bakunin che verso Marx valutare i loro rapporti soltanto in base all’insanabile dissidio che alla fine li divise. E’ molto più interessante, da un punto di vista politico e in particolare psicologico, seguire come essi nel corso di trentanni si sono sempre attratti l’un l’altro e poi nuovamente respinti; Bakunin fu tra i fondatori dei DeutschFranzosische Jahbiicher. Alla rottura fra il suo vecchio protettore Ruge e Marx, egli si decise per quest’ultimo. Ma quando a Bruxelles vide quel che Marx intendeva per propaganda comunista, fu spaventato, e alcuni mesi dopo si entusiasmò pei la spedizione dei volontari di Herwegh in Germania, ma poi si accorse di questa sua sciocchezza e lo riconobbe apertamente.

Subito dopo, nell’estate del 1848, la Neue Rheinische Zeitung lo accusò di essere uno strumento del governo russo, ma poi riconobbe il suo errore (al quale era stata indotta da informazioni provenienti da due parti indipendenti fra loro) in una maniera che soddisfece pienamente Bakunin. In un incontro a Berlino Marx e Bakunin rinnovarono la loro vecchia amizicia, e la Neue Rheinische Zeitung intervenne energicamente a favore di Bakunin quando questi fu espulso dalla Prussia. Poi quel giornale sottopose a una severa critica la sua agitazione panslavista, ma premettendo l’avvertimento: “Bakunin è nostro amico”, e riconoscendo espressamente che Bakunin agiva sulla base di princìpi democratici e che le sue illusioni sulla questione slava erano molto scusabili. Del resto Engels, autore di questo articolo, era in errore anche nell’obiezione principale che faceva valere contro Bakunin: l’avvenire storico delle popolazioni slave dell’Austria è stato proprio quello che Engels escludeva. Marx ed Engels accordarono il primo e più vivo riconoscimento alla partecipazione di Bakunin alla sollevazione di Dresda, del maggio 1849.

Al ritorno da Dresda, Bakunin fu arrestato e condannato a morte prima da un tribunale di guerra sassone, poi da uno austriaco, e tutte e due le volte ebbe la “grazia” del carcere a vita, infine fu consegnato alla Russia, e là passò anni di sofferenze spaventose nella Fortezza di Pietro e Paolo. Durante questo tempo un pazzo urquhartista ripetè sul Morning Advertiser contro Bakunin, l’accusa di essere un agente del go verno russo, affermando che non si trovava affatto in carcere. Contro questa accusa protestò sullo stesso giornale anche Marx, oltre a Herzen, Mazzini e Ruge. Ma un caso disgraziato volle che il calunniatore di Bakunin si chiamasse anche lui Marx, ciò che era risaputo in ambienti ristretti, nonostante che il galan tuomo si sottraesse ostinatamente alla richiesta di dichiarare in pubblico il suo nome. Questa omonimia fu in seguito sfruttata per un indegno intrigo dal pseudorivoluzionario Herzen. Quando Bakunin, che nel 1857 dalla Fortezza di Pietro e Paolo era stato mandato in Siberia, ma nel 1861 era riuscito felicemente a fuggire, arrivò a Londra attraverso il Giappone e il continente americano, Herzen gli fece credere che Marx lo aveva denunziato sulla stampa inglese come spia russa. Fu questa la prima delle false dicerie che dovevano metter male fra Bakunin e Marx.

Bakunin era stato tagliato fuori dalla vita europea per più di un decennio, e si comprende così che per prima cosa, a Londra, si sia accostato a esuli russi dello stampo di Herzen, con i quali in fondo ave va poco in comune. Anche nel suo panslavismo, con tutto quel che se ne potrebbe dire, Bakunin restò sempre rivoluzionario, mentre Herzen, con le sue invettive sul “marcio Occidente” e il suo culto mistico per le comunità rurali russe, sotto la maschera di un fiacco liberalismo non faceva altro, in realtà, che fare gli interessi dello zarismo. Non depone male di Bakunin il fatto che egli abbia mantenuto rapporti di amicizia personale con Herzen, fino alla morte di lui. Da Herzen, Bakunin era stato soccorso nei bisogni della sua giovinezza, ma politicamente lo ripudiò sin dal 1866, rimproverandogli di volere un rivolgimento sociale senza un rivolgimento politico e di perdonare tutto allo Stato, solo che lasciasse intatte le comunità rurali della Grande Russia, dalle quali Herzen si aspettava la salvezza non soltanto della Russia e di tutti i popoli slavi, ma anche dell’Europa e di tutto il mondo. Bakunin sottopose questa fantasticheria a una critica distruttrice.

Ma dopo la fuga dalla Siberia egli visse in casa di Herzen, e perciò fu tenuto a distanza da Marx. Tanto più è significativo che egli traducesse in russo il Manifesto comunista e lo pubblicasse nel Kolokol di Herzen.

Durante un secondo soggiorno londinese di Bakunin, al tempo della fondazione dell’Internazionale, Marx ruppe il ghiaccio e cercò di lui. Poté rassicurarlo pienamente non solo di non aver provocato la calunnia contro di lui, ma anzi di esservisi opposto energicamente. Si lasciarono da amici; Bakunin era entusiasta del piano dell’Internazionale e Marx il 4 novembre scrisse a Engels: “Bakunin m’incarica di salutarti. Egli è ripartito oggi per l’Italia dove abita (Firenze). Debbo dirti che mi è piaciuto molto e più di prima... In complesso egli è uno di quei pochi uomini, che dopo sedici anni trovo non aver regredito, ma aver fatto dei passi avanti”

Ma la gioia con cui Bakunin aveva salutato l’Internazionale non ebbe vita lunga. Il soggiorno in Italia ridestò in lui il “rivoluzionario della vecchia generazione”.  Aveva scelto questo paese non solo per il clima mite e per il basso costo della vita, tanto più che la Germania e la Francia gli erano precluse, ma anche per motivi politici. Negli italiani vedeva i naturali alleati degli slavi contro lo Stato-carcere austriaco, e in Siberia le gesta di Garibaldi avevano acceso la sua fantasia. Esse gli mostrarono che il flusso rivoluzionario era sempre in ascesa.  In Italia trovò una quantità di leghe politiche segrete; vi trovò intellettuali declassati sempre pronti a ingolfarsi in ogni sorta di congiure, una massa contadina eternamente in pericolo di morire di fame, e infine un sottoproletariato sempre in movimento, soprattutto nei lazzaroni di Napoli, dove egli si era trasferito da Firenze per trascorrervi parecchi anni. Queste classi gli apparivano come le vere forze motrici della rivoluzione. Ma se nell’Italia vedeva il paese dove la rivoluzione sociale era forse più vicina, dovette ben presto riconoscere il suo errore. In Italia era ancora predominante la propaganda di Mazzini, e Mazzini era un avversario del socialismo: coi suoi vaghi appelli religiosi e le sue tendenze rigidamente accentratrici, egli Iettava soltanto per la repubblica unitaria borghese.

In questi anni italiani l’agitazione rivoluzionaria di Bakunin assunse forme più definite. Con la sua man canza di cultura teorica, che andava unita a un’esuberanza di vivacità spirituale e di energia impetuosa, fu sempre fortemente influenzato dall’ambiente in cui viveva. Il dogmatismo politico-religioso di Mazzini accentuò sensibilmente il suo ateismo e il suo anarchismo, la negazione di ogni dominio statale. D’altra parte le tradizioni rivoluzionarie di quelle classi che per lui erano le portatrici della rivoluzione generale con tribuirono a rafforzare la sua inclinazione verso le congiure segrete e le sollevazioni locali. Così Bakunin fondò una lega segreta socialista rivoluzionaria, che inizialmente reclutava i suoi adepti in Italia e doveva soprattutto combattere “l’odiosa retorica borghese di Mazzini e di Garibaldi”, ma presto si estese su base internazionale.

Trasferitosi a Ginevra nell’autunno del 1867, Bakunin cercò dapprima di influenzare la Lega della Pace e della Libertà nell’interesse della sua lega segreta, e quando questo tentativo fallì si adoprò per la fusione con l’Internazionale, della quale per quattro anni non si era più dato pensiero.

    15.4    ​​​L’Alleanza della Democrazia Socialista

Nonostante ciò Marx aveva mantenuto la sua disposizione amichevole verso il vecchio rivoluzionario, e si era opposto ad attacchi che da persone a lui vicine erano stati o dovevano essere diretti contro Bakunin.

Essi partivano da Sigismund Borkheim, un sincero democratico a cui Marx era obbligato dal tempo dell’af fare Vogt e anche per altri buoni servigi. Borkheim aveva però due debolezze: si riteneva, e non era, uno scrittore geniale, e soffriva di una grottesca russofobia che non la cedeva alla grottesca tedescofobia di Herzen.

Borkheim aveva preso di mira soprattutto Herzen e lo maltrattò a fondo in una serie di articoli che il De mokratisches Wochenblatt, che aveva appena cominciato a uscire, pubblicò al principio del 1868. In quel periodo Bakunin aveva da lungo tempo rotto i rapporti con Herzen, ma fu ugualmente attaccato da Bor kheim come “cosacco” di Herzen e messo alla gogna insieme con lui come “negazione indistruttibile”. Infatti Borkheim aveva letto in Herzen che anni prima Bakunin aveva espresso questa singolare massima: “La negazione attiva è una forza creatrice” e chiedeva indignato se si fosse mai sentita, al di qua della frontiera russa, una cosa simile, che avrebbe fatto ridere migliaia di scolaretti tedeschi. Il buon Borkheim non immaginava che la frase alata “il gusto della distruzione è un gusto creatore”, detta a suo tempo da Bakunin, proveniva da un articolo dei Deutsche Jahrbiicher, del tempo che Bakunin viveva nell’ambiente dei giovani hegeliani tedeschi e con Marx e Ruge teneva a battesimo i Deutsch-Franzósische Jahrbucher.

Si capisce che Marx guardava a queste e simili esercitazioni letterarie con intima avversione, e si oppose con tutti i mezzi quando Borkheim tentò di utilizzare nel suo gergo inintelligibile gli articoli di Engels contro Bakunin, che etano stati pubblicati nella Neue Rheinische Zeitung, perché essi “rientravano meravigliosa mente nel suo quadro”. Disse che la cosa non doveva essere presentata in un contesto offensivo, perché Engels era un vecchio amico personale di Bakunin. Anche Engels protestò in questo senso e la cosa finì lì. Anche Johann Philipp Becker pregò Borkheim di non attaccare Bakunin, ma ottenne in risposta una “lettera bellicosa”, come Marx scrisse a Engels, in cui Borkheim, con la sua “abituale delicatezza”, dichiarava che gli serbava l’amicizia e il suo appoggio pecuniario (del resto molto insignificante), ma che da allora in poi la politica doveva essere esclusa dal loro carteggio. Nonostante l’amicizia, Marx trovava che la “russofobia” di Borkheim aveva assunto proporzioni pericolose.

La sua disposizione amichevole verso Bakunin non fu scossa neppure quando questi partecipò ai congressi della Lega della Pace e della Libertà. Il primo di questi congressi aveva già avuto luogo, a Ginevra, quando Marx mandò una copia del Capitale con dedica a Bakunin; pur non avendo ricevuto una parola di ringrazia mento, una volta che in un’altra occasione scrisse a un profugo russo di Ginevra gli chiese notizie del suo “vecchio amico Bakunin”, sia pur dubitando vagamente che lo fosse ancora. Una risposta a questa doman da indiretta fu la lettera di Bakunin del 22 dicembre, in cui prometteva di avviarsi per la strada maestra che Marx seguiva da vent’anni.

Ma il giorno che Bakunin scrisse questa lettera il Consiglio Generale aveva già deciso di respingere da parte sua la proposta presentata da Becker, di accogliere nell’Internazionale l’Alleanza della Democrazia So cialista. Marx vi ebbe la parte principale. Sapeva dell’esistenza dell’Alleanza, che anzi era stata annunziata dal Vorbote, ma fino allora la considerava un prodotto locale di Ginevra, nato morto e indegno di ulteriore considerazione, conosceva il vecchio Becker, che aveva un po’ la mania delle associazioni, ma del resto era degno di fiducia. Ma a questo punto Becker inviò il programma e le statuto dell’Alleanza, aggiungendo che l’Alleanza voleva rimediare alla mancanza di “idealismo” dell’Internazionale. Questa pretesa suscitò “gran furore”, come Marx scrisse a Engels, in tutto il Consiglio Generale, “specialmente fra i francesi”, e fu subito deciso di respingerla. Marx ebbe l’incarico di redigere la risoluzione. Lui stesso era irritato, come mostra la lettera che scrisse a Engels il 18 dicembre “dopo mezzanotte” per chiedergli consiglio. “Questa volta Borkheim ha ragione”, aggiungeva. Ciò che provocava il suo sdegno non era tanto il programma quanto lo statuto dell’Alleanza. Il programma dichiarava che l’Alleanza era prima di tutto atea: reclamava l’abolizione di tutti i culti religiosi, la sostituzione della fede con la scienza, della giustizia divina con l’umana. Poi rivendicava l’uguaglianza politica economica e sociale delle classi e degli individui dei due sessi, che sarebbe cominciata con l’abolizione del diritto ereditario; per tutti i fanciulli dei due sessi rivendicava ancora l’uguaglianza dei mezzi per il loro sviluppo, cioè per il loro sostentamento, per la loro educazione e per l’istruzione in tutti i gradi della scienza, dell’industria e delle arti. Infine il programma respingeva ogni attività politica che non avesse per scopo diretto e immediato la vittoria della classe operaia sul capitale.

Il giudizio di Marx su questo programma non fu proprio lusinghiero. Lo definì, qualche tempo dopo, “una ol la podrida di luoghi comuni logori”, “chiacchiere spensierate, un corollario di trovate vuote che pretendono di essere orripilanti, una improvvisazione insipida, calcolata unicamente per un certo effetto immediato”. Ma nelle questioni teoriche, date le sue funzioni, l’Internazionale era molto indulgente; il suo compito sto rico consisteva appunto nel far derivare dalla sua attività pratica un programma comune per il proletariato internazionale.

Ma per questo, tanto maggiore importanza aveva la sua organizzazione come presupposto di ogni succes so nell’attività pratica. E lo statuto dell’Alleanza tentava di inserirsi pericolosamente in questa organizzazio ne. L’Alleanza dichiarava, è vero, di essere un ramo dell’Internazionale, di cui accettava tutti gli statuti ge nerali, ma voleva formare un’organizzazione a parte. I suoi fondatori si riunivano a Ginevra come Comitato Centrale provvisorio. In ogni paese dovevano sorgere sezioni nazionali, che dovevano creare dappertutto dei gruppi e procurare a questi gruppi l’ammissione all’ Internazionale. Nei congressi annuali dell’Internazio nale i rappresentanti dell’Alleanza, come ramo dell’Internazionale, volevano tenere le loro sedute pubbliche in locali a parte.

Engels decise subito: non va. Ci sarebbero stati due consigli generali e due congressi. Alla prima occasione il consiglio pratico di Londra sarebbe venuto a conflitto col consiglio “idealista” di Ginevra. Per il resto Engels raccomandava sangue freddo: un’azione violenta avrebbe aizzato inutilmente i filistei della fede politica, molto numerosi fra i lavoratori (specialmente in Svizzera), e avrebbe nuociuto all’Internazionale. Bisognava respingere quella gente con calma ma con fermezza, e dir loro che si erano scelti un terreno particolare, e che si sarebbe aspettato di vedere che cosa sarebbero riusciti a fare; per il momento nulla impediva che i membri di una associazione fossero anche membri dell’altra. Del programma teorico dell’Alleanza anche Engels disse di non aver mai letto niente di più miserabile; che Bakunin doveva esser diventato un “vero bovino”, giudizio questo che non esprimeva ancora un’ostilità particolarmente forte, o almeno non maggiore di quella contenuta nel giudizio che Marx dette del suo sempre fedele amico Becker, definito “vecchio confusionario”: nelle loro lettere confidenziali i due amici erano sempre molto prodighi di questi titoli onorifici.

Nel frattempo Marx si era già calmato e stese la risoluzione del Consiglio Generale, che rifiutava l’ammissio ne dell’Alleanza all’Internazionale, con una forma e un contenuto a cui non si potevano muovere Critiche. Vi inserì anche una leggera puntata per Becker, facendo notare che la questione era srata già decisa in precedenza da alcuni fondatori dell’Alleanza, in quanto essi come membri dell’Internazionale avevano col laborato alla decisione presa dal Congresso di Bruxelles, di respingere la fusione dell’Internazionale con la Lega della Pace e della Libertà.

E’ molto improbabile che Becker se la sia presa troppo per questa decisione del Consiglio Generale. E più credibile l’asserzione di Bakunin, che egli avrebbe sconsigliato fin da principio la fondazione dell’Alleanza ma sarebbe stato sopraffatto dai voti dei membri della sua lega segreta; avrebbe voluto però mantenere questa lega segreta, i cui membri avrebbero dovuto agire secondo il loro punto di vista all’interno dell’In ternazionale, ma avrebbe desiderato assolutamente che essa entrasse a far parte della Internazionale per escludere qualsiasi rivalità. Ad ogni modo il Comitato Centrale di Ginevra rispose alla decisione negativa del Consiglio Generale con la proposta di sciogliere le sezioni dell’Alleanza e di trasformarle in sezioni dell’Internazionale, nel caso che il Consiglio Generale riconoscesse il suo programma teorico.

Frattanto Marx aveva ricevuto la lettera conciliante di Bakunin del 22 dicembre, ma la sua diffidenza si era ridestata a tal punto che non prese in considerazione questa “entrée sentimentale”. Anche la nuova proposta dell’Alleanza suscitò la sua diffidenza, dalla quale per altro non si lasciò dominare tanto da non rispondere in modo obiettivamente giusto. Su sua proposta, il 9 marzo 1869 il Consiglio Generale affermò che non era affar suo giudicare i programmi teorici dei singoli partiti operai: la classe operaia nei diversi paesi si trovava in gradi così diversi di sviluppo che il suo movimento reale si esprimeva in forme teoriche molto diverse. L’unità d’azione, promossa dall’Internazionale, lo scambio d’idee tra i diversi organi delle sezioni in tutti i paesi, infine la discussione diretta nei congressi generali avrebbero a poco a poco creato anche il programma teorico comune per il movimento operaio generale. Per il momento il Consiglio Generale doveva soltanto esaminare se la tendenza generale dei singoli programmi operai corrispondeva alla tendenza generale dell’Internazionale verso la completa emancipazione delle classi lavoratrici.

Sotto questo rapporto, continuava la risposta, il programma dell’Alleanza conteneva una frase che era su scettibile di fraintendimenti pericolosi. L’eguaglianza politica, economica e sociale delle classi presa alla let tera, conduceva all’armonia fra capitale e lavoro quale era predicata dai socialisti borghesi. Il vero segreto del movimento proletario e il grande obiettivo dell’Internazionale era invece l’abolizione delle classi. Tuttavia, poiché l’“eguaglianza delle classi”, come risultava dal contesto, era entrata nel programma dell’Alleanza soltanto per uno scorso di penna, il Consiglio Generale affermava di non dubitare che l’Alleanza avrebbe rinunciato a questa frase pericolosa, e quindi non vi sarebbero stati ostacoli alla trasformazione delle sezio ni dell’Alleanza in sezioni dell’Internazionale. Una volta compiuta definitivamente questa trasformazione, il Consiglio Generale avrebbe dovuto essere informato, a norma degli statuti dell’Internazionale, del luogo e del numero dei membri di ogni nuova sezione.

Allora l’Alleanza corresse la frase contestata nel senso voluto dal Consiglio Generale, e il 22 giugno annun ciò di avere sciolto la propria organizzazione e di avere invitato le proprie sezioni a trasformarsi in sezioni dell’Internazionale. La sezione ginevrina, a capo della quale stava Bakunin, fu accolta nell’Internazionale con voto unanime del Consiglio Generale. Anche la lega segreta di Bakunin in apparenza era stata sciolta, ma continuava ad esistere in forma più o meno rilassata, e lo stesso Bakunin continuò ad agire secondo il programma che l’Alleanza si era dato. Dall’autunno del 1867 all’autunno del 1869 egli visse sulle rive del lago di Ginevra, ora nella stessa Ginevra, ora a Vevey e Clarens, e si era acquistata una grande influenza fra gli operai della Svizzera romanza.

In questa sua attività fu favorito dalla particolare situazione in cui questi operai vivevano. Per giudicare esattamente gli avvenimenti di questo periodo non si deve dimenticare mai che l’Internazionale non era un partito con un determinato programma teorico, ma tollerava nel suo seno le più disparate tendenze, come il Consiglio Generale aveva rilevato nella sua risposta all’Alleanza. Ancor oggi si può osservare nel Vorbote che un combattente della grande associazione appassionato e benemerito come Becker non si preoccupò mai eccessivamente di questioni teoriche. Cosi anche nelle sezioni ginevrine dell’Internazionale erano rappresentate due correnti molto diverse. Da una parte la fabrique, che nel dialetto di Ginevra designava l’insieme dei lavoratori qualificati e ben pagati dell’industria dei gioielli e degli orologi, che comprendeva quasi esclusivamente nativi del luogo; dall’altra parte i gros métiers, soprattutto muratori, comprendenti quasi esclusivamente stranieri, in primo luogo tedeschi, che dovevano conquistarsi con scioperi continui condizioni di lavoro appena sopportabili. I primi godevano del diritto di voto, gli altri no. Ma per il suo limitato numero la fabrique non poteva contare sul successo elettorale, con i soli suoi voti, e perciò era molto incline verso i compromessi elettorali con i radicali borghesi, mentre i gros métiers, per i quali simili tentazioni erano a priori escluse, erano molto più entusiasti dell’azione rivoluzionaria diretta, come la proponeva Bakunin.

Un campo di reclutamento ancora più fertile Bakunin trovò nei lavoratori dell’industria degli orologi del Giura. Questi non erano operai di lusso qualificati, ma per lo più operai a domicilio, che erano già minacciati nella loro misera esistenza dalle macchine della concorrenza americana. Dispersi in piccoli villaggi sui monti, erano poco adatti per un movimento di massa con fini politici, e, anche quando vi erano disposti, tristi esperienze li respingevano dalla politica. In un primo tempo aveva condotto fra loro l’agitazione per l’Internazionale il medico Coullery, uomo di sentimenti filantropici ma politicamente una testa confusa, che li aveva indotti a concludere alleanze elettorali non solo con i radicali, ma anche con i liberali monarchici di Neuchàtel, in cui i lavoratori venivano regolarmente gabbati. Dopo il completo fallimento di Coullery gli operai del Giura avevano trovato un nuovo capo in James Guillaume, giovane insegnante dell’industria a Lode, che si era perfettamente familiarizzato con il loro modo di pensare e che sul Progrès, un giornaletto di Lode da lui diretto, propugnava l’ideale di una società anarchica, nella quale tutti gli uomini sarebbero stati liberi e uguali. Quando Bakunin si recò per la prima volta nel Giura, trovò il terreno ottimamente prepa rato per il suo seme, e questi poveri diavoli ebbero sulle sue idee un’influenza forse più forte di quella che egli esercitò su di loro, giacché da allora in poi la sua opposizione a ogni attività politica fu più recisa di prima.

Ma per il momento la pace regnava ancora nelle sezioni della Svizzera romanza. Nel gennaio del 1869, ad opera principalmente di Bakunin, esse si riunirono in un Consiglio Federale e iniziarono la pubblicazione di un settimanale più impegnativo, Egalité, al quale collaboravano Bakunin, Becker, Eccarius, Varlin e altri importanti membri dell’Internazionale. Sempre per opera di Bakunin il Consiglio Federale della Svizzera romanza propose al Consiglio Generale di Londra di porre la questione dell’eredità all’ordine del giorno del Congresso di Basilea. Bakunin era in diritto di farlo, perché la discussione di questioni di questo genere era uno dei compiti principali dei congressi, e il Consiglio Generale aderì alla richiesta.

Marx vide in essa una specie di dichiarazione di guerra da parte di Bakunin, e come tale l’accettò volentieri.

    15.5    ​​​Il Congresso di Basilea

Al Congresso annuale, tenuto a Basilea dal 5 al 6 settembre del 1869, l’Internazionale passò in rivista gli avvenimenti del suo quinto anno di vita.

Era stato il più agitato fra quelli che l’Internazionale aveva vissuto, fra le scosse e i tumulti delle “azioni di guerriglia fra capitale e lavoro”, cioè gli scioperi, che, a quanto si diceva con sempre maggiore insistenza fra le classi possidenti europee, erano stati provocati non dalla miseria del proletariato né dal dispotismo del capitale, ma dagli intrighi segreti dell’Internazionale.

Tanto più aumentava il gusto brutale di reprimerli con la forza delle armi. Persino in Inghilterra si arrivò a scontri sanguinosi fra minatori in sciopero e militari. Nel distretto carbonifero della Loira, presso Ricamarie, la soldatesca avvinazzata fece una strage, in cui venti operai, fra i quali due donne e un bambino, furono uccisi a fucilate e numerosi altri furono feriti. I fatti più atroci accaddero di nuovo nel Belgio, “nello Stato esemplare del costituzionalismo continentale, nell’ameno, ben protetto paradiso del grande proprietario, del capitalista e del prete”, come lo definiva un veemente proclama del Consiglio Generale, scritto da Marx, che faceva appello ai lavoratori d’Europa e degli Stati Uniti perché soccorressero le vittime di Seraing e del Borinage, assassinate per sfrenata bramosia di profitti. “La terra non compie il suo giro annuale con la stessa sicurezza con cui il governo belga compie il suo annuale massacro di operai”.

Il seme sanguinoso fece maturare la messe dell’Internazionale. Nell’autunno del 1868 si erano tenute in Inghilterra le prime elezioni sulla base della legge elettorale riformata, e avevano dato completamente ragio ne agli ammonimenti espressi da Marx contro la politica unilaterale della Lega per la riforma elettorale. Non fu eletto nemmeno un rappresentante della classe operaia. Vinsero i “grossi portafogli” e Gladstone tornò al governo. Ma non pensava di intervenire a fondo nella questione irlandese, né di dare ascolto agli appelli delle Trade Unions. Così il Nuovo Unionismo ricevette un ulteriore impulso. Nel loro congresso tenuto a Birmingham nel 1869 le Trade Unions rivolsero un invito pressante alle organizzazioni operaie del Regno perché entrassero nell’Internazionale, e non solo perché gli interessi della classe operaia erano dovunque gli stessi, ma anche perché i princìpi dell’Internazionale erano adatti per assicurare la pace durevole fra i popoli della terra. Nell’estate del 1869 vi era stata una minaccia di guerra fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti, e in questa occasione era stato indirizzato un messaggio all’Unione nazionale degli operai degli Stati Uniti, anche questo steso da Marx, in cui fra l’altro era detto: “Tocca a voi ora, di prevenire una guerra il cui più sicuro risultato sarebbe di ricacciare indietro, di qua e di là dall’Atlantico, il movimento operaio in ascesa”. Il messaggio ebbe una viva risonanza oltre oceano.

Anche in Francia la causa operaia procedeva bene. Le persecuzioni poliziesche contro l’Internazionale non avevano di solito altro effetto che quello di far aumentare il numero dei suoi aderenti. L’intervento del Consiglio Generale in aiuto dei numerosi scioperi portò alla fondazione di sindacati, che non poterono essere proibiti, per quanto in essi vivesse lo spirito dell’Internazionale. Alle elezioni del 1869 gli operai parteciparono senza presentare ancora candidati propri, ma appoggiando i candidati dell’estrema sinistra borghese, che si presentavano con un programma elettorale molto radicale. In tal modo contribuirono, almeno indirettamente, alla grave sconfitta che Bonaparte subì soprattutto nelle grandi città, anche se il frutto dei loro sforzi fu raccolto ancora una volta dalla democrazia borghese. Anche per altre cause il Secondo Impero cominciava a sfasciarsi da tutte le parti; dall’esterno subì un duro colpo per la rivoluzione spagnola, che nell’autunno del 1868 aveva cacciato dal paese la regina Isabella.

Una piega diversa avevano preso le cose in Germania, dove il bonapartismo non era ancora in fase decli nante, anzi era in ascesa. La questione nazionale divideva la classe operaia tedesca, e questa scissione era un grave ostacolo per il movimento sindacale che aveva cominciato a svilupparsi. Avviandosi per la falsa strada della sua agitazione sindacale, Schweitzer si era messo in una brutta situazione, che non era più capace di dominare. Le denunce infondate che venivano rivolte incessantemente contro la sua onorabi lità avevano reso diffidenti molti dei suoi seguaci, ed egli fu abbastanza mal consigliato da compromettere seriamente la sua reputazione, del resto non ancora molto scossa, con un piccolo colpo di stato.

Una minoranza dell’Associazione Generale degli Operai Tedeschi perciò si staccò e si riunì alle associa zioni di Norimberga, formando un nuovo partito socialdemocratico, i cui membri venivano chiamati eise nachiani da Eisenach, luogo di fondazione. Le due frazioni dapprima si combattevano violentemente, ma assunsero pressappoco la stessa posizione di fronte all’Internazionale: unite ad essa nella sostanza, ma formalmente separate fin tanto che esistevano le leggi tedesche sulle associazioni. Marx ed Engels furono scontentissimi quando Liebknecht si servì arbitrariamente del nome del Consiglio Generale dell’Internazio nale contro Schweitzer, sema averne il diritto. Anche se si rallegravano del “processo di dissoluzione della chiesa lassalliana”, non sapevano che farsi dell’altra tendenza finché essa non avesse decisamente se parato la sua organizzazione dal Partito popolare tedesco e non avesse ridotto i suoi rapporti con questa gente tutt’al più a una vaga alleanza. Della superiorità di Schweitzer come polemista su tutti quanti i suoi avversari, Marx ed Engels rimasero convinti come prima.

Il movimento operaio austro-ungarico, che era sorto soltanto dopo le sconfitte del 1866, si sviluppava con maggiore concordia. La tendenza di Lassalle vi era rimasta senza seguito, ma masse tanto più forti si erano strette attorno alla bandiera dell’Internazionale, come rivelò il Consiglio Generale nel suo resoconto annuale al Congresso di Basilea.

Questo Congresso si riuniva quindi con prospettive favorevoli. I membri presenti erano soltanto 78, ma aveva un aspetto molto “più internazionale” del congresso precedente. Erano rappresentati in tutto 9 paesi. Del Consiglio Generale vennero, come sempre, Eccarius e Jung, e inoltre due dei più stimati tradunionisti, Applegarth e Lucraft. La Francia mandò 26 delegati, il Belgio 5, la Germania 12, l’Austria 2, la Svizzera 23, l’Italia 3, la Spagna 4 e gli Stati Uniti 1. Liebknecht rappresentava la nuova frazione degli eisenachiani, Moses Hess la sezione di Berlino. Bakunin oltre a un mandato francese ne aveva uno italiano, Guillaume era delegato di Lode. Presiedette anche questa volta Jung.

Primo oggetto delle discussioni furono questioni organizzative. Su proposta del Consiglio Generale, il Con gresso decise all’unanimità di raccomandare a tutte le sezioni e a tutte le società affiliate di abolire la carica di presidente, come il Consiglio Generale da parte sua aveva già fatto un paio d’anni prima; perché non sarebbe stato degno di un’associazione operaia mantenere un principio monarchico e autoritario e anche se la carica di presidente era puramente onorifica, essa conteneva un’offesa al principio democratico. Il Consiglio Generale d’altra parte propose un allargamento dei suoi poteri: voleva essere autorizzato ad espellere, fino al giudizio del successivo congresso, ogni sezione che agisse contro lo spirito dell’Interna zionale. La proposta fu accettata con questa limitazione, che i consigli federali, dove esistevano, dovevano essere interpellati prima dell’espulsione delle sezioni. Bakunin e Liebknecht avevano appoggiato viva mente la proposta. Per Liebknecht ciò era naturale, non per Bakunin che in tal modo andava contro i propri princìpi anarchici, per chi sa quali motivi opportunistici. L’ipotesi più probabile è che volesse com battere il diavolo con Belzebù, vale a dire che contasse sull’aiuto del Consiglio Generale contro qualsiasi attività politico-parlamentare, che per lui era puro opportunismo; questa sua speranza poteva sembrar confermata dal noto discorso di Liebknecht, che proprio allora si era dichiarato energicamente contrario alla partecipazione di Schweitzer e anche di Bebel al Reichstag della Germania del Nord. Ma Marx riprovò il discorso di Liebknecht, e così Bakunin fece i conti senza l’oste: dovette accorgersi molto presto che le trasgressioni di principio si scontano sempre.

Fra i problemi teorici che il Congresso doveva trattare stavano in primo piano le questioni della proprietà collettiva della terra e del diritto ereditario. La prima questione era già stata di fatto decisa a Bruxelles; in termini più brevi dell’anno precedente„ a Basilea fu deciso con 54 voti che la società ha il diritto di trasfor mare la proprietà fondiaria in proprietà collettiva, e con 53 voti che questa trasformazione è nell’interesse della società. La minoranza si astenne, in prevalenza, dal votare; contro la seconda risoluzione votarono solo 8 delegati, contro la prima 4. Sulla attuazione pratica delle risoluzioni erano sorti punti di vista ancora molto divergenti, la cui discussione finale fu rimandata al congresso successivo, che doveva aver luogo a Parigi.

Sulla questione del diritto ereditario il Consiglio Generale aveva elaborato una relazione che riassumeva in poche frasi, nella maniera magistrale di cui solo Marx era capace, i diversi punti di vista: come qualsiasi altra legislazione borghese, le leggi sull’eredità non sono la causa, ma l’effetto, la conseguenza giuridica dell’organizzazione economica di una società fondata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione: il diritto di ereditare schiavi non è la causa della schiavitù, ma al contrario la schiavitù è la causa del diritto di ereditare schiavi; se i mezzi di produzione fossero trasformati in proprietà collettiva, il diritto ereditario, per quel tanto che ha importanza sociale, scomparirebbe da sé, perché un uomo potrebbe lasciare in eredità soltanto quello che ha posseduto in vita; come grande obiettivo perciò resta l’abolizione di quelle istituzioni che danno ad alcune persone, durante lo loro vita, il potere economico di prendere per sé il frutto del lavo ro di molti; proclamare che l’abolizione del diritto d’eredità è il punto di partenza della rivoluzione sociale sarebbe altrettanto assurdo come abolire le leggi dei contratti fra compratore e venditore, mentre ancora sono in vigore le condizioni attuali dello scambio delle merci: sarebbe falso nella teoria e reazionario nella pratica; il diritto ereditario — affermava infine la relazione — si può modificare soltanto in tempi di transi zione, quando da una parte la base economica della società non è ancora trasformata, ma d’altra parte le classi lavoratrici hanno già raccolto forze sufficienti per imporre misure preparatorie per un rivolgimento radicale della società. Come misure di transizione di tal genere il Consiglio Generale suggeriva l’estensione delle imposte di successione e la limitazione del diritto testamentario che, a differenza del diritto ereditario familiare, esagera in maniera superstiziosa e arbitraria i princìpi della proprietà privata.

In opposizione al punto di vista del Consiglio Generale, la commissione cui era stata demandata la discus sione preliminare della questione propose di affermare l’abolizione del diritto ereditario come rivendicazio ne fondamentale della classe operaia, ma non seppe motivare questa proposta che con alcuni slogan ideologici sui “privilegi”, la “giustizia politica e economica”, l’“ordine sociale”. Nella discussione, piuttosto breve, parlarono a favore della relazione del Consiglio Generale Eccarius, il belga de Paepe e il francese Varlin, mentre Bakunin sostenne la proposta della commissione, che anzi era stata ispirata da lui. La rac comandò per motivi apparentemente pratici, ma non per questo meno illusori: senza l’abolizione del diritto ereditario non sarebbe stato possibile arrivare alla proprietà collettiva, se si voleva togliere ai lavoratori la loro terra, essi si sarebbero opposti, ma dall’abolizione del diritto ereditario essi non si sarebbero sentiti colpiti direttamente e la proprietà fondiaria privata si sarebbe progressivamente estinta. Nella votazione per appello nominale sulla proposta della commissione si ebbero i seguenti risultati: 32 sì, 23 no, 13 astensioni, 7 assenti, mentre nella votazione sulla proposta del Consiglio Generale si ebbero 19 sì, 37 no, 6 asten sioni e 13 assenti. Nessuna delle due mozioni quindi ebbe una maggioranza assoluta, così che il dibattito rimase senza risultato tangibile.

Tanto nel mondo borghese che nel mondo proletario il Congresso di Basilea ebbe una risonanza anche più vivace dei precedenti. In campo borghese gli uomini più dotti mettevano in evidenza, un po’ con orrore e un po’ con soddisfazione maligna, il carattere comunista, finalmente manifesto, dell’Internazionale; in campo proletario furono accolte con grande gioia le risoluzioni sulla proprietà collettiva della terra.  A Ginevra il gruppo di lingua tedesca della sezione pubblicò un manifesto alla popolazione delle campagne, che fu rapidamente e largamente diffuso in lingua francese, italiana, spagnola, polacca e russa. A Barcellona e a Napoli sorsero le prime sezioni di lavoratori agricoli. A Londra in un grande meeting fu fondata una Lega della terra e del lavoro, nel cui Comitato erano 10 membri del Consiglio Generale, col motto: la terra al popolo! s In Germania i nobili personaggi del Partito popolare tedesco furono i primi a strepitare contro le risoluzioni di Basilea. Liebknecht da principio si lasciò intimidire e fu indotto a dichiarare che la frazione eisenachiana non era legata alle risoluzioni. Per fortuna i galantuomini indignati non si contentarono e chiesero che le risoluzioni fossero esplicitamente sconfessate, sì che Liebknecht abbandonò quella compagnia, come Marx ed Engels da lungo tempo desideravano. Ma le sue esitazioni iniziali avevano portato acqua al mulino di Schweitzer, che nell’Associazione Generale degli Operai Tedeschi “predicava” la proprietà collettiva della terra già da anni, e non soltanto allora, come pensava Marx che per questo lo accusava di “sfrontatezza”. Engels dominò la sua indignazione contro quel farabutto”, almeno tanto da trovare che Schweitzer era “molto abile” ad aver sempre un contegno corretto dal punto di vista teorico, poiché ben sapeva che i suoi avversari sarebbero stati liquidati e spacciati non appena fosse entrato in discussione un punto teorico.

I lassalliani pertanto restavano il partito operaio tedesco non solo più solido per l’organizzazione, ma anche il più avanzato teoricamente.

    15.6    ​​​Imbrogli a Ginevra

La discussione sull’eredità, al Congresso di Basilea, era stata in certo senso un duello ideale fra Bakunin e Marx, che, senza portare a una decisione, aveva avuto per Marx un esito piuttosto sfavorevole che favore vole. Ma non è giustificata dai fatti la conclusione che se ne è tratta, secondo cui Marx sarebbe stato duramente colpito e si sarebbe accinto ad assestare un colpo violento contro Bakunin.

Marx era pienamente soddisfatto dello svolgimento del Congresso di Basilea. Giusto in quel tempo compiva un viaggio in Germania per riposarsi, con la figlia Jenny, e il 25 settembre scrisse da Hannover alla figlia Laura: “Sono contento che il Congresso di Basilea sia passato e che sia andato relativamente così bene. Sono sempre preoccupato per questi pubblici spettacoli del partito ‘con tutte le sue magagne’. Nessuno degli attori era all’altezza dei princìpi, ma l’idiozia della classe superiore rimedia gli errori della classe operaia. Non siamo ancora arrivati in una città tedesca così piccola che il suo giòrnalucolo non fosse pieno dei fatti di questo spaventoso Congresso “.

Come Marx non fu deluso dallo svolgimento del Congresso di Basilea, così non ne fu deluso neppure Bakunin. Si è detto che con la sua proposta sulla questione dell’eredità avrebbe voluto colpire Marx e mediante questa vittoria teorica arrivare ad ottenere il trasferimento del Consiglio Generale da Londra a Ginevra; fallito questo tentativo, avrebbe attaccato con maggior violenza il Consiglio Generale sull’Egalité. Queste asserzioni sono state ripetute così spesso che si sono condensate in una precisa leggenda. Non dimeno non vi è nulla di vero. Dopo il Congresso di Basilea Bakunin non ha mai scritto una sola riga per l’Egalité; prima del Congresso di Basilea, nel luglio e agosto del 1869, era redattore capo di quel giornale, ma nella lunga serie di articoli che vi ha pubblicato si Cercherebbe inutilmente traccia di una disposizione ostile contro il Consiglio Generale o contro Marx. In particolare quattro articoli sui “princìpi dell’Interna zionale” erano concepiti nello stesso spirito con cui la grande associazione era stata fondata; se Bakunin vi esprimeva alcune riserve contro il funesto influsso di quello che Marx chiamava “cretinismo parlamen tare” sui rappresentanti parlamentari del popolo, in primo luogo queste riserve, in seguito, si sono spesso dimostrate giustificate, e in secondo luogo erano assai innocenti, in confronto ai violenti attacchi che con temporaneamente Liebknecht rivolgeva contro la partecipazione della classe operaia al parlamentarismo borghese.

Inoltre, per quanto stravagante fosse il punto di vista bakuniniano sulla questione dell’eredità, egli aveva
tuttavia il diritto di pretendere che venisse discusso: ai congressi dell’Internazionale sono state discusse stravaganze anche peggiori senza che a coloro che le professavano venissero attribuite intenzioni na scoste. Quanto all’accusa di aver progettato il trasferimento del Consiglio Generale da Londra a Ginevra, quando essa fu espressa contro di lui, Bakunin la smentì con le brevi e convincenti parole: “Se fosse venuta fuori una simile proposta, io sarei stato il primo a combatterla con tutta l’energia possibile; tanto nefasta mi sarebbe parsa per il futuro dell’Internazionale. E’ vero che le sezioni di Ginevra hanno fatto progressi enormi in pochissimo tempo. Ma a Ginevra domina ancora uno spirito troppo ristretto, troppo specificamente ginevrino, per potervi trapiantare il Consiglio Generale. Inoltre è evidente che, finché dura l’attuale organizzazione politica dell’Europa, Londra sarà l’unica sede adatta per il Consiglio Generale, e bisognerebbe realmente essere uno sciocco o un nemico dell’Internazionale per voler tentare di spostarlo altrove”.

Ma vi sono delle persone che a priori ritengono Bakunin un mentitore e che interpreteranno la sua dichia razione come una scusa trovata dopo il fatto compiuto. Ma anche questa obiezione cade completamente di fronte al fatto che prima del Congresso di Basilea Bakunin aveva deciso di trasferirsi, dopo il Congresso, da Ginevra a Locamo, e ciò per ragioni di forza maggiore, che non era in suo potere di modificare. Si trovava in difficoltà economiche estreme, ed era in attesa del parto di sua moglie, che voleva avvenisse a Locamo. Da parte sua, aveva l’intenzione di tradurre in russo, a Locamo, il primo volume del Capitale. Un giovane ammiratore, di nome Liubavin, aveva indotto un editore russo a versare per la traduzione un onorario di 1200 rubli, di cui Bakunin ne ebbe in anticipo 300.

Tutti i pretesi intrighi che Bakunin avrebbe intessuto prima o dopo il Congresso di Basilea si risovono così in niente; ma questo Congresso gli lasciò ugualmente la bocca amara. Influenzato dalle istigazioni di Borkheim, Liebknecht aveva affermato di fronte a terzi di avere le prove che Bakunin fosse un agente del governo russo, e Bakunin aveva chiesto che si riunisse a Basilea un tribunale d’onore, di fronte al quale Liebknecht avrebbe dovuto provare la fondatezza delle sue accuse. Liebknecht non poté farlo, e il tribunale d’onore espresse un duro biasimo su di lui. Perciò Liebknecht, che dopo le esperienze del processo dei comunisti di Colonia e dell’epoca dell’emigrazione aveva una tendenza un po’ pronunciata a sentire odore di spie, non ricusò di stendere la mano all’avversario per la riconciliazione, e Bakunin accettò l’offerta con altrettanta lealtà. Tanto più amareggiato dovette essere quando, poche settimane dopo, il 2 ottobre, sul Reveil di Parigi Moses Hess tornò fuori con le vecchie chiacchiere. Hess, che era stato a Basilea come delegato tedesco, voleva rivelare la storia segreta del Congresso; fra l’altro raccontava che gli “intrighi” di Bakunin, tendenti a sovvertire i princìpi dell’Internazionale e a trasportare il Consiglio Generale da Londra a Ginevra, erano falliti a Basilea; Hess concludeva con una vuota insinuazione, affermando di non volere affatto mettere in dubbio i sentimenti rivoluzionari di Bakunin, ma questo russo era uno stretto parente di Schweitzer, che proprio a Basilea era stato accusato dai delegati tedeschi di essere agente convinto del governo tedesco. Lo scopo odioso di questa denuncia balzava tanto più agli occhi in quanto era impossibile scoprire una “stretta parentela” fra l’agitazione di Bakunin e l’agitazione di Schweitzer. Anche personalmente fra i due non vi era il minimo punto di contatto.

Bakunin avrebbe fatto sicuramente meglio a non far caso all’articolo, che anche per il resto era del tutto insulso. Ma è comprensibile che alla fine i dubbi sulla sua onestà politica lo rendessero furioso, e tanto più quando erano messi in giro con maggiore perfidia. Quindi scrisse su due piedi una replica; ma nell’ecci tazione del primo momento essa venne troppo lunga, tanto che capì lui stesso che il Reveil non avrebbe potuto accoglierla. Si scagliava con particolare violenza contro gli “ebrei tedeschi”, escludendo però dei “giganti” come Marx e Lassalle dalla razza di pigmei dei Borkheim e degli Hess. Bakunin decise di utiliz zare questa lunga dichiarazione per uno scritto maggiore sulla sua professione di fede rivoluzionaria, e la mandò a Herzen a Parigi, con la richiesta di trovargli un editore; per il Reveil aggiunse una dichiarazione più breve. Herzen temeva che il Reveil rifiutasse anche questa; scrisse lui stesso una difesa di Bakunin contro Hess, e il Reveil non solo l’accettò, ma vi aggiunse una nota redazionale che soddisfece pienamente Bakunin.

Ma Herzen non era per niente contento del manoscritto più lungo. Disapprovava gli attacchi contro gli “ebrei tedeschi”, ed era particolarmente stupito che Bakunin se la prendesse con persone poco note come horkheim e Hess invece di lanciare la sua sfida a Marx. A questa critica Bakunin rispose, il 28 ottobre, che pensava anche lui che Marx fosse il promotore di quelle polemiche, ma che lo aveva risparmiato e lo aveva persino chiamato “gigante” per due motivi. Prima di tutto per giustizia: “Lasciando da parte tutti i brutti tiri che ci ha giocato, noi non possiamo, o almeno io non posso disconoscere gli enormi servigi che egli ha reso alla causa del socialismo alla quale da quasi venticinque anni presta la sua opera con intelligenza, energia e integrità, superando senza dubbio tutti noi. E’ stato uno dei primi fondatori, e certamente il prin cipale fondatore dell’Internazionale, e questo a mio giudizio è un enorme merito, che riconoscerò sempre, qualunque cosa possa aver fatto contro di noi”.

In secondo luogo sull’atteggiamento di Bakunin avevano agito dei motivi politici e tattici, di fronte a Marx, “che non mi può soffrire e che non ama nessuno se non se stesso e forse i suoi intimi. L’azione di Marx è innegabilmente utilissima nell’Internazionale. A tutt’oggi egli esercita un’accorta influenza sul suo partito ed è il più solido sostegno del socialismo, il baluardo più forte contro la penetrazione di intenti e di pensieri borghesi. E non mi potrei mai perdonare di aver soltanto tentato di sradicare o anche soltanto di indebolire il suo benefico influsso, al sol fine di vendicarmi di lui. Tuttavia potrebbe accadere, e anche fra breve tempo, che io venissi a conflitto con lui, beninteso non per attaccarlo personalmente, ma per una questione di principio, a causa del comunismo di Stato, i cui rappresentanti più accesi sono lui e gli inglesi e i tedeschi da lui guidati. Diventerebbe una lotta per la vita e la morte. Ma ogni cosa a suo tempo, e l’ora di questa lotta non è ancora suonata”.

Da ultimo Bakunin adduceva un motivo tattico, che gli impediva di attaccare Marx. Se muoveva apertamente contro Marx, due terzi dei membri dell’Internazionale sarebbero stati contro di lui. Invece la maggioranza sarebbe stata con lui se avesse mosso contro la gentaglia che si raccoglieva attorno a Marx, e Marx stesso ci avrebbe provato gusto, o avrebbe provato una “gioia maligna”, come disse Bakunin, usando una parola tedesca1, nella lettera scritta in francese.

Subito dopo questa lettera Bakunin si trasferì a Locarno. Occupato nei suoi affari personali, nelle poche settimane ancora trascorse a Ginevra dopo il Congresso di Basilea non dette alcuna attività al movimento operaio ginevrino, né scrisse più una riga per L’Egalité. Gli successe alla direzione del giornale Robin, un insegnante belga che si era trasferito a Ginevra soltanto da un anno, e poi Perron, quello stesso decoratore che aveva già diretto il giornale prima di Bakunin. Entrambi avevano le stesse opinioni di Bakunin, ma agivano e parlavano in modo del tutto diverso da lui. Bakunin si era sforzato di illuminare i lavoratori dei gros métiers, nei quali lo spiritc proletario e rivoluzionario era molto più vivo che nei lavoratori delk fabrique, e di incitarli ad un’azione autonoma, in contrasto persino con i loro stessi comitati (meriterebbe anche ◦g£i leggere le spiegazioni di Bakunin sui pericoli obiettivi di questa “politica delle istanze”, come noi diremmo oggi), e più ancora in contrasto con la fabrique, che aveva appoggiato i gros métiers nei loro scioperi, ma che da questo suo incontestabile merito aveva tratto la conclusione che i gros métiers dovessero andarle dietro in tutto e per tutto. Bakunin aveva combattuto queste tendenze, specialmente in considerazione della invincibile inclinazione della fabrique alle alleanze col radicalismo borghese; ma Robin e Perron credevano di poter rimediare e cancellare il contrasto fra la fabrique e i gros métiers, che non era stato creato da Bakunin, ma aveva la sua radice in un contrasto sociale. Finirono così in un sistema ondeggiante che non soddisfaceva né la fabrique né i gros métiers e apriva la porta a tutti gli intrighi possibili.

Maestro di intrighi di questo genere era un esiliato russo, di nome Nicola Utin, che a quel tempo viveva a Ginevra. Aveva partecipato alle agitazioni degli studenti russi, ma poi quando la cosa diventò pericolosa scappò all’estero, e qui viveva comodamente con una rendita annua considerevole, si parla di dodici o quindicimila francni, che gli veniva dal commercio di liquori di suo padre. In tal modo questo tipo vano e loquace si guadagnò una posizione che non avrebbe mai potuto acquistare con le sue capacità intellettuali; il successo gli arrideva soltanto sul piano del pettegolezzo privato, in cui, come una volta disse Engels, “chi ha qualche cosa da fare resta sempre inferiore a chi dedica tutto il giorno alle conventicole”. Utin si era accostato dapprima a Bakunin, ma fu senz’altro respinto, e così l’allontanamento di Bakunin da Ginevra gli offrì un’occasione quanto mai favorevole per attaccare quest’uomo, tanto odiato, sul terreno della maldicenza privata. La fatica spesa per questo nobile scopo non andò persa, dopo di che egli, supplicando umilmente grazia, si gettò ai piedi dello zar. Questi da parte sua non era irreconciliabile, e nella guerra russo-turca del 1877 Utin riuscì felicemente a diventare fornitore di guerra dello zar, ciò che gli procurò affari presumibilmente più ricchi, ma certo meno puliti, del commercio di liquori paterno.

Con gente come Robin e Perron, Utin aveva gioco tanto più facile, perché con tutta la loro onestà si ri velarono in realtà di un’incapacità incredibile. Per giunta attaccarono briga col Consiglio Generale dell’Internazionale, e per questioni che realmente non importavano ai lavoratori della Svizzera francese. L’Egalité protestò perché il Consiglio Generale si interessava troppo della questione irlandese, perché non istituiva un consiglio federale per l’Inghilterra, perché non risolveva la contesa fra Liebknecht e Schweitzer ecc. Bakunin non aveva nulla a che fare con tutto ciò, e poteva sembrare che approvasse o addirittura aves se stimolato questi attacchi solo in quanto Robin e Perron erano suoi seguaci e il giornaletto di James Guillaume seguiva la stessa linea.

In una circolare privata, in data 1◦ gennaio 1870, che oltre che a Ginevra fu spedita ai consiglieri federali di lingua francese, il Consiglio Generale fece giustizia degli attacchi di Robin. Scritta in termini aspri, questa circolare si teneva perfettamente nei limiti di un chiarimento obiettivo. Degni di nota sono ancora oggi i motivi per cui il Consiglio Generale rifiutava di istituire un consiglio federale inglese. Esso spiegava che, anche se l’iniziativa rivoluzionaria sarebbe partita probabilmente dalla Francia, soltanto l’Inghilterra avrebbe potuto servire da leva per una seria rivoluzione economica. “E’ l’unico paese dove non vi sono più piccoli contadini e dove la proprietà terriera è concentrata in poche mani. E’ l’unico paese dove la forma capitalistica si è impossessata di quasi tutta la produzione. E’ l’unico paese dove la grande maggioranza della popolazione è composta di lavoratori salariati. E’ l’unico paese dove la lotta di classe e l’organizzazione della classe operaia hanno raggiunto, mediante le Trade Unions, un certo grado di maturità e di diffusione generale”. Infine, “grazie al suo dominio sul mercato mondiale, è l’unico paese dove ogni rivoluzione nelle condizioni economiche deve ripercuotersi immediatamente sul mondo intero”.

Se gli inglesi posseggono così tutte le premesse materiali necessarie per la rivoluzione sociale, “ciò che loro manca è lo spirito della generalizzazione e la passione rivoluzionaria”. Ispirare loro questo spirito e questa passione è compito del Consiglio Generale, e che esso abbia fatto fronte a questa esigenza lo confermano i più ragguardevoli giornali borghesi di Londra, che “ci accusano di avere avvelenato e quasi soffocato lo spirito inglese della classe operaia e di averla spinta al socialismo rivoluzionario”. Un consiglio federale inglese — proseguiva la circolare — posto fra il Consiglio Generale dell’Internazionale e il Consiglio Generale delle Trade Unions, non.avrebbe avuto nessuna autorità, e il Consiglio Generale dell’Internazionale avrebbe perduto la sua influenza sulla grande leva della rivoluzione proletaria. Esso respingeva la stoltezza di lasciar cadere questa leva in mani inglesi e di sostituire al lavoro serio e silenzioso il ciarlatanismo chiassoso.

Ancor prima che questa circolare arrivasse a destinazione, a Ginevra era scoppiata la catastrofe. Sette dei membri del comitato di redazione dell’Egalité erano seguaci di Bakunin e solo due suoi avversari; per un incidente futilissimo, politicamente insignificante, la maggioranza pose la questione di fiducia, ma ormai si vide che, con la loro politica ondeggiante, Robin e Perron si erano messi fra due fuochi. La minoranza fu sostenuta dal Consiglio federale e i sette membri della maggioranza si dimisero: fra loro anche Becker che per tutto il tempo che Bakunin aveva vissuto a Ginevra era rimasto in buona amicizia con lui, ma si era parecchio disgustato per le manovre di Robin e Perron. La direzione dell’Egalité passò quindi nelle mani di Utin.

    15.7    ​​​La Comunicazione confidenziale

Intanto Borkheim continuava la sua campagna contro Bakunin.

Il 18 febbraio si lamentò con Marx che la Zukunft, organo di Johann Jacoby, non aveva voluto accettare, come Marx scrisse a Engels, “un’enorme lettera su cose russe, un indescrivibile guazzabuglio, che saltava sempre di palo in frasca”. Nello stesso tempo Borkheim insinuò dei sospetti su Bakunin “per certe storie di denaro”, sull’autorità di Katkov, che in giovinezza era stato compagno d’idee di Bakunin ma poi era pas sato in campo reazionario; Marx non vi dette nessun valore, e altrettanto fece Engels, che con filosofica tranquillità osservò: “Pompar quattrini è un sistema per vivere troppo abituale nei russi, perché un russo possa rimproverarlo a un altro”. Ricollegandosi direttamente a quanto aveva comunicato sugli attacchi di Borkheim, Marx scrisse che il Consiglio Generale doveva decidere se era stato giusto espellere dall’In ternazionale, a Lione, un certe Richard, che più tardi si smascherò realmente come un traditore, e aggiunse che a parte il suo servile attaccamento a Bakunin, unito a una certa presunzione, non sapeva che cosa si potesse rimproverare a Richard. “Pare che la nostra ultima circolare abbia fatto gran sensazione e che in Svizzera e in Francia sia cominciata una caccia ai bakuninisti. Ma ce una misura in tutte le cose, e provvederò affinché non si facciano ingiustizie”.

In netto contrasto con questa buona intenzione era una Comunicazione confidenziale che alcune settima ne dopo, il 28 marzo, Marx inviò, per mezzo di Kugelmann, al Comitato di Brunswick degli eisenachiani. La parte principale della Comunicazione era costituita dalla circolare del Consiglio Generale del 1◦ gennaio, che era stata destinata soltanto a Ginevra e ai consiglieri federali della Svizzera francese, e aveva già raggiunto da tempo il suo scopo suscitando per di più quella “caccia” ai bakuninisti che Marx disapprova va. Dopo questa spiacevole esperienza non si capisce perché Marx mandasse la circolare in Germania, soprattutto quando in Germania non esistevano affatto seguaci di Bakunin.

Ancor meno si capisce perché nella sua Comunicazione confidenziale Marx accompagnasse la circolare con una introduzione e una postilla assai più adatte a provocare una “caccia” proprio contro Bakunin. L’introduzione cominciava con aspri rimproveri all’indirizzo di Bakunin, che prima aveva tentato di introdursi nella Lega della Pace e della Libertà, la cui Giunta esecutiva però lo sorvegliava quale “russo sospetto” ; dopo aver fatto fiasco in questa Lega, con le sue assurdità programmatiche, aveva aderito all’Internazio nale, con l’idea di farne un suo strumento privato. A tale scopo aveva fondato l’Alleanza della Democrazia Socialista. Dopo che il Consiglio Generale si era rifiutato di riconoscerla, questa si era sciolta nominalmen te, ma di fatto continuava ad esistere sotto la direzione di Bakunin. Egli aveva fatto mettere la questione dell’eredità nel programma del Congresso di Basilea, per infliggere una sconfitta teorica al Consiglio Ge nerale, e porre così le premesse per farlo trasferire a Ginevra. Bakunin aveva messo in opera una “vera cospirazione”, per assicurarsi la maggioranza al Congresso di Basilea, ma non era riuscito a strappare l’approvazione delle .sue proposte, e il Consiglio Generale era rimasto a Londra. “La stizza per questo colpo fallito ˆ(alla cui riuscita Bakunin aveva forse collegato le più diverse speculazioni private)” si era pale sata negli attacchi dell’Egalité contro il Consiglio Generale, che ad essi aveva risposto nella sua circolare del 1◦ gennaio.

Dopo questa introduzione Marx riportava testualmente la circolare nella Comunicazione confidenziale, e poi seguitava affermando che la crisi era scoppiata già prima dell’arrivo della circolare a Ginevra: il Consiglio Federale romanzo aveva dichiarato che disapprovava gli attacchi dell’Egalité contro il Consiglio Generale e che avrebbe tenuto il giornale sotto la sua stretta sorveglianza In seguito a ciò Bakunin si era ritirato da Ginevra nel Ticino. “Poco dcpo morì Herzen. Bakunin, che dall’epoca in cui aveva voluto atteggiarsi a dirigente del movimento operaio europeo, aveva rinnegato il suo vecchio amico e patrono Herzen, strom bazzò, subito dopo la morte di questi, le sue lodi. Perché? Nonostante la sua ricchezza personale, Herzen si faceva pagare annualmente 25.000 franchi per la propaganda dal partito pseudosocialista e panslavista in Russia, a lui amico. Con i suoi panegirici Bakunin ha incanalato questi quattrini verso di sé, e con ciò è penetrato senza riserva ‘nell’eredità di Herzen’, nonostante il suo odio per l’eredità”. Nel frattempo si era stabilita a Ginevra una giovane colonia di profughi russi, studenti veramente leali e che avevano accolto nel loro programma come punto principale la lotta contro il panslavismo. Essi si erano dichiarati sezione dell’Internazionale e avevano proposto Marx come loro rappresentante provvisorio nel Consiglio Generale: tutti e due i punti erano stati approvati. Contemporaneamente avevano annunciato che entro breve tempo avrebbero smascherato pubblicamente Bakunin: così il gioco di questo pericolosissimo intrigante avrebbe avuto ben presto il suo termine. Con ciò terminava la Comunicazione confidenziale.

Restano da elencare i numerosi errori su Bakunin che essa contiene. I rimproveri mossi contro di lui sono in genere tanto più infondati, quanto più gravi appaiono. Ciò vale soprattutto per l’accusa di aver bri gato per l’eredità. In Russia non è mai esistito un partito panslavista pseudosocialista, che abbia pagato annualmente a Herzen 25000 franchi per la propaganda; il minuscolo appiglio per questa favola era stato dato dal fatto che un giovane socialista, Batmetjev, fra il ’50 e il ’60 aveva creato un fondo di 20.000 franchi per la rivoluzione, che era amministrato da Herzen. Niente prova che Bakunin abbia mai dimostrato di aver voglia di intascare questo fondo, e meno che mai ne è prova l’affettuoso necrologio che egli dedicò, sulla Marseillaise di Rochefort, all’avversario politico che era stato suo amico di gioventù. Al massimo si potrebbe rimproverarlo di sentimentalismo, e del resto per quanti difetti e debolezze Bakunin potesse avere essi erano proprio l’opposto delle qualità che formano un “intrigante pericolosissimo”.

Da che cosa Marx fosse stato indotto in errore risulta già dalle frasi liliali della Comunicazione confidenziale. Le notizie gli erano state comunicate dal comitato dei profughi russi di Ginevra, vale a dire da Utin o, per mezzo di lui, da Becker. Almeno da una comunicazione epistolare di Marx a Engels sembra risultare che sia stato Becker a suggerirgli la più grave delle accuse contro Bakunin, quella di aver brigato per l’eredità di Herzen. Ciò certo non si accorda col fatto che nello stesso tempo Becker, in una lettera a Jung che ci è conservata, pur lamentandosi della confusione che regnava a Ginevra, dei contrasti fra la fabrique e i gros métiers, dei “fanfaroni nevrastenici, come Robin e delle teste matte, come Bakunin”, alla fine però lodava Bakunin perché era “diventato migliore e più utilizzabile di prima”. Le lettere di Becker e della colonia dei profughi russi a Marx non sono conservate; tanto nella risposta ufficiale che nella risposta privata alla nuova sezione dell’Internazionale Marx ritenne cosa più sicura non dire una parola di Bakunin; raccomandò ai membri della sezione russa, come compito principale, di lavorare in favore della Polonia, per liberare l’Europa dalla loro stessa vicinanza. Accolse non senza umorismo la proposta di rappresentare la giovane Russia e affermò che l’uomo non sa mai in che strana compagnia può venirsi a trovare.

Nonostante queste frasi scherzose, per Marx era evidentemente una grande soddisfazione vedere che l’Internazionale cominciava a metter radice fra i rivoluzionari russi. Per il resto non si capisce come mai egli credesse a Utin, a lui del tutto sconosciuto, quando questi gli sottoponeva delle accuse contro Bakunin simili a quelle che egli aveva respinto quando gli erano state sottoposte dal suo vecchio amico Borkheim. Un caso singolare volle che nello stesso tempo Bakunin si lasciasse ingannare da un esule russo, perché in lui vedeva un antesignano della prossima rivoluzione russa, e si lasciasse anzi irretire in una avventura che per la sua reputazione doveva diventare più rischiosa di ogni altro incidente a lui occorso nella sua vita movimentata.

Un paio di giorni dopo che era stata scritta la Comunicazione confidenziale, il 4 aprile, si riunì a La Chaux-de-Fonds il secondo Congresso annuale della Federazione romanza. Qui si venne alla rottura aperta. La sezione ginevrina dell’Alleanza, che era già stata ammessa all’Internazionale dal Consiglio Generale, chiese l’ammissione nella Federazione romanza e la partecipazione dei suoi due delegati alle sedute del Congresso. Utin si oppose, con violenti attacchi a Bakunin, denunziando la sezione ginevrina dell’Alleanza quale strumento dei suoi intrighi, ma trovò un avversario deciso in Guillaume, un bolso fanati co che commise contro Marx, soprattutto in tempi posteriori, delle colpe non minori di quelle di Utin contro Bakunin, ma che tuttavia aveva ben altra cultura e capacità del suo meschino avversario. Guillaume riportò la vittoria con una maggioranza di 21 voti contro 18, Ma la minoranza rifiutò di riconoscere la volontà della maggioranza e scisse il Congresso. Allora furono tenuti contemporaneamente due congressi; il congresso della maggioranza decise di spostare la sede del Consiglio federale da Ginevra a La Chaux-de-Fonds e di fare della Solidarité l’organo dell’Associazione, che Guillaume doveva pubblicare a Neuchàtel.

La minoranza motivava il sue ostruzionismo affermando che si trattava soltanto di una maggioranza occa sionale, perché a La Chaux-de-Fonds erano state rappresentate soltanto quindici sezioni, mentre la sola Ginevra ne aveva trenta, delle quali nessuna o quasi nessuna voleva la sezione dell’Alleanza nella Federa zione romanza. La maggioranza invece sosteneva le proprie ragioni affermando che una sezione accettata dal Consiglio Generale non poteva essere respinta da un Consiglio federale. Sul Vorbote il vecchio Becker asseriva che tutto quello spiacevole chiasso era sorto senza alcun motivo ed era stato provocato da una mancanza di amichevole fraternità dalle due parti; che la sezione dell Alleanza, che sostanzialmente mira va a far propaganda ai propri princìpi, poteva rinunciare a farsi accogliere in una associazione nazionale, tanto più che era considerata uno strumento degli intrighi di Bakunin, da un pezzo malvisto a Ginevra; ma dal momento che essa voleva farsi accogliere lo stesso, era meschino e puerile respingerla a fare della sua accettazione un motivo di scissione.

Ma la questione non era così semplice come pensava Becker. Le risoluzioni prese dai due congressi separati, pur avendo ancora molti punti di contatto, si differenziavano proprio sulla questione decisiva: il contrasto che aveva dato origine agli imbrogli ginevrini. Il congresso della maggioranza rappresentò il pun to di vista dei gros métiers: rinunciava a qualsiasi politica che avesse per scopo soltanto la trasformazione sociale per mezzo di riforme nazionali, ritenendo che ogni Stato politicamente organizzato non fosse al tro che uno strumento per lo sfruttamento capitalistico sulla base del diritto borghese, e che quindi ogni partecipazione del proletariato alla politica borghese servisse a rafforzare il sistema vigente e paralizzasse l’azione proletaria rivoluzionaria. Il congresso della minoranza invece rappresentò il punto di vista della fabrique: condannò l’astensione politica perché dannosa al movimento operaio e raccomandò di parte cipare alle elezioni, non perché questa via potesse portare all’emancipazione della classe operaia, ma perché la rappresentanza parlamentare degli operai era un mezzo di agitazione e di propaganda che dal punto di vista tattico non andava trascurato.

Il nuovo Consiglio federale di La Chaux-de-Fonds reclamò che il Consiglio Generale lo riconoscesse come capo della Federazione romanza. Ma il Consiglio Generale non aderì alla richiesta, e invece il 28 giugno dispose che il Consiglio federale di Ginevra, che aveva dietro di sé la maggioranza delle sezioni ginevrine, conservasse le funzioni che aveva avuto fino allora, e che il nuovo Consiglio federale invece assumesse una qualche denominazione locale. Ma il nuovo Consiglio federale non si piegò a questa decisione che pure era abbastanza equa e che esso stesso aveva provocato; al contrario sollevò vive rimostranze per l’avidità di potere, l’“autoritarismo” del Consiglio Generale; e con ciò fu creata la seconda parola d’ordine (oltre all’astensionismo politico) per l’opposizione all’interno dell’Internazionale.

Il Consiglio Generale da parte sua ruppe ogni collegamento col Consiglio federale di La Chaux-de-Fonds.

    15.8    ​​​Amnistia irlandese e plebiscito francese

L’inverno fra il 1869 e il 1870 fu di nuovo per Marx un periodo di tribolazioni fisiche, ma ormai era almeno fuori dalle preoccupazioni finanziarie. Il 30 giugno 1869 Engels si era liberato dal “bestiale commercio” e già sette mesi prima aveva chiesto a Marx se gli sarebbero bastate 350 sterline annuali; Engels voleva concludere col suo socio accordi che gli permettessero anche di disporre per cinque o sei anni di questa somma per Marx. Dal carteggio di Marx ed Engels non risulta quali fossero gli accordi definitivi; Engels comunque assicurò la situazione economica del suo amico non soltanto per cinque o sei anni, ma fino alla morte di Marx.

In questo periodo il loro interesse politico fu spesso concentrato sulla questione irlandese. Engels la studiò a fondo nei suoi nessi storici, ma purtroppo i risultati di questi studi non sono stati pubblicati; Marx richiamò l’attenzione del Consiglio Generale dell’Internazionale sul movimento irlandese, che reclamava l’amnistia dei feniani condannati senza procedura e trattati in modo infame in carcere. Il Consiglio Generale espresse la sua ammirazione per la fermezza, la generosità e il coraggio con cui il popolo irlandese conduceva questo movimento, e stigmatizzò la politica di Gladstone che nonostante tutte le promesse elettorali rifiu tava l’amnistia o la sottoponeva a condizioni che offendevano le vittime del malgoverno e il popolo irlandese; con la massima asprezza fu rimproverato al primo ministro, di avere in precedenza, nonostante la sua posizione di responsabilità, tributato il suo plauso entusiasta alla ribellione degli schiavisti americani, di predicare ora al popolo inglese la dottrina della sottomissione; gli fu rimproverato tutto il suo atteggiamento nella questione dell’amnistia irlandese, quale autentico e vero prodotto di quella “politica di conquista” che Gladstone aveva bollato a fuoco per cacciare dal governo i suoi avversari tones. Marx scrisse a Kugelmann di avere attaccato Gladstone come aveva fatto un tempo con Palmerston: “i profughi demagoghi di qui amano scagliarsi da sicura distanza contro i despoti continentali. Una tal cosa mi attrae soltanto quando avviene di fronte al tiranno minaccioso”.

Una gioia particolare procurò a Marx il grande successo riportato dalla figlia maggiore in questa campagna irlandese. Poiché la stampa inglese passava ostinatamente sotto silenzio le atrocità consumate contro i feniani carcerati, sotto lo pseudonimo di Williams, che suo padre soleva portare a vent’anni, Jenny Marx mandò alcuni articoli alla Marseillaise di Rochefort, descrivendo a colori accesi il trattamento inflitto nella libera Inghilterra ai condannati politici. Gladstone non poté sostenere queste rivelazioni pubblicate sul giornale forse più letto del continente: alcune settimane dopo la maggior parte dei feniani incarcerati furono liberati e presero la via dell’America.

La Marseillaise si era acquistata una fama europea per avere sferrato i primi attacchi contro l’Impero che si sfasciava da tutte le parti. Al principio del 1870 Bonaparte aveva intrapreso l’ultimo, disperatissimo tentativo per salvare il suo regime, che grondava sangue e lordura, mediante concessioni alla borghesia, nominando primo ministro il chiacchierone liberale Ollivier. Questi tentò con delle sedicenti “riforme” ma, poiché anche in punto di morte, il lupo perde il pelo ma non il vizio, Bonaparte volle che queste “Triforme” avessero la consacrazione schiettamente bonapartista di un plebiscito. Ollivier fu abbastanza debole da sottometter visi, e raccomandò anzi ai prefetti di svolgere una “struggente” attività per la riuscita del plebiscito.  Ma la polizia bonapartista sapeva meglio del fatuo chiacchierone come si fa per far riuscire un plebiscito: alla vigilia del grande e decisivo avvenimento politico essa scoprì un preteso complotto dinamitardo, che sa rebbe stato predisposto da membri dell’Internazionale contro la vita dell’imperatore. Ollivier fu abbastanza vile da piegarsi anche di fronte alla polizia, soprattutto in quanto si trattava di andare contro gli operai; in tutta la Francia vi furono perquisizioni e arresti di sorpresa contro tutti coloro che erano noti come “capi” dell’Internazionale.

Il 3 maggio il Consiglio Generale si affrettò a diramare contro questa montatura una protesta in cui si diceva: “I nostri statuti fanno obbligo a tutte le se2Ìoni della nostra associazione di agire pubblicamente. Anche se gli statuti non fossero chiari su questo punto, il carattere di una associazione che si identifica con la classe operaia escluderebbe ogni possibilità di agire alla maniera delle società segrete. Se le classi operaie cospirano, esse che formano la gran massa di ogni nazione, che producono tutte le ricchezze e nel cui nome persino gli usurpatori pretendono di governare, esse cospirano apertamente, come il sole cospira contro la tenebra, avendo piena coscienza che al di fuori della loro sfera non esiste potere legittimo... I clamorosi atti di violenza contro le nostre sezioni francesi sono esclusivamente calcolati per servire a un solo scopo: la manipolazione del plebiscito”. Così era in realtà, ma l’indegno mezzo raggiunse ancora una volta il suo indegno scopo: l’“impero liberale” fu consacrato da 7 milioni di voti contro un milione e mezzo.

Dopo di che si dovette lasciar cadere la montatura del complotto dinamitardo. La polizia pretendeva di aver trovato presso alcuni membri dell’Internazionale un cifrario in cui non sarebbe riuscita a decifrare nient’altro che qualche nome, come Napoleone, e qualche espressione chimica, come nitroglicerina, ma questa assurdità era troppo enorme per poter essere portata anche davanti a tribunali bonapartisti. L’accusa quindi si ridusse allo stesso preteso reato per cui già due volte erano stati accusati e condannati dei membri francesi dell’Internazionale: partecipazione ad associazioni segrete o non autorizzate.

Dopo una splendida difesa, che questa volta fu condotta dal ramaio Chatain (più tardi membro della Comune di Parigi), il 9 luglio si ebbe una serie di condanne, per la massima parte a un anno di carcere e a un anno di interdizione, ma nello stesso tempo scoppiò la tempesta che spazzò via dalla terra il Secondo Impero.