CAPITOLO 11


Guerra di Crimea e crisi



    11.1    ​​​Politica europea

Circa nello stesso tempo alla fine del 1853, in cui Marx col suo pamphlet contro Willich concludeva la sua lotta con “l’imbroglio democratico dell’emigrazione e la mania di rivoluzione“ cominciò con la guerra di Crimea, un nuovo periodo della politica europea, che negli anni seguenti attrasse prevalentemente la sua attenzione.

Il suo pensiero in proposito è espresso stupendamente nei suoi articoli sulla New York Tribune. Per quanto questo giornale cercasse di abbassarlo al grado di un normale corrispondente, Marx poteva dire a ragione di essersi “occupato di vere e proprie corrispondenze giornalistiche soltanto in via eccezionale“. Rimase fedele a se stesso, riuscì a nobilitare anche il lavoro intellettuale fatto per guadagnare, fondandolo su studi faticosi e dandogli così un valore non caduco.

Questi tesori sono in gran parte ancora inesplorati, e costerebbe alquanta fatica portarli alla luce. Poiché la New York Tribune considerava per così dire come materiali grezzi la collaborazione che Marx le forniva, li gettava a suo piacimento nel cestino o anche li pubblicava come cosa propria e non sempre, come Marx diceva inquietandosi, stampava “quella robaccia“ col nome di lui, non si può ristabilire più tutto il lavoro di Marx per questo giornale americano e, nei limiti in cui ciò è ancora possibile, si richiede un vaglio attento per stabilire esattamente dove cominci e dove finisca.

Un criterio indispensabile per questa ricerca è fornito soltanto da tempo relativamente breve con la pub blicazione del Carteggio tra Engels e Marx. Da esso risulta, per esempio, che la serie di articoli su Rivolu zione e controrivoluzione in Germania, di cui da tempo si è ritenuto autore Marx, sono stati scritti preva lentemente da Engels, e inoltre che quest’ultimo non soltanto ha scritto gli articoli militari per la New York Tribune, cosa che era già nota da tempo, ma ha lavorato ampiamente per il giornale anche in altri campi. Oltre alla serie già citata di articoli, finora sono stati raccolti dalle colonne della New York Tribune gli articoli sulla questione orientale, ma la raccolta sia per quello che contiene, che per quello che non contiene, è anche molto più impugnabile dell’altra, a proposito della quale c’era stato soltanto l’equivoco circa l’autore.

Con questa ricerca critica sarebbe compiuta soltanto la parte più semplice del lavoro. Per quanto Marx sapesse dare dignità al quotidiano lavoro pubblicistico, tuttavia non lo poteva innalzare oltre se stesso. Anche il genio più grande non può fare nuove scoperte o partorire nuovi pensieri due volte alla settimana, in coincidenza col vapore del martedì o del venerdì. In questo, come disse una volta Engels, si finisce sempre col “prender le cose di sottogamba e con l’arrangiarsi soltanto a memoria“. Inoltre il lavoro quotidiano dipende sempre dalle notizie del giorno e dagli umori del giorno, dai quali non ci si può nemmeno liberare senza diventare noiosi e pesanti. Che cosa sarebbero i quattro grossi volumi del Carteggio tra Engels e Marx senza le cento contraddizioni nelle quali si sviluppano le grandi direttrici del loro pensiero e della loro lotta!

Le grandi linee direttive della loro politica europea, quale si precisò con la guerra di Crimea, sono però oggi già del tutto chiare, anche senza l’enorme materiale che attende ancora di esser tratto fuori dalle colonne della New York Tribune. In un certo senso, la si può chiamare una conversione. Gli autori del Manifesto comunista rivolgevano il loro sguardo principalmente sulla Germania, e così anche la Neue Rheinische Zeitung. E allora questo giornale prendeva entusiasticamente, posizione per l’indipendenza dei polacchi, degli italiani, degli ungheresi, e infine chiedeva la guerra contro la Russia la più forte riserva della controrivo luzione europea, arrivando ad auspicarne l’estensione a una guerra mondiale contro l’Inghilterra, con la quale soltanto la rivoluzione sociale passava dal regno dell’utopia in quello della realtà.

La “schiavitù anglo-russa“ che pesava sull’Europa era il punto a cui Marx ricollegava la sua politica euro pea al tempo della guerra di Crimea. Egli salutò questa guerra, in quanto prometteva di porre un argine alla preponderanza acquistata dallo zarismo in Europa con la vittoria della controrivoluzione, ma non era affatto d’accordo sul modo con cui le potenze occidentali lottavano contro la Russia. Ugualmente la pen sava Engels, che definì la guerra di Crimea una colossale commedia degli errori, durante la quale ci si domandava ad ogni istante: chi è gabbato a questo punto? Tutti e due vedevano nella guerra di Crimea, per come la conducevano la Francia e soprattutto l’Inghilterra, soltanto un simulacro di guerra, nonostante il milione di vite umane e gli innumerevoli milioni che essa costò.

Ed essa lo era sicuramente in quanto né il falso Bonaparte né lord Palmerston, ministro inglese degli esteri, pensavano di colpire a morte il colosso russo. Appena furono sicuri che l’Austria teneva in scacco la potenza russa ai suoi confini occidentali, essi spostarono la guerra in Crimea, per intestarsi contro la fortezza di Sebastopoli, di cui dopo un anno intero avevano espugnato felicemente la metà. E dovettero accontentarsi di questo meschino alloro, e alla fine chiedere il permesso alla Russia “sconfitta“ di reimbarcare indisturbate le loro truppe.

Quanto al falso Bonaparte, era abbastanza spiegabile perché non osasse sfidare lo zar a una lotta per la vita e per la morte, ma era meno spiegabile per Palmerston, che i governi del continente temevano come la “fiaccola“ della rivoluzione e i liberali del continente ammiravano come un modello di ministro libe rale-costituzionale. Marx sciolse l’enigma, sottoponendo a un faticoso controllo i Libri azzurri e i dibattiti parlamentari della prima metà del secolo, ed oltre a quelli anche una serie di notizie diplomatiche conser vate nel British Museum, per dimostrare sulla loro base che dal tempo di Pietro il Grande fino ai giorni della guerra di Crimea c’era stata collaborazione tra i gabinetti di Londra e di Pietroburgo e che soprattutto Palmerston era un venale strumento della politica zarista. I risultati di questi studi hanno poi sollevato po lemiche e sono ancor oggi contrastati, soprattutto per quel che riguarda Palmerston, la cui poco scrupolosa politica commerciale, coi suoi mezzi termini e le sue contraddizioni, fu giudicata da Marx indubbiamente in modo più esatto di quanto facessero i governi e i liberali del continente, senza però che ne risulti con assoluta necessità che Palmerston sia stato comprato dalla Russia. Ma più importante della questione se Marx abbia teso troppo l’arco in questo caso, è il fatto che in seguito egli lo tenne sempre teso, e considerò compito imprescindibile della classe operaia penetrare i misteri della politica internazionale e sventare i tiri diplomatici dei governi o, se questo le era ancora impossibile, almeno denunziarli.

Soprattutto importava per lui la lotta senza quartiere contro la potenza barbarica di cui vedeva la testa a Pietroburgo e le mani rimestare in tutti i Gabinetti europei. Nello zarismo egli vedeva non soltanto la mag giore fortezza delia reazione europea, la cui pura esistenza passiva era un continuo pericolo e una continua minaccia, ma anche il nemico principale che col suo incessante immischiarsi negli affari dell’occidente ne impediva e ne disturbava il normale sviluppo, con lo scopo di espugnare delle posizioni geografiche che avrebbero dovuto assicurargli il dominio dell’Europa e rendere così impossibile la liberazione del proletaria to europeo. L’importanza decisiva che Marx attribuiva a questo punto, da questo momento in poi influenzò notevolmente la sua politica operaia, molto più fortemente di quanto non fosse già avvenuto negli anni della rivoluzione.

Se così Marx non faceva che continuare a tessere un filo ch’egli aveva annodato nella Neue Rheinische Zeitung, le nazioni per le cui lotte d’indipendenza il giornale s’era entusiasmato, passavano in seconda linea sia per lui che per Engels. Non che tutti e due avessero cessato di sostenere l’indipendenza della Polonia, dell’Ungheria e dell’Italia, sia come un diritto di questi paesi che come un interesse della Germania e dell’Europa. Ma sin dal 1851 Engels dava ai prediletti di una volta questo secco congedo: “Agli italiani, ai polacchi e agli ungheresi dirò chiaramente che in tutte le questioni moderne devono tenere la bocca chiusa”. Qualche mese dopo diceva ai polacchi che essi erano una nazione dissolta, adoperabili ancora come strumento, fino a che non fosse trascinata nella rivoluzione la Russia stessa. I polacchi non avevano fatto altro nella storia che combinare eroiche sciocchezze per la smania di litigare. Perfino nei confronti della Russia non avevano mai fatto nulla di importanza storica, mentre la Russia era stata effettivamente progressiva nei confronti dell’Oriente. Il dominio russo con tutta la sua brutalità, con tutto il suo sudiciume slavo, aveva una funzione di civiltà per il Mar Nero, il Mar Caspio e l’Asia centrale, per i basckiri e i tartari, e la Russia aveva accolto in sé molti più elementi di cultura, e soprattutto elementi industriali, che non la Polonia nobilesca e impellicciata per natura. Frasi che a dire il vero risentono fortemente della passione delle lotte tra i profughi.

Più tardi Engels ha di nuovo espresso giudizi molto più miti sulla Polonia e, ancora nei suoi ultimi anni, ha riconosciuto che essa ha salvato almeno due volte la civiltà europea: con la sua insurrezione nell’anno 1792 e 1793, e con la sua rivoluzione del 1830 e 1831.Ma Marx ha dedicato questo giudizio al celebrato eroe della rivoluzione italiana: “Mazzini conosce soltanto le città con la loro nobiltà li berale e i loro borghesi illuminati. I bisogni materiali della popolazione italiana delle campagne — sfruttata e sistematicamente snervata e incretinita come quella irlandese — restano naturalmente al di sotto del cielo delle frasi dei suoi manifesti cosmopolitico-neocattolico-ideologici. Tuttavia ci vuole del coraggio per spiegare ai borghesi e ai nobili che il primo passo per l’indipendenza dell’Italia è la completa emancipazione dei contadini e la trasformazione del loro sistema a mezzadria in una libera proprietà borghese“. E a Kossuth, che faceva pompa di sé a Londra, Marx faceva dire in una lettera aperta del suo amico Ernest Jones che le rivoluzioni europee significavano la crociata del lavoro contro il capitale. Non si poteva farla scendere al livello spirituale e sociale di un popolo oscuro e semibarbaro come i magiari, fermi ancora alla mezza civiltà del secolo decimosesto e che si immaginavano davvero di poter avere a propria disposizione la grande civiltà della Germania e della Francia e di carpire un evviva alla credulità dell’Inghilterra.

Ma Marx si allontanava al massimo dalle tradizioni della Neue Rheinische Zeitung quando non soltanto non rivolgeva più sulla Germania la sua principale attenzione, ma la bandiva alquanto dal suo orizzonte poli tico. A dire il vero, allora la Germania aveva una funzione eccezionalmente torbida nella politica europea e poteva passare per un pascialicato russo, ma se così la cosa si spiega in certo modo, fu tuttavia per certi aspetti fatale che Marx — e la stessa cosa vale per Engels— abbia perduto per una serie di anni ogni stretto contatto con l’evoluzione tedesca. Specialmente il disprezzo, che tutti e due, in quanto cittadini della Renania annessi allo Stato prussiano, avevano sempre provato per quest’ultimo, si accrebbe nel periodo Manteuffel-Westphalen fino ad un punto che era fortemente in contrasto con la loro acuta visione dello stato reale delle cose.

Un’eloquente testimonianza di ciò la fornisce anche quell’unico caso eccezionale in cui Marx degnò della sua attenzione la situazione prussiana del momento. Ciò avvenne verso la fine del 1856, quando la Prussia si accapigliò con la Svizzera per l’affare di Neufchàtel. L’urto indusse Marx, come egli scriveva a Engels il 2 dicembre 1856, ad “approfondire le mie molto manchevoli cognizioni di storia prussiana“; ed egli riassumeva il risultato dei suoi studi nell’affermazione che la storia universale non ha mai prodotto nulla di più miserevole. Quel che egli poi aggiungeva nella lettera stessa, e ripeteva più distesamente qualche giorno dopo nel People’s Paper, organo dei cartisti, non lo mostra davvero all’altezza consueta della sua concezione della storia, ma rasenta piuttosto pericolosamente quelle bassure storiografiche proprie della democrazia usa ai toni scandalizzati dei galantuomini, che altrimenti è proprio suo merito avere superato.

Lo Stato prussiano, boccone duro, quale esso era senza dubbio per ogni uomo di cultura, proprio per ciò non poteva esser dissolto dall’acquaforte dello scherno sul “diritto divino degli Hohenzollern“, sulle loro tre maschere caratteristiche sempre ricorrenti: il pietista, il sottufficiale e il pagliaccio, sulla storia prussiana che sarebbe una “ poco pulita cronaca familiare” al confronto dell’“epicità diabolica” della storia austriaca, e su altre cose del genere, che al massimo spiegavano il perché, ma lasciavano completamente all’oscuro il perché del perché.

    11.2    ​​​David Urquhart. Harney e Jones

Nello stesso tempo, e con lo stesso criterio con cui collaborava alla New York Tribune, Marx collaborò ai giornali urquhartisti e cartisti.

David Urquhart era un diplomatico inglese, che si acquistò grandi meriti con la sua precisa conoscenza e la sua lotta incessante contro i piani russi di dominio mondiale, ma che poi diminuì questi suoi meriti con un fanatico odio per i russi e un fanatico entusiasmo per i turchi. Marx fu definito spesso un urquhartista, ma molto ingiustamente; si può dire piuttosto che tanto lui quanto Engels abbiano più contrastato le folli esagerazioni che apprezzato i portati effettivi di quest’uomo. Proprio nel nominarlo la prima volta, nel marzo del 1853, Engels scriveva: “Ora ho in casa l’Urquhart, quel pazzo M.P. che pretende che Palmerston sia pagato dalla Russia. La cosa si spiega semplicemente: questo tipo è un celta scozzese, di cultura sassone-scozzese, romantico per tendenza, freetrader per educazione. Andò in Grecia come filelleno, e dopo essersi battuto per tre anni contro i turchi, andò in Turchia e si entusiasmò per l’appunto dei turchi. E’ entusiasta dell’Islam, e il suo principio è: se non fossi calvinista, potrei essere soltanto maomettano“. Nell’insieme Engels trovava che il Libro di Urquhart era davvero divertentissimo.

Il punto di contatto tra Marx ed Urquhart era la lotta contro Palmerston. Un articolo contro questo ministro, pubblicato da Marx nella New York Tribune e riprodotto da un giornale di Glasgow, destò l’attenzione di Urquhart, e nel febbraio del 1854 egli ebbe un incontro con Marx, nel quale lo accolse col complimento che i suoi articoli erano quali li avrebbe scritti un turco. E quando Marx in risposta spiegò di essere un “rivoluzionario“, Urquhart restò molto deluso, perché tra le sue fisime c’era anche quella che i rivoluzionari europei fossero, coscienti o no, strumenti adoperati dallo zarismo per creare difficoltà ai governi europei. “E’ un perfetto monoman“ scrisse Marx ad Engels dopo questa conversazione. Come ebbe a spiegargli, non era d’accordo con lui su niente ad eccezione che su Palmerston, e su questo punto Urquhart non lo aveva minimamente aiutato.

Certo non si dovrà far dire troppo a queste espressioni confidenziali. Pubblicamente, pur con ogni riserva critica, Marx ha ripetutamente riconosciuto i meriti di Urquhart, e non ha nemmeno fatto un mistero del fatto di essere stato, se non convinto, però stimolato da Urquhart. Perciò non si fece uno scrupolo di fornire all’occasione della collaborazione per i giornali di Urquhart e particolarmente per la Free Press di Londra, e di consentire la diffusione in forma di opuscoli di parecchi suoi articoli della New York Tribune. Questi pamphlets contro Palmerston furono diffusi in diverse edizioni fino a 1530.000 copie, e suscitarono un grande scalpore. Ma per il resto Marx ebbe presso lo scozzese Urquhart tanto poco successo quanto presso il yankee Dana.

Una relazione durevole tra Marx ed Urquhart era esclusa già per il fatto che Marx sosteneva il cartismo, che Urquhart odiava doppiamente, anzitutto come libero-scambista e poi come nemico dei russi, che in ogni movimento rivoluzionario sentiva tintinnio di rubli. Il cartismo non si era più riavuto della grave sconfitta subita il 10 aprile 1848, ma fino a che i suoi resti lottarono per una nuova vita, Marx ed Engels li sostennero fedelmente e coraggiosamente e in particolare fornirono collaborazione gratuita ai loro organi, che nel decennio tra il 1850 e il 1860 furono editi da George Julian Harney e da Ernest Jones; da Harney, uno dopo l’altro, il Red Republican, il Friend of the People e la Democratic Review, e da Jones le Notes of the Pople e il People’s Paper, che durò più di tutti, fino al 1858.

Harney e Jones appartenevano alla frazione rivoluzionaria del cartismo, e in esso erano anche i più liberi da ogni grettezza isolana; nella associazione internazionale dei Fraternal Democrats essi passavano per le personalità dirigenti. Harney era figlio di un uomo di mare ed era cresciuto in condizioni proletarie; aveva studiato da sé la letteratura rivoluzionaria di Francia, e vedeva soprattutto in Marat il proprio modello. Più vecchio di Marx di un anno, quando Marx dirigeva la Rheinische Zeitung, era già nella redazione del Northern Star, il principale organo dei cartisti. Qui lo venne a trovare nel 1843 Engels, “un giovane snello, di aspetto estremamente giovanile, quasi un ragazzo, che già allora parlava un inglese straordinariamente corretto“. Nel 1847 Harney conobbe anche Marx e si unì a lui entusiasticamente.

Nel suo Red Republican egli ristampò una traduzione inglese del Manifesto comunista, con la postilla che esso era il documento più rivoluzionario che si fosse mai avuto al mondo, e nella sua Democratic Review tradusse gli articoli della Neue Rheinische Zeitung sulla rivoluzione francese, come la “vera critica“ delle vicende di Francia. Nelle lotte degli emigrati però egli tornò in seguito ai suoi antichi amori, ed ebbe con Jones un dissenso violento non meno che con Marx ed Engels. Subito dopo si trasferì sull’isola di Jersey e poi negli Stati Uniti, dove Engels lo visitò nell’anno 1888. Subito dopo Harney tornò in Inghilterra, e vi “morì in età inoltrata, ultimo testimone di una grande epoca.

Ernest Jones discendeva da un vecchio ceppo normanno, ma era nato ed era stato educato in Germania, dove suo padre viveva come addetto militare del duca di Cumberland, che fu poi il re Ernesto Augusto di Hannover. Questo libertino ultrareazionario, a cui la stampa inglese rimproverò tutti i misfatti ad eccezione del suicidio, tenne a battesimo il piccolo Ernest, senza che questo padri nato e le relazioni di corte della sua famiglia abbiano avuto alcuna influenza su di !ui. Ancor ragazzo, egli manifestava un indomabile ardore di libertà, e, fatto adulto, ha resistito a tutti i tentativi di stringerlo entro catene d’oro. Aveva circa ventanni quando si dedicò agli studi di diritto e fu ammesso all’avvocatura. Sacrificò tutte le prospettive apertegli dalle sue brillanti capacità e dalle relazioni aristocratiche della sua famiglia, per dedicarsi alla causa cartista, che sostenne con tanto ardore da essere condannato nel 1848 a due anni di prigione. Come punizione per aver tradito la sua classe, in prigione fu trattato come un detenuto comune, ma nel 1850 lasciò il carcere senza esserne stato piegato e dall’estate del 1850 in poi, per circa due decenni, fu in stretti rapporti con Marx ed Engels, tra l’uno e l’altro dei quali stava come età.

A dire il vero, anche questa amicizia non è stata del tutto senza nuvole: furono offuscamenti dello stesso genere di quelli che si ebbero nell’amicizia con Freiligrath, col quale Jones aveva in comune il dono della poesia, o anche con Lassalle, sul quale Marx dava un giudizio analogo, ma solo incomparabilmente più aspro, di quello che, nel 1855, scriveva di Jones: “Jones, con tutta l’energia, la tenacia e l’attività che bisogna riconoscergli, però rovina tutto con la sua ciarlataneria, la sua inopportuna smania di trovar pretesti di agitazione, e la sua impazienza di bruciar le tappe”. Anche in seguito non sono mancati gli scontri duri, quando l’agitazione cartista s’insabbiava sempre più e Jones si avvicinava al radicalismo borghese.

Ma nella sostanza rimase un’amicizia sincera e schietta. Jones da ultimo visse a Manchester come avvo cato e morì inaspettatamente nel 1869, ancora nel pieno delle sue forze; Engels mandò la triste notizia a Londra con un foglio scritto in fretta: “Un altro di quelli vecchi!“, e Marx rispose: “ La notizia di E. Jones ha destato a casa nostra naturalmente una profonda costernazione: era uno dei pochi vecchi amici“. Engels poi dava ancora la notizia che Jones era stato sepolto, seguito da un enorme corteo, nello stesso cimitero dove già riposava uno dei loro fedeli, Wilhelm Wolff. Era davvero un peccato che se ne fosse andato; le sue frasi borghesi erano in fondo solo finzioni, e fra gli uomini politici, era pur sempre l’unico inglese colto che in fondo fosse completamente dalla loro parte.

    11.3    ​​​Famiglia e amici

In questi anni Marx si tenne lontano da ogni relazione politica, anzi quasi da ogni compagnia. Si era ritirato completamente nel suo studio, che lasciava soltanto per dedicarsi alla sua famiglia, che nel gennaio del 1855 si accrebbe di un’altra bambina, Eleanor.

Egli era un grande amico dei bambini, come anche Engels, e se qualche volta sottraeva un’ora al suo incessante lavoro, era per giocare coi suoi figli. Essi lo idolatravano, sebbene, o magari proprio perché rinunciava ad ogni autorità paterna; lo trattavano come un compagno, e lo chiamavano “Moro“, con un soprannome che era dovuto ai suoi capelli neri e al colore scuro della sua pelle. “I bambini devono educare i genitori“, egli soleva dire. Soprattutto essi gli proibivano di lavorare la domenica; la domenica egli doveva appartenere tutto a loro, e le gite domenicali in campagna, durante le quali sostavano in qualche modesta osteria per bere birra allo zenzero e mangiare un po’ di pane e formaggio, erano dei raggi di sole in mezzo alle nuvole pesanti sempre sospese sulla casa.

Queste gite erano dirette con particolare preferenza verso Hampstead Heath, la landa di Hampstead, una linea di colline a nord di Londra, senza costruzioni, sparsa di gruppi di alberi e di ginestre. Liebknecht ha descritto con molta grazia queste gite domenicali. Oggi la landa non è più quella che era sessanta anni fa, ma dall’antica osteria, Jack Straws Castle, ai cui tavoli Marx si è spesso seduto, si gode ancora una splendida vista su di essa, col suo pittoresco alternarsi di colline e di valli, soprattutto quando la domenica sono animate di gente in festa. Al sud della città gigantesca, con le sue masse di case, sovrastate dalla cupola della cattedrale di S. Paolo e dalle torri di Westminster, appaiono tra i vapori della lontananza le colline di Surrey, al nord un tratto di terreni fertili, fittamente popolati, sparsi di numerosi villaggi, all’ovest l’altra collina di Highgate, dove Marx dorme il suo sonno eterno.

Ma su questa modesta felicità familiare si abbatté la folgore; il venerdì santo del 1855 gli fu strappato dalla morte l’unico figlio maschio, di circa nove anni, Edgar o “Musch”, come veniva chiamato in casa. Il ragazzo, che già rivelava delle qualità notevoli, era il beniamino di tutti. “Una perdita così triste e tremenda che non posso proprio dire quanto mi abbia colpito”, scriveva Freiligrath in Germania.

Le lettere in cui Marx dava notizia ad Engels della malattia e della morte del bimbo strappano il cuore. Il 30 marzo egli scriveva: “Mia moglie da una settimana in qua è stata ammalata come mai prima d’ora per un’angoscia morale. E anche a me sanguina il cuore e brucia il capo, sebbene io debba naturalmente darmi un contegno. Durante la malattia il bambino non smentisce un solo istante il suo carattere particolare, cordiale e nello stesso tempo indipendente“. E il 6 aprile: “Il povero Musch non è più. Si è addormentato (nel vero senso della parola) tra le mie braccia oggi tra le 5 e le 6. Non dimenticherò mai come la tua amicizia ci ha reso più leggero questo terribile periodo. Il mio dolore per il bambino tu lo capisci”. E il 12 aprile: “La casa è naturalmente del tutto desolata e vuota dopo la morte del caro bambino che ne era l’anima. Non si può dire come il bambino ci manchi a ogni istante. Ho già sofferto ogni sorta di guai, ma solo ora so che cosa sia una vera sventura... Tra tutte le pene terribili che ho passato in questi giorni, il pensiero di te e della tua amicizia, e la speranza che noi abbiamo ancora da fare insieme al mondo qualche cosa di intelligente, mi hanno tenuto su“. Ci volle molto tempo prima che la ferita cominciasse sia pure a rimarginarsi. Il 28 luglio Marx rispondeva a una lettera di condoglianze di Lassalle: “Bacone dice che gli uomini veramente significativi hanno tanti rapporti con la natura e col mondo, tanti oggetti del loro interesse che superano facilmente il dolore di ogni perdita. Io non appartengo a questi uomini significativi. La morte del mio bambino mi ha scosso profondamente il cuore e il cervello, e soffro della perdita ancora come il primo giorno. Anche la mia povera moglie è del tutto affranta”. E il 6 ottobre Freiligrath scriveva a Marx: “Che tu non ti sia ancora ripreso della tua perdita è cosa che mi addolora profondamente. Comprendo e rispetto il tuo dolore, ma cerca di dominarlo, per non esserne dominato. Non commetterai così un tradimento verso la memoria del tuo caro piccino“.

La morte del piccolo Edgar fu la conseguenza di continue malattie che da un paio di anni avevano im perversato in famiglia, e che dalla primavera avevano preso anche Marx, per non abbandonarlo mai più del tutto. Lo tormentava soprattutto una malattia di fegato, che credeva di avere ereditato dal padre. Ma contribuì molto alle cattive condizioni di salute anche la misera abitazione e il quartiere malsano in cui sor geva. Nell’estate del 1854 il colera vi dilagò con particolare violenza, forse perché i canali di scolo scavati nello stesso tempo erano stati immessi nei pozzi dove erano sepolti i morti della peste del 1665. Il medico ingiunse di lasciare “la zona infetta di Soho Square”, la cui aria Marx aveva respirato ininterrottamente da anni. Un nuovo lutto in famiglia ne creò la possibilità. Nell’estate del 1856 la signora Marx si era recata a Treviri con le tre figlie, per rivedere la sua vecchia madre. Ma arrivò appena in tempo per chiuderle gli occhi dopo sofferenze durate undici giorni.

La sua eredità era modesta, tuttavia un paio di centinaia di talleri toccarono alla signora Marx, e vi si ag giunse, a quanto pare, anche una piccola eredità da parte dei parenti scozzesi. Così nell’autunno del 1856 la famiglia poté trasferirsi in una casetta non lontana dal loro amato Hampstead Heath: 9 Graftonterrace, Maitlandpark, Haver-stockhill. La pigione ammontava a 36 sterline l’anno. “E’ un’abitazione davvero prin cipesca, confrontata col buco dove stavamo prima — scriveva la signora Marx ad una amica — e sebbene tutto l’arredamento non sia costato tutto compreso molto più di 40 sterline (una parte notevole è roba di seconda mano), al principio mi sentivo proprio grande nel nostro salotto. Tutta la biancheria e altri residui dell’antica grandezza sono stati liberati dalle mani dello ‘zio’ (il Monte) e ho riscontrato con gioia le salviette di damasco che venivano da antica fonte scozzese. Sebbene la magnificenza non sia durata a lungo, per ché ben presto un pezzo dopo l’altro ha dovuto emigrare di nuovo nel Pop-haus (così i bambini chiamano il misterioso negozio con le tre palle), però per una volta ci siamo sentiti soddisfatti della nostra agiatezza borghese“. Fu un momento di respiro anche troppo breve.

La morte miete anche tra i loro amici. Daniels morì nell’autunno del 1855, Weerth nel gennaio del 1856 a Haiti, Konrad Schramm al principio del 1858 nell’isola di Jersey. Marx ed Engels si adoperarono con ardore perché la stampa pubblicasse almeno un breve necrologio di loro tutti, ma senza successo. Essi lamentarono spesso che la vecchia guardia scomparisse e che non ci fosse nessun nuovo afflusso. Per quanto al principio fosse loro piaciuto il loro “pubblico isolamento”, e per quanto sicura fosse la fede nella vittoria con la quale i due solitari prendevano parte alla politica europea, essi erano tuttavia dei politici troppo appassionati per non sentire alla lunga la mancanza di un partito; perché i pochi loro seguaci, come lo stesso Marx ebbe a dire una volta, non erano un partito. E tra loro non c’era nessuno che fosse all’altezza dei loro pensieri, ad eccezione del solo nei riguardi del quale essi non poterono mai superare la loro diffidenza.

A Londra Liebknecht era tutti i giorni da Marx, soprattutto finché questi abitò in Deanstreet, ma egli doveva lottare duramente con le miserie della vita nella sua angusta soffitta, e io stesso era per i vecchi compagni della Lega dei Comunisti, per Lessner e per il falegname Lochner, per Eccarius e per il “peccatore pentito“ Schapper. Altri erano dispersi: Dronke faceva il commerciante a Liverpool e poi a Glasgow, Imandt il professore a Dundee, Schily l’avvocato a Parigi, dove era anche Reinhardt, segretario di Heine durante gli ultimi anni della di lui vita, che apparteneva anche lui alla cerchia ristretta dei fedeli.

Ma anche tra i più fedeli la vita politica si veniva spegnendo, Wilhelm Wolff, che viveva passabilmente a Manchester dando lezioni, era sempre lo stesso, era come la signora Marx scrisse una volta: “una natura schietta, viva, plebea”, solo che con gli anni crescevano le fìsime dello scapolo e le sue “battaglie più grandi“ erano ormai quelle con la padrona di casa per il tè, lo zucchero e il carbone. Spiritualmente nell’esilio non ha rappresentato molto per i vecchi amici. Così anche Freiligrath rimase il vecchio amico fidato; anzi, da quando nell’estate del 1856 gli fu affidata l’agenzia londinese di una banca svizzera, egli sfruttò le accresciute possibilità di aiutare finanziariamente Marx con tanta maggiore larghezza in quanto gli anticipava subito in contanti le cambiali della New York Tribune, che abbastanza spesso mostrava di non avere troppa fretta nel pagare. Freiligrath restò saldo anche nelle sue convinzioni rivoluzionarie ma si estraniò sempre più dalla lotta di partito. Per quanto affermasse con onesta convinzione che in nessun luogo il rivoluzionario poteva farsi seppellire con decoro se non nell’esilio, tuttavia il poeta tedesco non poteva essere contento dell’esilio. Di fronte alla nostalgia della donna amata, e alla schiera dei bambini che accendevano l’albero di Natale su terra straniera, la fonte della poesia s’inaridiva sempre più. Egli ne soffriva e fu un bene per lui che la patria tornasse a poco a poco a ricordarsi del famoso poeta.

E ora la lunga serie dei “morti vivi“! Avvenne a Marx di incontrare a Londra qualche compagno della sua giovinezza filosofica: Eduard Meyen, che era sempre il vecchio rospo velenoso, Faucher, che, segretario di Cobden, pretendeva di “fare la storia“ liberoscambista, Edgar Bauer, che all’opposto faceva l’agitatore comunista, ma che Marx seguitò a chiamare il “clown”. Quando Bruno venne per un certo periodo di tempo a Londra in visita al fratello, Marx si incontrò più volte col vecchio amico di gioventù. Dato che Bruno Bauer era tutto entusiasta della forza primitiva russa, e invece nel proletariato vedeva solo del “volgo“ da guidare con la forza e con l’astuzia, e che in caso estremo si poteva comprare elargendogli un Groschen d’argento, naturalmente ogni possibilità d’intendersi era esclusa. Marx lo trovò visibilmente invecchiato, con la fronte più alta e le maniere da professore pedante, ma dette tuttavia notizie circostanziate ad Engels sulle sue conversazioni col “piacevole vecchio signore“.

Ma anche i “morti vivi“ di un passato più recente erano troppi e crescevano ad ogni anno. Così i vecchi amici della Renania: Georg Jung, Heinrich Bùrgers, Hermann Becker e altri. Alcuni di loro, come Becker e dopo di lui il bravo Miquel, sistemarono tutto “scientificamente”: bisognava che la borghesia vincesse completamente sulla feudalità degli Junker, prima che il proletariato potesse pensare alla propria vittoria. Becker spiegava: “Là dove arriva il tarlo della canaglia degli interessi materiali, là la marcia armatura della feudalità degli Junker cade in polvere, e la storia al primo alito dello spirito del mondo di là da tutto l’intonaco esterno passa all’ordine del giorno estremamente semplice”. Una teoria molto carina fin qui, che anche oggi può incantare qualche furbacchione. Ma quando Becker divenne primo borgomastro di Colonia e Miquel ministro prussiano delle finanze, si erano talmente innamorati della “canaglia degli interessi mate riali“, che si opposero con le mani e coi piedi “al primo alito dello spirito del mondo“ e al suo “ordine del giorno estremamente semplice“.

Era comunque un compenso alquanto problematico alla perdita di uomini come Becker e Miquel, quel tale Gustav Levy, commerciante di Colonia, che nella primavera del 1856 si presentò a Marx per offrirgli pari pari un’insurrezione nelle fabbriche di Iserlohn, Solingen ecc. Marx si espresse molto aspramente contro questa pazzia inutile e pericolosa; fece dire da Levy agli operai, su mandato vero o presunto dei quali egli era venuto, di mandare di nuovo qualcuno a Londra dopo qualche tempo, ma di non fare nulla senza accordo preventivo.

Di fronte all’altro mandato che Levy pretendeva di aver avuto dagli operai di Dusseldorf, Marx non rispose con un rifiuto altrettanto deciso: quando cioè questi lo mise in guardia contro Lassalle, dicendo che era un individuo malsicuro, che dopo l’esito vittorioso del processo Hatzfeldt viveva sotto il giogo vergognoso della contessa, si faceva mantenere da lei, voleva andare con lei a Berlino, per crearle una corte di letterati, e gettava via gli operai come strumenti già sfruttati, per passare dalla parte della borghesia, e altre chiacchiere del genere. Questa volta si può dubitare a buon diritto del fatto che degli operai renani abbiano mandato a Marx una siffatta ambasciata, perché gli stessi operai pochi anni dopo annunciarono con solenni manifesti e con appelli festosi che la casa di Lassalle a Dusseldorf nel periodo del terrore bianco del decennio tra il 1850 e il 1860 era stata “l’asilo sicuro dei più intrepidi e decisi sostenitori del partito”. È più che verosimile che il messaggero si sia inventato di testa sua l’ambasciata; quel brav’uomo era adirato al massimo con Lassalle, perché questi, alla sua richiesta di un prestito di 2.000 talleri, gliene aveva accordati solo 500.

Se Marx fosse stato informato di ciò, avrebbe sicuramente mantenuto di fronte a questo Levy il più assoluto riserbo. Ma l’informazione stessa era già tale da far nascere i maggiori sospetti. Marx era rimasto con Lassalle in contatto epistolare non certo frequente, ma tuttavia ininterrotto; aveva trovato sempre in lui, sia personalmente che politicamente, un amico e un compagno di partito fidato; anzi, aveva egli stesso lottato contro la diffidenza che ai tempi della Lega dei Comunisti era comunque esistita contro Lassalle nei circoli degli operai renani a causa del fatto che egli era implicato nell’affare Hatzfeldt. Ancora appena un anno prima, quando Lassalle gli scrisse da Parigi, gli aveva risposto in maniera assolutamente cordiale: “Naturalmente sono sorpreso di saperti cosi vicino a Londra, senza che tu pensi di venir qua sia pure per pochi giorni. Spero che ci rifletterai ancora e che ti accorgerai quanto il viaggio da Parigi a Londra sia breve e costi poco. Se le porte della Francia non fossero sbarrate per me, ti farei una sorpresa a Parigi“.

Così mal si spiega che Marx abbia comunicato ad Engels le sciocche chiacchiere di Levy, e vi abbia aggiunto: “Questi non sono che fatti singoli, colti a volo e annotati saltuariamente. Tutto insieme ha fatto su di me e su Freiligrath un’impressione definitiva per quanto io fossi favorevolmente prevenuto nei confronti di Lassalle e diffidente dei riguardi delle chiacchiere degli operai“. A Levy aveva detto che era impossibile giungere a una decisione sulla base del resoconto di una sola parte, ma che in ogni caso era utile stare in guardia; si sorvegliasse Lassalle, ma evitando per il momento ogni scandalo pubblico. Ed Engels fu d’accordo, con alcune osservazioni che sulla sua bocca colpiscono meno, dato che conosceva Lassalle meno di Marx. Era un peccato per lui, dato il suo grande talento, ma queste cose passavano davvero ogni limite. Lassalle era sempre un tipo dal quale bisognava stare maledettamente in guardia; da vero ebreo del confine slavo, era sempre all’erta per sfruttare ciascuno per i suoi scopi personali, sotto pretesti di partito.

Così Marx interruppe la sua corrispondenza con quell’uomo che qualche anno più tardi poteva scrivergli con tutta verità: non hai in Germania un altro amico come me.

    11.4    ​​​La crisi del 1857

Quando nell’autunno del 1850 Marx ed Engels si ritirarono dalle lotte pubbliche dalla vita di partito, avevano dichiarato: “Una nuova rivoluzione è possibile soltanto in seguito a una nuova crisi. Ma è anche altrettanto sicura quanto questa“. Da allora essi avevano spiato, e ogni anno più impazientemente, i segni di una nuova crisi. Liebknecht racconta che Marx la prediceva talvolta e che gli amici stuzzicavano in proposito: ma quando nel 1857 essa venne sul serio, Marx fece effettivamente annunciare a Wilhelm Wolff da parte di Engels che avrebbe dimostrato che normalmente essa sarebbe dovuta scoppiare due anni prima.

Essa cominciò negli Stati Uniti, e i suoi prodromi furono avvertiti da Marx per il fatto che la New York Tribune lo mise a mezza paga. Il colpo lo toccò tanto più duramente in quanto nella nuova abitazione si era installata già la vecchia miseria o una miseria ancora maggiore. Qui Marx non poteva “tirare avanti da un giorno all’altro come in Deanstreet“, senza prospettive e con spese familiari sempre crescenti. “Non so proprio che devo fare, e sono davvero in una situazione disperata più che cinque anni fa”, scriveva ad Engels 20 gennaio 1857. E questi fu colpito dalla notizia “come da un fulmine a ciel sereno“ ma si affrettò a dare il suo aiuto e si lamentò soltanto perché Marx non aveva scritto due settimane prima: si era appena comprato un cavallo, per il quale suo padre gli aveva mandato il denaro necessario come regalo di Natale: “mi dà proprio fastidio che io debba qui mantenere un cavallo mentre a Londra tu stai nei guai con la ma famiglia“. E fu molto contento quando, un paio di mesi dopo, Dana chiese a Marx di collaborare, in particolare anche con articoli militari, a un’enciclopedia da lui pubblicata. La faccenda capitava per lui “proprio a punto“ e gli faceva “un piacere immenso“ perché sarebbe stata un enorme aiuto per liberare Marx dalle sue eterne necessità finanziarie; questi doveva soltanto prendere più voci che poteva, e organizzare a poco a poco una redazione.

Di questo non si fece nulla, se non altro per mancanza di persone. E del resto la cosa si dimostrò non tanto brillante quanto Engels aveva supposto; il compenso alla fine risultò di nemmeno un penny a riga, e sebbene molte cose potessero anche essere soltanto lavoro di seconda mano, però Engels era troppo coscienzioso per sbrigarsela a cuor leggero. Quello che ne trapela nel loro carteggio, non giustifica in alcun modo il giudizio sprezzante che Engels pronunciò più tardi sopra queste voci redatte in parte da Marx in parte da lui: “Puro lavoro commerciale e non altro, possono tranquillamente restare sepolte”. A poco a poco questa attività, pur sempre secondaria, cessò, e pare che la collaborazione regolare dei due amici all’enciclopedia non si sia estesa oltre la lettera C.

Essa venne sin dal principio ostacolata notevolmente dal fatto che nell’estate del 1857 Engels fu colpito da una malattia glandolare, che lo costrinse a recarsi per un periodo alquanto lungo al mare. Anche per Marx le cose non andavano bene. I suoi dolori al fegato si manifestarono in un nuovo attacco così violento che egli potè compiere i lavori necessari soltanto grazie a uno sforzo immenso. Nel luglio sua moglie partorì un bambino nato morto, in condizioni che fecero una terribile impressione sulla sua fantasia e lo ossessionarono con un ricordo tormentoso; “Bisogna che ti vada assai male prima che tu scriva così” rispondeva Engels spaventato, ma Marx rimandava tutto a una spiegazione a voce, perché non poteva scrivere su queste cose.

Ma ogni guaio personale fu subito dimenticato quando in autunno la crisi passò in Inghilterra e poi anche sul continente. “Per quanto mi trovi personalmente in financial distress, dal 1849 non mi sono mai sentito tanto così come con questo outbreak“, scriveva Marx il 13 novembre ad Engels. E questi, due giorni dopo, si dimostrava soltanto preoccupato del fatto che gli sviluppi di essa potessero precipitare. “Sarebbe desiderabile che, prima che arrivasse un secondo colpo decisivo, si verificasse questo ‘miglioramento’ che rendesse la crisi, da acuta, cronica. La pressione cronica è necessaria per un certo tempo per riscaldare il popolo. Il proletariato in questo caso colpisce meglio, con una migliore connaissance de cause e con maggiore accordo; proprio come un attacco di cavalleria riesce molto meglio quando i cavalli abbiano dovuto trottare per un 500 passi, prima di arrivare alla carica. Non vorrei che scoppiasse qualcosa troppo presto, prima che tutta l’Europa ne fosse contagiata; la lotta dopo sarebbe più dura, più noiosa e più indecisa. Quasi quasi maggio o giugno sarebbe ancora troppo presto. Per la lunga prosperità le masse debbono essere cadute in profondo letargo... Per il resto sto come stai tu. Da quando ce stato il crollo a New York, non stavo più tranquillo a Jersey,e mi sento allegrissimo in questo general downbreak1. Questa schifenza borghese degli ultimi sette anni mi si era in certo qual modo attaccata addosso, ora mi sento lavato, e torno ad essere un altro uomo. Fisicamente la crisi mi farà bene quanto un bagno di mare, me n’accorgo fin d’ora. Nel 1848 dicevamo: ora viene il momento nostro, e in a certain sense è venuto, ma questa volta viene in pieno, si tratta di vita o di morte“.

Non si trattò di vita o di morte. La crisi ebbe a suo modo un effetto rivoluzionario, ma diverso da quanto Marx ed Engels supponevano. Non che loro si fossero abbandonati a sognare speranze utopistiche; essi studiavano anzi con estrema cura di giorno in giorno il decorso della crisi, e il 18 dicembre Marx scriveva: “Lavoro moltissimo. Per lo più fino alle 4 del mattino. Perché è un lavoro doppio: 1) elaborazione delle linee fondamentali dell’economia. (È assolutamente necessario andare al fondo della questione per il pubblico, e per me, individually, to get rid of this nightmare). 2) La crisi attuale. Su di essa, oltre agli articoli per la Tribune, mi limito a prendere appunti, cosa che però richiede un tempo notevole. Penso che in primavera potremo scrivere insieme un pamphlet sulla faccenda, a mo di riapparizione davanti al pubblico tedesco, per dire che siamo sempre qui, always the same”. Poi, di questo opuscolo, non se ne fece nulla perché la crisi non mise in movimento le masse, ma proprio per questo Marx ebbe l’agio di eseguire la parte teorica del suo piano.

Dieci giorni prima la signora Marx aveva scritto a Konrad Schramm ormai morente, a Jersey: “Sebbene noi risentiamo parecchio nella nostra borsa gli effetti della crisi americana, in quanto Karl scrive soltanto una volta alla settimana invece di due per la Tribune, che ha licenziato tutti i corrispondenti europei eccetto Bayard Taylor e Karl, tuttavia Lei può bene immaginarsi quanto il Moro sia su d’umore. È tornata tutta la sua vecchia capacità e facilità di lavoro, e anche la freschezza e la serenità dello spirito, che da anni era stata spezzata, da quando avemmo quel grande dolore, la perdita del nostro bimbo prediletto, che farà sempre triste il mio cuore. Karl lavora di giorno per provvedere al pane quotidiano, di notte per portare a termine la sua Economia. Ora che questo lavoro è divenuto una necessità, si troverà anche un miserabile editore“. E lo si trovò, grazie alle premure di Lassalle.

Nell’aprile del 1857 egli aveva scritto a Marx, col vecchio tono amichevole d’una volta, meravigliato, sì, che Marx avesse per tanto tempo lasciato dormire la loro corrispondenza, ma senza sospettare il perché. Sebbene Engels consigliasse di rispondere a questa lettera, Marx non lo fece. Nel dicembre dello stesso anno Lassalle scrisse di nuovo, per un motivo esterno: suo cugino Max Friedlander lo aveva pregato di invi tare Marx a collaborare alla Wiener Presse, alla cui redazione Friedlander apparteneva. Ora Marx rispose, respingendo l’offerta di Friedlander, poiché egli era, sì, “antifrancese“, ma non meno “antinglese“ e meno che mai poteva scrivere a favore di Palmerston. Ma alla confessione di Lassalle, di essere addolorato, per quanto estraneo ad ogni sentimentalismo, per non aver avuto nessuna risposta alla sua lettera dell’aprile, Marx rispose “brevemente e freddamente” che non aveva risposto per motivi che difficilmente si potevano mettere per iscritto. Per il resto aggiungeva soltanto poche righe, comunicandogli che pensava di pubblicare un’opera di economia.

Nel gennaio del 1858 arrivò a Londra una copia di Eraclito di Lassalle, il cui invio era stato annunciato dall’autore nella sua lettera del dicembre, insieme con alcune osservazioni sull’entusiastica accoglienza che la sua opera aveva avuto nel mondo culturale di Berlino. Già la tassa postale di due scellini“ gli assicurò una cattiva accoglienza“. Ma anche sul contenuto Marx giudicò alquanto sfavorevolmente. La “enorme esibizione“ di erudizione non gli incuteva soggezione; pensava che costasse poco ammucchiare citazioni quando si aveva tempo e denaro e ci si poteva far mandare a casa i libri dalla biblioteca universitaria di Bonn; avvolto in questo orpello filosofico Lassalle si muoveva proprio con la grazia di chi porti per la prima volta un vestito elegante. Questo significava giudicare troppo ingiustamente dell’effettiva dottrina di Lassalle, tuttavia si spiega benissimo che Marx si sentisse sfavorevolmente impressionato dal libro per lo stesso motivo per il quale secondo lui si erano rallegrati i grossi professori, cioè perché trovava un carattere così “antico“ in un uomo così giovane che passava per un grande rivoluzionario. Era noto che la maggior parte dell’opera era stata scritta dieci anni prima della sua pubblicazione.

Nemmeno dalla risposta “breve e fredda“ alla sua lettera di rimostranze, Lassalle si era accorto che c’e ra qualche cosa che non andava. Egli — palesemente in buona fede e non appositamente, come Marx sospettò —i intese la necessità di una spiegazione verbale nel senso innocente che Marx volesse raccon targli qualche cosa per cui ci dovessero entrare affari privati. Nel febbraio del 1858 egli rispose con tutto candore, descrisse drasticamente le vertigini d’entusiasmo della borghesia di Berlino per il fidanzamento del principe ereditario prussiano con una principessa inglese, e per il resto si offrì di trovare un editore per il libro di economia politica. Marx accettò, e già alla fine di marzo Lassalle aveva pronto il contratto col suo stesso editore, Franz Duncker, e anche a condizioni più favorevoli di quanto Marx avesse preteso. Questi voleva perfino che l’opera uscisse a dispense, ed era pronto a rinunciare a ogni compenso per le prime dispense. Ma Lassalle gli garantì sin dal principio tre federici d’oro — il normale compenso per un profes sore ammontava a due federici soltanto — per ogni foglio di stampa. Soltanto per il caso che la vendita non coprisse le spese, l’editore si riservava di rifarsi sulla terza dispensa.

Ma ci vollero ancora più di nove mesi prima che Marx venisse a capo del manoscritto della prima dispensa. Nuovi attacchi di fegato e preoccupazioni familiari gli impedivano di finirlo. A Natale del 1858 la casa aveva un’aria “più cupa e più triste che mai”. Il 21 gennaio 1859 il “disgraziato manoscritto“ era pronto, ma non c’era “un centesimo“ per affrancarlo e assicurarlo. “Non credo che nessuno abbia mai scritto sul denaro con una tale mancanza di denaro. La maggior parte degli autores su questo subject erano in pace assoluta“. Così scriveva Marx ad Engels, nel chiedergli il denaro necessario per la spedizione.

    11.5    ​​​«Per la critica dell’economia politica»

Il piano di una grande opera di economia politica che dovesse indagare a fondo il modo di produzione capitalistico era vecchio di circa quindici anni, quando Marx cominciò a eseguirlo praticamente. Egli lo aveva meditato già nel periodo precedente alla rivoluzione, e io scritto contro Proudhon era stato un primo anticipo di esso. Dopo aver partecipato alle lotte degli anni della rivoluzione, Marx l’aveva subito ripreso e già il 2 aprile 1851 aveva annunciato a Engels: “Sono tanto avanti che entro cinque settimane sarò pronto con tutta la merda economica. Et cela fait, porterò a termine a casa il lavoro sull’Economia, e nel British Museum mi butterò su di un’altra scienza. Ca commence à m’ennuyer. Au fond questa scienza da A. Smith e D. Ricardo in poi non ha più fatto progressi, per quanto molto si sia fatto in singole ricerche, spesso molto delicate”. Engels rispondeva tutto gioioso: “Sono contento che tu abbia finalmente finito con l’Economia. La cosa si è trascinata davvero troppo per le lunghe, e finché tu hai ancora da leggere un libro che tu ritenga importante, non ti metti mai a scrivere“. Egli inclinava sempre al parere che oltre a tutti gli altri impedimenti, “la ragione prima del ritardo“ risiedesse sempre negli “scrupoli personali“ dell’amico.

Questi scrupoli non erano, a dire il vero — e in fondo non lo pensava neppure Engels — di natura superfi ciale. E perché nel 1851 Marx si decidesse non a conchiudere, ma a ricominciare da capo, lo ha spiegato lui stesso, nella prefazione al primo fascicolo, con queste parole: “La enorme quantità di materiali per la storia dell’economia politica che sono accumulati nel Museo Britannico, il fatto che Londra è un punto favorevole per l’osservazione della società borghese, infine la nuova fase di sviluppo in cui questa società sembrava essere entrata con la scoperta dell’oro dell’Australia e della California“. E se egli aggiungeva che la sua collaborazione durata ormai otto anni alla New York Tribune aveva reso inevitabile una straordinaria disper sione dei suoi studi, bisognerebbe completare dicendo che questa attività lo riconduceva fino a un certo punto in quella lotta politica che era sempre in cima ai suoi pensieri. Era proprio la prospettiva del ridestarsi del movimento rivoluzionario degli operai a spingerlo a tavolino, per mettere finalmente per iscritto quello su cui in tutti questi anni egli non aveva cessato di meditare.

Di questo ci dà un’eloquente testimonianza il suo Carteggio con Engels, nel quale la discussione di questioni economiche non cessa mai, ma anzi si estende in trattazioni che si possono appunto definire “molto delicate“. E come in esse si configuri lo scambio di opinioni tra i due amici lo mostrano alcune loro espres sioni occasionali. Engels parlò una volta della sua “nota pigrizia in fatto di teoria“ che, malgrado gli intimi rimbrotti del suo io migliore si quietava senza andare al fondo della questione, mentre Marx un’altra vol ta, allorché un industriale lo salutò con la “divertente“ osservazione che lui stesso doveva essere stato un industriale, non poteva trattenersi dal sospirare: “Se soltanto la gente sapesse quanto poco io conosco di tutta questa roba“.

Se, com’è giusto, in tutti e due i casi si fa la tara all’esagerazione umoristica, resta il fatto che Engels conosceva più esattamente l’intimo meccanismo della società borghese, ma Marx sapeva indagarne Con maggiore acume di pensiero le leggi di movimento. Quando egli espose all’amico il piano del primo fascicolo, Engels rispose: “È in realtà un abbozzo molto astratto, e non si poteva neppure evitarlo data la sua brevità, e spesso debbo ricercarmi faticosamente i nessi dialettici, perché non ho più familiarità col ragionamento astratto“. Marx invece faticava alquanto a ritrovarsi nelle risposte di Engels alle sue domande sul modo in cui gli industriali e i commercianti calcolavano la parte dell’incasso che consumavano essi stessi, o sul logorio delle macchine o sul calcolo degli interessi del capitale circolante anticipato. Egli si lamentava del fatto che nell’economia politica quello che era praticamente interessante e quello che era teoricamente necessario divergevano di molto.

Che Marx abbia cominciato ad elaborare per iscritto la sua opera soltanto nel 1857 e nel 1858, risulta anche dal fatto che il piano gli si veniva mutando tra mano. Ancora nell’aprile del 1858 egli voleva trattare nel primo fascicolo “il capitale in generale“, ma sebbene il fascicolo crescesse di due o tre volte rispetto all’ampiezza preventivata, in esso non c’era ancora nulla sul capitale, ma soltanto due capitoli su merce e denaro. Marx vi vedeva il vantaggio che la critica non si sarebbe potuta limitare a semplici ingiurie tendenziose, ma gli sfuggiva che tanto più le si metteva a portata di mano l’arma efficace del più assoluto silenzio.

Nella prefazione egli dava un rapido cenno del proprio svolgimento scientifico, e le note frasi nelle quali egli compendiava il materialismo storico non possono essere taciute qui. “La mia ricerca [sulla filosofia del diritto di Hegel] arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere comprese né per se stesse né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza, il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di ‘società civile’; e che l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica... Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione, che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura eco nomica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una soprastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.

Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (il che è l’equivalente giuridico di tale espressione) dentro dei quali esse forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catena. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca soprastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche, che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo.

Come non si può giudicare un uomo dall’ idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni del la vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.

A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno, possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzio ne borghesi sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana“.

Nello stesso fascicolo, che egli intitolò Per la critica dell’economia politica, Marx compì il passo decisivo oltre l’economia borghese, quale si era sviluppata ad opera di Adam Smith e David Ricardo. Essa culmi nava nella determinazione del valore delle merci per mezzo del tempo di lavoro, ma in quanto considerava la produzione borghese come la forma naturale eterna della produzione sociale, supponeva nella produ zione del valore una proprietà naturale del lavoro umano, quale è data nel lavoro individuale concreto del singolo uomo, e andava a finire in una serie di contraddizioni che non era in grado di risolvere. Marx invece vedeva nella produzione borghese non la forma naturale eterna, ma soltanto una determinata forma storica di produzione sociale, che era stata preceduta da tutta una serie di altre forme. Muovendo da questa considerazione, Marx sottopose a un esame radicale la proprietà del lavoro di produrre valore; egli ricercò quale lavoro e perché e come produce valore, perché il valore non è altro che lavoro coagulato di questo tipo.

Così arrivò al punto intorno a cui si muove la comprensione dell’economia politica: il duplice carattere che il lavoro ha nella società borghese. Il lavoro individuale concreto crea valori d’uso, il lavoro indifferenziato, sociale crea valori di scambio. In quanto produce valori d’uso, il lavoro è proprio a tutte le forme sociali; in quanto attività volta nell’una o nell’altra forma all’appropriazione di quanto esiste in natura, il lavoro è condizione naturale dell’esistenza umana, una condizione indipendente da tutte le forme sociali del ricambio materiale tra uomo e natura.  Questo lavoro ha bisogno della materia come di sua premessa, e così non è l’unica fonte di quanto esso produce, cioè della ricchezza materiale. Per quanto il rapporto tra lavoro e materia naturale sia diverso nei diversi valori d’uso, però il valore d’uso contiene sempre un substrato naturale.

Diversamente avviene per il valore di scambio. Esso non contiene nessuna materia naturale, ma il lavoro è la sua unica fonte, e con ciò anche l’unica fonte della ricchezza, che consiste di valori di scambio. In quanto valore di scambio un valore d’uso ha altrettanto valore quanto un altro, supposto che esista in giuste proporzioni. “Il valore di scambio di un palazzo può essere espresso in un numero determinato di scatole di lucido da scarpe. Ma al contrario i fabbricanti di lucido da scarpe di Londra hanno espresso in palazzi il valore di scambio delle loro molteplici scatole”. In quanto si scambiano merci, del tutto indifferentemente al loro modo di esistenza naturale e senza riguardo ai bisogni che esse devono soddisfare, esse, nonostante la loro variopinta apparenza, rappresentano la stessa unità: esse sono risultati di lavoro uguale, indifferen ziato, “per il quale è altrettanto indifferente di comparire in oro, ferro, cereali, seta, quanto lo è all’ossigeno di comparire nella ruggine del ferro, nell’atmosfera, nel succo della vite o nel sangue dell’uomo“. Se la differenza dei valori d’uso deriva dalla differenza del lavoro che produce i valori d’uso, il lavoro che pone valori di scambio è indifferente alla materia particolare del lavoro stesso. Esso è lavoro uguale, indifferen ziato, astrattamente universale, che si differenzia non più per il modo ma solo per la misura, per le differenti quantità che esso oggettiva in valori di scambio di differente grandezza. Le differenti quantità di lavoro universale astratto hanno la loro unica misura nel tempo, che ha la sua unità di misura nelle misure naturali del tempo, ora, giorno, settimana e così via. Il tempo di lavoro è l’esistenza vivente del lavoro, indifferente alla sua forma, al suo contenuto, alla sua individualità. In quanto valori di scambio, tutte le merci sono sol tanto determinate quantità di tempo di lavoro coagulato. Il tempo di lavoro oggettivato nei valori d’uso è la sostanza che li rende valori di scambio e perciò merci, in questo essa misura la loro determinata grandezza di valore.

Il suo duplice carattere è una forma sociale del lavoro, che è propria alla produzione di merci. Nel comuni smo primitivo, che si trova alle soglie della storia di tutti i popoli civili, il lavoro singolo era immediatamente inserito nell’organismo sociale. Nelle servitù e nelle prestazioni in natura del Medioevo la particolarità e non la universalità del lavoro costituiva il suo legame sociale. Nella famiglia rurale-patriarcale, nella quale le donne filavano e gli uomini tessevano per i bisogni stessi della famiglia, il filo e la tela erano prodotti sociali, filare e tessere erano lavori sociali entro i limiti della famiglia. Il complesso familiare con la sua naturale divi sione del lavoro imprimeva sul prodotto del lavoro il proprio sigillo particolare: filo e tela non si scambiavano l’uno contro l’altra come espressioni indifferenziate ed equivalenti dello stesso tempo di lavoro universale. Soltanto con la produzione di merci il lavoro singolo diventa lavoro sociale, per il fatto che assume la forma del suo immediato antagonismo, la forma dell’universalità astratta.

Ora la merce è unità immediata di valore d’uso e valore di scambio. Il vero rapporto delle merci luna con l’altra è il processo di scambio. In questo processo, nel quale entrano individui indipendenti l’uno dall’altro, la merce deve configurarsi nello stesso tempo come valore d’uso e di scambio, come lavoro particolare che soddisfa particolari bisogni, e come lavoro universale che è scambiabile contro uguali quantità di la voro universale. Il processo di scambio delle merci deve sviluppare e risolvere la contraddizione per cui il lavoro individuale, che è oggettivato in una merce particolare, deve avere immediatamente il carattere della universalità.

In quanto valore di scambio, ogni singola merce diviene misura del valore di tutte le altre merci. Ma vi ceversa, ogni singola merce, nella quale tutte le altre merci misurano il proprio valore, diviene esistenza adeguata del valore di scambio, e così il valore di scambio diviene una particolare merce esclusiva, che con la riduzione di tutte le altre merci ad essa oggettiva immediatamente il tempo di lavoro universale del denaro. Così in una sola merce è risolta la contraddizione che la merce in quanto tale racchiude, di essere, in quanto particolare valore d’uso, equivalente universale e perciò valore d’uso per ciascuno, valore d’uso universale. E questa sola merce è il denaro.

Nel denaro in quanto merce particolare, si cristallizza il valore di scambio delle merci. La cristallizzazione denaro è un prodotto necessario del processo di scambio, nel quale diversi prodotti di lavoro vengono effettivamente equiparati l’uno all’altro e perciò effettivamente trasformati in merci. Essa si è sviluppata istintivamente per via storica. Il baratto diretto, la forma naturale del processo di scambio, rappresenta la iniziale trasformazione del valore d’uso in merci, piuttosto che delle merci in denaro. Quanto più il valore di scambio si sviluppa e quanto più i valori d’uso diventano merci, quanto più dunque il valore di scambio acquista una figura indipendente e non è più direttamente legato al valore d’uso, tanto più spinge alla formazione del denaro. Inizialmente esercitano la funzione di denaro una merce o anche più merci di più universale valore d’uso, bestiame, cereali, schiavi. Hanno alternativamente esercitato la funzione del denaro merci differentissime, più o meno disadatte. Se infine questa funzione passò ai metalli nobili, fu per il motivo che i metalli nobili possiedono le necessarie qualità fisiche della merce particolare nella quale si deve cristallizzare l’esser denaro di tutte le merci, quali risultano direttamente dalla natura del valore di scambio; durevolezza del loro valore d’uso, suddivisibilità a piacere, uniformità delle parti e mancanza di differenza tra rutti gli esemplari di questa merce.

Tra i metalli nobili è di nuovo l’oro che sempre più diventa l’esclusiva merce-denaro. Esso serve come misura dei valori e come scala dei prezzi, serve come mezzo di circolazione delle merci. Per mezzo del salto mortale1 della merce che diventa oro, il lavoro particolare in essa accumulato si afferma in quanto lavoro astratto universale, in quanto lavoro sociale; se questa sua transustanziazione non riesce, essa ha fallito la sua esistenza non soltanto in quanto merce ma anche in quanto prodotto, perché essa è merce soltanto in quanto non ha alcun valore d’uso per il suo possessore.

Così Marx dimostrava come e perché, grazie alla proprietà di valore in essa inerente, la merce e lo scambio delle merci devono generare il contrasto di merce e denaro; nel denaro, che si presenta come una cosa naturale con particolari proprietà, egli riconosceva un rapporto di produzione sociale e mostrava che le confuse spiegazioni del denaro degli economisti moderni derivavano dal fatto che quello che essi pensava no goffamente di aver in mano come una cosa, compariva come rapporto sociale, e ora quello che avevano appena fissato come rapporto sociale, li stuzzicava poi di nuovo come cosa.

La pienezza della luce che promanava da questa indagine critica, da principio accecò più che illuminare anche gli amici dell’autore. Liebknecht pensava di non essere stato mai tanto deluso da nessuna opera quanto da questa, e Miquel vi trovò “poco di veramente nuovo“. Lassalle fece delle osservazioni molto belle sulla efficacia artistica del fascicolo, che poneva senza invidia al di sopra della forma dell’Eraclito, ma quando Marx derivò da queste frasi il sospetto che Lassalle non avesse capito “molto di economico“, questa volta era sulla via giusta. Lassalle mostrò subito di non aver riconosciuto per l’appunto il punto saliente, la differenza tra il lavoro che risulta in valori d’uso e il lavoro che risulta in valori di scambio.

Se questo avvenne quando la cosa era ancor fresca, che doveva essere quando essa non era più tale? Engels, a dire il vero nel 1885, diceva che Marx aveva fondato la prima esauriente teoria del denaro, e che essa era stata accolta da tutti col silenzio, ma sette anni dopo nel Dizionario di scienze politiche, l’opera classica dell’economia borghese, apparve un articolo sul denaro che per cinquanta colonne ripeteva le vecchie chiacchiere e, senza neppure citare Marx, dichiarava che l’enigma del denaro non era ancora stato risolto.

E come poteva non restare impenetrabile il denaro per un mondo di cui esso è divenuto il dio?