CAPITOLO 12


Rivolgimenti dinastici



    12.1    ​​​La guerra italiana

La crisi del 1857 non era sfociata nella rivoluzione proletaria che da essa Marx ed Engels avevano sperato. Ma non per questo essa mancò di effetti rivoluzionari, anche se questi si produssero soltanto nella forma di rivolgimenti dinastici. Sorse un regno d’Italia, e poi un impero tedesco, mentre l’impero francese andava sommerso e scompariva senza lasciar tracce.

Questo cambiamento si spiegava col duplice fatto che la borghesia non combatte mai da sé le sue battaglie rivoluzionarie, e che d’altra parte, dopo la rivoluzione del 1848 le era passata la voglia di farle combattere dal proletariato. In questa rivoluzione, e specialmente nelle lotte parigine di giugno, gli operai avevano rinunciato alla tradizionale abitudine di servire semplicemente come carne da cannone alla borghesia, e avevano preteso di avere almeno una parte dei frutti della vittoria che essi avevano conquistato col loro sangue.

Così la borghesia, già negli anni della rivoluzione, aveva fatto la bella pensata di farsi togliere le castagne dal fuoco da un’altra forza, invece che dal proletariato, diventato diffidente e malfido; e questo, soprattutto in Germania e in Italia, cioè in quei paesi nei quali ancora si doveva cominciare col creare lo Stato nazionale, del quale le forze produttive capitalistiche hanno bisogno per potersi dispiegare efficacemente. Veniva naturale l’offrire il dominio su tutto il paese al sovrano di una sua regione, se egli in cambio dava alla borghesia campo libero per i suoi bisogni di sfruttamento e di espansione. In tal modo la borghesia, invero, doveva mettere in soffitta i suoi ideali politici e contentarsi di soddisfare soltanto i propri interessi economici, perché invocando l’aiuto del sovrano essa si sottometteva al suo dominio.

Erano infatti proprio gli Stati regionali più reazionari quelli ai quali, già negli anni della rivoluzione, la bor ghesia aveva cercato di fare l’occhiolino: in Italia il regno di Sardegna, quello Stato regionale «gesuiti co-militare» dove, secondo la maledizione del poeta tedesco, « mercenari e preti succhiavano insieme il sangue del popolo» ; in Germania il regno di Prussia, che stava sotto la cupa oppressione degli Junker delle terre d’oltr’Elba. Ma inizialmente né qua né là si arrivò allo scopo.  Il re Carlo Alberto di Sardegna si atteggiò in realtà a «spada d’Italia», però sul campo di battaglia soccombette all’esercito austriaco e morì esule all’estero. Ma in Prussia il quarto Federico Guglielmo respinse la corona imperiale tedesca, che la borghesia tedesca gli metteva nel piatto, come un inconsistente cerchio impastato di fango, e del cada vere della rivoluzione preferì tentare una sporca spoliazione che però, a Olmiitz, gli fu mandata a male, e neppure dalla spada, bensì dalla frusta austriaca.

La stessa prosperità industriale di fronte alla quale si era esaurita la rivoluzione del 1848 era diventata però una leva potente per far avanzare la borghesia in Germania e in Italia e per porre ad essa l’unità nazionale come una necessità sempre più urgente. Quando poi la crisi del 1857 rammentò la caducità di ogni splendore capitalistico, le cose cominciarono a precipitare. Dapprima in Italia, ciò che tuttavia non si spiega col fatto che qui il capitalismo si fosse sviluppato più che in Germania. Anzi, al contrario! In Italia la grande industria ancora non esisteva affatto, e il contrasto fra borghesia e proletariato non era ancora così aspramente marcato da destare diffidenza reciproca. Non meno gravemente pesava sul piatto della bilancia il fatto che lo spezzettamento dell’Italia dipendeva da un dominio straniero, liberarsi dal quale era scopo comune di tutte le classi. L’Austria dominava direttamente in Lombardia e nel Veneto, indirettamente anche sull’Italia centrale, le cui piccole corti obbedivano agli ordini della Corte Imperiale di Vienna. La lotta contro questo dominio straniero continuava senza soste fin dal terzo decennio del secolo e aveva portato alle più crudeli misure di repressione, che provocavano la vendetta esasperata degli oppressi; il pugnale italiano era la conseguenza inevitabile del bastone austriaco.

Ma tutti gli attentati, le sommosse e le congiure non riuscivano a spuntarla contro lo strapotere asburgico, e contro di esso erano fallite le sollevazioni italiane anche negli anni della rivoluzione. La promessa che l’Italia si sarebbe fatta per proprio conto (l’Italia farà da sé), si era dimostrata un’illusione. L’Italia aveva bisogno dell’aiuto esterno per liberarsi dal dominio austriaco, e rivolse il suo sguardo alla nazione sorella, la Francia. Lo spezzettamento dell’Italia come quello della Germania costituiva certo un vecchio principio della politica francese, ma l’avventuriero che in quel tempo sedeva sul trono francese era un uomo che accettava di trattare. Il secondo Impero diventava una farsa, se si teneva nei confini che le potenze straniere avevano tracciato al territorio francese dopo la caduta del primo Impero. Aveva bisogno di conquiste che il falso Bonaparte non poteva fare sulla via del vero Bonaparte. Egli doveva contentarsi di scopiazzare il suo preteso zio col cosiddetto « principio di nazionalità» e di atteggiarsi a messia delle nazioni oppresse, col presupposto che i suoi buoni servigi sarebbero stati pagati con ricche mance in terre e genti.

La situazione in cui egli si trovava, nel suo insieme, non gli permetteva di lanciarsi troppo. Non poteva condurre una guerra europea, per non parlare poi di una guerra rivoluzionaria; tutt’al più poteva infierire, col superiore consenso dell’Europa, sul capro espiatorio di tutti, quale era stata la Russia al principio del sesto decennio del secolo, ed era, alla fine del decennio, l’Austria. La vergognosa amministrazione austriaca in Italia aveva finito per diventare lo scandalo d’Europa, e la casa di Asburgo si era inimicata a morte con gli antichi soci della Santa Alleanza, con la Prussia a causa di Olmùtz, e con la Russia a causa della guerra di Crimea: specialmente dell’aiuto russo Bonaparte era sicuro, in caso di un attacco contro l’Austria.

Inoltre le condizioni interne della Francia premevano affinché fosse dato nuovo lustro al bonapartismo mediante un’azione esterna. La crisi commerciale del 1857 aveva paralizzato l’industria francese, e il male era diventato cronico in seguito alle manovre del governo per impedire lo scoppio acuto della crisi, così che il ristagno del commercio francese si trascinò per anni. In tal modo tanto la borghesia che il proletariato diventavano ugualmente ribelli, e anche i contadini, l’effettivo sostegno del colpo di Stato, cominciavano a mormorare; il tracollo dei prezzi dei cereali, dal 1857 al 1859, provocò le loro rimostranze perché l’agri coltura francese sarebbe diventata impossibile per i bassi prezzi e gli alti oneri che su di essa gravavano.

In questa situazione Bonaparte fu attivamente corteggiato da Cavour, primo ministro del regno di Sardegna, che aveva ripreso le tradizioni di Carlo Alberto, ma sapeva rappresentarle con un’abilità incomparabilmente maggiore. Tuttavia avendo a sua disposizione soltanto i mezzi impotenti della diplomazia, non andava avanti che lentamente, tanto più che il carattere di Bonaparte, indeciso nelle sue macchinazioni, rendeva difficile una rapida decisione. Per contro, il partito d’azione italiano seppe mettere rapidamente in moto questo liberatore di popoli. Il 14 gennaio 1858 a Parigi, l’Orsini e i suoi compagni di congiura lanciarono delle bombe a mano sulla carrozza imperiale, che fu crivellata da 76 schegge. I passeggeri, è vero, rimasero incolumi e l’uomo del dicembre, com’è costume in gente di tal fatta, rispose al terrore mortale istituendo un regime di terrore. Ma in tal modo rivelò soltanto che il suo dominio, dopo sette anni, poggiava ancora su piedi d’argilla, e una lettera che l’Orsini gli indirizzò dal carcere gettò nuova angoscia nel suo animo abietto. Vi era detto: «Non dimenticate che la pace dell’Europa e la Vostra sarà soltanto una chimera finché l’Italia non sarà indipendente». Ancora più chiaro l’Orsini deve essere stato in una seconda lettera. Nelle vicende della sua vita avventurosa Bonaparte era capitato una volta anche fra i congiurati italiani, e sapeva bene che con la loro vendetta non c’era da scherzare.

Perciò nell’estate del 1858 fece venire Cavour ai bagni di Plombières e concordò con lui la guerra contro l’Austria. La Sardegna avrebbe ottenuto la Lombardia e il Veneto e avrebbe arrotondato le sue frontiere fino a costituire un regno dell’alta Italia, in cambio avrebbe ceduto la Savoia e Nizza alla Francia. Era un mercanteggiamento diplomatico che in fondo aveva poco a che fare con la libertà e l’indipendenza dell’Italia. Sull’Italia centrale e meridionale non ci fu alcun accordo, anche se entrambe le parti avevano i loro secondi fini. Bonaparte non poteva sacrificare le tradizioni della politica francese fino al punto di favorire un’Italia unita; egli desiderava — anche soltanto per conservare il dominio papale — una confederazione delle dinastie italiane, che si sarebbero paralizzate a vicenda e avrebbero assicurato la preponderanza francese, e inoltre accarezzava anche il pensiero di creare nell’Italia centrale un regno per il cugino Girolamo. Cavour invece contava sul movimento nazionale, che gli avrebbe permesso di reprimere tutte le tendenze dinastico-particolaristiche, appena l’alta Italia fosse stata unificata in un più grande Stato.

Il giorno di capodanno del 1859, parlando all’ambasciatore austriaco a Parigi, Bonaparte scoprì i suoi piani, e pochi giorni dopo il re di Sardegna dichiarò di non essere insensibile al grido di dolore dell’Italia. Le minacciose parole furono intese a Vienna e la guerra si appressò rapidamente; il governo austriaco fu abbastanza inabile da lasciarsi spingere a fare la parte dell’aggressore. Nello stato semifallimentare in cui era, si trovò, aggredito dalla Francia e minacciato dalla Russia, in una situazione difficile dalla quale la tiepida amicizia dei tories inglesi non poteva trarlo fuori. Esso cercò tuttavia di tirare dalla propria parte la Confederazione Germanica, che a norma di trattato non era obbligata a intervenire in difesa dei possessi extratedeschi di uno Stato confederato ma che doveva essere attratta con lo slogan politico-militare che affermava che il Reno doveva essere difeso sul Po, in altre parole che mantenere il. dominio austriaco in alta Italia era interesse nazionale vitale della Germania.

In Germania, dopo la crisi del 1857 e le sue conseguenze, era ugualmente iniziato un movimento nazio nale, che però si distingueva, e non in meglio, da quello italiano. Ad esso mancava il pungolo del dominio straniero, e la borghesia tedesca aveva addosso dal 1848 una disperata paura del proletariato, che pure, a quel tempo, era per essa ancora ben poco pericoloso. Ma dalla battaglia parigina di giugno essa aveva tratto degli insegnamenti. Se fino al 1848 essa aveva visto il suo ideale nell’evoluzione della Francia, da allora giurava sull’Inghilterra, dove borghesia e proletariato sembravano andar d’accordo in sì piacevole armonia. Già il matrimonio del successore al trono prussiano con una principessa inglese aveva suscitato il suo più vivo entusiasmo, e quando poi, nell’autunno del 1858, il re malato di mente dovette cedere il potere al fratello, e questi, per motivi tutt’altro che liberali, nominò un governo moderatamente liberale, esplose quel «bovino tripudio per l’incoronazione» da parte della borghesia, che Lassalle scherniva con la massima asprezza. Questa degna classe rinnegò i propri eroi del 1848, per non irritare il principe reggente, e non forzò la mano quando il nuovo ministero lasciò tutto come prima, ma anzi lanciò la famosa parola d’ordine: «soprattutto non forzare la mano!», proprio per paura che lo sfavore del nuovo signore potesse far svanire come un gioco d’ombre sul muro la «nuova era», che esisteva soltanto per sua grazia.

Con l’addensarsi del temporale della guerra le onde cominciarono ora a battere più alte in Germania. Il modo come Cavour faceva l’unità italiana aveva molto di allettante per la borghesia tedesca, perché essa aveva destinato da tempo allo Stato prussiano quella parte che si era assunta la Sardegna. Ma l’attacco del nemico ereditario francese contro la prima potenza della Confederazione Germanica risvegliò apprensioni e ricordi che la resero di nuovo timorosa. Questo falso Bonaparte non riprendeva le tradizioni dell’autentico? Sarebbero ritornati i giorni di Austerlitz e di Jena, si sarebbe di nuovo udito in Germania il sinistro rumore delle catene del dominio stra niero? I pennivendoli austriaci non si stancavano di evocare questi spettri terrificanti e di tratteggiare la futura immagine paradisiaca di una «grande potenza centro-europea» che, sotto la preponderanza del l’Austria, avrebbe compreso la Confederazione Germanica, l’Ungheria, i paesi danubiani slavo-romeni, l’Alsazia e la Lorena, l’Olanda e Dio sa che altro. Di fronte a questa propaganda anche il Bonaparte na turalmente sguinzagliò i suoi lacchè della penna, perché giurassero che all’animo sincero del loro padrone nulla era più estraneo che mirare alle sponde del Reno, e che con la guerra contro l’Austria egli perseguiva soltanto i più nobili scopi della civiltà.

In tale guazzabuglio di opinioni il borghesuccio ben pensante difficilmente si raccapezzava, ma cominciò a poco a poco a dar ascolto più agli allettamenti asburgici che a quelli bonapartistici. Quelli lusingavano il suo patriottismo da osteria, mentre ci voleva una fede troppo robusta per credere alla vocazione civilizzatrice dell’uomo del dicembre. Tuttavia la situazione era così imbrogliata che dei politici veri, e per di più rivoluzio nari, che si trovavano pienamente d’accordo su tutte le questioni fondamentali, non riuscirono a intendersi sulla politica pratica che, la Germania doveva seguire di fronte alla guerra italiana.

    12.2    ​​​Il contrasto con Lassalle

D’accordo con Marx, Engels entrò per prima cosa in campo col suo opuscolo Po e Reno per il quale Lassalle gli procurò un editore in Franz Duncker. Lo scritto si prefiggeva di liquidare la parola d’ordine asburgica, secondo cui il Reno doveva essere difeso sul Po. Engels dimostrava che la Germania non aveva bisogno, per la sua difesa, di nessun pezzo d’Italia, e che la Francia, se dovevano valere motivi puramente militari, aveva indubbiamente diritti ben più forti sul Reno che non la Germania sul Po. Ma se dichiarava che il dominio austriaco in Italia non era militarmente necessario per la Germania, politicamente lo riprovava come oltremodo dannoso per la Germania, perché l’inaudito maltrattamento dei patrioti italiani da parte del bastone austriaco le tirava addosso l’odio e l’ostilità fanatica di tutta l’Italia. Però, così affermava Engels, la questione del possesso della Lombardia è una questione fra l’Italia e la Germania, non fra Luigi Napoleone e l’Austria. Di fronte a un terzo, come Bonaparte, che si immischiava per interessi suoi propri, e d’altro canto antitedeschi, si trattava semplicemente di conservare una provincia che si cede soltanto se costretti, una posizione militare che si sgombra soltanto se non si può più tenere. Di fronte alle minacce bonapartiste dunque l’appello asburgico era pienamente giustificato. Se il Po era il pretesto per Luigi Napoleone, il Reno sarebbe stato in ogni caso il suo obiettivo finale. Soltanto la conquista del confine del Reno poteva assicurare un dominio durevole al colpo di Stato in Francia. Era il caso dell’antico proverbio: bastonare il sacco e pensare all’asino. Se l’Italia si trovava a fare la parte del sacco la Germania invece questa volta non aveva affatto voglia di servire da asino. Se si trattava, in ultima analisi, del possesso della sponda sinistra del Reno, la Germania non poteva in nessun modo pensare a cedere senza colpo ferire una delle sue più forti posizioni, anzi addirittura la più forte. Alla vigilia della guerra, proprio come in guerra, si occupa ogni posizione utile dalla quale si possa minacciare il nemico e recargli danno, senza fare riflessioni morali e pensare se ciò si accordi con l’eterna giustizia e col principio di nazionalità. Si difende appunto la propria pelle.

Marx era pienamente d’accordo con queste dichiarazioni. Quando ebbe letto il manoscritto dell’opuscolo scrisse all’autore: « Exceedingly clever[i]1; anche la parte politica trattata in modo stupendo, cosa che era maledettamente difficile. L’opuscolo avrà un gran successo»[ii]2. Invece Lassalle dichiarò che non comprendeva affatto questa concezione. Subito dopo egli pubblicò, ancora presso l’editore Franz Duncker, un opuscolo dal titolo La guerra italiana e il compito della Prussia, che prendeva le mosse da presupposti del tutto diversi e quindi giungeva a risultati del tutto diversi, e però fu considerato da Marx come un «enormous blunder».

Nel movimento nazionale tedesco, che sorgeva sotto i segni della minaccia di guerra, Lassalle vedeva so lo una «assoluta francofobia, odio antifrancese (Napoleone solo pretesto, lo sviluppo rivoluzionario della Francia il reale segreto motivo)»; una guerra popolare tedesco-francese, nella quale i due grandi popoli civili del continente si dilaniassero a cagione di illusioni nazionali, una guerra popolare contro la Francia che non avesse la sjua ragione in alcuna vitale questione nazionale e che succhiasse invece il suo nutri mento spirituale da un sentimento nazionale morbosamente sovreccitato, da un aberrante patriottismo e da puerile francofobia, era agli occhi di Lassalle il pericolo più spaventoso per la civiltà europea, per tutti gli interessi tanto nazionali che rivoluzionari, la vittoria di gran lunga più mostruosa e incalcolabile che il prin cipio reazionario avesse riportato dal marzo 1848. Lassalle riteneva compito essenziale della democrazia l’opporsi a una tal guerra con tutte le forze.

Egli spiegava estesamente che la guerra italiana non costituiva una seria minaccia per la Germania. La nazione tedesca, egli affermava, aveva il più stretto interesse al buon esito del movimento per l’unità italiana, e una buona causa non diventava cattiva per il fatto che un cattivo uomo la prendeva in mano. Se Bonaparte voleva carpire qualche soldo di popolarità per mezzo della guerra italiana, gli si doveva rifiutare questo favore, e così la sua azione sarebbe diventata inutile per quegli scopi personali che l’avevano spinto a intraprenderla. Ma come si poteva allora combattere contro quel che finora si era voluto e desiderato? Da una parte si aveva un uomo cattivo con una buona causa.  Dall’altra parte una cattiva causa e...  « Già, e l’uomo?». Lassalle ricordava l’uccisione di Blum, Olmiitz, lo Holstein, Bronzell, tutti i delitti commessi contro la Germania non dal dispotismo bonapartista, ma dall’asburgico. Il popolo tedesco aveva tanto poco interesse ad impedire un indebolimento della Austria che, anzi, il completo smembramento dell’Austria era la prima condizione preliminare per l’unità tedesca. Il giorno che l’Italia e Ungheria fossero diventate indipendenti, i dodici milioni di tedeschi-austriaci sarebbero stati restituiti al popolo tedesco, e solo allora essi si sarebbero potuti sentire tedeschi, solo allora sarebbe stata possibile una Germania unita.

Dall’insieme della situazione storica in cui Bonaparte si trovava Lassalle deduceva che quest’uomo di capa cità limitate, così generalmente sopravvalutato in Europa, non poteva affatto pensare a conquiste, neppure in Italia, e meno che mai in Germania. Ma se effettivamente egli si ingolfava in piani fantastici di conquista, perché mai i tedeschi avrebbero dovuto spaventarsi così indegnamente? Lassalle scherniva i prodi patrioti che scorgevano nei giorni di Jena la misura normale della forza nazionale e diventavano temerari soltanto per paura, e che per timore di un attacco estremamente improbabile della Francia spingevano all’attac co contro la Francia. Era chiaro che la Germania nel difendersi da un attacco francese avrebbe potuto spiegare e avrebbe spiegato ben altre forze che in una guerra d’invasione, la quale avrebbe per giunta necessariamente fatto schierare la nazione francese attorno a Bonaparte e avrebbe soltanto consolidato il suo trono.

La guerra contro la Francia era richiesta da Lassalle per il caso che Bonaparte volesse tenere per sé la preda strappata agli austriaci o anche soltanto erigere un trono per il suo cugino nell’Italia centrale. Ma se niente di tutto ciò fosse accaduto e tuttavia il governo prussiano avesse voluto provocare una guerra contro la Francia, e aizzare l’uno contro l’altro i due popoli, allora la democrazia doveva opporvisi. Ma anche la semplice neutralità non bastava. Il compito storico che la Prussia doveva assolvere nell’interesse della nazione tedesca consisteva piuttosto nel mandare il suo esercito contro la Danimarca con questo proclama: «Se Napoleone modifica nel Sud la carta europea secondo il principio delle nazionalità, noi facciamo lo stesso nel Nord, se Napoleone libera l’Italia, noi prendiamo lo Schieswig-Holstein». Se la Prussia continuava a indugiare e a stare inerte, concludeva Lassalle, sarebbe stato più che dimostrato che la monarchia in Germania .non era più capace di una azione nazionale.

Per questo programma Lassalle è stato celebrato quasi come profeta nazionale, che avrebbe predetto quella che poi fu la politica di Bismarck. Però la guerra dinastica di conquista per lo Schieswig-Holstein che Bismarck condusse nel 1864 non aveva nulla a che fare con la guerra popolare rivoluzionaria per Io Schieswig-Holstein che Lassalle voleva nel 1859, o al massimo le somigliava come un cammello somiglia al cavallo. Lassalle sapeva benissimo che il principe reggente non avrebbe adempiuto il compito che lui gli assegnava, ma tuttavia era suo buon diritto fare una proposta che corrispondeva agli interessi nazionali, anche se questa proposta si tramutava subito in un rimprovero contro il governo; era suo buon diritto richiamare da una falsa strada le masse irrequiete, mostrando loro la strada giusta.

Ma Lassalle, oltre a ciò che diceva nel suo scritto, aveva i suoi «argomenti sotterranei», che esponeva nelle sue lettere a Marx ed Engels. Egli sapeva che il principe reggente era già sul punto di intervenire nella guerra italiana in favore dell’Austria, e non aveva neppure niente da obiettare, dato che supponeva che la guerra sarebbe stata mal condotta, così che dalle sue inevitabili alterne vicende si sarebbero tratti dei profitti rivoluzionari. Ma questa possibilità si sarebbe data soltanto se la guerra del principe reggente fosse apparsa fin da principio al movimento nazionale come una guerra dinastica di gabinetto, niente affatto imposta da interessi nazionali. Secondo la concezione di Lassalle una guerra impopolare contro la Francia era una «immensa fortuna» per la rivonazione, mentre da una guerra popolare condotta sotto la guida della dinastia egli prevedeva tutte le conseguenze controrivoluzionarie che spiegava così eloquemente nel suo scritto.

Ma per questo doveva riuscirgli più o meno incomprensibile la tattica che Engels nel suo scritto aveva rac comandato. Quanto luminosa era la prova che la Germania per la sua potenza militare non aveva bisogno del Po, tanto contestabile appariva l’argomentazione conclusiva secondo cui in caso di guerra si sarebbe dovuto, innanzi tutto, tenere il Po, e dunque la nazione tedesca sarebbe stata impegnata ad appoggiare l’Austria contro l’attacco francese. Perché era evidente che, in caso di successo, la difesa dell’Austria con tro l’attacco francese poteva avere solo conseguenze controrivoluzionarie. Se l’Austria vinceva, fondandosi sul suo possesso in alta Italia e appoggiata dalla Confederazione Germanica, nessuno poteva impedirle di mantenere anche in seguito il suo dominio sull’alta Italia, che pure Engels condannava così aspramente; così l’egemonia asburgica sulla Germania sarebbe stata consolidata e la misera amministrazione della Dieta confederale avrebbe ripreso energia, e anche se l’Austria avesse rovesciato l’usurpatore francese, al suo posto avrebbe messo il vecchio regime borbonico: e allora non si sarebbe servito né l’interesse tedesco, né quello francese, e meno che mai l’interesse della rivoluzione.

Per comprendere giustamente il punto di vista sostenuto da Engels e Marx si deve tener presente che anch’essi avevano i loro « argomenti sotterranei», non meno di Lassalle, e entrambi per la stessa ragione, espressa da Engels in una lettera a Marx: «Intervenire direttamente in Germania, con la politica e la polemica, nello spirito del nostro partito, è assolutamente impossibile». Però gli «argomenti sotterranei» degli amici londinesi non sono del tutto manifesti perché sono conservate le lettere di Lassalle a loro ma non le loro lettere a lui. Tuttavia possiamo riconoscerli, se si getta uno sguardo generale alla loro attività pubbli cistica di quel tempo. Nel secondo opuscolo: Savoia, Nizza e il Reno pubblicato un anno più tardi, Engels manifestava chiaramente in opposizione all’annessione bonapartista della Savoia e di Nizza, i presupposti dai quali era partito nel primo opuscolo. Erano essenzialmente due, o in sostanza tre.

In primo luogo, Marx ed Engels credevano che il movimento nazionale in Germania fosse di buonissima lega; che fosse sorto « spontaneo, istintivo, immediato» e che potesse trascinare con sé i governi riluttanti. Pensavano che prima di tutto il dominio dell’Austria in Italia e il movimento italiano d’indipendenza gli erano indifferenti; l’istinto popolare aveva richiesto la lotta contro Luigi Napoleone, contro le tradizioni del primo Impero francese, e aveva avuto ragione.

In secondo luogo, però, Marx ed Engels supponevano che la Germania fosse seriamente minacciata dal l’alleanza franco-russa. Nella New York Tribune Marx spiegava che le condizioni finanziarie e di politica interna del secondo Impero erano arrivate a un punto critico, al punto che soltanto una guerra esterna poteva prolungare il dominio del colpo di Stato in Francia e quindi la controrivoluzione in Europa. Egli te meva che la liberazione bonapartista dell’Italia fosse solo un pretesto per tenere soggiogata la Francia, per sottomettere l’Italia al colpo di Stato, per spostare i «confini naturali» della Francia verso la Germania, per trasformare l’Austria in uno strumento russò, e per cacciare a forza i popoli in una guerra fra la controri voluzione legittima e l’illegittima. Ma nell’intervento della Confederazione Germanica in favore dell’Austria Engels vedeva, come spiegava nel suo secondo opuscolo, il momento decisivo, nel quale la Russia sareb be apparsa sul campo di battaglia, per conquistare alla Francia la sponda sinistra del Reno e per ottenere essa stessa mano libera in Turchia.

Infine Marx ed Engels supponevano che i governi tedeschi e specialmente la «saccenteria berlinese», che aveva salutato con giubilo la pace di Basilea, con la quale era stata ceduta alla Francia la sponda sinistra del Reno, e che aveva goduto in segreto quando l’Austria era stata sconfitta a Ulma e Austerlitz, avrebbero piantato in asso l’Austria. Secondo la loro opinione i governi tedeschi dovevano essere spinti avanti dal movimento nazionale, e quel che poi essi aspettavano era detto da Engels in una lettera a Lassalle, con una frase che questi ripeteva letteralmente nella sua risposta: «Viva la guerra, se francesi e russi ci attaccheranno contemporaneamente, se noi staremo per affogare: allora in questa situazione disperatissima tutti i partiti, da quello che domina ora fino a Zitz e Blum, si logoreranno inevitabilmente e la nazione, per salvarsi, dovrà finalmente rivolgersi al partito più energico». Al che Lassalle notava che era molto giusto, e che lui a Berlino si ammazzava per dimostrare che il governo prussiano, se faceva la guerra, faceva il gioco della rivoluzione, a patto però che la guerra del governo fosse esecrata dal popolo come guerra controrivoluzionaria della Santa Alleanza. Ma in ogni caso, se avveniva quello che Engels pensava, esistenza della Confederazione Germanica, il dominio austriaco in alta Italia e il colpo di Stato francese sarebbero stati ugualmente spacciati, e solo sotto questo rapporto la tattica da lui proposta diviene pienamente comprensibile.

Da tutto ciò risulta che non esisteva alcuna fondamentale divergenza di opinione fra le parti in contrasto, ma soltanto «giudizi opposti su presupposti di fatto», come diceva Marx un anno dopo. Essi non si diffe renziavano affatto nei loro princìpi, tanto nazionali che rivoluzionari. Per loro tutti l’obiettivo supremo era l’emancipazione del proletariato, e un presupposto indispensabile per arrivarci era la formazione di grandi Stati nazionali. Come tedeschi, avevano soprattutto a cuore l’unità tedesca, e il suo presupposto indispen sabile era l’eliminazione della molteplicità dei domìni dinastici. Perciò, appunto per i loro princìpi nazionali, essi non avevano proprio nessuna tenerezza per i governi tedeschi, e desideravano la loro sconfitta; la bril lante idea, secondo cui, nel caso di una guerra divampata fra i governi, la classe operaia dovesse rinunciare a ogni politica propria e affidare ciecamente il suo destino alle classi dominanti, non è mai neppur lontanamente balenata nelle loro menti. I loro princìpi nazionali erano troppo schietti perché essi potessero essere sedotti da slogan dinastici.

La situazione diventò difficile soltanto perché l’eredità degli anni rivoluzionari cominciò a essere liquidata attraverso rivolgimenti dinastici. Trovare la giusta separazione in questa mescolanza di interessi rivoluzio nari e reazionari non era una questione di princìpi, ma una questione di fatti. Una applicazione pratica non si è avuta né per luna né per l’altra soluzione, ma proprio il corso degli avvenimenti che ha impedito questa applicazione ha mostrato abbastanza chiaramente che in sostanza Lassalle aveva giudicato più giustamente di Engels e di Marx i « presupposti di fatto». Essi però ora scontavano l’aver perduto di vista, in certo modo, le condizioni tedesche, e l’avere in un certo modo sopravvalutato, se non la bramosia di conquista, almeno le possibilità di conquista dello zarismo. Lassalle poteva esagerare, quando riconduceva senz’altro il movimento nazionale all’odio an ti francese dei tempi andati, ma che esso fosse tutt’altro che rivoluzionario si vide dalla creatura che alla fine partorì: l’aborto dell’Unione nazionale tedesca.

Lassalle avrà anche sottovalutato il pericolo russo; nel suo scritto ne trattava solo in via del tutto secondaria. Però, che esso era ancora ben lontano lo si vide quando il principe reggente di Prussia, proprio come Las salle aveva predetto, mobilitò l’esercito prussiano e propose alla Confederazione Germanica di mobilitare i reparti dei medi e piccoli Stati. Questa dimostrazione militare bastò per portare a più miti consigli tanto l’uomo del dicembre quanto lo zar. In seguito alle vivaci sollecitazioni di un aiutante generale russo, che subito comparve al quartier generale francese, Bonaparte offrì la pace al vinto imperatore d’Austria, rinun ciando anche per metà al suo programma ufficiale; egli si contentò della Lombardia, e il Veneto rimase sotto lo scettro asburgico. Egli non poteva condurre con le proprie forze una guerra europea, e la Russia era paralizzata dal fermento in Polonia, dalle difficoltà create dall’emancipazione dei servi della gleba e dai contraccolpi, non ancora superati, della guerra di Crimea.

Con la pace di Villafranca il contrasto sulla tattica rivoluzionaria di fronte alla guerra italiana era terminato, però Lassalle nelle sue lettere a Marx ed Engels vi tornava sopra ripetutamente, insistendo sempre sul fatto che il suo parere era stato giusto ed era stato confermato dallo effettivo corso delle cose. Poiché le risposte mancano, e Marx ed Engels non hanno reso noti i loro pareri, in un manifesto pubblico, come avevano progettato, manca la possibilità di contrapporre e valutare le opposte ragioni. Lassalle poteva a buon diritto appellarsi ai corso effettivo del movimento italiano per l’unità, al fatto che le dinastie dell’Italia centrale erano state liquidate con la sollevazione dei loro maltrattati «sudditi», che la Sicilia e Napoli le avevano conquistate i volontari di Garibaldi, e che tutto ciò aveva cancellato, come un grosso tratto di penna, i piani bonapartisti, anche se in ultima analisi finì che ad approfittarne fu la dinastia dei Savoia.

Purtroppo la contesa con Lassalle fu in qualche misura inasprita dall’invincibile diffidenza che Marx provava contro di lui. Non già che Marx non avesse desiderato di guadagnarsi « l’uomo tutto intero»! Lo chiamava un «tipo energico», incapace di trafficare col partito della borghesia; riteneva anche che l’Eraclito di Lassalle, benché scritto in modo grossolano, fosse quanto di meglio i democratici potessero vantare. Ma quanto Lassalle era aperto ed espansivo nei suoi riguardi, altrettanto Marx era convinto invece di dover sempre agire con diplomazia, di dover usare una «scaltra tattica» per tenere all’ordine Lassalle, e il primo incidente capitato bastò per risvegliare nuovamente i suoi sospetti.

Quando Friedlànder per mezzo di Lassalle fece ripetere a Marx l’offerta di scrivere per la Wiener Presse, e questa volta senza alcuna condizione, ma poi lasciò cadere la cosa, Marx suppose che Lassalle gli avesse mandato a monte questa possibilità, e quando la stampa della sua Economia politica si trascinò dal principio di febbraio alla fine di maggio, egli vide in ciò un «colpo» che non avrebbe dimenticato da parte di Lassalle. In realtà il ritardo era dovuto alla lentezza dell’editore, che però poteva scusarsi col dire che aveva dovuto accordare la precedenza agli opuscoli di Engels e Lassalle, essendo la loro efficacia calcolata per quel momento.

    12.3    ​​​Nuove lotte fra emigrati

Il carattere contraddittorio della guerra italiana accese fra gli emigrati antichi contrasti e nuova confusione. Mentre gli esuli italiani e francesi si battevano contro questo confondersi del movimento unitario italiano col colpo di Stato francese, gran parte degli esuli tedeschi era pronta a ripetere quelle follie che alla prima edizione avevano fruttato loro dieci anni d’esilio. Essi erano ben lontani dalle opinioni di Lassalle, anzi si esaltavano per la «nuova èra» della grazia del principe reggente, di un raggio della quale speravano anche essi di poter beneficiare; scoppiavano dalla «smania dell’amnistia», come li scherniva Freiligrath, ed erano disposti a qualsiasi azione patriottica, se l’«Altezza reale» avesse voluto forgiare con la spada l’unità della Germania, come Kinkel aveva già predetto a Rastatt, davanti al tribunale militare.

Anche allora infatti si fece araldo di questa tendenza, e a partire dal 1◦ gennaio 1859 pubblicò lo Hermann, un settimanale che già per il suo titolo antidiluviano rivelava di che pasta fosse fatto. Esso diventò l’adegua to organo degli « strombettamenti nostalgici» (per citare ancora una volta Freiligrath) che non ponevano tempo in mezzo per tuffarsi nell’«imbroglio liberale del sottufficiale». Ma per questo motivo il settimanale prosperò e fece subito morire la Neue Zeit, un piccolo giornale operaio che Edgar Bauer pubblicava per conto dell’Associazione operaia di cultura. La Neue Zeit viveva essenzialmente del credito dello stampato re, e quindi per essa fu finita quando Kinkel offrì a questo il più profittevole e solido incarico di stampare lo Hermann. Il colpo però non trovò plauso unanime neppure fra gli emigrati borghesi; persino il liberoscambi sta Faucher formò un comitato finanziario per far continuare la Neue Zeit, come poi fu fatto ribattezzandola Das Volk. Ne assunse la direzione Elard Biskamp, un esule dell’Assia elettorale, che dalla provincia aveva collaborato alla Neue Zeit, e ora rinunciava al suo posto di insegnante per dedicare la sua attività al giornale risorto.

Insieme con Liebknecht, Biskamp cercò subito Marx, per ottenerne la collaborazione. Dopo la rottura del 1850 Marx non aveva più avuto alcun legame con l’Associazione operaia di cultura. Fu anzi scontento quando Liebknecht per parte sua ristabilì questo legame, bsnché l’opinione di Liebknecht, che infine un partito operaio senza operai era in se stesso una contraddizione, avesse molti punti a suo favore. Tuttavia era abbastanza comprensibile che Marx non potesse tanto presto passar sopra a tutti i cattivi ricordi e «sbalordisse» una deputazione dell’Associazione dichiarando che lui ed Engels, come rappresentanti del partito proletario, non avevano avuto l’investitura da nessuno se non da se stessi, e che essa era convalidata dal generale ed esclusivo odio che tutti i partiti del vecchio mondo dedicavano loro.

Anche di fronte alla richiesta di collaborare al Volk Marx fu dapprima molto riservato. Certo approvava ampiamente che non si dovesse lasciare via libera ai maneggi di Kinkel, e si dichiarò anche d’accordo sull’appoggio che Liebknecht voleva dare all’attività redazionale di Biskamp. Ma non voleva aver a che fare direttamente con un piccolo giornale e nemmeno con un giornale di partito che non fosse diretto da Engels e da lui. Promise soltanto di adoprarsi per la diffusione del giornale, di consentire che ripubblicasse di quando in quando articoli stampati sulla Tribune, e ancora di dargli a voce note e cenni su questo o quell’argomento. A Engels scrisse che considerava il Volk come un giornaletto da nulla, com’erano stati a suo tempo il Vorwàrts parigino e la Deutsche Brùsseler Zeitung. Che però poteva venire un momento che sarebbe stato decisamente importante per loro disporre di un giornale londinese. Biskamp meritava tanto più appoggio in quanto lavorava gratis.

Tuttavia Marx era di una natura troppo combattiva e indocile per non mettersi attivamente all’opera in favore del «giornaletto da nulla», quando questo cominciò a diventare incomodo per i maneggi di Kinkel. Egli spese molto tempo e energia per tenerlo a galla, ma non tanto con la sua collaborazione che, secondo le sue asserzioni, sembra essersi limitata a un certo numero di piccole note, quanto con i suoi sforzi per assicurare l’esistenza materiale dell’organo (che del resto usciva in formato grande a quattro pagine) tanto almeno che potesse vivere alla giornata. Chi poteva offrire il suo obolo, dei pochi amici di partito, veniva messo all’opera; in prima fila Engels che collaborava anche assiduamente con la penna, scriveva articoli militari sulla guerra italiana, e in particolare dette un contributo di molto valore con un saggio sull’opera scientifica del suo amico che era appena uscita, del quale però il terzo ed ultimo articolo non apparve più. Alla fine di agosto infatti il giornale era spirato, e il risultato pratico degli sforzi di Marx fu che il tipografo, un certo Fidelio Hollinger, lo fece responsabile per le spese di stampa ancora da pagare. Era una richiesta senza fondamento, ma «poiché la banda di Kinkel non aspettava che questa faccenda per fare uno scandalo pubblico, e tutto il personale che gravitava attorno al giornale era poco adatto per un’esibizione davanti al tribunale» Marx si riscattò con circa cinque sterline.

Un’altra eredità che gli lasciò il Volk doveva costargli sacrifici e preoccupazioni incomparabilmente maggiori. Il 1◦ aprile 1859, a Ginevra, Karl Vogt aveva mandato ad alcuni profughi di Londra, fra cui Freiligrath, un programma politico sull’atteggiamento della democrazia tedesca verso la guerra italiana, con la richiesta di collaborare in conformità di questo programma a un nuovo settimanale svizzero. Il Vogt, nipote dei fratelli Follen, che avevano avuto una parte considerevole nel movimento studentesco, era stato con Robert Blum il capo della sinistra all’Assemblea nazionale di Francoforte e negli ultimi momenti di vita del Parla mento era stato nominato, insieme ad altri quattro, reggente imperiale. Ora viveva, come professore di geologia, a Ginevra, della quale egli era rappresentante nel Consiglio degli Stati svizzero insieme con Fazy, capo dei radicali ginevrini. In Germania manteneva vivo il suo ricordo conducendo una fervida agitazione per un ristretto materialismo naturalistico, che subito si smarriva quando capitava sul terreno storico. Per di più Vogt sosteneva questa concezione, come diceva Ruge non senza coglier nel segno, con «screanzata fanciullaggine»; cercava di solleticare i filistei con cinici slogan, e quando ci riuscì, specialmente con la frase «i pensieri stanno nello stesso rapporto col cervello come la bile col fegato o l’orina coi reni», persino il suo più stretto compagno d’opinioni, Ludwig Bùchner, rifiutò questa sorta di volgarizzazione culturale. Ora Freiligrath chiese a Marx un giudizio sul programma politico che Vogt gli aveva presentato, e ottenne la laconica risposta: chiacchiere. Un po’ più diffusamente Marx ne scrisse a Engels: «La Germania rinuncia ai suoi possessi extra tedeschi. Non sostiene l’Austria. Il dispotismo francese è transitorio, quello austriaco permanente. Si permette a tutti e due i despoti di andare in malora. (E’ persino visibile una certa propensione per Bonaparte). La Germania attua una neutralità disarmata. A un movimento rivoluzionario, come Vogt sa da ottima fonte, non ce da pensare per tutto il tempo della nostra vita. Di conseguenza, appena l’Austria sarà messa a terra da Bonaparte, comincia automaticamente in patria un’evoluzione moderatamente nazional-liberale con una reggenza imperiale, e forse Vogt trova modo di diventare buffone di corte prussiano». Il sospetto che Marx accenna già in queste righe diventò per lui certezza prima ancora che Vogt cominciasse a pubblicare il progettato settimanale, quando uscirono i suoi Studi sull’attuale situazione dell’Europa, uno scritto nel quale non si poteva più disconoscere il nesso ideale con gli slogan bonapartisti.

Oltre che a Freiligrath, Vogt si era rivolto anche a Karl Blind, un esule del Baden che era stato in amicizia con Marx fin dagli anni della rivoluzione e aveva anche dato un contributo alla Neue Rheinische Revue, pur non essendo fra i suoi più stretti compagni d’opinioni. Blind era uno di quei repubblicani «seri» per i quali il «cantone badese» era sempre l’ombelico del mondo. Specialmente Engels si prendeva gioco allegramente di questi «uomini di Stato» i cui princìpi, con tutta la loro tetra sublimità, si dissolvevano ordinariamente in una smisurata venerazione del proprio io. Blind si accostò ora a Marx con delle rivela zioni sulle manovre con cui Vogt tradiva il proprio paese, e affermò di averne delle prove. Disse che Vogt riceveva una sovvenzione bonapartista per la sua agitazione; che aveva cercato di corrompere uno scrittore della Germania meridionale con 30.000 fiorini; che anche a Londra si erano verificati da parte sua tentativi di corruzione; che già nell’estate del 1858 a Ginevra, in un incontro fra il principe Girolamo Napoleone, Fazy e consorti, era stata discussa la guerra italiana e il granduca russo Costantino era stato designato come futuro re d’Ungheria.

Marx accennò incidentalmente a queste comunicazioni quando Biskamp andò da lui per ottenere la sua collaborazione al Volk} e aggiunse che era caratteristico dei tedeschi meridionali di caricare parecchio le tinte. Senza interrogare Marx, Biskamp utilizzò alcune delle asserzioni di Blind per denunziare il «reggente dell’impero come traditore dell’impero» in un articolo motteggiarne del Volk, e mandò a Vogt un esemplare di questo numero. Vogt rispose nello Handelskurier[iv]10 di Biel con un Avvertimento ai lavoratori, che si guardassero da quella «cricca di profughi» che un tempo erano stati noti nell’emigrazione svizzera sotto il nome di Burstenheimer o di Schwefelbande[v]11, e ora si erano riuniti a Londra sotto il loro capo Marx, per mettersi a ordire congiure fra i lavoratori tedeschi, congiure che erano note fin da principio alle polizie segrete del continente e precipitavano i lavoratori nella rovina. Marx non si lasciò turbare da questo «porco articoletto» e si limitò a farlo riprodurre nel Volk,

Quando però, al principio di giugno, si recò a Manchester a raccogliere contributi per il Volk presso quegli amici di partito, Liebknecht trovò nella tipografia del giornale le bozze di stampa di un opuscolo anonimo, diretto contro Vogt, che conteneva rivelazioni di Blind e che, come attestava il compositore Vògele, era stato consegnato da Blind per la stampa in un manoscritto di proprio pugno; e anche le correzioni delle bozze portavano la scrittura di Blind. Un paio di giorni dopo Liebknecht ottenne dallo stesso Hollinger una copia delle bozze e la mandò alla Allgemeine Zeitung di Augusta, della quale era corrispondente da qualche anno. Aggiungeva che l’opuscolo aveva per autore uno dei più rispettabili fra gli esuli tedeschi e che i fatti potevano tutti essere provati.

Quando l’opuscolo fu apparso nella Allgemeine Zeitung, Vogt sporse querela per diffamazione. La reda zione allora chiese per la sua difesa le prove promesse da Liebknecht, e questi si rivolse a Blind. Ma Blind rifiutò di immischiarsi negli affari di un giornale a lui estraneo, e contestò addirittura di essere l’autore dello scritto, pur dovendo ammettere di aver comunicato a Marx l’effettivo contenuto dell’opuscolo, e di averne pubblicato una parte anche nella Free Press, organo di Urquhart. La cosa inizialmente non interessava affatto Marx e lo stesso Liebknecht era pienamente persuaso di essere sconfessato da lui. Nondimeno Marx credette di dover fare del suo meglio per smascherare Vogt, che lo aveva trascinato nella faccenda per i capelli. Ma anche i suoi tentativi di indurre Blind a confessare fallirono di fronte alla sua ostinazione, e Marx dovette contentarsi della testimonianza scritta del compositore Vògele, che attestò che il manoscritto dell’opuscolo era stato steso con la scrittura di Blind, da lui conosciuta, ed era stato composto e stampate nella tipografia di Hollinger. Con ciò certo ancora nulla era dimostrato della colpevolezza di Vogt.

Intanto, prima che si arrivasse al dibattito nel tribunale di Augusta, la celebrazione Schilleriana del 10 novembre 1859, centesimo anniversario della nascita del poeta, portò a una nuova contesa fra gli emigrati londinesi. Si sa come questo giorno fu celebrato dai tedeschi in patria e all’estero, come testimonianza (per dirla con Lassalle) dell’«unità spirituale» del popolo tedesco e come un «pegno lieto della sua risurrezione nazionale». Anche a Londra fu progettata una festa. Essa doveva aver luogo al Palazzo di Cristallo, e coi proventi residui era stabilito che si fondasse un Istituto Schiller, con una sua biblioteca e con conferenze annuali che dovevano cominciare sempre il giorno della nascita di Schiller. Ma purtroppo il gruppo di Kinkel seppe impossessarsi dei preparativi della festa e approfittarne per sé con odiosa meschinità. Mentre invitava a parteciparvi un funzionario dell’ambasciata prussiana che si era fatto un pessimo nome al tempo del processo dei comunisti di Colonia, esso cercava di intimidire fra gli emigrati gli elementi proletari; un certo Bettziech, che si faceva chiamare lo scrittore Beta e fungeva da garzone letterario a Kinkel. faceva nella Gartenlaube la più insulsa reclame al suo padrone e maestro, e intanto scherniva in maniera altret tanto insulsa i membri dell’Associazione operaia che avevano intenzione di partecipare alla celebrazione schilleriana.

In questo stato di cose Marx ed Engels trovarono penoso che Freiligrath acconsentisse a presentarsi alla festa del Palazzo d; Cristallo come poeta ufficiale, accanto o dopo l’oratore ufficiale Kinkel. Marx invitò il vecchio amico ad astenersi da ogni partecipazione alla «dimostrazione Kinkel». Freiligrath ammise anche che la cosa aveva i suoi aspetti delicati e che probabilmente doveva servire a qualche vanità personale, ma come poeta tedesco non riteneva conseguente tenersene del tutto fuori. Ma questo, diceva, si capiva da sé. E aggiungeva che, infine, in occasione della celebrazione schilleriana, non avevano importanza i secondi fini di una frazione, posto che essa ne avesse. Nei preparativi della festa egli però fece delle «notevoli esperienze» e credette (nonostante la sua radicata mania di prendere uomini e cose dal loro lato migliore) che Marx potesse avere ragione col suo avvertimento. Ma persistè nella convinzione che con la sua presenza e col solo segno della sua partecipazione avrebbe contribuito ad impedire certi disegni più che se si fosse tenuto fuori.

In questo però Marx non era d’accordo e ancor menò Engels, che si espresse con parole molto irose sulla « vanità di poeta e ficchineria di letterato» di Freiligrath, «insieme al più gretto leccapiedismo»[vi]12. Questo passava i limiti. Quella festa schilleriana era in realtà qualche cosa di diverso dalle solite fiere con cui il filisteo tedesco usa celebrare i pensatori e i poeti che come le gru si sono levati a volo sopra il suo berretto da notte. Essa trovò risonanza anche nell’estrema sinistra.

Quando Marx si lagnò di Freiligrath presso Lassalle, questi rispose: «Può darsi che egli avrebbe fatto meglio a non partecipare alla festa. Ma in ogni caso ha fatto bene a scrivere la cantata. Essa era di gran lunga la cosa migliore fra tutto ciò che è apparso in questa occasione». A Zurigo Herwegh scrisse l’inno per la festa, e a Parigi Schily tenne il discorso ufficiale. A Londra anche l’Associazione operaia di cultura partecipò alla festa nel Palazzo di Cristallo, dopo aver messo a tacere la propria coscienza politica, il giorno precedente, con una celebrazione di Robert Blum, nella quale parlò Liebknecht. Anzi, a Manchester diresse la festa Siebel, un giovane poeta del Wuppertal, senza che Engels, che di lui era lontano parente, ci trovasse gran che da criticare. Pur affermando che lui non aveva nulla a che fare con tutta la faccenda, egli scrisse però a Marx che Siebel faceva l’epilogo, « naturalmente le solite declamazioni, ma con un certo decoro» ; «inoltre questo ciondolone dirige la rappresentazione del Wallensteins Lager; sono stato due volte alla prova, se quei ragazzi avranno un po’ di faccia tosta, potrà essere discreta»[vii]13. In seguito Engels stesso diventò presidente dell’Istituto Schiller, che fu fondato a Manchester in questa occasione, e Wilhelm Wolff nel suo testamento lasciò a quell’istituto un legato ragguardevole.

Negli stessi giorni durante i quali nasceva questa irritazione fra Freiligrath e Marx, il tribunale di Augusta discusse la querela di Vogt contro la Allgemeine Zeitung. Vogt fu condannato al pagamento delle spese, ma la sconfitta giuridica fu per lui un trionfo morale. I redattori accusati non poterono addurre la minima prova della corruttibilità di Vogt e si abbandonarono, come Marx giudicava troppo indulgentemente, a un «gergo politicamente privo di gusto», che meritava la più severa condanna non solo dal punto di vista politico ma anche morale. Essi se ne uscirono con la frase che l’onore personale di un avversario politico non riguardava la legge: come potevano dei giudici bavaresi dar ragione a un uomo che aveva attaccato violentemente il governo bavarese e che doveva vivere all’estero a causa delle sue manovre rivoluzionarie! L’intero partito socialista-democratico della Germania, che undici anni prima aveva consacrato i suoi rosei sogni mattutini di libertà con l’assassinio dei generali Latour, Gagern e Auerswald e del principe Lichnowsky sarebbe esploso in un vero tripudio se i redattori accusati fossero stati condannati. Dicevano infine che se il tentativo di Vogt fosse riuscito, sarebbe sorta la consolante prospettiva di veder apparire come queleranti davanti al tribunale di Augusta anche Klapka, Kossuth, Pulski, Teleki, Mazzini.

Nonostante la bassa astuzia, o piuttosto proprio a causa di essa, questa difesa si impose ai giudici. La loro coscienza giuridica invero arrivava ancora fino al punto da non assolvere gli accusati, che con le loro prove erano così completamente falliti, ma non arrivava tanto in là da dar ragione a un uomo che era estremamente odiato tanto dal governo che dal popolo bavarese. Così essi si aggrapparono avidamente all’espediente suggerito loro dal pubblico ministero: per motivi formali rinviarono la causa alla corte d’assise, dove Vogt poteva essere tanto più sicuro della sua condanna, in quanto qui non era ammessa alcuna prova della verità e i giurati non dovevano addurre le ragioni del proprio giudizio.

Non si poteva rimproverare Vogt, se non si impegnò in questo impari gioco. Al contrario egli potè doppia mente cingersi dell’aureola del martire: non soltanto egli era stato incolpato a vuoto, ma gli era stata anche negata giustizia. Svariate circostanze accessorie si aggiunsero a ingrandire il suo trionfo. Un’impressione molto spiacevole si diffuse, quando al processo i suoi avversari produssero una lettera di Biskamp, nella quale questi, primo accusatore pubblico di Vogt, dopo aver confessato di non avere reali prove, faceva al cune vaghe allusioni, che coronava con la richiesta di essere assunto dopo la fine del Volk, come secondo corrispondente londinese della Allgemeine Zeitung, accanto a Liebknecht. E la redazione della Allgemeine Zeitung continuò, ancora dopo la fine del processo, con le sue baggianate: che Vogt era stato giudicato dai suoi pari, da Marx e Freiligrath; che da lungo tempo era noto che Marx era un pensatore più acuto e conseguente di Vogt e che Freiligrath era superiore a Vogt per moralità politica.

Già in una difesa scritta che il direttore Kolb aveva rimesso al tribunale era stato fatto il nome di Freiligrath, come collaboratore del Volk e accusatore di Vogt; Kolb aveva frainteso in questo senso una affermazione epistolare, non ben chiara, di Liebknecht. Appena il resoconto della Allgemeine Zeitung sul processo arrivò a Londra, Freiligrath mandò al giornale una breve dichiarazione per affermare che non era mai stato collaboratore del Volk e che il suo nome era stato incluso fra quelli degli accusatori di Vogt a sua insaputa e contro la sua volontà. Da questa dichiarazione si sono tratte spiacevoli conclusioni, in quanto Vogt apparteneva agli intimi di Fazy, dal quale dipendeva la posizione di Freiligrath nella Banca svizzera; ma queste conclusioni sarebbero state giustificate soltanto se Freiligrath fosse stato in qualche modo impegnato a intervenire contro Vogt. Questo però non si potè dire. Fino allora Freiligrath non si era affatto occupato di tutta la faccenda, e poteva chiedere con pieno diritto che Kolb non si nascondesse dietro il suo nome, quando le cose cominciavano ad andare per traverso. Certo nelle espressioni secche e laconiche di Freiligrath si poteva anche leggere, fra le righe, una rottura indiretta con Marx; Marx stesso sentì nella dichiarazione la mancanza di un sia pur minimo accenno che le togliesse l’apparenza di una rottura personale con lui o di un aperto distacco dal partito. E questa mancanza si poteva bene spiegare con un certo malumore di Freiligrath: Marx pretendeva di proibirgli per ragioni di partito di pubblicare una innocente poesia in onore di Schiller, e lui doveva esser subito pronto a farsi sotto non appena Marx si ingolfava in una lite alla quale nessuno l’aveva costretto.

La cattiva impressione fu ancora aggravata in seguito a una dichiarazione di Blind, pubblicata nella Allge meine Zeitung, nella quale questi «condannava incondizionatamente» la politica di Vogt, ma dichiarava che l’asserzione secondo cui lui sarebbe stato l’autore dell’opuscolo contro Vogt era una bassa menzogna. Aggiungeva due testimonianze„ in una delle quali Fidelio Hollinger chiamava «maligna invenzione» l’asserzione del tipografo Vògele, secondo cui l’opuscolo era stato stampato nella sua tipografia e scritto da Blind, nell’altra il tipografo Wiehe confermava come esatta la testimonianza di Hollinger.

Per di più un malaugurato caso accrebbe il materiale infiammabile che cominciava ad accumularsi fra Freiligrath e Marx. Proprio ora apparve nella Gartenlaube un articolo di Beta, in cui questo facchino let terario di Kinkel esaltava con stile tronfio il poeta Freiligrath, per finire con degli insulti volgari contro Marx: questo sciagurato virtuoso dell’odio invelenito aveva strappato a Freiligrath la voce, la libertà, il carattere; il poeta aveva cantato soltanto di rado, da quando era stato toccato dall’alito di Marx.

Tuttavia, dopo qualche battibecco epistolare fra Freiligrath e Marx, tutte queste cose parvero scomparire nel mare della dimenticanza con l’agitato anno 1859. Ma con l’anno nuovo riemersero, perché l’onesto Vogt volle assolutamente confermare l’antico proverbio, che l’asino va a ballare sul ghiaccio quando sta troppo bene.

    12.4    ​​​Intermezzi

Verso la fine dell’anno Vogt pubblicò uno scritto dal titolo Il mio processo contro la Allgemeine Zeitung. Esso conteneva il resoconto stenografico dei dibattiti avvenuti di fronte al tribunale distrettuale di Augusta e una raccolta delle dichiarazioni o di altri documenti che erano venuti alla luce durante il processo, l’uno e l’altra integralmente e fedelmente riportati.

Ma frammezzo vi erano riportati, con maggiore profusione di particolari, i vecchi pettegolezzi sulla Schwe felbande che Vogt aveva già pubblicato sullo Handelskurier di Biel. Marx, in particolare, era descritto come il capo di una banda di ricattatori che campava compromettendo delle «persone in patria», in modo che fossero costrette a pagare con denaro il silenzio della banda. «Non una — vi era detto testualmente — ma centinaia di lettere quest’uomo ha mandato in Germania, contenenti l’aperta minaccia che si sarebbe de nunciata la partecipazione al tale o al tal altro atto della rivoluzione se entro una data scadenza non fosse pervenuta una certa somma a un determinato indirizzo». Era questa la più perfida calunnia, senza essere affatto l’unica, che Vogt scagliava contro Marx. Ma per quanto fosse tutta una menzogna da cima a fondo, l’esposizione era così frammista di dati di ogni genere, per metà veri, presi dalla storia dell’emigrazione, che per non restare sconcertati a prima vista occorreva una precisa conoscenza di tutti i particolari, di cui il filisteo tedesco era l’ultimo a essere al corrente.

Lo scritto quindi fece un notevole chiasso e fu salutato in Germania con gran giubilo, specialmente dalla stampa liberale. La Nationalzeitung ci ricavò due lunghi articoli di fondo che, quando arrivarono a Londra, misero grande agitazione anche in casa Marx, e fecero una profonda impressione specialmente a sua moglie. Poiché a Londra l’opuscolo non si trovava, Marx si affrettò a chiedere a Freiligrath se ne avesse ricevuto una copia dal suo «amico» Vogt. Freiligrath rispose risentito che Vogt non era suo «amico», e che non possedeva una copia dell’opuscolo.

Fin da principio Marx si rese conto della necessità di una risposta, per quanto di solito fosse poco incline a rispondere agli insulti, anche se accumulati in misura così eccessiva; egli riteneva infatti che la stampa avesse il diritto di offendere scrittori, politicanti, istrioni e altri personaggi della vita pubblica. Ancor prima che l’opuscolo di Vogt arrivasse a Londra, Marx decise di procedere per vie legali contro la Nationalzeitung. Essa lo accusava di tutta una serie di azioni criminali e infamanti, e proprio davanti a un pubblico che, già incline per pregiudizi di partito a prestar fede alle peggiori mostruosità, mancava, in seguito agli undici anni di assenza dalla Germania, di ogni sia pur minimo fondamento per giudicare della sua persona. Non solo in base a considerazioni politiche, ma anche per la moglie e i figli egli doveva sottoporre a un giudizio legale le accuse diffamatorie della Nationalzeitung, riservandosi di pubblicare una risposta a Vogt.

Prima di tutto Marx fece i conti con Blind, sempre supponendo che Blind avesse in mano delle prove contro Vogt, e che non volesse tirarle fuori soltanto per un riguardo dovuto a ragioni di affinità spirituale, quel riguardo che in fin dei conti un democratico volgare doveva a un altro democratico volgare. A quanto sembra, in questo Marx si sbagliava, ed era nel giusto Engels, il quale supponeva che Blind si fosse inventato di sana pianta, tanto per darsi stupidamente dell’importanza, i particolari sui tentativi di corruzione di Vogt, e che si fosse messo a negare non appena la faccenda era diventata scottante, impelagandosi sempre di più. Il 4 febbraio Marx emanò una circolare in inglese, indirizzata al direttore della Free Press, nella quale definiva pubblicamente un’infame menzogna la dichiarazione di Blind, Wiehe e Hollinger, se condo cui l’opuscolo anonimo non sarebbe stato stampato nel locale di Hollinger, e definiva pure infame mentitore il suddetto Blind il quale, se si fosse sentito toccato da queste accuse, avrebbe potuto andare a farsi rendere giustizia da un tribunale inglese. Blind, giudiziosamente, se ne guardò bene, e tentò di cavarsi d’impiccio pubblicando un lungo avviso sulla Allgemeine Zeitung, in cui sì esprimeva con durezza contro Vogt e fra le righe lo accusava di venalità, continuando però a negare come prima di essere l’autore dell’opuscolo.

Ciò non bastò affatto a Marx per ritenersi soddisfatto. Egli riuscì a condurre il compositore Wiehe davanti al tribunale di polizia e a indurlo a rilasciargli un affidavit (dichiarazione in luogo di giuramento che, se falsa, comportava tutte le conseguenze legali del falso giuramento), nel quale Wiehe finalmente attestava di avere ricomposto lui stesso l’impaginazione dell’opuscolo, per la ristampa nel Volk, nella tipografia di Hollinger, e di aver visto sulle bozze di stampa diversi errori corretti dalla mano di Blind, e dichiarava che la sua precedente opposta testimonianza gli era stata estorta da Hollinger e da Blind, da Hollinger con una promessa di denaro, da Blind con l’assicurazione della sua futura gratitudine. Così Blind cadeva sotto la giurisdizione inglese, e Ernst Jones si dichiarò pronto ad ottenere un mandato d’arresto per Blind, in base all’affidavit di Wiehe, ma avvertì anche che una volta notificata la causa, in quanto azione penale, non si poteva più recedere e che lui stesso, come avvocato, si sarebbe reso punibile se avesse voluto tentare qualche accomodamento.

Per riguardo alla famiglia di Blind, Marx non volle che le cose andassero tanto in là. Mandò l’affidavit di Wiehe a Louis Blanc, che di Blind era amico, con una lettera nella quale diceva che sarebbe stato spiacente se fosse stato costretto a intentare un’azione penale contro Blind, non tanto per lui, che se lo sarebbe ampiamente meritato, ma per la sua famiglia. La cosa fece effetto. Il 15 febbraio 1860 sul Daily Telegraph, che pure aveva ripetuto le diffamazioni della Nationalzeitung, apparve una nota di un certo Schaible, intimo di Blind, che si diceva autore dell’opuscolo. A questo punto Marx lasciò correre, tante la manovra era trasparente; adesso egli era libero da ogni responsabilità per il contenuto dell’opuscolo.

Prima di procedere contro lo stesso Vogt, cercò di riconciliarsi con Freiligrath, cui aveva mandato, senza ottenere risposta, tanto la circolare contro Blind quanto l’affidavit di Wiehe. Si rivolse a lui per l’ultima volta onde fargli presente l’importanza che il caso Vogt aveva assunto per rendere ragione al partito davanti alla storia e chiarire la sua posizione futura in Germania. Cercò di ribattere alle rimostranze che Freiligrath poteva muovergli; «se in qualche modo ho mancato verso di te, sono pronto in qualsiasi momento a riconoscere i miei errori. Nulla di ciò che è proprio dell’umanità ritengo a me estraneo». Diceva di capire bene che per Freiligrath la faccenda, così come stava allora, non poteva essere che ingrata, ma che Freiligrath avrebbe ben visto che era impossibile lasciarlo del tutto fuori causa. «Se noi due abbiamo coscienza di aver fatto sventolare per anni, alta sopra la testa dei filistei, la bandiera della classe la plus laborieuse et la plus misérable, ciascuno a suo modo, trascurando ogni interesse privato e per i motivi più puri, qualora noi dovessimo guastarci a causa di inezie — tutte riducibili a malintesi — io riterrei ciò un peccato di grettezza verso la storia». La lettera terminava con una assicurazione di sincera amicizia.

Freiligrath accettò l’offerta di pacificazione, ma non con la stessa cordialità con cui il «senza cuore» Marx si era rivolto a lui. Disse che intendeva restar fedele alla classe la plus laborieuse et la plus misérable, come sempre aveva fatto, e così pure comportarsi nei suoi rapporti personali con Marx, come amico e compagno di idee. Ma aggiungeva: «Durante questi sette anni (trascorsi dalla fine della Lega dei Comunisti) io sono stato lontano dal partito, non ho frequentato le sue riunioni, sono rimasto all’oscuro delle sue risoluzioni e delle sue discussioni. Di fatto le mie relazioni col partito erano cessate da lungo tempo, su ciò non ci siamo mai ingannati a vicenda, c’era fra noi una specie di tacito accordo. E posso dire soltanto che me ne sono trovato bene. Alla mia natura, alla natura di ogni poeta, la libertà è necessaria. Anche il partito è una gabbia, e si canta meglio fuori che dentro, anche per il partito. Io sono stato poeta del proletariato e della rivoluzione, prima di essere membro della Lega e membro della direzione della Neue Rheinische Zeitung. Perciò anche in avvenire voglio essere indipendente, voglio appartenere solo a me stesso e voglio disporre da me di me stesso». Questa lettera esprimeva vivacemente l’antica avversione di Freiligrath contro le meschinità dell’agitazione politica, che ora gli faceva anche credere cose che non erano mai state: le riunioni che pretendeva di non aver frequentato, le risoluzioni e i discorsi dei quali diceva di essere rimasto all’oscuro non erano mai esistiti.

A questo accennò Marx nella sua risposta, e dopo aver dissipato tutti i possibili malintesi, scrisse, pren dendo lo spunto da un’espressione favorita di Freiligrath: « Nonostante tutto e poi tutto, per noi il filisteo addosso a me sarà sempre una divisa migliore che sotto al filisteo . Io ho detto chiaro il mio parere, che tu, speriamo sostanzialmente condividerai. Ho poi cercato di eliminare il malinteso, secondo cui io intenderei per partito un’associazione defunta da otto anni o una direzione di giornale sciolta da dodici anni. Per partito io intendo il partito nel suo grande senso storico». Quelle parole erano tanto appropriate quanto concilianti, perché nel grande senso storico i due uomini (nonostante tutto e poi tutto) sono uniti l’uno all’altro. Quelle parole facevano tanto più onore a Marx in quanto, dopo gli attacchi puerili che Vogt aveva diretto contro di lui, poteva ben pretendere che ormai Freiligrath dissipasse pubblicamente ogni parvenza di familiarità con Vogt. Invece Freiligrath si limitò a ristabilire i rapporti di amicizia con Marx; quanto al resto si ostinò nella sua riservatezza che potè mantenere facilmente proprio grazie a Marx, che da allora in poi evitò di tirare in causa il nome di Freiligrath.

Diverso esito ebbe uno scambio d’idee che Marx ebbe con Lassalle a proposito del caso Vogt. Marx aveva scritto per l’ultima volta a Lassalle nel novembre dell’anno precedente, in seguito alla loro controversia sulla questione italiana; gli aveva scritto, come lui stesso diceva, in maniera «villanissima», tanto che pensava che il silenzio di Lassalle, dopo questa lettera, fosse dovuto alla sua suscettibilità irritata. Dcpo gli attacchi della Nationalzeitung, Marx naturalmente desiderava avere un collegamento con Berlino, e pregò Engels di rimettere a posto le cose con Lassalle, il quale in fin dei conti, a paragone di altri, era pur sempre un «cavallo-vapore». Il che si riferiva al fatto che un certo Fische!, assessore prussiano, si era presentato a Marx come urquhanista mettendosi a sua disposizione per quanto riguardava la stampa tedesca.  Lassalle, al quale Fischel aveva portato i saluti di Marx, non voleva aver nulla a che fare con «quel soggetto incapace e ignorante», e disse che quest’uomo (che poco dopo morì in un incidente), comunque si fosse comportato a Londra, in Germania apparteneva in ogni modo alla guardia del corpo letteraria del duca di Coburgo, che a buon diritto godeva di una pessima fama. Ma prima che Engels potesse fare la sua commissione presso di lui, Lassalle scrisse a Marx, giustificando con la mancanza di tempo il suo lungo silenzio, e chiedendo vivacemente che nella «questione estremamente spiacevole» di Vogt si facesse qualche cosa, perché essa faceva grande effetto sull’opinione pubblica; diceva che le storie di Vogt non potevano nuocere alla considerazione che di Marx avevano quelli che lo conoscevano, ma che avrebbero avuto cattivo effetto plesso coloro che non lo conoscevano, perché erano corredate abbastanza ingegnosamente di fatti per metà reali, tanto da far apparire tutto come pura verità a un occhio non abbastanza acuto. In particolare Lassalle sottolineava due punti. In primo luogo diceva che anche Marx non era esente da colpa, perché aveva preso per buone fino all’ultima parola le gravissime accuse contro Vogt, espresse da un così miserabile mentitore, quale Blind almeno in seguito si era dimostrato; e che se Marx non aveva nessun’altra prova, doveva cominciare la sua difesa col ritirare l’accusa di corruzione contro Vogt. Lassalle ammetteva che ci voleva un forte dominio di se stesso, per render giustizia a uno dal quale si è attaccati senza ritegno e a torto, ma diceva che Marx doveva dare questa prova di buona fede, se non voleva rendere inefficace fin da principio la sua difesa. In secondo luogo Lassalle si diceva quanto mai urtato dal fatto che Liebknecht lavorasse per un giornale reazionario come la Allgemeine Zeitung; ciò avrebbe sollevato nel pubblico una tempesta di stupore e di sdegno contro il partito.

Quando ricevette questa lettera, Marx non aveva ancora avuto lo scritto di Vogt e quindi non poteva ancora valutare la questione nei termini giusti. Ma era comprensibile che non gli andasse molto a genio la pretesa di cominciare con una riparazione d’onore a favore di Vogt, per i cui intrighi bonapartistici aveva altre prove, oltre i pettegolezzi di Blind. E non poteva neppure concordare col duro giudizio sulla collaborazione di Liebknecht alla Allgemeine Zeitung. Non aveva nessuna simpatia per questo giornale, contro il quale aveva sostenuto una violenta lotta al tempo delle due Gazzette renane, tuttavia il giornale di Augusta, che nel resto era controrivoluzionario, nel campo della politica estera almeno ammetteva i più diversi punti di vista. Sotto questo rapporto aveva occupato una posizione eccezionale nella stampa tedesca.

Dunque Marx rispose seccamente che a parer suo la Allgemeine Zeitung era altrettanto buona quanto la Volkszeitung; che avrebbe querelato la Nationalzeitung e avrebbe scritto contro Vogt, e che nella prefazione avrebbe dichiarato che non gliene importava un’acca del giudizio del popolo tedesco. Anche questa volta Lassalle dette troppo peso a queste parole irose: protestò perché un giornale democratico volgare come la Volkszeitung veniva messo sullo stesso piano del «più screditato e scandaloso giornale della Germania». Ma soprattutto ammoniva a non procedere legalmente contro la Nationalzeitung, almeno fin tanto che non fosse pronto lo scritto di confutazione contro Vogt, e infine diceva di sperare che Marx non si sentisse in alcun modo offeso dalla sua lettera, ma che riportasse soltanto l’impressione di una «leale, cordiale amicizia».

In questo Lassalle si sbagliava. Marx scrisse di questa lettera a Engels, usando le più forti espressioni, e tirò fuori contro Lassalle anche le «accuse ufficiali» che a suo tempo Lewy aveva portato a Londra. A dire il vero, lo fece in forma tale da voler dimostrare di non aver sospettato preventivamente. Marx voleva far credere di non essersi lasciato confondere da quelle «accuse ufficiali» e simili dicerie sul conto di Lassalle. Ma data l’entità delle denunce Lassalle non poteva scorgere nessun particolare merito in chi si limitava a ignorarle, e si vendicò in maniera degna di lui, tracciando un quadro tanto bello quanto convincente dell’abnegazione e della lealtà da lui mostrata verso i lavoratori renani nei giorni della reazione più selvaggia.

Lassalle era stato trattato da Marx non nello stesso modo che Freiligrath, ma agì anche non nello stesso modo che Freiligrath: consigliò secondo la sua scienza e coscienza migliore, ma se il suo consiglio fu disprezzato, non per questo egli rifiutò il suo aiuto.

    12.5    ​​​«Herr Vogt»

L’ammonimento di Lassalle, di non ricorrere al tribunale prussiano, si dimostrò subito giusto. Per mezzo di Fischel, Marx aveva incaricato il consigliere di giustizia Weber di presentare al tribunale di Berlino la sua querela contro la Nationalzeitung, ma non arrivò neppure ad ottenere quanto Vogt aveva ottenuto dal tribunale distrettuale di Augusta, cioè che la sua querela fosse discussa.

Il tribunale dichiarò che la querela era da respingere per «insussistenza del fatto», poiché le osservazioni ingiuriose non erano state fatte dalla stessa Nationalzeitung, ma consistevano «esclusivamente in citazioni prese da altre persone». La corte d’appello ripudiò questa bassa idiozia, ma solo per superarla con un’idiozia maggiore, affermando che per Marx non era affatto un oltraggio l’essere descritto come il capo «dominatore e regolatore» di una banda di ricattatori e falsari. La corte suprema non riuscì a trovare alcun «errore giudiziario» in questa splendida interpetrazione dei fatti, e così Marx con la sua querela fece fiasco in tutte le istanze.

Gli restava ancora la confutazione scritta contro Vogt, che lo tenne occupato quasi tutto l’anno. Per contro battere tutte le malignità e le balordaggini accumulate da Vogt, fu necessaria una vasta attività epistolare che si estese su tre continenti; solo il 17 novembre 1860 Marx potè condurre a termine il libro, che intitolò semplicemente Herr Vogt. è l’unico fra i suoi scritti usciti in volume che finora non sia stato più ristampato e non si può trovare che in pochi esemplari; ciò si spiega perché quello scritto (che è anche voluminoso: dodici fogli di fitta stampa, tanto che Marx stesso riteneva che a stampa normale avrebbe avuto una mole doppia) oggi richiederebbe per giunta un ampio commento, per essere inteso in tutte le sue allusioni e i suoi riferimenti.

Ma non ne vale del tutto la pena. Molte delle questioni sugli emigrati in cui Marx dovette addentrarsi, perché costretto da chi lo aveva assalito, sono oggi a ragione dimenticate, e difficilmente ci si può liberare da un senso di disagio, quando si è costretti a vedere quest’uomo che si difende da assalti calunniosi che non arrivavano a sporcargli la suola delle scarpe. Ma nello stesso tempo il libro offre anche un raro godimento per i buongustai di cose letterarie. Fin dalla prima pagina Marx imposta il tema, condotto con un’argu zia shakespeariana, del «prototipo di Karl Vogt, l’immortale sir John Falstaff, che nella sua rigenerazione zoologica non ci ha affatto rimesso quanto a materia». Ma sa guardarsi dalla monotonia: le sue enormi letture di letteratura antica e moderna gli fornivano frecce su frecce da scagliare con micidiale sicurezza sullo sfrontato calunniatore.

La Schwefelbande vi si rivelava come una piccola società di allegri studenti che, nell’inverno fra il 1849 e il 1850, dopo il fallimento della sollevazione del Baden e del Palatinato, con la sua allegria funebre aveva incantato le belle e spaventato i borghesucci di Ginevra, ma che si era dispersa da dieci anni. La sua innocente attività era descritta da uno che ne aveva fatto parte, Sigismund Borkheim (che ora aveva trovato una buona sistemazione, come commerciante, nella City di Londra), in un ameno quadretto che Marx inserì proprio nel primo capitolo del suo scritto. In Borkheim egli acquistò un fedele amico, e del resto ebbe la soddisfazione di vedersi offrire l’aiuto di molti emigrati, non solo in Inghilterra, ma anche in Francia e in Sviz zera, che pure non erano in rapporto con lui o che addirittura gli erano del tutto sconosciuti, in particolare da Johann Philipp Becker, il provato veterano del movimento operaio svizzero.

Ma è impossibile qui raccontare particolareggiatamente come Marx mise a nudo le manovre e gli intrighi di Vogt, senza lasciarne ignorata neppure una briciola. Di maggiore importanza tuttavia era il contrattacco ch’egli lanciava, dimostrando che la propaganda di Vogt, tanto nella sua perfidia che nella sua ignoranza, riecheggiava gli slogan messi in giro dal falso Bonaparte. Nelle carte delle Tuileries, che furono pubblicate dal governo della Difesa nazionale dopo la caduta del Secondo Impero, si è trovata infatti anche la ricevuta dei mal guadagnati 40.000 franchi che nell’agosto del 1859 Vogt aveva ricevuto dai fondi segreti dell uomo di dicembre: presumibilmente attraverso la mediazione di rivoluzionari ungheresi, se proprio si vuole prendere per buona l’interpretazione più benevola per Vogt. Egli era in rapporti particolarmente amichevoli con Klapka e non aveva capito che di fronte a Bonaparte il movimento democratico tedesco si trovava in una posizione diversa da quello ungherese. A quest’ultimo poteva esser concesso ciò che per quello era un infame tradimento.

Ma quali che fossero gli stimoli che spingevano Vogt, e anche se non avesse ricevuto denaro sonante dalle Tuileries, Marx comunque ha provato nella maniera più decisa e irrefutabile che la propaganda di Vogt era tutta impostata sugli slogan bonapartisti. Per la luce rivelatrice che gettano sulla situazione europea del tempo, questi capitoli sono la parte del libro che ha maggior valore, e che anche oggi offre ricchi insegnamenti; al loro apparire Lothar Bucher, che a quel tempo era in rapporti più ostili che amichevoli con Marx, li definì un compendio di storia contemporanea. Quanto a Lassalle, salutando lo scritto come « una cosa magistrale sotto tutti i rapporti», ammetteva di trovare ormai pienamente giustificato e naturale che Marx fosse convinto della venalità di Vogt; e disse che Marx aveva condotto la «dimostrazione interna con immensa evidenza». Engels poneva lo Herr Vogt persino al di sopra del Diciotto Brumaio; diceva che era di stile più semplice e, se mai, di altrettanto effetto, senz’altro il miglior lavoro polemico che Marx avesse scritto. A dire il vero lo Herr Vogt oggi non è più, dal punto di vista storico, il più importante dei suoi scritti polemici; è caduto sempre più in dimenticanza, mentre il Diciotto Brumaio e indubbiamente anche l’opera polemica contro Proudhon sono venuti sempre più in luce. Ciò in parte dipende dalla materia, perché il caso Vogt in fondo non era altro che un episodio relativamente insignificante, ma in parte anche da Marx stesso, dalla sua grandezza e anche dalle sue piccole debolezze.

Non gli era dato di saper scendere al basso livello della polemica su cui si convince il filisteo, nonostante che in questo caso si trattasse proprio anche di dare un colpo ai pregiudizi del borghesuccio benpensante. Come diceva in una sua lettera la signora Marx, con un po’ di ingenuità ma tanto più a proposito, il libro convinse soltanto «tutte le persone di qualche importanza», cioè, in altre parole, tutti coloro che non avevano affatto bisogno di dimostrazioni per essere convinti che Marx non era quel mascalzone che Vogt voleva far credere, e che avevano abbastanza gusto e intelligenza per godersi i pregi letterari dello scritto;

«persino il vecchio nemico Ruge lo ha definito una cosa spassosa», diceva la signora Marx. Ma per i galantuomini in patria il libro era troppo elevato, e nei loro ambienti se n’ebbe appena sentore; ancora al tempo della legge contro i socialisti, degli scrittori pieni di pretese come Bamberger e Treitschke si servivano della «Schwefelbande» di Vogt come arma contro la socialdemocrazia tedesca.

A tutto ciò si aggiunse la straordinaria disdetta che Marx aveva in tutte le questioni d’affari, e non senza sua colpa, almeno in questo caso. Engels insistè perché il libro fosse fatto stampare e pubblicare in Germania, ciò he era concesso dai regolamenti sulla stampa di allora, e lo stesso consiglio dette Lassalle. Questi però adduceva come motivo soltanto le spese minori, mentre gli argomenti di Engels erano più convincenti : «Abbiamo già fatto esperienza centinaia di volte con la letteratura dell’emigrazione, sempre senza nessuna riuscita, sempre denaro e lavoro buttati per niente e per di più la rabbia... A che ci serve una risposta a Vogt che nessuno riesce ad aver sotto gli occhi?»

Ma Marx persistè nel proposito di dare lo scritto a un giovane editore tedesco di Londra, con accordo di dividere il guadagno e la perdita e su anticipo di 25 sterline, al quale contribuirono Borkheim con 12 sterline e Lassalle con 8. Ma la nuova impresa editoriale poggiava su basi così deboli che non solo curò in maniera insoddisfacente lo smercio del libro in Germania, ma subito dopo addirittura si sciolse, e Marx oltre a non rivedere nemmeno un centesimo dell’anticipo dovette pagare quasi altrettanto in seguito a un’azione legale intentata contro di lui da un socio dell’editore, perché aveva trascurato di stendere un contratto scritto, e così fu fatto responsabile di tutte le spese dell’impresa.

Quando cominciò la polemica con Vogt, l’amico Imandt scrisse a Marx: «Non vorrei essere condannato a scrivere su questo argomento, e mi meraviglierei moltissimo se tu fossi capace di metter le mani in questa broda». Consigli analoghi rivolsero a Marx, per dissuaderlo, emigrati russi e ungheresi. Oggi si sarebbe tentati di desiderare che avesse dato ascolto a quesie voci. La baruffa infernale gli procurò alcuni nuovi amici e lo fece tornare in rapporti amichevoli specialmente con l’Associazione operaia di cultura di Londra, che intervenne subito in suo favore con tutto il suo peso.  Ma essa ostacolò, più che favorire, la grande opera della sua vita, nonostante o proprio a causa del costoso dispendio di forza e tempo che essa inghiottì senza reale guadagno, e procurò a Marx gravi avversità nella sua stessa casa.

    12.6    ​​​Fatti domestici e personali

La moglie di Marx, che gli era legata con tutta l’anima, fu colpita più duramente di lui dalla «terribile arrabbiatura per l’attacco infame» di Vogt. Esso le costò molte notti insonni e, per quanto resistesse con coraggio e trascrivesse per la stampa il lungo manoscritto, alla fine subì un collasso, appena ebbe scritto l’ultima riga. Il medico chiamato dichiarò che aveva il vaiolo, e le bambine dovettero subito lasciare la casa. Vennero giorni terribili. Le bambine furono accolte da Liebknecht, e Marx, insieme con Lenchen Demuth, si mise personalmente a curare la moglie. Ella soffrì indicibilmente per dolori intensi, insonnia, angoscioso timore per il marito che non si allontanava mai dal suo letto, per la perdita di tutti i sensi, mentre conservava la coscienza sempre lucida. Soltanto dopo una settimana si ebbe la crisi che la salvò, grazie alla circostanza che la signora Marx era stata vaccinata due volte. E infine il medico dichiarò che la terribile malattia era stata una fortuna. La sovreccitazione nervosa in cui aveva vissuto per parecchi mesi era stata la causa prima per cui aveva preso l’infezione in un omnibus, in un negozio o altrove, ma senza questa malattia il suo stato di nervi avrebbe portato a una malattia nervosa o ad altro del genere, con suo maggior pericolo.

Appena ella entrò in convalescenza, Marx stesso fu costretto a mettersi a letto malato, dalla soverchia inquietudine, da preoccupazioni e tribolazioni di ogni sorta. Anche in questo caso il medico vide che la causa prima stava nell’eterna agitazione. Senza aver ricavato un centesimo dal faticoso lavoro dello Herr Vogt, Marx fu rimesso a mezza paga dalla Tribune di New York, e i creditori tempestavano intorno alla casa. Dopo la sua guarigione, Marx decise di «andare a cercar bottino in Olanda — come scrisse sua moglie alla signora Weydemeyer — nel paese degli avi, del tabacco e del formaggio», per vedere se riusciva a strappare un po’ di quattrini a suo zio.

Questa lettera è dell’11 marzo 1861 e, tutta penetrata com’è da lieto humour, offre una testimonianza eloquente della «nativa vitalità di temperamento», di cui Jenny Marx era dotata non meno di suo marito. I Weydemeyer ai quali, nell’esilio americano, era pure toccata la loro parte di guai, si erano nuovamente fatti vivi dopo lunghi anni di silenzio, e la signora Marx aprì subito tutti i suoi sentimenti a una «coraggiosa e fedele compagna di sventura, ad una combattente e martire». Ciò che la sosteneva sempre nella miseria e nelle tribolazioni, «l’aspetto più splendente della nostra esistenza, il lato più luminoso della nostra vita», era la gioia che le procuravano le sue figlie. La sedicenne Jenny somigliava più al padre, «con la sua abbondante e lucente capigliatura scura, con i suoi occhi miti, altrettanto scuri e lucenti, e con la carnagione calda da creola, che però ha assunto tinte fiorenti del tutto inglesi». La quindicenne Laura era piuttosto il ritratto della madre, « con la sua capigliatura castana, ondulata e ricciuta» e con i «lucenti occhi glauchi sempre festosamente scintillanti». «Una carnagione davvero fiorente distingue le due sorelle, entrambe così poco vanitose che spesso mi meraviglio tra di me, tanto più che nulla di simile posso riferire sul conto della loro mamma quando era ancora giovane e portava le vesti corte».

Ma per quanto grande fosse la gioia che le due sorelle maggiori procuravano ai genitori, «l’idolo e la beniamina di tutta la casa» era la figlioletta minore, Eleanor o Tussy, come era il suo vezzeggiativo. «La bambina nacque proprio quando il mio povero, caro Edgar ci lasciò, e tutto l’amore per il fratellino, tutta la tenerezza per lui passarono ora alla piccola sorellina, per cui le ragazze maggiori ebbero premure quasi materne. E’ raro trovare una bambina così bella, ingenua e piena di brio. La bambina si fa notare specialmente per il modo assai grazioso con cui parla e racconta. Lo ha appreso dai suoi fratelli Grimm, che l’accompagnano giorno e notte. Noi tutti leggiamo queste novelle fino a rimanere intontiti, ma guai a noi se nel racconto di Tremotino, del re Barba di Tordo o di Biancaneve omettiamo anche soltanto una sil laba. Attraverso queste fiabe, la bambina ha imparato oltre all’inglese che è nell’aria, anche il tedesco, che sa parlare con particolare correttezza grammaticale e con precisione. La bambina è la grande preferita di Karl, e spesso il suo ridere e cinguettare gli fa dimenticare le sue preoccupazioni». Poi è ricordata anche Lenchen, il vero genio domestico. «Chieda di lei al suo caro amico; egli le dirà quale tesoro posseggo in lei. Durante sedici anni essa ci ha accompagnati attraverso tutte le burrasche e peripezie». La splendida lettera si chiude con le notizie sugli amici che, quando non si sono dimostrati fedeli a Karl, vengono trattati, in modo tutto femminile, più duramente che da Marx stesso. «Non mi piacciono le mezze misure»; così la signora Jenny la ruppe del tutto con la parte femminile della famiglia Freiligrath.

Frattanto la «spedizione» in Olanda, dallo zio Philips, era riuscita passabilmente.  Di qui Marx andò a
Berlino, per realizzare un piano che Lassalle aveva ripetutamente sollecitato, la fondazione di un proprio organo di partito, la cui necessità si era resa particolarmente sensibile con la crisi del 1859, e per il quale si era creata la possibilità grazie all’amnistia che nel gennaio del 1861 Guglielmo, ora re, aveva promulgato. L’amnistia era assai stretta, piena di trabocchetti e di tranelli, ma tuttavia permetteva agli ex redattori della Neue Rheinische Zeitung di rientrare in Germania.

A Berlino Marx fu accolto da Lassalle «con grande amicizia», ma al «posto» gli restò « personalmente odioso». Niente alta politica, ma soltanto beghe con la polizia, e l’antagonismo fra militari e civili. « Il tono prevalente a Berlino è sfrontato e frivolo. Le Camere sono disprezzate». Anche in paragone coi conciliatori del 1848, che pure non erano stati davvero dei titani, Marx vide nella Camera dei deputati prussiana, coi suoi Simson e Viricke, « uno strano miscuglio fra l’ufficio e l’aula scolastica»; disse che le sole figure che avessero un aspetto almeno decoroso, in quella stalla di pigmei, erano da una parte Waldeck e dall’altra don Chisciotte von Blankenburg. Ma nonostante tutto Marx credette di poter trovare traccia di un generale desi derio di chiarificazione e una grande insoddisfazione, in gran parte del pubblico, per la stampa borghese. Gente di ogni rango considerava ineluttabile una catastrofe. Nelle imminenti elezioni dell’autunno sareb bero stati senz’altro eletti i conciliatori di un tempo, che il re temeva come repubblicani rossi, e la faccenda dei progetti di legge militari avrebbe potuto prendere una piega seria. Perciò Marx ritenne che il progetto di Lassalle per un giornale fosse in sé e per sé degno di considerazione.

Ma non accettava di attuarlo così come Lassalle l’aveva pensato. Lassalle voleva essere redattore capo accanto a Marx, e ammettere anche Engels come terzo redattore capo, a condizione che Marx ed Engels non avessero diritto a più voti di lui, perché altrimenti il suo voto sarebbe stato sempre sopraffatto. Probabil mente Lassalle aveva soltanto accennato, nel corso di un rapido colloquio, alle grandi linee di questo piano avventuroso, che avrebbe fatto nascere belle morto il giornale progettato; nondimeno questo non ha alcuna importanza, in quanto Marx non era in nessun caso incline a concedergli di avere un qualche influsso deter minante. «Lassalle, abbagliato dalla considerazione di cui gode in certi circoli dotti per il suo Eraclito e in un altro cerchio di scrocconi per il buon vino e la cucina, naturalmente non sa che presso il grande pubblico è screditato. Inoltre la sua prepotenza, il suo impigliarsi nel concetto speculativo (il giovanotto sogna persino di voler scrivere una nuova filosofia hegeliana alla seconda potenza), l’essere infetto di vecchio liberalismo francese, la sua penna prolissa, la sua importunità e la mancanza di tatto, ecc. Lassalle, tenuto sotto una stretta disciplina, potrebbe render servigi come uno dei redattori. Altrimenti solo compromettere le cose». In questi termini Marx informò Engels sulle trattative con Lassalle, aggiungendo che, per non offendere il suo ospite, aveva differito la sua decisione definitiva, finché si fosse consigliato con Engels e Wilhelm Wolff. Anche Engels aveva analoghi scrupoli, e rispose in senso negativo.

Tutto il progetto del resto era un castello in aria, come una volta, con giusto presentimento, l’aveva definito Lassalle. Fra le astuzie della amnistia prussiana c’era anche questa, che pur concedendo agli esuli degli anni della rivoluzione di rimpatriare impunemente, sotto condizioni in parte accettabili, non restituiva loro però il diritto di cittadinanza, che secondo le leggi prussiane avevano perduto dopo aver soggiornato all’e stero per più di dieci anni. Chi oggi rimpatriava, poteva domani esser ricacciato oltre il confine per il cattivo umore di qualsiasi pascià della polizia. Nel caso di Marx si aggiungeva che era uscito dalla comunità statale prussiana, in ogni caso spinto dalle angherie della polizia prussiana, anzi proprio su esplicito invito già pa recchi anni prima della rivoluzione. In qualità di suo rappresentante con pieni poteri, Lassalle mise in moto mari e monti per fargli riavere il diritto di cittadinanza prussiana; a questo scopo usò tutte le sue arti presso il presidente della polizia di Berlino von Zedlitz e presso il conte Schwerin, ministro degli interni e uno dei pilastri della nuova era, ma inutilmente. Zedlitz dichiarò che non vi era altro motivo che si opponesse alla naturalizzazione di Marx, se non i suoi «sentimenti repubblicani, o per lo meno non monarchici», e Sch werin, quando Lassalle gli fece osservare con energia che non poteva praticare «l’inquisizione delle idee e la persecuzione a causa delle idee politiche» che lui stesso aveva rimproverato così duramente ai suoi predecessori Manteuffel e Westphalen, replicò seccamente che non vi era «per il momento assolutamente nessun particolare motivo a favore del conferimento della naturalizzazione al nominato Marx». Uno Stato come quello prussiano non poteva certo tollerare il nominato Marx: su questo quegli oscuri ministri, sia il conte Schwerin, che i suoi precedessori Kiihlwetter e Manteuffel, avevano ragione.

Da Berlino Marx fece anche una scappata in Renania, fece visita a vecchi amici a Colonia e alla vecchia madre a Treviri, che ormai si approssimava alla morte; e nei primi giorni di maggio era di nuovo a Londra.

Ora sperava di por fine alla vita agitata della famiglia e di portare a termine il suo libro. A Berlino gli era riuscito il tentativo più volte fallito in passato, di mettersi in relazione con la Wiener Presse che gli promise di compensargli con una sterlina gli articoli di fondo, e con mezza sterlina le corrispondenze. Anche i rapporti con la New York Tribune parvero riprendere vita. Essa stampò più volte i suoi articoli con espliciti accenni ai loro pregi; «strano modo di questi yankees — diceva Marx — di distribuire testimonia ai loro propri corrispondenti». Anche la Wiener Presse faceva «molto chiasso attorno ai suoi articoli». Ma i vecchi debiti non erano stati del tutto liquidati, e la mancanza di entrate nei giorni della malattia e del viaggio in Germania contribuì a far «venire di nuovo a galla il vecchio sudiciume»; Marx mandò a Engels gli auguri per Tanno nuovo in forma di imprecazione: se Tanno nuovo avesse dovuto essete uguale al vecchio, per parte sua avrebbe desiderato piuttosto l’inferno.

L’anno 1862 non solo fu simile al precedente, ma anzi lo vinse in orrori. La Wiener Presse, nonostante tutta la reclame che fece a proposito di Marx, si dimostrò anche più spilorcia, se possibile, del giornale americano. Già in marzo Marx scrisse a Engels: «Per me è indifferente che non stampino gli articoli migliori (quantunque io scriva sempre in modo che possano venir stampati). Ma pecuniariamente non va che stampino un articolo su quattro o cinque, e ne paghino uno solo. Questo mi abbassa assai al di sotto d’uno scribacchino a un soldo la riga». Con la New York Tribune cessò ogni relazione nel corso dell’anno per motivi che non si possono più accertare nei particolari, ma che in complesso sono da riportare alla guerra di secessione americana.

Nonostante che questa guerra lo mettesse nei peggiori guai, Marx la salutò con la più viva simpatia. «Non dobbiamo illuderci in proposito», scrisse qualche anno dopo nella prefazione del suo capolavoro scientifico. «Come la guerra d’indipendenza americana del secolo XVIII ha suonato a martello per la classe media europea, così la guerra civile americana del secolo XIX suona a martello per la classe operaia europea ».

Nel suo carteggio con Engels egli seguiva il corso della guerra con profondo interesse. Ma sui dettagli militari si faceva volentieri istruire da Engels, perché egli si considerava soltanto un profano della scienza militare, e ciò che Engels ebbe da dire in proposito resta ancora oggi di alto interesse, non solo storico, ma anche politico; per esempio, egli illuminava a fondo la questione di un esercito permanente o di una milizia volontaria con queste profonde parole: «Solo una società organizzata ed educata comunisticamente potrà avvicinarsi molto al sistema della milizia, e anch’essa senza arrivarci del tutto». Il detto che il maestro lo si scorge soltanto nel limite, si è dimostrato vero qui in un senso diverso da come lo intendeva il poeta.

Engels era un maestro in fatto di giudizi militari, ma ciò limitava il suo orizzonte generale. La pietosa condotta di guerra degli Stati del Nord gli fece credere talvolta che sarebbero stati sconfitti. Nel maggio del 1862 scrisse: «Quel che mi confonde le idee a ogni successo dei yankees, non è la situazione militare in sé e per sé. Essa non è che il risultato della torpidezza e dell’ottusità che si mostra in tutto il Nord. Dov’è dunque l’energia rivoluzionaria del popolo? Si lasciano battere e sono regolarmente superbi delle batoste ricevute. Dov’è in tutto il Nord un solo sintomo che la gente prende qualcosa sul serio? Io non ho mai veduto niente di simile in Germania nemmeno nei tempi peggiori. I yankees sembra che invece si rallegrino soprattutto di questo, che potranno abbindolare i loro creditori di Stato». Perciò in luglio pensava che per il Nord tutto fosse finito, e in settembre che quei tipi del Sud, che perlomeno sapevano quel che volevano, apparivano degli eroi di fronte alla fiacca condotta del Nord.

Invece Marx continuava a credere fermamente nella vittoria del Nord. In settembre rispose: «Per quanto riguarda i yankees, resto saldo nell’opinione che alla fine vincerà il Nord... Il modo con cui conduce la guerra non è che quello che era da attendersi da una repubblica borghese, dove l’intrigo domina sovrano da lunghissimo tempo. In queste cose si trova meglio il Sud che è un’oligarchia e in particolare un’oligarchia dove tutto il lavoro produttivo ricade sui niggers e i quattro milioni di « white trash»[i]21 sono filibusters di professione. Tuttavia scommetterei la testa che quei giovinotti finiranno per avere la peggio». Il giudizio di Marx era superiore in virtù della sua convinzione che anche la guerra, in ultima analisi, è determinata dalla situazione economica in cui vivono i belligeranti.

Questa meravigliosa chiarezza era tanto più da ammirare in quanto la stessa lettera fa vedere in quale opprimente miseria vivesse Marx a quel tempo. Come scriveva a Engels, egli si era deciso a un passo al quale né prima né dopo di allora si era mai potuto decidere: aveva cercato di ottenere un impiego borghese, e aveva qualche prospettiva di essere impiegato in un ufficio ferroviario inglese. La cosa andò a monte — lui stesso non sapeva se chiamarla fortuna o sfortuna — a causa della sua scrittura illeggibile. Ma la miseria diventava sempre più grave. Marx stesso era continuamente malato; oltre a nuovi attacchi del suo vecchio mal di fegato cominciò ad essere tormentato, per lunghi anni, da dolorosi antraci e foruncoli, e per la situazione completamente disperata sua moglie minacciava di cadere in una nuova crisi. Le figlie mancavano persino dei vestiti e delle scarpe necessarie per frequentare la scuola; mentre nell’anno del l’Esposizione Mondiale, le loro compagne si divertivano, esse, ogni volta che dovevano andare a scuola, erano in angustie per la loro miseria. La figlia maggiore, che era abbastanza grande per intendere tutta la situazione, cominciò a soffrirne assai; all’insaputa dei genitori, tentò di prender lezioni per darsi al teatro.

Così Marx si abituò a un’idea meditata da tempo, che aveva sempre rimandato pensando all’educazione delle figlie. Voleva lasciare i mobili al landlord, che gli aveva già mandato in casa l’usciere, dichiarare fallimento di fronte a tutti gli altri creditori, sistemare le due figlie maggiori come governanti per mezzo di una famiglia inglese amica, licenziare Lenchen Demuth e collocarla in un altro servizio, e traslocare, lui e sua moglie con la bambina più piccola, in uno di quei casamenti a pagamento istituiti per sopperire ai bisogni delle classi più povere.

Engels impedì questa soluzione estrema.  Nella primavera del 1860 aveva perduto il padre, e in seguito a ciò aveva ottenuto una posizione migliore, quantunque con grandi spese di rappresentanza, nella ditta Ermen & Engels, con in più la prospettiva di diventare socio. Ma il peso della crisi americana fu grave, e ridusse sensibilmente le sue entrate. Nei primi giorni del 1863 lo colpì la sventura della perdita di Mary Burns, la giovane popolana irlandese con la quale da dieci anni era legato da libero amore. Profondamente scosso scrisse a Marx: «Non ti posso dire quale animo sia il mio. La povera ragazza mi ha amato con tutto il cuore». Ma Marx non dimostrò nella sua risposta quella partecipazione che Engels poteva aspettarsi (e questa sua freddezza indicava più di ogni altra cosa come avesse l’acqua fino alla gola); con alcune parole intimamente fredde accennava alla disgrazia, e quindi descriveva minutamente la situazione disperata in cui si trovava: se non poteva riscuotere una grossa somma, la casa non sarebbe andata avanti altre due settimane. E’ vero che lui stesso trovava «terribilmente egoistico» raccontare cose del genere in simile momento. «Ma in fin dei conti, che cosa debbo fare? In tutta Londra non ve un uomo col quale possa aprir l’animo e in casa mia io recito la parte dello stoico taciturno, per fare il contrappeso agli sfoghi dell’altra parte ». Tuttavia Engels si sentì urtato dalla «fredda accoglienza» con cui Marx aveva preso la sua disgrazia, e non ne fece mistero nella sua risposta, che ritardò di alcuni giorni. Disse anche di non poter disporre di una grossa somma, ma faceva diverse proposte per togliere Marx dai guai.

Questi a sua volta ritardò la sua risposta, ma solo per lasciar calmare gli spiriti, non perché si irrigidisse nel suo torto. Anzi lo riconobbe lealmente, respingendo però l’accusa di «mancanza di cuore»; in questa e in una successiva lettera raccontò sinceramente quei che gli aveva fatto perder la testa, usando in pari tempo una forma conciliante e piena di tatto, perché era ovvio che Engels doveva sentirsi offeso nel più profondo, poiché la signora Marx non gli aveva fatto pervenire neppure una parola di condoglianza per la morte della sua amata. «Le donne sono strane creature, anche quelle provviste di molta intelligenza. Al mattino mia moglie piangeva su Mary e sulla tua perdita, così da dimenticare del tutto la sua propria disgrazia, che per l’appunto arrivò al suo culmine nella giornata, e alla sera credeva che, all’infuori di noi, al mondo non potesse soffrire nessuno fuorché chi ha il perito dei pignoramenti in casa e chi ha figli». Ma per riconciliare Engels bastava una parola di pentimento: «Non è possibile esser vissuti tanti anni insieme con una donna, senza esser colpiti terribilmente dalla sua morte. Sentii che con lei seppellivo l’ultima parte della mia giovinezza. Quando ricevetti la tua lettera, non era ancora sepolta. Io ti dico, la tua lettera mi rimase fissa in capo per tutta una settimana, non potevo dimenticarla. Non importa, la tua ultima compensa quella, e sono lieto di non aver perduto con Mary anche il mio più vecchio e migliore amico». Fu questo il primo ma anche l’ultimo momento di tensione nei rapporti fra i due amici.

Con un «colpo arrischiatissimo» Engels riuscì a mettere insieme cento sterline, grazie alle quali Marx fu tenuto a galla, tanto da rinunciare al trasloco in quei casamenti. Per il 1863 tirò avanti, e verso la fine dell’anno sua madre morì. Ciò che ereditò da lei non poteva esser certo rilevante. Qualche tranquillità gli procurarono soltanto le otto o novecento sterline che Wilhelm Wolff gli lasciò per testamento, nominandolo suo principale erede.

Wolff morì nel maggio del 1864, profondamente compianto da Marx ed Engels. Non aveva ancora 55 anni; nelle tempeste di una vita agitata non si era mai risparmiato e, come lamentava Engels, aveva affrettato la sua fine con l’ostinata fedeltà al dovere della sua professione d’insegnante. Dopo che l’esilio, in un primo tempo, lo aveva ridotto a mal partito, Wolff si era venuto a trovare, per l’affetto che gli tributavano i tedeschi di Manchester, in condizioni di vita agiate, e pare anche che l’eredità paterna non gli sia toccata che poco prima di morire. Più tardi Marx dedicò «al suo indimenticabile amico, all’ardito, fedele, nobile pioniere del proletariato» il primo volume del suo capolavoro immortale, al quale potè lavorare indisturbato grazie all’ultimo servigio che l’amico Wolff gli aveva reso.

Le preoccupazioni non erano certo scacciate per sempre, ma non pesarono più su Marx in forma così angosciosa e opprimente, perché nel settembre 1864 Engels concluse con gli Ermen un contratto che lo faceva comproprietario della ditta, e così potè aiutare chi aveva bisogno di aiuto, sempre con la stessa instancabile generosità, ma ora con mezzi maggiori a disposizione.


    12.7    ​​​L’agitazione di Lassalle

Nel luglio del 1862, nei giorni delle maggiori tribolazioni, Lassalle andò a Londra a restituire la visita. «Per mantenere di fronte a lui certi dehors, mia moglie aveva dovuto portare al Monte dei pegni perfino quasi tutto l’impegnabile!», scrisse Marx a Engels. Lassalle non aveva nessun sospetto di questa situazione dolorosa; prese per realtà l’apparenza che Marx e sua moglie diffondevano attorno a sé; la premurosa economa della casa, Lenchen Demuth, non dimenticò mai l’ottimo appetito di questo ospite. Si creò così una «situazione schifosa»; e non c’è nulla di male se Marx, specialmente di fronte al contegno di Lassalle che non soffriva di eccessiva modestia, non fu del tutto lontano dal provare quel sentimento che una volta fece dire a Schiller, di Goethe: come tutto è stato facile per quest’uomo, e io come devo lottare duramente per tutto!

Soltanto al momento della separazione, dopo un soggiorno di parecchie settimane, parve che Lassalle avesse intuito il vero stato delle cose. Offrì il suo aiuto e voleva lasciare 15 sterline in prestito fino alla fine dell’anno; disse anche che Marx poteva trarre cambiali su di lui, per qualsiasi somma, purché il pagamento fosse garantito da Engels o da altri. Con l’aiuto di Borkheim, Marx cercò di procurarsi in questo modo 400 talleri, ma a questo punto Lassalle avvertì per lettera che «per qualsiasi evenienza di vita o di morte, escludendo tutti gli imprevisti», condizionava la sua accettazione a un impegno scritto di Engels, il quale si doveva obbligare a metterlo in possesso della somma otto giorni prima della scadenza della cambiale. La mancanza di fiducia nella sua assicurazione personale non potè fare gradita impressione a Marx, ma Engels lo pregò di non prendersela per «queste asinerie», e rilasciò subito la garanzia richiesta.

Il seguito di questo affare finanziario non è del tutto chiaro; il 29 ottobre Marx scrisse a Engels che Lassalle era « adiratissimo» con lui, e che chiedeva che la copertura fosse inviata a lui personalmente, e il 4 novembre scrisse che Freiligrath era disposto a inviare i 400 talleri a Lassalle. Il giorno dopo Engels rispose che «domani» avrebbe mandato 60 sterline a Freiligrath. Ma nello stesso tempo parlano entrambi di un «rinnovo» della cambiale, e qui devono esservi state in qualche modo delle difficoltà; per lo meno il 24 aprile 1864 Lassalle riferiva a una terza persona di non avere scritto più a Marx da due anni, perché «per motivi finanziari» non era in buoni rapporti con lui. Effettivamente Lassalle scrisse per l’ultima volta a Marx alla fine del 1862, e gli mandò il suo opuscolo E adesso?. La lettera non è conservata, ma Marx scrisse a Engels, il 2 gennaio 1863, che suo contenuto era la richiesta di restituire un libro, e il 12 giugno, dopo una dura critica dell’agitazione di Lassalle, scrisse sempre a Engels: «Dal principio dell’anno non ho saputo ancora decidermi a scrivere a questo bel tipo». Se si sta a queste parole, Marx interruppe la corrispondenza per ostilità politica.

Fra le due asserzioni può non esservi alcuna vera contraddizione; può darsi appunto che al primo motivo di contrasto si sia aggiunto il secondo. Le circostanze estremamente spiacevoli in cui i due si erano incon trati personalmente l’ultima volta avevano parecchio contribuito ad acuire le divergenze nelle loro opinioni politiche. Queste divergenze d’opinione oltre tutto non erano diminuite in seguito alla visita che Marx aveva fatto a Berlino.

Nell’autunno del 1861 Lassalle aveva fatto un viaggio in Svizzera e in Italia, aveva conosciuto Riistow a Zurigo e Garibaldi a Caprera; anche a Londra visitò Mazzini. Sembra essersi interessato a un piano del Partito d’azione italiano, fantastico e mai realizzato, secondo il quale Garibaldi avrebbe dovuto passare in Dalmazia con i suoi volontari e quindi provocare l’insurrezione dell’Ungheria. Da parte di Lassalle stesso non esistono documenti in proposito, e nel peggiore dei casi può essersi trattato soltanto di un’idea momentanea. Lassalle infatti aveva tutt’altre cose per la testa, e prima di andare a Londra aveva già cominciato a trattarne in due discorsi.

Più che tutte le questioni italiane, a Lassalle importava di guadagnarsi l’alleanza di Marx per quei progetti. Ma Marx si dimostrò ancora più inaccostabile dell’anno precedente. Per un giornale che Lassalle voleva ancora fondare, disse che avrebbe lavorato come corrispondente inglese, dietro buon pagamento, ma sen za assumersi assolutamente responsabilità di nessun genere, poiché non concordava in nulla con Lassalle, fuor che in alcuni scopi finali alquanto distanti. Non meno negativo fu il suo atteggiamento di fronte al piano per un’agitazione operaia, che Lassalle gli espose. Il suo giudizio era che Lassalle si lasciava troppo domi nare dalle circostanze immediate; che voleva porre al centro della sua agitazione un contrasto contro un nano come Schulze-Delitzsch: accettare l’aiuto dello Stato invece che aiutarsi da sé; che Lassalle ripeteva così la parola d’ordine con cui negli anni tra il 40 e il 50 il socialista cattolico Buchez aveva combattuto in Francia il vero movimento operaio; che riprendendo l’appello cartista per il suffragio universale non tene va conto delle differenze fra la situazione tedesca e quella inglese, né degli insegnamenti del Secondo Impero a proposito del suffragio universale. Infine che rinnegando ogni naturale continuità col precedente movimento tedesco incorreva negli errori dei fondatori di sette, nell’errore di Proudhon, che consisteva nel non cercare la base reale negli elementi concreti del movimento di classe, ma di voler prescrivere ad esso il suo corso secondo una data ricetta dottrinaria.

Lassalle non si lasciò scoraggiare da queste critiche, e continuò invece la sua agitazione, dalla primavera del 1863, come agitazione dichiaratamente operaia. Tuttavia non rinunciò mai alla speranza di convincere Marx della bontà della sua causa; infatti, anche dopo che la loro corrispondenza fu interrotta, continuò a mandare regolarmente a Marx i suoi opuscoli di agitazione. Essi però erano accolti in una maniera che Lassalle non si sarebbe aspettato. Marx li giudicava, nelle sue lettere a Engels, con un’asprezza tale che finiva per diventare anche ingiustizia durissima. Non occorre entrare negli spiacevoli particolari che si possono leggere nel carteggio fra Marx ed Engels; basti dire che Marx si sbarazzava di quegli scritti, che da allora hanno dato una nuova vita a centinaia di migliaia di lavoratori tedeschi, trattandoli da plagi da ginnasiale, quando li leggeva, oppure, quando non li leggeva, da compitini scolastici, che non valeva la pena di leggere perdendo del tempo.

Solo un superficiale fariseismo può passar sopra a questi fatti con la vuota frase che Marx poteva parlare così nella sua qualità di maestro di Lassalle. Marx non era un superuomo, e lui stesso non voleva essere niente più che un uomo, al quale nulla era estraneo di ciò che è proprio dell’umanità; la ripetizione mecca nica era proprio ciò che non poteva sopportare. Seguendo i suoi princìpi, gli si rende più onore riparando i torti da lui fatti che riparando quelli da lui subiti. Egli stesso ci acquista di più se si esaminano a fondo, con critica spregiudicata, i suoi rapporti con Lassalle, che se si seguono coloro che ciecamente ripetono tutto alla lettera e che, secondo l’immagine di Lessing, si avviano tranquillamente con le sue pantofole in mano per la strada da lui aperta.

Marx era il maestro di Lassalle, e nello stesso tempo non lo era. Sotto un certo punto di vista avrebbe potuto dire di Lassalle quello che Hegel, sul letto di morte, avrebbe detto dei suoi scolari: uno solo mi ha capito, e quel solo mi ha frainteso. Lassalle fu il seguace incomparabilmente più geniale che Marx ed Engels abbiano acquistato, ma non ha mai appreso l’alfa e l’omega della nuova concezione del mondo, il materialismo storico. Egli infatti non si liberò mai del «concetto speculativo» della filosofia hegeliana, e per quanto comprendesse il significato storico della lotta di classe del proletariato, questa comprensione si attuò soltanto nelle forme di pensiero idealistiche che erano eminentemente proprie dell’età borghese, nella filosofia e nel diritto.

A ciò si aggiunga che, come economista, fra lui e Marx ci correva parecchio e che egli capiva in maniera inadeguata le idee economiche di Marx, o anche le fraintendeva del tutto. A questo proposito lo stesso Marx talvolta lo giudicava con troppa indulgenza, ma, più spesso, con troppa durezza. Marx trovava soltanto «notevoli malintesi» nell’esposizione della sua teoria del valore, fatta da Lassalle, ma si potrebbe dire piuttosto che Lassalle non aveva affatto capito questa teoria. Lassalle prendeva da essa soltanto ciò che conveniva alla sua concezione del mondo fondata sulla filosofìa del diritto: la dimostrazione che l’insieme del tempo di lavoro sociale, che forma il valore, rende necessaria la produzione comune della società per assicurare all’operaio il pieno prodotto del suo lavoro. Ma per Marx la teoria del valore da lui sviluppata era la soluzione di tutti gli enigmi che racchiude il modo di produzione capitalistico, un filo dietro al quale si poteva seguire la formazione del valore e del plusvalore come processo storico universale che dovrà rivoluzionare la società capitalistica in società socialista. A Lassalle sfuggiva la differenza fra il lavoro in quanto produce valori d’uso e il lavoro in quanto produce valori di scambio, quella duplice natura del lavoro contenuto nelle merci, che per Marx era il punto centrale sul quale gravitava l’intendimento dell’economia politica. Su questo punto decisivo si apriva quella profonda divergenza che esisteva fra Lassalle e Marx, la divergenza fra la concezione della filosofia del diritto e la concezione economico-materialistica.

A proposito di altre questioni economiche Marx ha dato un giudizio troppo aspro sulle debolezze di Las salle, in particolare sui pilastri economici sui quali Lassalle appoggiava la sua agitazione: quella che lui aveva battezzato legge bronzea del salario e le associazioni produttive con credito di Stato. Marx pensa va che Lassalle avesse preso a prestito la prima dagli economisti inglesi Malthus e Ricardo, le seconde dal socialista cattolico francese Buchez. In realtà Lassalle aveva ricavato luna e le altre dal Manifesto comunista.

Dalla teoria della popolazione di Malthus, secondo cui gli uomini si moltiplicano sempre più rapidamente dei mezzi di sostentamento, Ricardo aveva fatto derivare la legge secondo cui il salario medio era limitato al fabbisogno occorrente abitualmente in un popolo per il mantenimento dell’esistenza e per la riproduzione. Lassalle non ha mai ripreso questa maniera di fondare la legge del salario per mezzo di una pretesa legge naturale; egli ha combattuto la teoria malthusiana della popolazione altrettanto aspramente quanto Marx ed Engels. Soltanto per la società capitalistica «negli attuali rapporti, sotto il dominio della domanda e dell’offerta di lavoro», Lassalle rilevava il carattere «bronzeo» della legge dei salario, e seguiva in questo le orme del Manifesto comunista.

Soltanto tre anni dopo la morte di Lassalle, Marx dimostrò il carattere elastico della legge del salario, così come si configura nel momento culminante della società capitalistica, quando trova i suoi limiti in alto nel bi sogno di valorizzare il capitale e in basso nella misura di miseria che l’operaio può sopportare senza morire immediatamente di fame. Entro questi limiti il livello del salario è determinato non dal movimento naturale della popolazione, ma dalla resistenza che gli operai oppongono alla costante tendenza del capitale a spre mere il più possibile di lavoro non pagato dalla loro forza-lavoro. Quindi l’organizzazione sindacale della classe operaia assume un significato tutto diverso, per la lotta di emancipazione del proletariato, da quello che Lassalle le voleva assegnare.

Fin qui i giudizi di Lassalle in materia economica erano soltanto arretrati, rispetto a Marx; ma con le sue asssociazioni produttive egli incorse in un grave equivoco. Non le aveva riprese da Buchez e non le con siderava neppure una panacea, ma solo un inizio di socializzazione della produzione, che è il punto di vista sotto il quale l’accentramento del credito in mano allo Stato e l’istituzione di fabbriche nazionali sono nominati nel Manifesto comunista. Nel Manifesto se ne parla accanto a una serie di altre misure, delle quali è detto che esse «sono economi camente insufficienti e insostenibili, ma nel corso del movimento sorpassano se stesse e spingono in avanti, e sono inevitabili mezzi per rivoluzionare l’intero modo di pro duzione». Lassalle, al contrario, nelle sue associazioni produttive vedeva «il granello di senapa organico, che irresistibilmente spinge ad ogni ulteriore sviluppo e dal suo stesso seno lo fa dispiegare». In questo Lassalle rivelava senza dubbio una «infezione di socialismo francese»; in quanto supponeva che le leggi della produzione delle merci si potessero levar di mezzo nell’ambito stesso della produzione delle merci.

Le debolezze di Lassalle in fatto di economia, che qui si son potute accennare solo in un paio di punti principali, erano fatte apposta per mettere di malumore Marx. Ciò che lui aveva messo in chiaro da molto tempo, veniva rimesso in dubbio. Era senz’altro giustificabile qualche parola brusca in proposito. Ma nella sua comprensibile irritazione Marx non riconobbe che Lassalle praticava sostanzialmente la sua politica, nonostante tutti gli spropositi teorici. Quella di collegarsi con l’ala estrema di un movimento già esistente, per spingerlo così in avanti, era la prassi che Marx stesso aveva sempre raccomandato e alla quale si era pure attenuto nel 1848. Lassalle non si lasciò dominare dalle «circostanze immediate» più di quanto avesse fatto Marx negli anni della rivoluzione. Che Lassalle, come fondatore di una setta, abbia rinnegato ogni rapporto naturale col movimento precedente, è vero solo in quanto nella sua agitazione non ha mai nominato la Lega dei Comunisti e il Manifesto comunista. Ma anche nelle parecchie centinaia di numeri della Neue Rheinische Zeitung si cercherebbe inutilmente una menzione della Lega e del Manifesto.

Dopo la morte di Lassalle e di Marx, Engels ha giustificato la tattica di Lassalle, sia pure indirettamente, ma con efficacia tanto maggiore. Quando, negli anni 1886 e 1887, cominciò a svilupparsi negli Stati Uniti un movimento proletario di massa, con un programma assai confuso, Engels scrisse al vecchio amico Sorge: «Il primo gran passo che importa compiere in ogni paese appena entrato nel movimento è che gli operai si costituiscano in partito politico indipendente, non importa quale, purché sia un partito specificamente operaio». E aggiungeva che se il primo programma di questo partito è ancora confuso ed estremamente manchevole, questi sono inconvenienti inevitabili ma nello stesso tempo passeggeri. Analogamente scri veva ad altri amici di partito in America. La teoria marxista — diceva — non è un dogma dell’unica vera religione, ma la descrizione di un processo di svolgimento; non si deve aggravare l’inevitabile confusione della prima marcia costringendo la gente a inghiottire cose che per il momento non potrebbe capire, ma che imparerebbe presto .

Engels si richiamava qui all’esempio che lui e Marx avevano dato negli anni della rivoluzione. «Quando, nella primavera del 1848, ritornammo in Germania, aderimmo al Partito democratico, perché questa era l’unica possibilità di essere ascoltati dalla classe operaia; eravamo l’ala più avanzata del partito, ma pur sempre un’ala di esso». E come la Neue Rheinische Zeitung non aveva parlato del Manifesto comunista, anche ora Engels metteva in guardia dal lanciarlo nel movimento americano, osservando che il Manifesto, come quasi tutte le cose minori di Marx e sue, era ancora troppo difficile da capire per l’America, e che gli operai americani entravano solo allora nel movimento ed erano sempre assolutamente grezzi, enor memente indietro soprattutto dal punto di vista teorico; «la leva deve essere applicata direttamente alla pratica, e inoltre è necessaria una letteratura del tutto nuova. Quando la gente è in certa misura sulla via giusta, allora il Manifesto non mancherà il suo effetto, ora agirebbe solo su pochi». E quando Sorge obiettò che il Manifesto al suo apparire aveva avuto un effetto profondo su di lui, ancora ragazzo, Engels replicò: «Quarantanni fa voi eravate tedeschi, con un senso teorico tedesco, e perciò il Manifesto fece effetto, men tre invece, per quanto tradotto in francese, in inglese, in fiammingo, in danese ecc., presso gli altri popoli rimase assolutamente inefficace». Nel 1863, dopo lunghi anni di plumbea oppressione, di questo senso teorico era rimasto poco nella classe operaia tedesca; anch’essa aveva bisogno di una lunga educazione per tornare a capire il Manifesto.

Proprio in quello che Engels con costante e preciso richiamo a Marx, indicava come la «cosa principale» di un movimento operaio agli inizi, l’agitazione di Lassalle era irreprensibile. Anche se come economista egli restava un bel pezzo indietro rispetto a Marx, come rivoluzionario gli stava alla pari, a meno che gli si voglia far rimprovero perché la continua irruenza dell’energia rivoluzionaria in lui prevaleva sulla pazienza instancabile del ricercatore scientifico. Tutti i suoi scritti — con la sola eccezione dell’Eraclito — erano calcolati per un’efficacia pratica immediata.

Egli quindi costruì la sua agitazione sulle larghe e salde fondamenta della lotta di classe, e le assegnò come obiettivo irremovibile la conquista del potere politico da parte della classe operaia. Al movimento inoltre non impose affatto un corso ricavato da una determinata ricetta dottrinaria, come gli rimproverava Marx, ma prese le mosse invece dagli «elementi reali» che già di per sé avevano dato origine a un movimento fra gli operai tedeschi: il suffragio universale e la questione delle associazioni. Almeno in quel tempo Lassalle valutò molto più giustamente di Marx ed Engels il suffragio universale, come leva della lotta proletaria di classe, e le sue associazioni produttive con credito statale, nonostante tutto quello che contro di esse si può opporre, erano fondate sul principio giusto che (per citare alcune parole scritte da Marx stesso qualche anno più tardi) «il lavoro cooperativo, per salvare le masse lavoratrici, dovrebbe svilupparsi in dimensioni nazionali e, per conseguenza, dovrebbe essere alimentato con mezzi della nazione»[ii]24. L’apparenza del «fondatore di una setta» Lassalle poteva averla tutt’al più esteriormente, per la venerazione qualche volta esagerata che gli tributavano i suoi seguaci, ma almeno di questo la vera e prima colpa non era sua. Si dette molta pena per evitare che «il movimento assumesse, di fronte agli imbecilli, la figura di una sola persona»; cercò di attirare nel suo movimento non solo Marx ed Engels, ma anche Bucher e Rodbertus e ancora parecchi altri; se non riuscì però ad acquistarsi un compagno spiritualmente pari a lui, era naturale che la gratitudine degli operai assumesse le forme non sempre simpatiche di un culto personale. Certo non era neppure uomo da nascondere la sua fiaccola sotto il moggio: Lassalle non era dotato dell’abnegazione di Marx, che teneva sempre in ombra la propria persona.

Bisogna anche considerare un altro punto di vista decisivo: la lotta apparentemente violenta della borghesia liberale contro il governo prussiano, dalla quale si sviluppò l’agitazione di Lassalle. Dal 1859 Marx ed En gels avevano dedicato maggiore attenzione alle cose tedesche ma, come mostrano per più riguardi le loro lettere fino al 1866, non ne avevano acquistato un senso- esatto. Nonostante le loro esperienze degli anni della rivoluzione, contavano sempre sulla possibilità di una rivoluzione borghese e persino militare, e men tre sopravvalutavano la borghesia tedesca sottovalutavano la politica grande-prussiana. Non superarono mai le impressioni della loro giovinezza, di quando la loro patria renana, nell’orgogliosa coscienza della sua cultura moderna, guardava con disprezzo dall’alto in basso le antiche province prussiane, e quanto più la loro attenzione si rivolgeva ai piani zaristi di conquista mondiale, tanto più vedevano nello Stato prussiano un semplice pascialicco russo. Anche in Bismarck tendevano a vedere soltanto lo strumento di uno stru mento russo, di quel «misterioso uomo delle Tuileries» del quale già nel 1859 avevano detto che obbediva soltanto alla bacchetta della diplomazia russa; non pensarono mai che la politica grande-prussiana, con tutto quel che aveva di discutibile, potesse portare a risultati che avrebbero fatto una sorpresa ugualmente sgradevole tanto a Parigi che a Pietroburgo. Ma se ritenevano ancora possibile una rivoluzione borghese in Germania, la levata di scudi lassalliana doveva apparir loro del tutto intempestiva, e nel caso che avessero giudicato bene, nessuno sarebbe stato più disposto di Lassalle a dar loro ragione.

Ma Lassalle vedeva le cose da vicino e giudicava con maggiore esattezza. Prese le mosse proprio da questa convinzione (e in questo segno vinse): che il movimento filisteo della borghesia progressiva non può condurre mai a nulla, «anche se volessimo aspettare per secoli, per intere ère geologiche». Ma mentre veniva a mancare la possibilità di una rivoluzione borghese, Lassalle prevedeva che l’unificazione nazionale della Germania, per quanto era ancora possibile, sarebbe stata opera di un rivolgimento dina stico nel quale, a suo modo di vedere, il nuovo partito operaio avrebbe dovuto agire come cuneo avanzato. E’ vero però che nei suoi negoziati con Bismarck, per quanto cercasse di mettere in difficoltà la politica grande-prussiana, trasgredì tuttavia i dettami della discrezione politica, sia pure senza offendere alcun principio, e di ciò giustamente Marx ed Engels potevano essere e furono irritati.

Quel che li divideva da Lassalle negli anni 1863 e 1864 erano in ultima analisi, come nel 1859, «giudizi opposti su presupposti di fatto», e con ciò cade quella parvenza di animosità personale che pesa sui duri giudizi che proprio in questo tempo Marx pronunciava sul conto di Lassalle. Ma Marx non superò mai del tutto i suoi pregiudizi contro l’uomo che nella storia della socialdemocrazia tedesca comparirà sempre a fianco di lui e di Engels. Questa volta neppure il potere riconciliante della morte ha avuto un effetto duraturo.

Marx ebbe per mezzo di Freiligrath la notizia della morte di Lassalle e il 3 settembre la telegrafò a Engels, che il giorno dopo rispose: «Puoi immaginare quanto m’abbia sorpreso la notizia. Del resto Lassalle può esser stato, dal punto di vista personale, letterario, scientifico, quello che. era, ma è indubitato che politicamente era uno degli uomini più notevoli della Germania. Rispetto a noi egli era attualmente un amico molto dubbio, nell’avvenire quasi certamente un nemico, ma d’altra parte ci sentiamo duramente colpiti dal vedere perire in Germania tutti i migliori uomini dei partiti estremi. Qual giubilo si diffonderà fra i proprietari di fabbriche e i porci progressisti; Lassalle era infatti nella stessa Germania l’unico uomo di cui avessero paura».

Marx lasciò passare qualche giorno, e il 7 settembre scrisse: «La sventura di Lassalle mi se maledetta mente rigirata per il cervello in tutti questi giorni. Egli era pur sempre uno della vecchia guardia e nemico dei nostri nemici... Con tutto ciò mi dispiace che i nostri rapporti fossero negli ultimi anni alquanto turbati, certamente per colpa sua. D’altra parte mi è assai caro l’aver resistito alle istigazioni da diverse parti e di non averlo attaccato durante il suo ‘anno giubilare’. Sa il diavolo, la schiera si assottiglia, di nuovi non se ne vedono»[iv]26. Alla contessa di Hatzfeldt Marx scrisse per consolarla: «E’ morto giovane, combattendo, come Achille». Poco dopo, quando quel chiacchierone di Blind si volle dare dell’importanza a spese di Lassalle, Marx gli dette il fatto suo con queste rudi parole: «Non penso affatto a voler far capire un uomo come Lassalle e la reale tendenza della sua agitazione a un grottesco pagliaccio, che dietro di sé non ha altro che la propria ombra. Sono convinto, al contrario, che calpestando il leone morto il signor Karl Blind segua la vocazione che la natura gli ha assegnato». E ancora qualche anno più tardi, in una lettera a Sch weitzer, Marx riconosceva «l’immortale merito di Lassalle» di aver ridestato il movimento operaio tedesco dopo quindici anni di sopore, nonostante i «grandi errori» da lui commessi nella sua agitazione.

Ma tornarono anche dei giorni che Marx giudicò il morto Lassalle con maggiore asprezza e ingiustizia di quando era vivo. Ciò resta un fatto doloroso, confortato però dal pensiero che il moderno movimento operaio è tanto grandioso che anche l’intelligenza più grande non potè comprenderlo fino in fondo.