CAPITOLO 14


Il Capitale



    14.1    ​​​I dolori del parto

Quando Marx si rifiutava di partecipare al Congresso di Ginevra perché il portare a termine la sua opera principale (egli riteneva di aver fatto fino allora soltanto cose da poco) gli sembrava più importante, per la classe operaia, che il partecipare a qualsiasi congresso, egli aveva presente di aver cominciato fin dal primo gennaio la ricopiatura e la limatura del primo volume. E la cosa procedeva alla svelta, perché per lui «naturalmente era un divertimento leccare e lisciare il figliolino, dopo tanti dolori di parto».

Queste doglie erano durate all’inarca un numero di anni doppio rispetto al numero dei mesi che la natura impiega per la generazione di una creatura umana. Marx poteva dire con ragione che forse mai un’opera di questa specie era stata scritta in condizioni più difficili. Si era fissato continuamente un nuovo termine per arrivare in fondo, «in cinque settimane» come nel 1851, o «in sei settimane» come nel 1859, ma questi propositi riuscivano sempre vani di fronte alla sua autocritica spietata e alla sua scrupolosità, che lo spingevano sempre a nuove ricerche e non potevano essere scosse neppur dalle sollecitazioni impazienti del suo più fedele amico.

Alla fine del 1865 aveva portato a termine il lavoro, ma solo nella forma di un gigantesco manoscritto, che così come si presentava allora non poteva essere pubblicato da nessuno, neppure da Engels, tranne che da Marx stesso. Da questa enorme mole, fra il gennaio 1866 e il marzo 1867, Marx estrasse il primo volume del Capitale nella sua classica redazione, come un «tutto artistico», ciò che fornisce anche la prova più luminosa della sua favolosa capacità di lavoro. Infatti questi quindici mesi furono anche occupati da infermità continue e anche pericolosissime, come nel febbraio del 1866; da una accumulazione di debiti che gli «opprimevano il cervello», e da ultimo, dai lavori preparatori per il Congresso di Ginevra dell’Internazionale, che gli portarono via molto tempo.

Nel novembre del 1866 il primo fascio di manoscritti fu spedito a Otto Meissner di Amburgo, un editore di scritti democratici presso il quale Engels aveva già fatto pubblicare il suo opuscolo sulla questione militare prussiana. Alla metà di aprile del 1867 Marx portò di persona ad Amburgo il resto del manoscritto, e trovò in Meissner un «tipo ammodo», con cui, dopo brevi trattative, tutto fu sistemato. Per aspettare le prime bozze della stampa, che veniva fatta a Lipsia, Marx andò a Hannover, a far visita al suo amico Kugelmann, che lo accolse ospitalmente nella sua amabile famiglia. Qui trascorse delle settimane felici, che annovera fra «le più belle e più piacevoli oasi nel deserto della vita». Un po’ contribuirono al suo lieto umore anche il rispetto e la simpatia con cui i circoli colti di Hannover gli andarono incontro, cosa a cui non era affatto abituato; il 24 aprile scrisse a Engels: «Noi due abbiamo però una posizione del tutto diversa da quella che conosciamo, specialmente fra il ceto impiegatizio  colto »[iii]3. Ed Engels rispose, il 27 aprile: «Ho sempre pensato che questo maledetto libro, a cui hai dedicato così lunga fatica, fosse il nocciolo di tutte le tue disgrazie, da cui non saresti uscito né mai avresti potuto uscire fino a quando non te lo fossi scrollato di dosso. Questa eterna cosa incompiuta ti schiacciava fisicamente, spiritualmente e finanziariamente, e posso benissimo concepire che dopo la liberazione da questo incubo a te sembri adesso di essere completamente un altro uomo, specialmente perché il mondo, non appena vi farai di nuovo il tuo ingresso, non t’apparirà così nero come prima»[iv]4. A ciò Engels faceva seguire la sua speranza di essere presto liberato dal «bestiale commercio». Finché vi era dentro — scriveva — non era capace di niente; specialmente da quando era lui il principale, le cose erano peggiorate per via della maggiore responsabilità.

Marx gli rispose il 7 maggio: «Spero e credo fiduciosamente che fra un anno sarò un uomo talmente assestato che potrò mutare da cima a fondo le mie condizioni economiche e finalmente reggermi da solo sulle gambe. Senza di te non avrei mai potuto portare a compimento la mia opera, e t’assicuro che mi ha sempre pesato sulla coscienza come un incubo il fatto che tu dovessi lasciar disperdere ed arrugginire nel commercio la tua straordinaria energia specialmente per causa mia, e per giunta dovessi vivere di continuo con le mie stesse piccole miserie». In realtà Marx non diventò un «uomo assestato» né l’anno successivo né mai, ed Engels dovette sopportare il «bestiale commercio» ancora per alcuni anni, ma l’orizzonte cominciò a rischiararsi.

In questi giorni trascorsi a Hannover Marx, rispondendo con molto ritardo a un suo seguace, l’ingegnere minerario Siegfried Meyer, che fino a quel tempo aveva vissuto a Berlino e in quel periodo si era tra sferito negli Stati Uniti, scriveva in questi termini, che mettono ancora una volta in chiara luce la sua «mancanza di cuore»: «Voi dovete avere una pessima opinione di me, tanto più se vi dico che le vostre lettere non soltanto mi hanno procurato una grande gioia, ma erano per me un vero conforto nel periodo tormentoso in cui le ho ricevute. Il sapere che un uomo di valore, di alti princìpi, è assicurato al nostro partito, mi ricompensa di mali peggiori. Le vostre lettere inoltre erano piene della più gentile amicizia per me personalmente, e comprenderete che io, che mi trovo nella più aspra lotta col mondo (quello ufficiale), meno di ogni altro posso sottovalutare questa gentilezza. Perché dunque non vi ho risposto? Perché ero continuamente sull’orlo della tomba. Per questo dovevo utilizzare ogni momento che potevo dedicare al lavoro, per terminare la mia opera cui ho sacrificato la salute, la felicità della vita e la famiglia. Spero che a questa spiegazione non occorra aggiungere altro. Mi fanno ridere i cosiddetti uomini pratici e la loro saggezza. Se uno sceglie di essere bue, allora può naturalmente voltare le spalle alle sofferenze dell’umanità e occuparsi solo dei fatti propri. Ma io mi considererei veramente un incapace se fossi morto senza avere completamente finito il mio libro, almeno in manoscritto».

Quando un certo avvocato Warnebold, altrimenti sconosciuto, comunicò a Marx il preteso desiderio di Bismarck di mettere a profitto lui e il suo grande talento nell’interesse del popolo tedesco, nel suo umo re sollevato di questi giorni Marx prese seriamente la cosa. Non che provasse entusiasmo per questo allettamento, su cui sarà stato dello stesso parere di Engels : «E’ caratteristico del modo di pensare e delle vedute di quel tipo che egli giudichi tutte le persone da se stesso»; ma giudicando con la freddezza abituale, difficilmente Marx avrebbe creduto all’ambasciata di Warnebold. Nelle condizioni ancora instabili della Confederazione della Germania del Nord, dopo che a stento era stato scongiurato il pericolo di una guerra con la Francia per il commercio del Lussemburgo, era impossibile che Bismarck pensasse di pren dere al suo servizio l’autore del Manifesto comunista, offendendo così ancora una volta la borghesia che era appena passata dalla sua parte e che vedeva già di malocchio i suoi aiutanti Bucher e Wagener.

Non con Bismarck, ma con una parente di Bismarck, Marx ebbe una piccola avventura al suo ritorno a Londra, e la raccontò a Kugelmann con un certo diletto. Sul piroscafo gli si rivolse una signorina, che aveva già notato per il suo portamento militaresco, chiedendogli precise informazioni sulle stazioni ferroviarie londinesi, e risultò che essa doveva aspettare per diverse ore il suo treno; Marx l’aiutò cavallerescamente ad ingannare tutto quel tempo, passeggiando per Hyde Park. «Risultò che era Elisabeth von Puttkamer, nipote di Bismarck, presso il quale aveva passato alcune settimane a Berlino. Aveva con sé il ruolo completo dell’armata, poiché questa famiglia provvede abbondantemente il nostro esercito di uomini d’onore e di bella presenza. Era una ragazza vispa e colta, ma aristocratica e nero-bianca fino alla punta delle dita. Rimase non poco stupita quando venne a sapere di esser caduta in mani rosse». Ma la signorina non perse per questo il buonumore. In una graziosa letterina, piena di «filiale rispetto», esprimeva .la sua «cordialissima gratitudine» al suo. cavaliere per tutte le premure che aveva avuto per lei, «creatura inesperta», e anche i suoi genitori facevano scrivere per mezzo di lei di essere lieti di sapere che in viaggio si trovavano ancora persone gentili.

A Londra Marx finì le correzioni del suo libro. Anche questa volta non mancò, all’occasione, una lagnanza per la lentezza della stampa, ma il 16 agosto 1867, alle due di notte, potè già annunciare a Engels di aver finito proprio allora di correggere l’ultimo (49◦) foglio di stampa. «Dunque questo volume è pronto. Debbo soltanto a te, se questo fu possibile! Senza il tuo sacrificio non avrei potuto compiere il mostruoso lavoro dei tre volumi. Ti abbraccio, pieno di gratitudine! Salute, mio caro, caro amico!».

    14.2    ​​​Il primo volume

Nel primo capitolo della sua opera Marx riassunse di nuovo ciò che aveva esposto nella sua opera del 1859 sulla merce e il denaro. Ciò fece non solo per desiderio di completezza, ma perché anche delle persone di talento non avevano del tutto capito le cose, e quindi doveva esservi qualche difetto nell’esposizione, specialmente nell’analisi della merce.

Nel numero di quelle persone di talento non c’erano certo i dotti tedeschi, che hanno condannato proprio il primo capitolo del Capitale per la sua «mistica oscura». «A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non ce nulla di misterioso in essa... Quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare». Di ciò si ebbero a male tutte le teste di legno che producono in gran quantità sottigliezze metafisiche e capricci teologici, ma che non sanno produrre una cosa così sensibile come può essere un ordinario tavolo di legno.

In realtà questo primo capitolo, considerato da un punto di vista puramente letterario, è fra le cose più notevoli che Marx abbia scritto. Seguiva poi la ricerca su come il denaro si trasforma in capitale. Se nella circolazione delle merci si scambiano fra loro valori uguali, com’è possibile che il possessore di denaro compri delle merci al loro valore e le venda al loro valore e ricavi tuttavia più valore di quanto ne aveva impiegato? Ciò è possibile poiché negli attuali rapporti sociali egli trova sul mercato una merce di un carattere così singolare che il suo consumo è fonte di nuovo valore. Questa merce è la forza-lavoro. Essa esiste nella forma del lavoratore vivente, che per la sua esistenza e per il mantenimento della sua famiglia, che assicura la continuità della forza-lavoro anche dopo la sua morte, ha bisogno di una certa somma di mezzi di sussistenza. Il tempo di lavoro necessario per la produzione di questi mezzi di sussistenza rappresenta il valore della forza-lavoro. Ma questo valore pagato nel salario è molto inferiore al valore che il compratore della forza-lavoro da essa può trarre. Il pluslavoro del lavoratore, compiuto oltre il tempo necessario per compensare il suo salario, è la fonte del plusvalore, dell’ingrossamento sempre crescente del capitale. Il lavoro non pagato del lavoratore mantiene tutti i membri della società che non lavorano; su di esso poggia l’intera situazione sociale nella quale noi viviamo.

Il lavoro non pagato non è, in sé, una particolarità della moderna società borghese. Da quando esistono classi possidenti e classi non possidenti, la classe che non possiede ha sempre dovuto fornire lavoro non pagato. Da quando una parte della società possiede il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o non libero, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento un tempo di lavoro eccedente, per produrre i mezzi di sussistenza per i proprietari dei mezzi di produzione. Il lavoro salariato è soltanto una particolare forma storica del sistema del lavoro non pagato, che domina fin da quando esiste la divisione in classi, una particolare forma storica che deve essere presa in esame come tale, per essere rettamente intesa.

Per trasformare il denaro in capitale, il possessore di denaro deve incontrare sul mercato il lavoratore libero, libero nel duplice senso che disponga come persona libera della sua forza-lavoro come propria merce e che non abbia da vendere altre merci, che sia libero da tutte le cose necessarie per realizzare la sua forza-lavoro. Questo non è un rapporto risultante dalla storia naturale, perché la natura non produce da una parte possessori di denaro o di merci e dall’altra puri e semplici possessori della propria forza-lavoro. E non è neppure un rapporto sociale che sia comune a tutti i periodi della storia, ma il risultato di un lungo svolgimento storico, il prodotto di molti rivolgimenti economici, del tramonto di tutta una serie di formazioni più antiche della produzione sociale.

La produzione delle merci è il punto di partenza del capitale. La produzione delle merci, la circolazione delle merci e la circolazione sviluppata delle merci, cioè il commercio, costituiscono i presupposti storici del suo nascere. Dalla creazione del commercio mondiale e del mercato mondiale moderno nel secolo XVI data la storia moderna della vita del capitale. L’illusione dell’economista volgare, che vi fossero una volta una élite operosa che accumulava ricchezze, e una massa di straccioni oziosi, ( che alla fine non avevano altro da vendere che la loro propria pelle, è mia sciocca puerilità: una puerilità tanto sciocca quanto la semioscurità in cui gli storici borghesi rappresentano la dissoluzione del modo feudale di produzione come emancipazione del lavoratore, e non come trasformazione, in pari tempo, del modo di produzione feudale nel modo ili produzione capitalistico. Quando i lavoratori cessarono di far parte direttamente dei mezzi di produzione, come schiavi e servi, i mezzi di produzione cessarono di appartenere a loro, come al contadino e all’artigiano indipendente. Mediante una serie di metodi violenti e crudeli, che Marx descrive diffusamen te, desumendoli dalla storia inglese, nei capitolo sull’accumulazione originaria, la gran massa del popolo fu privata della terra, dei mezzi di sussistenza e degli strumenti di lavoro. Così sorsero i lavoratori liberi di cui il modo di produzione capitalistico ha bisogno: venne al mondo il capitale, grondante sangue e lordura da tutti i pori, da capo a piedi. Appena potè reggersi da sé, esso non soltanto ottenne la separazione fra il lavoratore e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro, ma la riprodusse su scala sempre crescente.

Il lavoro salariato si distingue dalle specie più antiche di lavoro non pagato per il fatto che il movimento del capitale non conosce limiti, la sua bramosia di pluslavoro è insaziabile. Nelle formazioni economiche delle società in cui prevale il valore d’uso e non il valore di scambio del prodotto, il pluslavoro è limitato da una cerchia più o meno larga di bisogni, ma dal modo di produzione non deriva una necessità illimitata di pluslavoro. Diversamente vanno le cose là dove prevale il valore di scambio. Come produttore di laborio sità altrui, come pompatore di pluslavoro e sfruttatore di forza-lavoro, il capitale sopravanza per energia, smisuratezza e vigore tutti i precedenti processi di produzione fondati direttamente sul lavoro forzato. Ad esso non interessa il processo lavorativo, la creazione dei valori d’uso, ma il processo di valorizzazione, la produzione di valori di scambio, da cui può cavare più valore di quanto ne abbia immesso. La fame di plusvalore non conosce sazietà; per la produzione dei valori di scambio non esistono quei limiti che per la produzione dei valori d’uso sono fissati nella soddisfazione dei bisogni.

Come la merce è unità di valore d’uso e valore di scambio, così il processo di produzione della merce è unità di processo lavorativo e processo di formazione di valore. Il processo di formazione di valore dura fino al momento in cui il valore della forza-lavoro pagato col salario è sostituito da un valore equivalente. Da questo punto in poi diventa processo di formazione del plusvalore, processo di valorizzazione. Come unità di processo lavorativo e di processo di valorizzazione, esso diventa processo di produzione capitalistico, forma capitalistica di produzione delle merci. Nel processo lavorativo concorrono forza-lavoro e mezzi di produzione; nel processo di valorizzazione le stesse parti costitutive del capitale appaiono come capitale costante e capitale variabile. Il capitale costante si converte in mezzi di produzione, in materia prima, ma teriali ausiliari e mezzi di lavoro, e non cambia la propria grandezza di valore nel processo di produzione. Il capitale variabile si converte in forza-lavoro e cambia il suo valore nel processo di produzione; riproduce il suo equivalente e inoltre produce un’eccedenza, il plusvalore, che a sua volta può variare, può essere più grande o più piccolo. Così Marx si apre la strada per la ricerca sul plusvalore, di cui trova due forme, il plusvalore assoluto e il plusvalore relativo, che hanno avuto una parte diversa ma parimente decisiva nella storia del modo di produzione capitalistico.

Il plusvalore assoluto è prodotto quando il capitalista prolunga il tempo di lavoro oltre il tempo necessario per la riproduzione della forza-lavoro. Se le cose andassero secondo i suoi desideri, la giornata lavorativa sarebbe di ventiquattrore, dato che egli produce un plusvalore tanto maggiore quanto più lunga è la giornata lavorativa. Il lavoratore, viceversa, sente giustamente che ogni ora di lavoro da lui compiuta di là dalla compensazione del salario gli è illegittimamente sottratta; egli è costretto a provare sul suo stesso corpo che cosa significa lavorare per un tempo troppo lungo. La lotta per la durata della giornata lavorativa dura dal primo apparire di liberi lavoratori fino al giorno d’oggi. Il capitalista lotta per il suo profitto, ed è costretto dalla concorrenza (non importa se egli sia come individuo una nobile persona o un cattivo soggetto) a protrarre la giornata lavorativa fino ai limiti estremi della resistenza umana. Il lavoratore lotta per la sua salute, per qualche ora di riposo quotidiano, per poter vivere da uomo anche altrimenti che lavorando, mangiando, dormendo. Marx descrive in maniera efficacissima la guerra civile di mezzo secolo che la classe dei capitalisti e la classe operaia hanno combattuto in Inghilterra, a cominciare dalla nascita della grande industria, che spinse i capitalisti ad infrangere tutti i limiti che la natura e i costumi, l’età e il sesso, il giorno e la notte opponevano allo sfruttamento del proletariato, fino alla promulgazione del bill delle dieci ore, che gli operai si conquistarono come potentissima barriera sociale che impedisce a loro stessi di vender sé e la loro schiatta alla morte e alla schiavitù, per mezzo di un volontario contratto col capitale.

Il plusvalore relativo è prodotto quando il tempo di lavoro necessario per la riproduzione della forza-lavoro è abbreviato a vantaggio del plus-lavoro. Il valore della forza-lavoro viene abbassato facendo salire la forza produttiva del lavoro in quei rami dell’industria i cui prodotti determinano il valore della forza-lavoro. A questo scopo è necessario un continuo rivoluzionamento del modo di produzione, delle condizioni tecniche e sociali del processo lavorativo. Le indagini storiche, economiche, tecnologiche, socialpsicologiche che Marx offre a questo punto, in una serie di capitoli che trattano della cooperazione, della divisione del lavoro e della manifattura, delle macchine e della grande industria, sono state riconosciute anche da parte borghese come una miniera di scienza.

Marx non soltanto dimostra che le macchine e la grande industria hanno creato una miseria più spaven tosa di qualsiasi precedente modo di produzione, ma dimostra anche che esse nel loro ininterrotto rivolu zionamento della società capitalistica preparano una forma sociale superiore. La legislazione sulle fab briche è la prima reazione consapevole e pianificata della società alla forma innaturale assunta dal suo processo di produzione. Regolando il lavoro nelle fabbriche e nelle manifatture, essa appare soltanto, in un primo tempo, come un intervento nei diritti di sfruttamento del capitale.

Ma la forza dei fatti la costringe subito a regolare anche il lavoro a domicilio e a intervenire contro l’auto rità dei genitori, riconoscendo in tal modo che la grande industria, dissolvendo il fondamento economico della vecchia famiglia e del lavoro familiare che ad esso corrispondeva, dissolve anche i vecchi rapporti familiari. «Per quanto terribile e repellente appaia la dissoluzione della vecchia famiglia entro il sistema capitalistico, cionondimeno la grande industria crea il nuovo fondamento economico per una forma supe riore della famiglia e del rapporto fra i due sessi, con la parte decisiva che essa assegna alle donne, agli adolescenti e ai bambini d’ambo i sessi nei processi di produzione socialmente organizzati al di là della sfera domestica. Naturalmente è altrettanto sciocco ritenere assoluta la forma cristiano-germanica della famiglia, quanto ritenere assoluta la forma romana antica o la greca antica, oppure quella orientale, che del resto formano fra di loro una serie storica progressiva. E’ altrettanto evidente che la composizione del personale operaio combinato con individui d’ambo i sessi e delle età più differenti, benché nella sua forma spontanea e brutale cioè capitalistica, dove l’operaio esiste in funzione del processo di produzione e non il processo di produzione per l’operaio, sia pestifera fonte di corruzione e di schiavitù, non potrà viceversa non rovesciarsi, in circostanze corrispondenti, in fonte di sviluppo di qualità umane»[i]11. La macchina, che degrada l’operaio fino o farne un suo semplice accessorio, crea nello stesso tempo la possibilità di far salire le forze produttive della società fino a un punto che renderà possibile uno sviluppo ugualmente umano per tutti i membri della società, per il quale tutte le forme sociali precedenti erano troppo povere.

Dopo aver preso in esame la produzione del plusvalore assoluto e relativo, Marx dà la prima teoria razionale del salario che la storia della economia politica conosca. Il prezzo di una merce è il suo valore espresso in denaro, e il salario è il prezzo della forza-lavoro. Sul mercato delle merci si presenta non il lavoro, ma il lavoratore, che offre in vendita la sua forza-lavoro, e il lavoro ha origine soltanto con il consumo della merce forza-lavoro. Il lavoro è la sostanza e la misura immanente dei valori, ma di per sé non ha alcun valore. Eppure sembra che nel salario venga pagato il lavoro, perché il lavoratore ottiene il suo salario soltanto dopo aver compiuto il lavoro. La forma del salario dissolve ogni traccia della divisione della giornata lavorativa in lavoro pagato e non pagato. E’ il contrario di ciò che avviene con gli schiavi. Lo schiavo sembra lavorare soltanto per il suo padrone, anche in quella parte della giornata lavorativa in cui non fa che reintegrare il valore dei propri mezzi di sussistenza; tutto il suo lavoro appare come lavoro non pagato. Nel lavoro salariato, al contrario, anche il lavoro non pagato appare come lavoro pagato. Là il rapporto di proprietà cela il lavoro che lo schiavo compie per se stesso, qui il rapporto monetario cela il lavoro che l’operaio sala riato compie senza alcuna retribuzione. Si comprende quindi — dice Marx — l’importanza decisiva che ha la metamorfosi del valore e del prezzo della forza-lavoro nella forma di salario, ossia in valore e prezzo del lavoro stesso. Su questa forma fenomenica, che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche dell’operaio e del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le illusioni sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche dell’economia volgare.

Le due forme fondamentali del salario sono il salario a tempo e il salario a cottimo. A proposito delle leggi del salario a tempo, Marx dimostra in particolare la vacuità interessata delle frasi secondo cui in seguito alla limitazione della giornata lavorativa il salario dovrebbe essere abbassato. E’ vero proprio l’opposto. Una riduzione momentanea della giornata lavorativa abbassa il salario, ma una riduzione duratura lo aumenta; quanto più lunga è la giornata lavorativa, tanto più basso è il salario.

Il salario a cottimo non è altro che una forma mutata del salario a tempo: è la forma di salario che più corrisponde al modo di produzione capitalistico. Esso acquista un campo d’azione maggiore durante il periodo della manifattura vera e propria, e negli anni di impeto e slancio della grande industria inglese servì di leva per il prolungamento del tempo di lavoro e per le riduzioni del salario. Il salario a cottimo è vantaggiosissimo per il capitalista, perché rende in gran parte superflua la sorveglianza del lavoro e per di più offre le più svariate occasioni di detrazioni sul salario e simili truffe. Per gli operai invece porta con sé grandi svantaggi: consunzione per eccesso di lavoro, che dovrebbe far salire il salario, mentre in realtà tende a farlo diminuire, aumentata concorrenza fra i lavoratori e indebolimento del loro senso di solidarietà, inserimento di parassiti fra capitalisti e lavoratori, di intermediari che sottraggono una parte considerevole del salario pagato, e altro ancora.

Il rapporto fra plusvalore e salario fa sì che il modo di produzione capitalistico non solo riproduce continua mente al capitalista il suo capitale, ma anche riproduce sempre di nuovo la miseria degli operai: da una parte i capitalisti che sono i possessori di tutti i mezzi di sussistenza, di tutti i prodotti grezzi e di tutti gli strumenti di lavoro, dall’altra parte l’enorme massa degli operai, che è costretta a vendere a questi capita listi la sua forza-lavoro, per un quantum di mezzi di sussistenza che nel migliore dei casi basta giusto per conservarli idonei al lavoro e per allevare una nuova generazione di proletari idonei al lavoro. Ma il capitale non si riproduce semplicemente, ma si ingrandisce e si moltiplica continuamente; a questo « processo di accumulazione» Marx dedica l’ultima sezione del primo volume.

Non soltanto il plusvalore scaturisce dal capitale, ma il capitale scaturisce anche dal plusvalore. Una parte del plusvalore prodotto annualmente viene consumata come reddito dalle classi possidenti fra cui esso è ripartito, ma un’altra parte è accumulata come capitale. Il lavoro non pagato che è stato pompato dalla classe operaia, serve ora come mezzo per pompare da essa sempre più lavoro non pagato. Nella corrente della produzione ogni capitale originariamente anticipato diventa una grandezza impercettibile, se confrontato col capitale direttamente accumulato, cioè col plusvalore o col plusprodotto ritrasformato in capitale, venga esso impiegato dalla mano che l’ha accumulato o da altre mani. La legge della proprietà privata che si fonda sulla produzione e sulla circolazioni delle merci, si cambia per la propria interna, inevitabile dialettica nel suo diretto contrario. Le leggi della produzione delle merci sembrano fondare il diritto di proprietà sul proprio lavoro. Si avevano di fronte possessori di merci con eguali diritti; il mezzo di appropriarsi la merce altrui era soltanto l’alienazione della propria merce, e la propria merce poteva essere prodotta soltanto per mezzo del lavoro. Ora la proprietà, dalla parte del capitalista, appare come il diritto di appropriarsi lavoro altrui non pagato o il suo prodotto; dalla parte dell’operaio, come l’impossibilità di appropriarsi il proprio prodotto.

Quando i proletari moderni cominciarono a scoprire questi nessi, quando il proletariato urbano di Lione suonò la campana a martello, e in Inghilterra il proletariato rurale fece spiccare il volo al «gallo rosso», allora gli economisti volgari scoprirono la «teoria dell’astinenza», secondo cui il capitale ha origine per l’«astinenza volontaria» dei capitalisti, teoria che Marx sferzò così spietatamente come Lassalle aveva fatto prima di lui. Ma quello che in realtà contribuisce all’accumulazione del capitale è l’«astinenza» forzata degli operai, l’abbassamento violento del salario al disotto del valore della forza-lavoro, allo scopo di trasformare in parte il necessario fondo di consumo degli operai in un fondo di accumulazione di capitale. Qui hanno la loro vera origine gli alti lamenti sulla vita «sontuosa» degli operai, le litanie senza fine su quella bottiglia di spumante che dei muratori avrebbero una volta bevuto a colazione, le ricette a buon mercato di riformatori sociali cristiani e tutto ciò che appartiene a questo campo della polemica capitalistica.

La legge generale dell’accumulazione capitalistica è la seguente. L’aumento del capitale comprende l’au mento della sua parte variabile, ossia quella convertita in forza-lavoro. Se la composizione del capitale resta invariata, e una determinata quantità di mezzi di produzione richiede sempre la stessa quantità di forza-lavoro per essere messa in movimento, evidentemente la richiesta di lavoro e il fondo di sussistenza degli operai aumentano in proporzione col capitale, e cioè con tanto maggiore rapidità quanto più rapi damente aumenta il capitale. Come la riproduzione semplice riproduce continuamente lo stesso rapporto capitalistico, l’accumulazione riproduce il rapporto capitalistico in grado allargato: più capitalisti o più gran di capitalisti da questa parte, più salariati dall’altra. Accumulazione di capitale dunque è incremento di proletariato, che nel caso supposto avviene nelle condizioni più favorevoli per gli operai. Del loro crescente plusprodotto, che si trasforma in misura sempre crescente in nuovo capitale, una parte più grande ritorna a loro in forma di mezzi di pagamento, così che essi estendono la cerchia dei loro godimenti, e possono rifornire meglio il loro fondo di consumo di vestiti, mobili ecc. Ma ciò non tocca il rapporto di dipendenza in cui si trovano, né più né meno di quanto uno schiavo ben vestito e ben nutrito cessi di essere uno schiavo. Essi debbono sempre fornire un determinato quantum di lavoro non retribuito, che può ridursi, ma mai fino al punto da mettere in serio pericolo il carattere capitalistico del processo di produzione. Se i salari salgo no oltre a questo punto, ottundono il pungolo del guadagno e si rilassa l’accumulazione di capitale, finché i salari scendono di nuovo fino a un livello che corrisponda ai suoi bisogni di valorizzazione.

Ma la catena d’oro che l’operaio si fabbrica da sé si allenta e si alleggerisce solo quando nell’accumulazio ne del capitale resta invariato il rapporto fra la sua parte costante e la variabile. Ma in realtà col progresso dell’accumulazione si compie una grande rivoluzione in quella che Marx chiama composizione organica del capitale. Il capitale costante aumenta a spese del capitale variabile; la crescente produttività del lavoro fa sì che la massa dei mezzi di produzione cresca più rapidamente della massa di forza-lavoro in essi incorporata; la richiesta di lavoro non cresce di pari passo con l’accumulazione del capitale, ma in pro porzione diminuisce. Lo stesso effetto ha in forma diversa la concentrazione del capitale che si compie, indipendentemente dalla sua accumulazione, per il fatto che le leggi della concorrenza capitalistica portano all’inghiottimento del piccolo capitale da parte del grande capitale. Mentre il capitale addizionale forma to nel procedere dell’accumulazione impiega sempre meno operai, in proporzione alla sua grandezza, il vecchio capitale riprodotto nella nuova composizione respinge da sé un numero sempre maggiore degli operai che esso prima impiegava. Così ha origine una sovrappopolazione relativa, vale a dire eccedente i bisogni di valorizzazione del capitale, un esercito industriale di riserva che viene impiegato irregolarmente in periodi di affari cattivi o mediocri e pagato al disotto del valore della sua forza-lavoro, o viene affidato alla carità pubblica, ma che in tutti i casi serve a paralizzare la forza di resistenza degli operai occupati e a tener bassi i loro salari.

Oltre ad essere un prodotto necessario dell’accumulazione ossia dello sviluppo della ricchezza su ba se capitalistica, l’esercito industriale di riserva diventa anche, all’inverso, la leva del modo di produzione capitalistico. Insieme con l’accumulazione e lo sviluppo della forza produttiva del lavoro che l’accompagna, cresce la forza improvvisa d’espansione del capitale, che ha bisogno di grandi masse umane, per gettarle all’improvviso e senza detrimento della scala produttiva in altre sfere, su nuovi mercati o in nuovi rami di produzione. Il caratteristico corso dell’industria moderna, la forma di un ciclo decennale, interrotto da pic cole fluttuazioni, di periodi di media vitalità, di produzione ad alta pressione, di crisi e stagnazione, poggia sulla formazione costante, sul maggiore o minore assorbimento e sulla riformazione dell’esercito industriale di riserva. Quanto maggiore la ricchezza sociale, il capitale in funzione, le dimensioni e l’energia della sua crescita, e per conseguenza anche la grandezza assoluta della popolazione operaia e la produttività del suo lavoro, tanto maggiore la sovrappopolazione relativa o esercito industriale di riserva. La sua grandezza relativa cresce di pari passo con la potenza della ricchezza. Ma quanto maggiore è l’esercito industriale di riserva in rapporto all’esercito dei lavoratori attivi, tanto più numerosi sono gli strati operai la cui miseria sta in rapporto inverso con le tribolazioni del loro lavoro. Infine quanto maggiore è lo strato di lazzari nella classe operaia e l’esercito industriale di riserva, tanto maggiore è il pauperismo ufficiale. Questa è la legge generale assoluta dell’accumulazione capitalistica.

Da essa deriva anche la sua tendenza storica. Di pari passo con la accumulazione e la concentrazione del capitale si sviluppa in gradi sempre crescenti la forma cooperativa del processo lavorativo, l’impiego tecnologico cosciente della scienza, lo sfruttamento comune e pianificato della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro impiegabili solo in comune e l’economizzazione di tutti i mezzi di pro duzione mediante il loro impiego come mezzi comuni di produzione di lavoro sociale combinato. Mentre diminuisce continuamente il numero di magnati capitalisti, che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della oppressione, dell’asservimento, della degradazione, dello sfruttamento, ma anche la ribellione della classe operaia sempre più numerosa e disciplinata, unita e organizzata essa stessa dal meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio capitalistico diventa la catena che si stringe intorno al modo di produzione capitalistico, che con esso e sotto di esso è fiorito.  La concentrazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro arrivano a un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Scocca l’ora della proprietà privata capitalistica, gli espropriatori vengono espropriati.

La proprietà individuale, fondata sul proprio lavoro, viene restaurata, ma sulla base delle conquiste del l’era capitalistica: come cooperazione di liberi lavoratori e come loro proprietà collettiva della terra e dei mezzi di produzione prodotti col lavoro stesso. Naturalmente la trasformazione in proprietà collettiva della proprietà capitalistica, che di fatto è già fondata su un esercizio produttivo collettivo, è di gran lunga meno penosa, dura e difficile della trasformazione in proprietà capitalistica della proprietà dispersa, fondata sul proprio lavoro individuale. Qui si trattava dell’espropriazione delle grandi masse popolari da parte ili pochi usurpatori, là si tratterà dell’espropriazione di pochi usurpatori da parte delle masse popolari.

    14.3    ​​​Il secondo e terzo volume

Il secondo e il terzo volume del Capitale subirono le stesse vicende che erano toccate al primo: Marx sperava di poterli pubblicare subito dopo che era uscito il primo, ma passarono lunghi anni, e non gli riuscì più portarli al punto da poter essere stampati.

Studi sempre nuovi e sempre più profondi, malattie penose e infine la morte gli impedirono di terminare tutta l’opera, e così Engels mise insieme i due volumi dei manoscritti incompiuti che il suo amico aveva lasciato. Erano minute, abbozzi, appunti, ora parti estese e continue, ora brevi annotazioni, quali uno studioso fa per proprio uso: un lavoro teorico immenso che si estese, con prolungate interruzioni, per il lungo periodo di tempo fra il 1861 e il 1878.


Queste circostanze ci fanno capire che nei due ultimi volumi del Capitale dobbiamo cercare non una solu zione pronta e compiuta di tutti i più importanti problemi di economia politica, ma in parte soltanto l’impo stazione di questi problemi, e inoltre indicazioni sulla direzione da seguire per cercarne la soluzione. Come tutta la concezione del mondo di Marx, anche la sua opera principale non è una Bibbia, con verità inap pellabili pronte e valide una volta per sempre, ma una fonte inesauribile di incitamento ad ulteriore lavoro teorico, a ulteriori ricerche e lotte per la verità.

Quelle stesse circostanze ci spiegano come mai anche esteriormente, nella forma letteraria, il secondo e terzo volume non sono così compiuti come il primo, non hanno lo stesso spirito lampeggiante e scintillante. Eppure proprio come nuda elaborazione di pensiero, incurante di ogni forma, essi offrono a molti lettori un godimento ancora più alto del primo volume. Nonostante che fino ad ora, purtroppo, non si sia tenuto conto di essi in nessuna opera di divulgazione, e quindi siano rimasti sconosciuti alla grande massa degli operai colti, per il loro contenuto questi due volumi costituiscono un’integrazione essenziale e un ulteriore sviluppo del primo volume, indispensabile per la comprensione di tutto il sistema.

Nel primo volume Marx tratta della questione cardinale dell’economia politica: donde ha origine l’arricchi mento, dov’è la fonte del profitto? La risposta a questa domanda, prima dell’intervento di Marx, era data secondo due direzioni diverse.

I difensori «scientifici» del migliore dei mondi nel quale viviamo, uomini che in parte, come Schul ze-Delitzsch, godevano considerazione e fiducia anche presso gli operai, spiegavano la ricchezza capi talistica mediante tutta una serie di giustificazioni più o meno plausibili, e di astute manipolazioni: come il frutto di un sistematico aumento di prezzo sulle merci, a titolo di «risarcimento» dell’imprenditore per il capitale da lui generosamente « ceduto» per la produzione, come indennità per il «rischio» che corre ogni imprenditore, come compenso per la «direzione spirituale» dell’impresa, e così via. Secondo queste spiegazioni ciò che importava era solo di presentare la ricchezza degli uni, e quindi anche la povertà degli altri, come qualche cosa di « legittimo», e dunque di immutabile.

Dall’altra parte i critici della società borghese, cioè la scuola dei socialisti venuti prima di Marx, spiegavano l’arricchimento dei capitalisti per lo più come schietta truffa, anzi come furto a danno degli operai, reso possibile per l’intervento del denaro o per mancanza di organizzazione del processo di produzione. Pren dendo le mosse da questi giudizi, quei socialisti arrivarono a formulare diversi piani utopistici, sul modo di abolire lo sfruttamento mediante l’abolizione del denaro, mediante l’«organizzazione del lavoro», e così via.

Nel primo volume del Capitale Marx scopre la reale radice dell’arricchimento capitalistico. Non è questione per lui di motivi di giustificazione per i capitalisti, né di accuse contro la loro ingiustizia: Marx mostra per la prima volta come ha origine il profitto e come va a finire nelle tasche dei capitalisti. Ciò egli spiega mediante due decisivi dati di fatto economici: primo, che la massa degli operai è costituita di proletari, che devono vendere la loro forza-lavoro come merce; secondo, che questa merce forza-lavoro possiede oggi un grado di produttività così alto che può fornire, in un determinato tempo, un prodotto molto maggiore di quanto è necessario al proprio sostentamento durante questo tempo. Questi due dati di fatto, puramente economici e in pari tempo forniti dall’obiettivo sviluppo storico, portano con sé che il frutto prodotto dal lavoro del proletario cade spontaneamente in tasca al capitalista, si accumula meccanicamente col perdurare del sistema del salario fino a diventare un patrimonio capitalistico sempre più immenso.

Marx dunque spiega l’arricchimento capitalistico non come una qualche indennità del capitalista per imma ginari sacrifici e benefici, e neppure come truffa e furto nel senso corrente della parola, ma come un affare, uno scambio fra capitalista e operaio, pienamente legittimo secondo il diritto penale, che è regolato proprio con le stesse leggi che regolano qualsiasi altra compra e vendita di merci. Per mettere bene in chiaro questo affare irreprensibile, che reca frutti doro al capitalista, Marx dovette svolgere a fondo e applicare alla merce forza-lavoro la legge del valore fissata dai grandi classici inglesi alla fine del XVIII secolo e al principio del XIX, cioè la spiegazione delle leggi interne dello scambio delle merci. La legge del valore, da cui è dedotto il salario e il plusvalore, cioè la spiegazione di come il prodotto del lavoro salariato si ripartisca da sé, senza truffa violenta, in un tenore di vita miserevole per l’operaio e nella ricchezza senza lavoro del capitalista: questo è il contenuto principale del primo volume del Capitale. E in questo sta il grande significato storico di questo volume: esso ha dimostrato che lo sfruttamento potrà essere eliminato soltanto ed esclusivamente con l’abolizione della vendita della forza-lavoro, vale a dire del sistema del salario.

Nel primo volume del Capitale ci troviamo per tutto il tempo sul luogo del lavoro: in una singola fabbrica, nella miniera o in una moderna azienda agricola. Ciò che qui viene spiegato, vale per ogni impresa capi talistica. E’ il singolo capitale come tipo dell’intero modo di produzione col quale soltanto abbiamo a che fare. Quando chiudiamo il libro, il quotidiano nascere del profitto ci è chiaro, il meccanismo dello sfrutta mento è illuminato in profondità. Stanno di fronte a noi montagne di merci di ogni sorta, come escono direttamente dalla fabbrica, ancora umide del sudore degli operai, e in tutte possiamo nettamente distin guere la parte del loro valore che proviene dal lavoro non pagato del proletario e che finisce in possesso del capitalista legittimamente, come tutta la merce. Qui noi tocchiamo con mano la radice dello sfruttamento.

Ma con ciò la messe del capitalista non è ancora stata messa nel granaio. Il frutto dello sfruttamento esiste, ma ancora in forma tale che l’imprenditore non ne può godere. Finché lo possiede sotto forma di merci ammucchiate, il capitalista non può rallegrarsi dello sfruttamento. Egli non è, appunto, il proprietario di schiavi del mondo antico, grecoromano, né il signore feudale del Medio Evo, che angariavano il popolo lavoratore soltanto per il proprio lusso e per le loro grandi corti. Il capitalista ha bisogno della sua ricchezza in denaro sonante, onde ingrossare continuamente il suo capitale, oltre che per mantenere il «tenore di vita conforme alla sua condizione». Per questo è necessario vendere le merci prodotte dal salariato, insieme col plusvalore che vi è riposto. La merce deve essere portata dal magazzino della fabbrica o dal granaio dell’azienda agricola al mercato, il capitalista la segue dall’ufficio alla borsa, nelle botteghe, e noi seguiamo lui nel secondo volume del Capitale.

Nel campo dello scambio delle merci, in cui si svolge il secondo capitolo della vita del capitalista, sorgono per lui parecchie difficoltà. Nella sua fabbrica, nella sua fattoria, il padrone era lui. Dominavano là la più rigida organizzazione, disciplina e pianificazione. Sul mercato delle merci invece domina anarchia comple ta, la cosiddetta libera concorrenza. Qui nessuno si occupa dell’altro, e nessuno si occupa dell’insieme. Eppure proprio attraverso questa anarchia il capitalista sente di dipendere sotto tutti i rispetti da altri, dalla società.

Deve stare al passo con tutti i suoi concorrenti. Se fino alla vendita definitiva delle sue merci perde più tempo di quello che sarebbe strettamente richiesto, se non si provvede di denaro sufficiente per acquistare al momento giusto le materie prime e tutto il necessario affinché l’impresa nel frattempo non subisca interruzioni, se non ha cura che il suo denaro, appena lo ha ripreso in mano dopo la vendita delle merci, non resti inattivo, ma sia messo a profitto da qualche parte, se non fa tutto questo il capitalista è sorpassato dagli altri. L’ultimo è morso dai cani, e il singolo imprenditore che non fa attenzione che i suoi affari, nel continuo andare e venire dalla fabbrica al mercato delle merci, vadano bene come nella fabbrica stessa, per quanto possa sfruttare coscienziosamente i suoi operai non potrà però arrivare al profitto usuale. Una parte del suo profitto «ben acquistato» andrà a finire chissà dove, ma non certo nelle sue tasche.

Non basta. Il capitalista può accumulare ricchezze soltanto se produce merci d’uso. Ma deve produrre proprio quelle specie e quei tipi di cui la società ha bisogno, e solo nella quantità di cui la società ha bisogno. Altrimenti le merci restano invendute e il plusvalore che vi è riposto va di nuovo in fumo. Ma come può sapere tutto ciò il singolo capitalista? Nessuno gli dice di quali e quanti beni di consumo la società volta per volta ha bisogno, appunto perché nessuno lo sa. Noi viviamo appunto in una società disordinata, anarchica! Ogni singolo imprenditore si trova nella stessa situazione. Eppure da questo caos, da questa confusione deve sorgere un qualche insieme che renda possibile tanto il singolo affare dei capitalisti e il loro arricchimento, quanto il soddisfacimento dei bisogni della società nel suo complesso e la continuazione della sua esistenza.

In termini più precisi, dalia confusione che regna nel caos del mercato si deve ricavare prima di tutto la pos sibilità della rotazione costante del capitale, la possibilità di produrre, di vendere, di comprare e di tornare a produrre, processo in cui il capitale muta continuamente la sua forma, da denaro a merce e viceversa: queste fasi devono armonizzarsi luna con l’altra, il denaro deve essere a disposizione come riserva, per approfittare di ogni congiuntura del mercato favorevole alla compera, per coprire le spese ordinarie dell’a zienda; d’altra parte il denaro che progressivamente rifluisce a misura che le merci vengono vendute deve poter ritornare subito ad essere attivo. A questo punto i singoli capitalisti, che in apparenza sono del tutto indipendenti fra loro, si stringono già, di fatto, in una grande fratellanza, anticipandosi continuamente l’un l’altro il denaro necessario mediante il sistema del credito, delle banche, assorbendo il denaro di riserva e rendendo così possibile, per i singoli come per la società, il processo ininterrotto della produzione e della vendita delle merci. Il credito, che l’economia politica borghese non sa spiegare che come accorta istitu zione per «agevolare il movimento delle merci», Marx lo presenta nel secondo volume della sua opera, ma proprio di passaggio, come un semplice modo di vita del capitale, come legame fra le due fasi della vita del capitale: fra la produzione e il mercato delle merci, e come legame fra i movimenti apparentemente autonomi dei singoli capitali.

In secondo luogo, nella confusione dei singoli capitali deve essere mantenuta in moto la rotazione co stante della produzione e del consumo della società nel suo complesso, e ciò deve avvenire in modo che restino assicurate le condizioni della produzione capitalistica: fabbricazione dei mezzi di produzione, man tenimento della classe operaia, arricchimento progressivo della classe capitalistica, vale a dire crescente accumulazione e attivizzazione del capitale complessivo della società. Come l’insieme risulti dagli innu merevoli movimenti divergenti dei singoli capitali, come questo movimento dell’insieme attraverso continue deviazioni ora nella sovrabbondanza della congiuntura più favorevole, ora nel collasso della crisi, venga però sempre ricondotto nei suoi giusti rapporti per ritornare subito dopo ad uscirne; come da tutto ciò risulti su scala sempre più vasta quello che per la società attuale è solo il mezzo: il proprio mantenimento congiunto col progresso economico, e quello che è il suo scopo: la progressiva accumulazione di capitale; tutti questi punti sono stati se non risolti definitivamente da Marx nel secondo volume della sua opera, certo da lui impostati, per la prima volta dopo cento anni, dopo Adam Smith, sulle solide basi di leggi sicure.

Ma con tutto ciò il compito spinoso del capitalista non è ancora esaurito. Infatti, dopo che il profitto è diventato e mentre diventa oro in misura crescente, sorge la grossa questione di come la preda debba essere ripartita. Gruppi affatto diversi avanzano le loro pretese: oltre l’imprenditore il commerciante, il capitalista del credito, il proprietario fondiario. Tutti costoro hanno reso possibile, ciascuno per la sua parte, lo sfruttamento dell’operaio salariato e la vendita delle merci da lui prodotte, e ora richiedono la loro parte di profitto. Ma questa ripartizione è un compito molto più complicato di quello che potrebbe sembrare a prima vista. Infatti anche fra gli imprenditori, secondo la specie dell’impresa, esistono grandi differenze nel profitto realizzato, così come esso esce, per così dire, appena attinto dalla fabbrica.

In un ramo di produzione la fabbricazione delle merci e la loro vendita vengono effettuate molto rapida mente, e il capitale ritorna aumentato in brevissimo tempo; si può impiegare alla svelta per nuovi affari e nuovi profitti. In un altro ramo il capitale è immobilizzato per anni nella produzione e non porta profitto che dopo lungo tempo. In certi rami l’imprenditore deve investire la massima parte del suo capitale in mezzi di produzione morti: edifici, macchine costose ecc., che di per sé non producono nulla, non generano profitto, per quanto siano necessari per produrre il profitto. In altri rami l’imprenditore può impiegare il suo capita le, con una spesa modestissima, principalmente per reclutare operai, ciascuno dei quali è per lui la brava gallina che gli depone uova d’oro.

Così nella stessa produzione del profitto sorgono grandi differenze fra i singoli capitali, che agli occhi della società borghese rappresentano una «ingiustizia» molto più clamorosa della singolare « ripartizione» fra il capitalista e l’operaio. Come si può arrivare a un accomodamento, a una «giusta» ripartizione della preda, in modo che ad ogni capitalista tocchi «il suo»? E tutti questi compiti per di più devono essere risolti senza nessuna regola cosciente, pianificata. Infatti la distribuzione nella società odierna è anarchica come la produzione; anzi, non avviene alcuna vera e propria «distribuzione», secondo una qualsiasi disposizione sociale: avviene solo lo scambio, solo la circolazione delle merci, solo la compra e vendita. Come fa dunque ogni strato di sfruttatori, e fra loro ogni singolo, ad ottenere col solo mezzo del cieco scambio delle merci una porzione «giusta» (dal punto di vista del dominio capitalistico) della ricchezza attinta dalla forza-lavoro del proletariato?

A queste domande Marx risponde nel suo terzo volume. Dopo aver analizzato, nel primo volume, la pro duzione del capitale e con ciò il segreto della produzione del profitto, dopo aver mostrato, nel secondo volume, il movimento del capitale fra la fabbrica e il mercato delle merci, fra la produzione e il consumo della società, nel terzo volume esamina la divisione del profitto. L’esame è sempre condotto, anche qui, tenendo fermi tre presupposti fondamentali: che tutto ciò che avviene nella società capitalistica si svolge in maniera non arbitraria, cioè secondo determinate leggi, che agiscono regolarmente, anche se a completa insaputa degli interessati; in secondo luogo che i rapporti economici non sono fondati sui metodi violenti della rapina e del furto; e infine che nessuna ragione sociale esercita la sua influenza sull’insieme nel senso di una pianificazione. Con perspicua logica e chiarezza Marx svolge successivamente tutti i fenomeni e i rapporti dell’economia capitalistica, muovendo esclusivamente dal meccanismo dello scambio, cioè dalla legge del valore e dal plusvalore da essa dedotto.

Se si considera la grande opera nel suo complesso, si può dire che il primo volume con la spiegazione della legge del valore, del salario e del plusvalore mette a nudo le fondamenta della società odierna, il secondo e il terzo volume mostrano i piani dell’edificio che su di essa poggia. Oppure, con un’immagine del tutto diversa, si potrebbe anche dire che il primo volume ci mostra il cuore dell’organismo sociale, in cui è prodotta la linfa vitale, il secondo e il terzo volume mostrano la circolazione del sangue e il nutrimento di tutto l’organismo fino alle estreme cellule epidermiche.

Per quanto riguarda il contenuto, il secondo e terzo volume ci fanno muovere su un piano diverso dal primo. Qui si scopriva la fonte dell’arricchimento capitalistico nella fabbrica, nella profonda miniera sociale del lavoro. Nel secondo e terzo volume ci muoviamo alla superficie, sulla scena ufficiale della società. Magazzini, banche, borsa, affari finanziari, «agrari bisognosi» con le loro preoccupazioni affollano qui il proscenio. Qui l’operaio non ha alcuna parte. E anche nella realtà egli non si preoccupa di queste cose che si svolgono dietro le sue spalle, dopo che gliele hanno da ce di santa ragione; e anche nella realtà, nella ressa chiassosa della gente occupata, noi incontriamo gli operai soltanto quando, sul far dell’alba, si affrettano in frotte alle loro fabbriche e quando, sul far della sera, le fabbriche li risputano fuori in lunghe file.

Può darsi quindi che non appaia chiaro quale interesse possano avere per gli operai le svariate preoccupa zioni private dei capitalisti nella corsa al profitto, e le loro contese per la divisione della preda. Ma in realtà il secondo e il terzo volume del Capitale sono necessari quanto il primo per conoscere esaurientemente l’odierno meccanismo economico. Essi non hanno certo, come il primo, un valore storico così decisivo e fondamentale per il movimento operaio moderno; ma contengono un grandissimo numero di osservazioni penetranti che hanno un valore inestimabile anche per la preparazione ideologica del proletariato alla lotta pratica. Ne diamo soltanto un paio di esempi.

Nel secondo libro, accanto alla questione di come dal dominio caotico dei singoli capitali possa risultare il mantenimento regolare della società, Marx tocca naturalmente anche la questione delle crisi. Non ci si può attendere qui una trattazione sistematica e dottrinale delle crisi, ma solo qualche rapida ossservazione: ma il trarne partito sarebbe di grande utilità per gli operai illuminati e coscienti. Tra i temi di propaganda più radicati nell’agitazione socialdemocratica e soprattutto sindacale c’è la affermazione secondo cui le crisi hanno origine prima di tutto per la miopia dei capitalisti che non vorrebbero assolutamente capire che le masse dei loro operai sono i loro migliori clienti, e che basterebbe pagare loro i salari più alti per conservarsi una clientela che avrebbe possibilità di comprare e per sventare il pericolo di crisi.

Per quanto popolare sia questa idea, essa è completamente sbagliata, e Marx la confuta con le seguenti parole: «E’ una pura tautologia, dire che le crisi hanno origine per la mancanza di consumo in grado di pa gare, o di consumatori in grado di pagare. Il sistema capitalistico non conosce altri consumatori che quelli che pagano, eccettuati quelli mantenuti dalla carità pubblica e i ladri. Se delle merci sono invendibili, ciò non significa altro se non che per esse non si sono trovati compratori in grado di pagare, dunque consumatori. Ma se a questa tautologia si vuol dare l’apparenza di un fondamento più profondo, affermando che la classe operaia riceve una parte troppo limitata del prodotto del proprio lavoro e che quindi l’inconveniente sarebbe riparato se essa ne ottenesse una parte maggiore e il suo salario di conseguenza aumentasse, allora basta osservare che ogni crisi è sempre preparata da un periodo in cui il salario generalmente sale e la classe operaia ottiene una partecipazione relativamente maggiore alla parte del prodotto annuo che è destinata al consumo. Dal punto di vista di questi paladini del sano e ‘semplice’ buon senso, quel periodo dovrebbe, al contrario, allontanare le crisi. Sembra dunque che la produzione capitalistica racchiuda in sé condizioni indipendenti dalla buona o cattiva volontà, che consentono solo momentaneamente quella relativa prosperità della classe operaia, che poi non è mai altro che la procellaria che annuncia una crisi».

Le dimostrazioni del secondo e terzo volume conducono infatti a vedere più addentro nell’essenza delle crisi, che risultano essere niente altro che conseguenze inevitabili del movimento del capitale, di un movi mento che nel suo slancio impetuoso e implacabile verso l’accumulazione e l’accrescimento, suol tendere subito a superare ogni barriera del consumo, anche se questo consumo viene molto allargato mediante l’aumento delle capacità d’acquisto di un singolo strato sociale o la conquista di mercati di vendita completamente nuovi.  Allora deve essere abbandonata l’idea, che fa capolino dietro quel diffuso motivo d’agitazione sindacale, dell’armonia d’interesse fra capitale e lavoro, idea che verrebbe disconosciuta solo per la miopia degli imprenditori, e deve essere pure abbandonata ogni speranza di assestare e attenuare l’anarchia caotica del capitalismo. La lotta per l’elevamento materiale dei proletari salariati ha a disposi zione infinite armi teoriche troppo buone per avere bisogno di un argomento teoricamente insostenibile e praticamente equivoco.

Un altro esempio. Nel terzo volume Marx dà per la prima volta una spiegazione scientifica di quel fenomeno, osservato con meraviglia e perplessità dall’economia politica fin dal suo sorgere, per cui in tutti i rami di produzione i capitali, per quanto investiti sotto diverse condizioni, rendono di solito il cosiddetto profitto
«usuale». A prima vista questo fenomeno sembra contraddire una spiegazione che lo stesso Marx ha dato, cioè la spiegazione della ricchezza capitalistica come derivante unicamente dal lavoro non pagato del proletariato salariato. Come accade infatti che il capitalista che deve investire, in mezzi di produzione morti, relativamente grosse porzioni del suo capitale, ottiene lo stesso profitto del suo collega che ha meno spese di questo genere e può quindi mettere all’opera più lavoro vivo?

Marx risolve questo enigma con semplicità sorprendente, dimostrando come per la vendita di una sorta di merce al di sopra del suo valore, e di un’altra al di sotto del suo valore, le differenze del profitto si pareggi no e ne risulti un « profitto medio» uguale per tutti i rami della produzione. Senza che i capitalisti ne abbiano il sospetto, senza nessun accordo cosciente fra loro, nello scambio delle loro merci essi agiscono in modo da portare allo stesso mucchio, in un certo senso, il plusvalore che ciascuno di loro ha attinto dal lavoro dei suoi operai, e da dividere fraternamente fra loro tutto il raccolto dello sfruttamento, dando a ciascuno secondo la grandezza del suo capitale. Il singolo capitalista dunque non gode del profitto da lui prodotto personalmente, ma soltanto della quota che gli spetta dei profitti conseguiti da tutti i suoi colleghi.

«I singoli capitalisti si comportano in questo, per quel che riguarda il profitto, come semplici soci azionisti di una società per azioni, in cui le partecipazioni al profitto vengono ripartite in percentuali uguali e quindi sono diverse per i diversi capitalisti soltanto in base alla grandezza del capitale che ciascuno ha investito nell’impresa complessiva, secondo la sua relativa partecipazione all’impresa complessiva».

Questa legge del «tasso medio del profitto», apparentemente così arida, come permette di penetrare profondamente con lo sguardo nelle solide fondamenta materiali della solidarietà di classe dei capitalisti che, per quanto nella pratica quotidiana siano come fratelli in guerra fra loro, di fronte alla classe operaia formano però come una lega di massoni nel modo più vivo e personale interessata al suo sfruttamento totale! Senza che i capitalisti, come naturale, siano minimamente consapevoli di queste leggi economiche obiettive, nel loro istinto infallibile di classe dominante si manifesta però un senso dei loro interessi di classe e della loro opposizione al proletariato, che purtroppo si conserva attraverso tutte le tempeste della storia più fermo della coscienza di classe del proletariato, illuminata e fondata scientificamente proprio grazie alle opere di Marx ed Engels.

Questi due esempi, brevi e presi a caso, possono dare un’idea di quanti nascosti tesori di stimolo intellet tuale e di approfondimento per gli operai progrediti si trovino ancora negli ultimi due volumi del Capitale e attendano un’esposizione divulgativa. Incompiuti come sono, offrono qualche cosa di infinitamente più prezioso di ogni compiuta verità: l’incitamento al pensare, alla critica e all’autocritica, che è l’elemento più originale della dottrina che Marx ha lasciato.

    14.4    ​​​Le accoglienze al «Capitale»

La speranza espressa da Engels dopo il compimento del primo volume, che Marx una volta «liberatosi dall’incubo» si sarebbe sentito un altro, si compì solo in parte.

La salute di Marx non ebbe un miglioramento stabile, e anche le sue condizioni economiche rimasero in uno stato di penosa incertezza. In quel tempo egli meditò seriamente il progetto di trasferirsi a Ginevra, dove poteva vivere con una spesa molto minore, ma il destino lo legò per il momento a Londra, ai tesori del British Museum; sperava in un editore per una traduzione inglese della sua opera e non poteva né voleva cedere le direzione teorica dell’Internazionale prima che essa si fosse avviata su binari sicuri.

Una gioia familiare gli procurò il matrimonio della sua seconda figlia Laura con Paul Lafargue, il suo «studente di medicina creolo». I due giovani si erano già fidanzati nell’agosto del 1866, ma prima di pensare al matrimonio il fidanzato doveva terminare i suoi studi di medicina. Per aver partecipato a un congresso di studenti a Liegi, Lafargue era stato espulso per due anni dall’Università di Parigi ed era andato a Londra per conto dell’Internazionale; come seguace di Proudhon non aveva alcuna relazione stretta con Marx e si era presentato in casa sua per una pura cortesia, con un biglietto di raccomandazione di Tolain. Tuttavia accadde come spesso suole accadere. «Il giovane s’era attaccato prima a me — scrisse Marx ad Engels dopo il fidanzamento — ma presto l’attrazione passò dal vecchio alla figlia. Le sue condizioni economiche sono di livello medio, poiché è l’unico figlio di una famiglia di ex piantatori»[i]13. Marx lo descrisse all’amico come un bel giovane, intelligente, energico e fisicamente ben sviluppato, un tipo buono come il pane, soltanto viziato e troppo selvaggio.

Lafargue era nato a Santiago nell’isola di Cuba, ma fin dall’età di nove anni era venuto in Francia. Da parte della madre di suo padre, una mulatta, aveva sangue negro nelle vene, e di questo particolare, di cui egli stesso parlava volentieri, davano testimonianza il colore opaco della sua pelle e il bianco dei grandi occhi sul viso che del resto aveva un taglio regolare. Questa mescolanza di sangue era forse il motivo di una certa testardaggine che induceva Marx a farsi spesso beffe, tra irritato e scherzoso, del suo «cranio di negro ». Ma il tono di bonaria canzonatura con cui si trattavano a vicenda dimostrava soltanto che s’intendevano perfettamente. In Lafargue Marx non aveva trovato soltanto il genero che faceva la felicità della figlia, ma anche un capace e valido aiuto, un fedele custode della sua eredità spirituale.

Ma la sua preccupazione principale rimase il successo del suo libro. Il 2 novembre 1867 egli scriveva a Engels: «Il destinò del mio libro mi rende inquieto. I tedeschi sono buona gente. Le loro prestazioni servili agli inglesi, ai francesi e perfino agli italiani in questo campo li autorizzano in effetti a ignorare la mia storia. I nostri di laggiù di agitazione non capiscono un’acca. Pertanto si dovrà fare come i russi: aspettare. La pazienza è il nocciolo della diplomazia e dei successi russi. Ma noialtri, che si vive solo una volta, possiamo creparci sopra»[ii]14. L’impazienza che traspare da queste righe era comprensibilissima, ma non del tutto giustificata.

Quando Marx scriveva così, non erano ancora passati due mesi da quando il libro era uscito, e in un termine di tempo così breve non si poteva scrivere una critica a fondo. Però, per quanto si trattava non del lavoro in profondità, ma del «far chiasso», che per Marx era, in un primo tempo, anche la cosa più necessaria per le ripercussioni in Inghilterra, Engels e Kugelmann si dettero tutto il da fare umanamente possibile, senza che si potesse far loro il rimprovero di un eccesso di zelo. Ebbero invero successi non trascurabili. Essi riuscirono a collocare annunci della prossima pubblicazione del libro e a far riprodurre la prefazione in un considerevole numero di giornali anche borghesi. Avevano pronta persino una bomba reclamistica, secondo le idee del tempo, un articolo biografico su Marx col suo ritratto, da pubblicare sulla Gartenlaube, quando Marx stesso li pregò di astenersi da questo «spasso». «Ritengo simili cose piuttosto dannose che utili, e al di sotto del carattere di un uomo di scienza. Per esempio, il Meyers Konversationslexikon da parecchio tempo mi ha richiesto per iscritto una biografia. Non solo non l’ho fornita, ma non ho nemmeno risposto alla lettera. Ognuno deve andare in paradiso a modo suo»[iii]15. L’articolo di Engels destinato alla Gartenlaube — che l’autore stesso definì «foglio di carta raffazzonato nella maggior fretta in forma il più possibile da Beta»[iv]16 — apparve quindi nella Zukunft, l’organo di Johann Jacoby, che Guido Weiss pubblicava a Berlino dal 1867, ma ebbe poi la sorte singolare di essere riprodotto, abbreviato, da Liebknecht sul Demokratisches Wochenblatt, tanto che Engels osservò stizzosamente: «Wilhelm ora è caduto tanto in basso che non gli è più neanche permesso di dire che Lassalle ti ha copiato e copiato male. Con ciò tutta la biografia ha avuto i testicoli tagliati, e a che scopo la stampi poi ancora, lo può sapere solo lui». Come è noto, le frasi omesse contenevano precisamente l’opinione dello stesso Liebknecht; solo che non voleva offendere un certo numero di lassalliani che si erano appunto staccati da Schweitzer e giusto allora
contribuivano a formare la frazione eisenachiana. Si vede che non soltanto i libri, ma anche gli articoli hanno il loro destino.

Tuttavia, se non proprio nei primi mesi, poco tempo dopo Marx ebbe alcune buone recensioni del suo libro. Una di Engels sul Demokratisches Wochenblatt, poi di Schweitzer sul Sozialdemokrat e di Joseph Dietzgen, ancora sul Demokratisches Wochenblatt. A parte Engels, sul cui giudizio non occorre dir niente, Marx riconobbe .che anche Schweitzer, nonostante alcuni errori, s’era sgobbato il libro e sapeva dove si trovavano i punti decisivi, e in Dietzgen, di cui sentì parlare per la prima volta solo dopo la pubblicazione del libro, salutò, senza per aitro sopravvalutarlo una mente dotata di capacità filosofiche.

Sempre nel 1867 si fece sentire anche il primo «specialista». Era Dühring, che recensì il libro negli Ergàn zungsblatter[vi]18 di Meyer; non aveva capito, come disse Marx, gli elementi del tutto nuovi del libro, ma la critica era tale da non lasciare insoddisfatto Marx. La definì persino «assai decente», pur supponendo che Dühring avesse scritto non tanto per interesse e intelligenza dell’argomento, quanto per odio contro Roscher e altri grandi dell’università. Engels dette fin dal primo momento un giudizio più sfavorevole del l’articolo di Dühring, e ben presto si vide che aveva l’occhio più acuto, quando Dühring fece un voltafaccia e si mise con tutte le forze a denigrare il libro.

Con altri «specialisti» Marx fece delle esperienze altrettanto tristi; ancora otto anni dopo, uno di questi galantuomini, che per prudenza tenne celato il suo nome, sputò questa edificante sentenza oracolare: che Marx, come «autodidatta», non si era accorto del lavoro scientifico di tutta una generazione. Date queste e simili uscite, l’asprezza con cui Marx soleva parlare di questa gente era pienamente giustificata. Solo che forse attribuiva troppo alla loro cattiva volontà, e troppo poco alla loro ignoranza. Il suo metodo dialettico infatti era incomprensibile per loro. Ciò si vedeva soprattutto nel fatto che anche uomini che non mancavano di buona volontà né di conoscenze economiche si raccapezzavano con difficoltà nel libro, mentre, all’inverso uomini che non erano per niente pratici di questioni economiche ed erano più o meno ostili al comunismo, ma che avevano qualche nozione della dialettica hegeliana, ne parlavano con grande entusiasmo.

Quindi Marx giudicava con durezza ingiustificata la seconda edizione dell’opera di F. A. Lange sulla que stione operaia, in cui l’autore si occupava estesamente del primo volume del Capitale: «Il signor Lange mi fa grandi elogi, ma allo scopo di darsi lui stesso dell’importanza»[vii]19. Questo non era certamente lo scopo di Lange, il cui sincero interesse per la questione operaia era superiore a qualsiasi dubbio. Invece Marx aveva certamente ragione nel dire che in primo luogo Lange non capiva niente del metodo hegeliano e che quindi, in secondo luogo, tanto meno capiva nel modo critico con cui Marx lo applicava. In effetti Lange capovolgeva le cose, quando affermava che, quanto alla base speculativa, Lassalle era più libero e indipendente rispetto a Hegel di quanto fosse Marx, che per la forma speculativa si sarebbe attenuto stret tamente alla maniera del modello filosofico e in parecchie parti dell’opera — come nella teoria del valore, alla quale Lange non voleva assegnare alcuna importanza duratura — sarebbe riuscito a fatica a farvela penetrare.

Ancora più curioso fu il giudizio di Freiligrath sul primo volume, che Marx gli aveva mandato in regalo. I rapporti di amicizia fra i due erano continuati dal 1859, anche se occasionalmente erano stati turbati per colpa di terze persone. Freiligrath era in procinto di far ritorno in Germania, dove la nota raccolta di denaro gli aveva assicurato una vecchiaia senza preoccupazioni, dopo che, quasi sessantenne, era stato ridotto alla fame dallo scioglimento della filiale di banca da lui diretta. L’ultima lettera che egli mandò al vecchio amico (dopo non si sono più scritti) era un cordiale augurio per le nozze del giovane Lafargue e un ringrazia mento non meno cordiale per il primo volume del Capitale. Freiligrath assicurava di avere attinto dallo studio del libro i più diversi insegnamenti, il più ampio godimento; aggiungeva che il successo forse non sarebbe stato né troppo rapido né troppo clamoroso, ma che l’effetto intimo sarebbe stato perciò tanto più profondo e duraturo. «So che sul Reno molti giovani commercianti e proprietari di fabbriche si entusiasmano del libro. In questi ambienti adempirà al suo vero scopo, inoltre sarà indispensabile allo scienziato come opera di consultazione»[viii]20. Freiligrath definiva se stesso «economista col cuore» e non gli erano mai andate a genio le «hegelianerie» ma per quasi due decenni aveva vissuto in mezzo al traffico mondiale di Londra, e quindi fu un’uscita assai sorprendente, questa affermazione di non vedere altro, nel primo volume del Capitale, che un manuale per giovani commercianti o al massimo un’opera scientifica di consultazione.

Completamente diverso fu il giudizio di Ruge, che era nemico dichiarato del comunismo e non aveva conoscenze di economia, ma che un tempo si era fatto le ossa come giovane hegeliano. «E’ un’opera che fa epoca e spande una luce brillante, spesso penetrante, sullo sviluppo, sulle rovine e le doglie e sui giorni di tremendo dolore dei periodi della società. Le dimostrazioni sul plusvalore attraverso il lavoro non pagato, sulla espropriazione degli operai che lavoravano per conto proprio e sulla imminente espropriazione degli espropriatoti sono classiche. Il libro supera l’orizzonte di molti uomini e giornalisti; ma esso si affermerà certamente ed eserciterà, nonostante l’ampia impostazione, anzi proprio per questa, un effetto potente» Un giudizio simile dette Ludwig Feuerbach, solo che data la sua formazione, non si interessava tanto della dialettica dell’autore quanto dell’«opera ricca di dati di fatto incontestabili, di una specie quanto mai interessante ma anche atroce», che doveva comprovare la sua filosofia morale: dove manca il necessario per vivere, manca anche la necessità morale.

La prima traduzione del primo volume apparve in Russia. Già il 12 ottobre del 1868 Marx annunciò a Kugelmann che un libraio di Pietroburgo l’aveva sorpreso con la notizia che la traduzione era già in corso di stampa, e gli aveva chiesto la sua fotografia per il frontespizio. Marx aggiungeva che non poteva rifiutare questa piccolezza ai suoi «buoni amici», i russi; e che era un’ironia del destino che i russi, da lui combattuti senza tregua da 25 anni, e non solo in tedesco, ma anche in francese e in inglese, fossero sempre stati suoi «fautori»: anche il suo scritto contro Proudhon e la sua Critica dell’economia politica non avevan trovato da nessuna parte uno smercio maggiore che in Russia; ma non voleva farci molto caso: era pura ghiottoneria, quella di afferrare sempre ciò che di più estremo forniva l’occidente.

La cosa però non stava così. La traduzione non uscì prima del 1872, ma fu un’impresa seria, scientifica, che riuscì «magistralmente», come riconobbe Marx stesso dopo che fu finita. Il traduttore era Danielson, noto col suo nome di scrittore Nikolai, e con lui, per alcuni dei capitoli più importanti, il giovane e corag gioso rivoluzionario Lopatin, «una testa molto sveglia, critica, carattere sereno, stoico come un contadino russo, che prende lietamente tutto ciò che trova»: così lo descriveva Marx, quando Lopatin gli fece visita nell’estate del 1870. La censura russa aveva dato il permesso per la pubblicazione della traduzione con la motivazione seguente: «Nonostante che l’autore per le sue convinzioni sia un perfetto socialista, e tutto il libro abbia un carattere socialista perfettamente definito; tuttavia, considerato che non si può affermare che l’esposizione sia accessibile a tutti e che d’altra parte essa è in forma di dimostrazione scientifica stret tamente matematica, il Comitato dichiara che è impossibile perseguire quest’opera a termini di legge». La traduzione uscì il 27 marzo 1872, e il 25 maggio erano già stati venduti 1000 esemplari, un terzo dell’intera tiratura.

Nel medesimo tempo cominciò ad uscire una traduzione francese, e proprio mentre usciva la seconda edizione dell’originale tedesco, a dispense. Era opera di J. Roy, con la strettissima collaborazione dello stesso Marx, che dovette fare perciò un «lavoro del diavolo», tanto che più volte si lamentò di dover lavorare più che se si fosse messo da solo a fare la traduzione. In compenso potè dare ad essa un valore scientifico particolare, anche di fronte all’originale.

In Inghilterra il primo volume del Capitale ebbe un successo più limitato che in Germania, in Russia e in Francia. Sembra che sia stato oggetto di una sola recensione sulla Saturday Review, che elogiava l’esposizione in quanto metteva uno speciale fascino nella più aride questioni economiche. Un lungo articolo che Engels aveva scritto per la Fortnightly Review fu respinto dalla redazione perché «troppo arido», nonostante che Beesly, che era in stretta relazione con questa rivista, si fosse adoprato per farlo accettare. Una traduzione inglese, da cui Marx tanto si riprometteva, non fu mai fatta in vita di Marx.