Mario Alighiero Manacorda

Marx e l’educazione

Armando, Roma 2008

Introduzione alla lettura di Luigi Anepeta

 

Qualche giorno fa sulla sua rubrica del Venerdì di Repubblica, Giorgio Bocca ha scritto questo interessante trafiletto:

"CHE COSA HO IMPARATO DAI MIEI GIARDINIERI SUI SERVI EI PADRONI

Chi ha deciso l'importanza, il prestigio delle attività umane? Perché i giardinieri che stamane lavoravano sul terrazzo di casa nostra appartengono ai lavori servili e noi padroni di casa, i pensionati di qualche ufficio, alle classi dirigenti? Perché loro lavorano per noi che li guardiamo stando in poltrona?

Sono arrivati da un vivaio del Lago Maggiore stamane alle otto del mattino che noi eravamo ancora a letto, hanno aperto i loro sacchi traendone strumenti di lavoro di vario uso, hanno disteso nastri, tubicini per l'acqua, treppiedi e strumenti vari. Uno giovanissimo, un ragazzo, l'altro anziano e tracagnotto, ma entrambi di una forza e di un'agilità e precisione nei movimenti che sembrano appartenere a un'altra razza umana che noi dei lavori intellettuali abbiamo sottomessa.

Arrivato il mezzogiorno, loro erano ancora lì sul terrazzo fra i vasi, i tavoli, gli innaffiatoi e le scalette che avevano aggiustato lavorando. Vestiti da magut, da servi in calzoncini di tela e in magliette colorate, sbracati mentre noi per il lavoro più stupido e ripetitivo andiamo in giro in camicia bianca e cravatta e giacchetta abbottonata. E anche qui io che li guardavo stentavo a capire perché anche nel vestire quelli dei lavori manuali debbano adottare forme più modeste e sottomesse, perché anche in quest'occasione in cui evidentemente quelli che devono lavorare sono loro e quelli che stanno a guardare siamo noi.

Noi i padroni, loro i servi, ma a vederli nel loro lavoro non c'era nulla di servile. Al contrario un garbo, un'eleganza, una vorrei dire tradizione nobile nel trattare gli oggetti e gli strumenti, nella conoscenza dei fiori e delle loro forme, un garbo modesto ma incantevole nel rimettere in ordine i mazzi, un cespuglio, un'irrigazione, un fiore. Passavano le ore, solo verso mezzogiorno o le due decisero che era arrivata l'ora di rimettere al loro posto decorativo e spettacolare tutti i componenti del terrazzo, dai tavolini alle consolle, dal tendone agli sgabelli, ed ecco l'ordine, la grazia tornare come per miracolo in quel piccolo rettangolo di terrazzo issato sopra i tetti della grande e rumorosa città, ma ormai isolato dalle sue confusioni e frastuoni per opera dei due magut in calzoncini di tela e camice a quadretti ruvide.

E messi in un sacco i loro fertilizzanti, sementi e metri tascabili, i due entravano nel soggiorno dove stavamo per andare a tavola per il pranzo e ringraziavano e salutavano con modestia e cortesia noi, i padroni, quelli scelti dal buon Dio a far lavorare gli altri."

Bocca è un socialista libertario, ma l'ammirazione che esprime nei confronti di umili giardinieri è la stessa che portò Marx a prendere le difese della classe operaia, mortificata da un ordine sociale che assegnava ad essa un ruolo servile. Sull'onda di questa ammirazione, Marx ha identificato nella separazione del lavoro intellettuale da quello manuale il peccato originale che ha avviato la storia di classe.

Manacorda mette al centro della sua riflessione questo aspetto che, a di là dei suoi aspetti socio-economici e politici, ha un indubbio rilievo pedagogico. L'istituzione scolastica, che ha il merito di aver prodotto un processo colletivo di alfabetizzazione, non ha affatto risolto il problema. Essa anzi lo mantiene in virtù di diversi indirizzi che promuovono per un verso una cultura intellettuale astratta (i licei) e, per un altro, una cultura totalmente devoluta ad acquisire competenze lavorative manuali (gli istitui professionali).

Tra le osservazioni più interessanti di Manacorda c'è il rilievo per cui la separazione tra lavoro intellettuale e manuale produce un impoverimento globale del capitale umano sotto forma di unilateralità.

L'uomo onnilaterale di cui parla Marx non è un uomo di classe: è semplicemnte un uomo che tenta di sviluppare al massimo grado le sue potenzialità, riconoscendo che la mano e la mente, pur distinte tra loro, hanno un intimo nesso. Se coltivate entrambe, servono, per un verso, ad affrancare gli intellettuali dall'astrazione in cui vivono e, per un altro, ad aprire, per i lavoratori manuali, un orizzonte culturale altrimenti alieno.

Certo, si tratta di un'utopia, dato lo stato di cose esistente, caratterizzato, sotto l'egida della democrazia, non solo a mantenere ma ad incrementare la scissione tra Padroni e Servi. Il rifiuto di questi termini, ritenuti ormai ideologici, nulla toglie al fatto che essi mantengono una viva e inquietante attualità.

Mario Alighiero Manacorda
Marx e l'educazione

 

Guida alla lettura (pp. 21-32)

«Vorrei inoltre pregarvi di studiare questa storia sulle fonti originali, e non di seconda mano».

                                                                   F. Engels a J. Bloch, 1890

1. La componente pedagogica nel marxismo

Il marxismo, in quanto teoria dell'emancipazione dell'uomo, ha implicita una componente pedagogica, che si articola in un'indagine sociologica sullo stato dell'istruzione, in una critica filosofica sui problemi della natura e dei fini dell'uomo, e in una specifica definizione di scelte pedagogiche determinate.

Questa componente, e in particolare la sua istanza filosofica, pur subendo rettifiche e accentuazioni, si svolge ininterrotta come parte integrante della ricerca marxista. Essa è presente non soltanto, come a taluni è parso, nel periodo giovanile, caratterizzato dall'interesse "antropologico", quando Marx ed Engels esercitano la loro critica contro l'idealismo e contro il materialismo metafisico, ma anche nel periodo della dispiegata maturità, caratterizzato dalla elaborazione della critica dell'economia politica, e infine nella polemica antipositivistica degli ultimi anni, condotta, pur con qualche indulgere di Engels a posizioni scientiste, sia contro i luminari della cultura accademica che sul piano del partito operaio, per evitare un suo cedimento alle mode dell'enciclopedismo, dell'evoluzionismo, dell'ottimismo riformista.

2. L'indagine sociologica sullo stato dell'istruzione

Lo stato deplorevole dell'istruzione popolare, in cui agli strumenti formali del leggere, scrivere e far di conto - quando pur vi fossero - non si associava altro contenuto se non quello del catechismo religioso; la lotta degli operai per conquistare le prime leggi sull'istruzione, e la resistenza opposta a queste leggi da parte dei padroni delle fabbriche; l'impreparazione dei maestri, l'inesistenza dei locali e i paradossali frutti d'ignoranza che venivano da questo insegnamento; la distruzione dei vecchi rapporti familiari e il disordine morale provocato dal sistema di fabbrica con la promiscuità dei sessi e con le disumane condizioni di vita, sono alcuni dei temi della ricerca sociologica sviluppati soprattutto negli scritti giovanili di Engels fino a quel capolavoro di inchiesta che è La situazione della classe operaia in Inghilterra.

Questa ricerca è ispirata sostanzialmente ai motivi umanitari di simpatia per gli oppressi, propri della tradizione del socialismo utopistico, ed è, insieme, sorretta da una forte vena polemica contro le classi dominanti. Ne scaturisce il quadro di una società in cui all'ignoranza e all'abbrutimento degli sfruttati si contrappone la fatuità culturale e morale degli sfruttatori, con un giudizio negativo su entrambi questi aspetti della realtà umana, il quale è premessa di un fondamentale assunto teorico che sarà sviluppato in seguito. E tuttavia non manca una positiva valutazione dell'ignoranza vergine da manomissioni culturali, della spontaneità non ancora turbata da una istruzione classista, che - come dirà Marx più tardi, riprendendo questi motivi con altra consapevolezza - lascia il cervello a maggese, suscettibile di positive maturazioni: motivo, anche questo, che se ha negli scritti giovanili di Engels e dello stesso Marx un'accentuazione che diremmo di tipo "populistico" ante litteram, non mancherà di trovare ragioni più fondate in seguito.

Non a caso, infatti, Marx potrà richiamarsi più tardi, a queste inchieste giovanili dell'amico, e rinnovarle nel Capitale, dove tuttavia il motivo puramente documentario e di denuncia è superato dall'impiego dei suoi dati come termini di un discorso economico-filosofico nel quale si affrontano i problemi dell'uomo e della società.

3. La critica filosofica: ciò che è specifico dell’uomo

La tematica pedagogica del marxismo, considerata con un metodo di ricostruzione che sorvoli sui momenti temporali per coglierne i momenti ideali (Engels parlava di «un metodo storico spogliato della sua forma storica»), presenta una straordinaria continuità di motivi e consente perciò una ricostruzione unitaria.

Come punto di partenza può essere presa la considerazione di ciò che è specifico dell'uomo, che costituisce la sua attività vitale, e che qui, per brevità, sorvolando però su determinazioni essenziali del pensiero marxista, possiamo chiamare "lavoro`.

Il lavoro creò l'uomo. Nel lavoro l'uomo attua la propria essenza umana, distinguendosi dagli animali in quanto produce i propri mezzi di sussistenza in modo volontario, cosciente e universale, cioè esteso all'intera natura. Ciò si compie attraverso una cooperazione di più individui, che entrano così tra loro in rapporti sociali determinati: insomma, attraverso la divisione del lavoro. Questa che è dunque una delle forze principali dello sviluppo storico, è però insieme l'origine delle più profonde contraddizioni.

Infatti, dove il lavoro è diviso, anche l'uomo è diviso. L'affermazione di sé e la produzione della vita materiale, nel cui coincidere si ha il pieno sviluppo dell'uomo, si separano: per l'uomo la vita comincia, allora, dove il lavoro finisce, e il lavoro, da essenza della sua vita, diventa per lui un semplice mezzo di esistenza, in cui egli si estrania da se stesso, dalla propria natura, creando, anzi, nel proprio prodotto una potenza estranea, un rapporto sociale che lo soggioga.

Così la pedagogia si presenta come forma e metodo della reintegrazione dell'uomo ne! lavoro, in opposizione a un lavoro che ha diviso l'uomo.

E non solo il singolo individuo è diviso in sé. Per la divisione del lavoro, che diventa una divisione reale dal momento che si presenta come divisione tra lavoro manuale e lavoro mentale, all'uno toccano il lavoro, la produzione, l'attività materiale, all'altro il consumo, il godimento, l'attività spirituale. Si determina così l'esistenza di individui diversi, l'abisso tra il "facchino" e il "filosofo", in ciascuno dei quali si esprime soltanto una parte della capacità sociale complessiva, e che sono gli uni e gli altri incompleti. Questo motivo ritorna in tutto il corso della ricerca marxista, riproponendo formulazioni analoghe e sempre ricorrenti, in cui all'uomo unilaterale (ovvero, disumanizzato, alienato, estraniato, diviso, parziale, isolato, localmente limitato, privato della propria natura, spogliato di ogni reale contenuto di vita, posto fuori di sé, escluso da ogni manifestazione personale, appropriato a una funzione unilaterale, annesso a una operazione di dettaglio, sussunto sotto rapporti di classe determinati, smembrato, fisicamente spezzato e spiritualmente abbrutito, ridotto a frammento del suo stesso corpo, rattrappito, minorato, subordinato servilmente, ecc.) si contrappone l'uomo onnilaterale (ovvero, universale, totale, multilaterale, sviluppato completamente, pienamente, liberamente, in tutti i sensi, ecc.).

In questa determinazione occorre sottolineare come fondamentale il fatto, evidente in quanto abbiamo detto sopra ma forse troppo trascurato finora, che la minorazione dell'uomo si manifesta non soltanto nell'uomo che lavora, per la sua attività, ma anche nell'uomo che non lavora, per il suo stato, si riproduce come atrofia da una parte, ipertrofia dall'altra. Il consumatore, infatti, non è più libero o più uomo del produttore; e se da una parte ha luogo il rattrappimento intellettuale e fisico, l'idiotismo del mestiere, il cretinismo dell'operaio, ecc., dall'altra hanno luogo le idee sbilenche dei filosofi, lo spirito squallido dei borghesi, le concezioni limitate e locali del maestro di scuola, insomma, la specializzazione del puro far niente, ecc., manifestandosi anche lì l'inumano.

Così, negata l'esistenza storica di un tipo universalmente valido di uomo (l'approssimazione maggiore resta quella, delineata da Engels, ma che ha frequenti richiami in Marx, del multiforme uomo del Rinascimento), si esclude ogni pedagogia conservatrice, che a modello della educazione dell'uomo onnilaterale del futuro proponga l'unilaterale dotto del passato e il curriculum studiorum in cui quello fu educato.

Naturalmente, ciò vale non soltanto per i singoli individui ma anche per le classi, cioè per i gruppi di individui sussunti, a un polo o all'altro della società, sotto i medesimi rapporti di produzione: anche le classi che sfruttano vengono asservite allo strumento della loro attività, e tanto la classe possidente quanto la classe del proletariato rappresentano la stessa autoestraniazione umana. La divisione del lavoro si è, infatti, prodotta storicamente come un processo «naturale», indipendentemente dal volere degli individui, il cui ambito essa trascende; e dalla sua prima manifestazione nella famiglia, alle sue successive manifestazioni nella schiavitù, nella servitù della gleba, nell'artigianato, nella manifattura, nella fabbrica moderna, con la fondamentale separazione, che ne deriva, tra città e campagna, essa condiziona nello stesso tempo lo sviluppo delle forze produttive (che sono, però, come abbiamo visto, anche forze distruttive dell'uomo) e il contrapporsi di classi antagonistiche: come divide l'uomo, così divide la società umana.

Ne consegue che anche il determinarsi delle condizioni del suo superamento è indipendente dal volere astratto dei singoli individui, e che esso si avrà soltanto col pieno sviluppo di questo duplice contraddittorio processo, di aumento, delle forze produttive, da una parte, e di lacerazione dell'uomo e dell'intera società umana, dall'altra. Questo processo infatti mette capo, da una parte alla produzione e alla disponibilità per gli uomini di una massa di mezzi di sussistenza sufficienti a una loro esistenza pienamente umana, e dall'altra alla creazione di una classe sempre più numerosa, anzi a una sola classe di sfruttati, sussunti sotto la divisione del lavoro, che non avrà più da imporre il proprio interesse di classe contro i vecchi gruppi dominanti affermando se stessa e il proprio modo di produzione, né da sottoporre al proprio dominio altre classi, ma avrà anzi da abolire totalmente le proprie condizioni di vita e da negare se stessa, la propria autoestraniazione, e con essa il termine antitetico che la condiziona. Allora il processo della storia umana, da naturale e spontaneo, diverrà volontario e cosciente, e si supererà l'attuale divisione e disumanizzazione dell'uomo, individuo o classi.

Così, pur nell'obbiettivo della reintegrazione della persona, si esclude ogni pedagogia individualistica, si lega il processo pedagogico al processo generale della società, come processo insieme oggettivo e rivoluzionario, si pone, insomma, un rapporto immediato tra educazione e rivoluzione.

4. L'istruzione tecnologica teorica e pratica

Il punto centrale della ricerca pedagogica marxista è nel Capitale. Occorre infatti notare (e non ci pare sia stato fatto finora con sufficiente chiarezza) che qui la reintegrazione dell'uomo è posta non più come un'istanza «antropologica» o come una esigenza dedotta teoricamente dalla constatazione della disumanizzazione, ma, in piena coerenza col metodo materialistico dialettico, come il riconoscimento di un processo contraddittorio già in atto, che occorre svolgere fino alle sue estreme conseguenze.

La vecchia divisione del lavoro di tipo artigianale e manifatturiero, dice Marx, elaborava lentamente, all'interno di ciascun mestiere, le sue tecniche di produzione, per poi conservarle a lungo, rigidamente cristallizzate: essa creava così, attraverso la specializzazione, il virtuosismo di ciascun produttore nel suo ramo particolare. La moderna divisione del lavoro, propria della fabbrica capitalistica, che fa della scienza una potenza produttiva indipendente dal lavoro, elabora invece rapidamente, per abbandonarle poi subito, le sue tecniche di produzione, e sostituisce all'antico virtuosismo la degradazione dell'operaio a semplice accessorio cosciente della macchina. Ma allo stesso tempo la fabbrica capitalistica, sia per la continua esigenza di seguire le fluttuazioni anarchiche del mercato spostando l'operaio dall'uno all'altro ramo della produzione, sia per il carattere rivoluzionario della sua base tecnica, esige non più la cristallizzazione, ma la massima variazione nella divisione del lavoro

Questa variazione fa sì che il riconoscimento della maggiore versatilità possibile dell'operaio, anzi, della sostituzione dell'individuo parziale con un individuo totalmente sviluppato, divenga una questione di vita o di morte. Ad essa risponde la tendenza, ugualmente naturale, e spontanea, della produzione capitalistica a creare questo operaio più versatile attraverso scuole politecniche, professionali e agricole, che impartiscano una qualche istruzione nella tecnologia e nel maneggio pratico dei differenti strumenti di produzione. Anche se versatile non significa necessariamente onnilaterale, si tratta di fermenti oggettivamente rivoluzionari; la loro meta, cioè l'abolizione della divisione del lavoro e dell'uomo, è contraddetta però dalla forma capitalistica della produzione e dalla condizione operaia. Tuttavia, se la legislazione di fabbrica, prima concessione strappata al capitale, combina col lavoro solo l'istruzione elementare, la conquista del potere politico da parte della classe operaia svilupperà la istruzione tecnologica a tutti i livelli, sia sul piano teorico che sul piano pratico. Lo svolgimento delle contraddizioni di una forma storica della produzione, commenta Marx, è l'unica via storica per la sua dissoluzione e la sua trasformazione.

La necessità di unire istruzione e produzione, scienza e lavoro, che già nel 1847-48 veniva posta da Marx ed Engels come una precisa rivendicazione rivoluzionaria, diviene qui dunque la constatazione di un processo reale, ma naturale e spontaneo e perciò stesso contraddittorio, le cui contraddizioni richiedono di essere sviluppate coscientemente e volontariamente. Nel 1847 Engels, forse senza nettamente differenziarsi dall'obbiettivo borghese di una maggiore versatilità dell'operaio ai fini di una sua maggiore disponibilità, e comunque seguendo l'illusione utopistica sulla possibilità di trasformare la società attraverso l'educazione, sottolineava piuttosto il momento della varietà che facesse seguire al giovane l'intero ciclo della produzione, mettendolo in grado di passare dall'uno all'altro ramo della produzione. Nel 1867 Marx sottolinea invece il carattere teorico-pratico di un'istruzione destinata a trasmettere i fondamenti scientifici universali di tutti i processi di produzione sulla base della «modernissima scienza della tecnologia», che scompone le policrome configurazioni dei processo di produzione in applicazioni consapevolmente pianificate delle scienze naturali. La distinzione, dei resto era già sottolineata anche dalla aperta polemica condotta da Marx nel 1847 contro la scuola che diremmo pluri-professionale, prediletta dai borghesi, a cui corrisponderà più tardi, in altra situazione, la polemica di Engels contro l'enseignément intégral del Comte.

Nel 1866, cioè un anno prima dell'uscita del Capitale ma quando questo, nella sua lunga gestazione, doveva già essere arrivato alla sua redazione pressocché definitiva, il programma esplicitamente delineato da Marx nelle Istruzioni ai delegati per l'Internazionale, articola la tematica pedagogica nelle tre determinazioni della formazione spirituale, dell'educazione fisica e dell'istruzione politecnica, unite col lavoro produttivo dei ragazzi. Circa dieci anni dopo, nella Critica al programma di Gotha, dove sono sinteticamente compendiate le premesse generali, e tra esse quelle tipicamente antropologico-pedagogiche, del comunismo, Marx polemizzerà ancora contro l'illusione democratico-umanitaria che chiede l'abolizione del lavoro produttivo dei ragazzi, affermando che, quando se ne regoli rigidamente l'orario e si garantiscano le necessarie misure di sicurezza, la precoce unione del lavoro produttivo con l'istruzione è uno dei mezzi più possenti per la trasformazione della società.

Così il lavoro produttivo, da cui si erano prese le mosse in sede teorica per una ricerca di tipo antropologico, cioè relativa alla natura e ai fini dell'uomo, si presenta, al termine della successiva ricerca vertente essenzialmente sull'economia politica, come il centro ideale di un processo di educazione realmente svolgentesi ma contraddittorio, che la coscienza e l'attività rivoluzionaria debbono spingere avanti.

5. Ulteriori determinazioni pedagogiche

Se il motivo centrale della tematica pedagogica marxista è la reintegrazione, mediante l'istruzione tecnologica unita al lavoro produttivo, della onnilateralità dell'uomo perduta nella divisione, storicamente prodottasi, del lavoro, numerosissime sono le determinazioni che investono questa tematica da altre angolazioni. Ne indicheremo qui soltanto alcune.

Anzitutto il rapporto uomo-ambiente, che si lega, del resto, al già accennato rapporto tra individui e classi, tra educazione e rivoluzione. Accettando dal materialismo tradizionale la dottrina secondo cui lo sviluppo dell'uomo dipende dall'ambiente e dall'educazione, Marx nel 1844 sottolineava però che, se l'uomo è formato dalle circostanze, si devono rendere umane le circostanze. Con diversa accentuazione, nelle Tesi su Feuerbach dello stesso anno, egli rilevava poi come il materialismo tradizionale dimenticasse che sono proprio gli uomini a modificare l'ambiente e che l'educatore stesso - cioè la classe dominante - deve essere educato, e concludeva con la notissima affermazione che il coincidere del mutare delle circostanze col mutare dell'attività umana, cioè dell'uomo stesso, può essere concepito razionalmente soltanto come azione rivoluzionaria. Cioè, quel che occorre sottolineare è non tanto che l'ambiente modifica l'uomo, quanto che l'attività dell'uomo modifica l'ambiente, educa in esso l'educatore, ed è anzi essa stessa, in ultima istanza, l'educatore. E’ un punto fondamentale, su cui anche Engels tornerà nella Dialettica della Natura, allargandolo al rapporto uomo-natura, e nell'Antiduhring, ove il passaggio dal dominio delle circostanze sull'uomo al dominio dell'uomo sulle circostanze, da un «esser sociale» dell'uomo quale è dato dalla natura a un «esser sociale» dipendente dalla sua volontà, verrà definito hegelianamente come il salto dal regno della necessità al regno della libertà.

Ai fini pedagogici, l'intendere l'ambiente non più come un dato astorico oggettivo ma come la stessa attività rivoluzionaria dell'uomo, e il sottolineare in questo quadro la totale educabilità dell'individuo nella società, vuoi dire condurre la battaglia su due fronti: su quello del determinismo, che tende ad adattare i singoli individui all'ambiente in cui nascono (classe o «razza», ecc.), e su quello dell'individualismo, per il quale la formazione dell'individuo non è che uno «scoprire se stesso», la propria preesistente natura. Tutte le osservazioni svolte da Marx giovane in chiave antropologica sulla natura storica e sociale dei sensi dell'uomo, e riprese poi da Engels in chiave scientista, portano concordemente a queste conclusioni.

Rilevanti appaiono anche le implicazioni di ordine morale, in particolare per quanto riguarda il rapporto dell'educazione con la religione, la famiglia, lo stato. Abbiamo già accennato alla documentazione sociologica raccolta da Engels giovane e ripresa da Marx nel Capitale, con la denuncia della dissoluzione della vecchia famiglia dal momento in cui i genitori proletari sono costretti dalla miseria a farsi sfruttatori dei loro figli. Nel Manifesto, di fronte alle accuse della borghesia, Marx si era orgogliosamente vantato di voler abolire la vecchia famiglia; nel Capitale, come per l'istruzione tecnologica, così anche per i rapporti familiari e morali in genere, diventa preminente il momento (certo non nuovo!) della constatazione oggettiva di una realtà in movimento con le sue contraddizioni. Dialetticamente, la fabbrica dissolve la vecchia struttura familiare, ma, per quanto questo processo di dissoluzione appaia disgustoso, tuttavia, con la funzione decisiva assegnata alle donne, ai giovani e ai ragazzi, crea le condizioni per una più alta forma di famiglia, per una più alta morale. Le accentuazioni umanitarie o volontaristiche, cedono totalmente il passo alla constatazione di un processo oggettivo, la cui soluzione sta nello sviluppo dialettico delle sue contraddizioni.

Anche qui le conclusioni pedagogiche ci riportano alla scelta rivoluzionaria di un'educazione sociale al posto della vecchia educazione domestica e familiare; in essa si rifiuta però l'influenza ideologica sia dello stato che della chiesa, che appaiono piuttosto come espressione di quella classe-educatore che, essa per prima, ha bisogno di essere educata.

Ulteriori determinazioni riguardano, infine, il contenuto culturale dell'educazione, e si possono ricavare tanto da dirette indicazioni di carattere pedagogico, quanto da passi in cui si prende in considerazione la storia delle scienze, il rapporto delle scienze tra loro e quello tra le scienze e la filosofia, che richiama al rapporto dell'uomo con la natura.

Considerando l'attività specifica dell'uomo, il lavoro (nel senso che abbiamo visto) o piuttosto la produzione dei mezzi di vita, come il suo rapporto con la natura, muovendo da una concezione dello sviluppo della formazione economica della società come di un processo di storia naturale, concependo tutta la storia umana come parte della storia naturale, Marx postula un'unità che non sia meramente illusoria e velleitaria tra le scienze della natura e le scienze dell'uomo: non ci sarà che una scienza, egli dice. E intenderà con ciò non certo l'indifferenziata confusione di tutti gli oggetti possibili della ricerca scientifica, e nemmeno l'identificazione dei metodi specifici di ciascuna ricerca, ma piuttosto la negazione di ogni metafisica, sia idealistica che materialistica, e l'affermazione di una concezione dialettica e storica che investa sia il mondo naturale che il mondo sociale dell'uomo.

A queste concezioni si riallaccerà Engels nella Dialettica della natura, quando, dopo la rassegna storica dello sviluppo delle scienze, polemizzerà con la cattiva filosofia degli scienziati, e nell'Antiduhring, quando tenterà una classificazione delle scienze, a partire dalla matematica e dalle scienze che studiano la materia non vivente, per salire via via a quelle che studiano gli organismi viventi, a quelle storico-sociali relative alle sovrastrutture letterarie, artistiche, ecc., e giungere fino alla logica e alla dialettica, che indagano le leggi del pensiero. Ma forse, più che a questi tentativi di classificazione vagamente scientista, o agli altri spunti interessanti che pur si possono trovare qua e là sulla cultura formativa della tradizione umanistica e sulla sua degenerazione borghese, anche per la scelta del contenuto e per l'impostazione dei metodi occorrerà rifarsi all'indicazione di Marx sulla tecnologia e sullo studio dei principi generali delle scienze e sul rapporto teoria-pratica come centro ideale dell'educazione dell'avvenire.

Questi i temi essenziali di una ricerca pedagogica che, sia per la genesi interna sia per il contenuto, appare strettamente connessa con la tematica centrale del marxismo, e niente affatto relegata al margine degli interessi sovrastrutturali. In questa concezione dialettica, il cammino dell'umanità, muovendo dalla generica natura umana iniziale o dalla molteplicità originaria delle occupazioni, attraverso la formazione di una capacità produttiva specifica, dovuta alla divisione naturale del lavoro, porta alla conquista di una capacità onnilaterale, fondata su una divisione del lavoro volontaria e cosciente, su una varietà indefinita di occupazioni produttive, in cui scienza e lavoro coincidono.

Parrà forse che, per riprendere una frase di Marx, si sia troppo «civettato» con la dialettica: ma, senza voler riporre in discussione la famosa formula della «negazione della negazione», è certo che il carattere contraddittorio del reale e il suo procedere attraverso l'inasprimento delle contraddizioni non sono elementi casuali o marginali in lui. D'altra parte, la tematica pedagogica marxista non può considerarsi esaurita nella considerazione di quel campo dell'attività umana che è sempre un regno della necessità. Implicitamente o esplicitamente, sia per la sua formazione di studioso, di umanista, sia con la determinata teorizzazione del rapporto lavoro-cultura, necessità-libertà, Marx ha lasciato ulteriori spunti di riflessione pedagogica. Sulla base di quel regno della necessità, là dove cessa il lavoro volto a una finalità esterna, e cioè oltre la sfera della produzione materiale vera e propria, sorge infatti, per Marx, il vero regno della libertà, vale a dire lo sviluppo delle capacità umane come fine a se stesso. E come sarebbe illusorio voler prescindere da quel regno della necessità - cioè, in pedagogia, dall'istruzione tecnologica fondata sull'unione dell'istruzione col lavoro produttivo - così sarebbe estremistico ed astratto negare il valore autonomo di una cultura umana «disinteressata», il suo patrimonio storico e le sue infinite possibilità, quando la si intenda concresciuta su quella base e sui rapporti umani che in essa si determinano.

Introduzione
Autobiografia intellettuale di Marx

Scritte nel gennaio 1859 come Prefazione al libro Per la critica dell'economia politica ( Vorwort zur Kritik del politischen Ökonomie) che fu come una prima stesura e una prima parte del Capitale, queste pagine famose contengono, da una parte, la storia della formazione intellettuale di Marx, dall'altra, espresso in una rapida sintesi, il «risultato generale delle sue ricerche», cioè quella concezione materialistico-dialettica della natura e della storia che sarà poi il «filo conduttore dei suoi studi». Le poniamo come introduzione ideale alla scelta delle sue pagine pedagogiche appunto per questo loro duplice valore, che non può qui essere ignorato, data la coessenzialità della componente pedagogica con tutto il pensiero di Marx.

A queste pagine se ne possono utilmente collegare altre numerose di Engels, nelle quali egli svolge gli stessi motivi. Così, in Per la storia della Lega dei comunisti, del 1855 (W.21, pp. 271-272) Engels narra il suo maturare attraverso gli studi di economia ad una concezione materialistica della storia, e il suo incontro e l'inizio della sua collaborazione con Marx. Lo stesso motivo è accennato nella «Prefazione» all'edizione tedesca del 1883 del Manifesto dei comunisti (W.21, p. 39). Nel Ludovico Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca, del 1888 {W.21, pp. 271- 273), Engels, pur non intendendo negare la parte avuta tanto nella fondazione quanto nell'elaborazione di questa teoria, ne attribuisce a Marx il merito fondamentale. Così, oltre ad un accenno nella prefazione del 1885 alla 2a edizione dell'Antidühring ( W.20, p. 10), una definizione dei meriti scientifici di Marx si può leggere nel Discorso sulla tomba di Marx, del 22 marzo 1883 ( W.19, p. 135), ove la scoperta della legge di sviluppo della storia umana, fatta da Marx, è posta in rapporto con la scoperta della legge dello sviluppo della natura organica, fatta da Darwin. (Cfr. in F. Mehring, Vita di Marx, Editori Riuniti, Roma, 1953, pp. 529-530).

"Veder chiaro in noi stessi"

W.13, pp. 7-11

La mia specializzazione erano gli studi giuridici, ma io non li coltivavo se non come disciplina subordinata, accanto alla filosofia e alla storia. Nel 1842-43, come redattore della «Rheinische Zeitung», fili posto per la prima volta davanti all'obbligo, per me imbarazzante, di esprimere la mia opinione a proposito di cosiddetti interessi materiali. I dibattiti della Dieta renana sui furti forestali e sullo spezzettamento della proprietà fondiaria, la polemica ufficiale che il signor von Schaper, allora primo presidente della provincia renana, iniziò con la «Rheinische Zeitung» circa la situa-zione dei contadini della Mosella, infine i dibattiti sul libero scambio e sulla protezione doganale, mi fornirono le prime occasioni di occuparmi di problemi economici. D'altra parte, in un'epoca in cui la buona volontà di «andare avanti» era di molto superiore alla competenza, si era potuta avvertire nella «Rheinische Zeitung.» un'eco, leggermente tinta di filosofia, del socialismo e comunismo francese. Mi dichiarai contrario a questo dilettantismo, ma nello stesso tempo, in una controversia con la «Augsbur- ger Allgemeine Zeitung», confessai senza reticenze che gli studi che avevo fatto sino ad allora non mi consentivano di arrischiare un qualsiasi giu-dizio indipendente sul contenuto delle correnti francesi. Fui invece sollecito nell'approfittare dell'illusione dei gerenti della «Rheinische Zeitung», i quali credevano di poter far revocare la condanna a morte caduta sul loro giornale dandogli una linea più moderata, per ritirarmi dalla scena pubblica nella stanza da studio.

Il primo lavoro intrapreso per sciogliere i dubbi che mi assalivano fu una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel, lavoro di cui apparve l'introduzione nei «Deutsch-französische Jahrbücher» pubblicati a Parigi nel 1844. La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l'esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di «società civile»; e che l'anatomia della società civile è da cercare nell'economia politica. Avevo cominciato lo studio di questa scienza a Parigi, e lo continuai a Bruxelles, dove ero emigrato in seguito a un decreto di espulsione del sig. Guizot. Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.

Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra una epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno ra-pidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che deve essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo.

Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare 'e cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistano già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghesi sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana.

Federico Engels, col quale dopo la pubblicazione (nei «Deutschfranzösische Jahrbücher») del suo geniale schizzo di critica delle categorie economiche, mantenni per iscritto un continuo scambio di idee, era arrivato per altra via (si confronti la sua Situazione della classe operaia in Inghilterra), allo stesso risultato cui ero arrivato io, e quando nella primavera del 1845 si stabilì egli pure a Bruxelles, decidemmo di mettere in chiaro, con un lavoro comune, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione ideologica della fdosofia tedesca, di fare i conti, in realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica. Il disegno venne realizzato nella forma di una critica della filosofia posteriore a Hegel. Il manoscritto, due grossi fascicoli in ottavo, era da tempo arrivato nel luogo dove doveva pubblicarsi, in Westfalia, quando ricevemmo la notizia che un mutamento di circostanze non ne permetteva la stampa. Abbando-nammo tanto più volentieri il manoscritto alla rodente critica dei topi, in quanto avevamo già raggiunto il nostro scopo principale, che era di veder chiaro in noi stessi. Dei diversi lavori sparsi in cui esponemmo al pubblico in quel periodo, sotto questo o quell'aspetto, i nostri modi di vedere, menzionerò soltanto il Manifesto del Partito Comunista, redatto in comune da Engels e da me, e un Discorso sul libero scambio da me pubblicato. I punti decisivi della nostra concezione vennero da me indicati per la prima volta in modo scientifico, benché soltanto in forma polemica, nel mio scritto Miseria della filosofia, pubblicato nel 1847 e diretto contro Proudhon, ecc. La pubblicazione di una dissertazione, scritta in lingua tedesca, sul Lavoro salariato, in cui raccoglievo le conferenze tenute da me su questo argomento nella Associazione degli operai tedeschi di Bruxelles, venne interrotta dalla rivoluzione di febbraio e dalla mia espulsione dal Belgio, che ne seguì.

La pubblicazione della «Neue Rheinische Zeitung» nel 1848 e nel 1849 e i successivi avvenimenti interruppero i miei studi economici, che poterono essere ripresi soltanto a Londra nel 1850. L'enorme quantità di materiali per la storia dell'economia politica che sono accumulati nel Museo Britannico, il fatto che Londra è un punto favorevole per l'osservazione della società borghese, infine la nuova fase di sviluppo in cui questa società sembrava essere entrata con la scoperta dell'oro dell'Australia e della California, mi indussero a ricominciare da capo, e a stu-diare a fondo, in modo critico, i nuovi materiali. Questi studi mi portavano da sé, in parte, a discipline in apparenza molto lontane, sulle quali dovetti indugiare per un tempo più o meno lungo.

[…]

6. 1845-1846: Marx ed Engels
Ideologia e realtà alla luce della dialettica

Da L'ideologia tedesca (Die deutsche Ideologie — Kritik der neuesten deutschen Philosophie in ihren Repräsentanten Feuerbach, B. Bauer und Stirner, und des deutschen Sozialismus in seinen verschiedenen Propheten — W3, p. 543), cominciata in comune da Marx ed Engels nel settembre del 1845, conclusa sostanzialmente nell'estate del 1846, ad eccezione della parte su Feuerbach, scritta nella seconda metà dello stesso anno.

I paragrafi dalla a) alla e) sono tolti dal Cap. I, dedicato alla critica a Feuerbach; quelli successivi dal Cap. III, dedicato alla critica a Stirner (San Max, Sancio).

Come Marx ricorda nella sua autobiografìa intellettuale, «questo scritto era destinato a mettere in chiaro, con un lavoro comune, il contrasto fra il nostro modo di vedere e la concezione ideologica della filosofìa tedesca, di fare i conti, in realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica». Il manoscritto non potè essere pubblicato, ma, diceva Marx: «avevamo raggiunto il nostro scopo principale, che era di veder chiaro in noi stessi».

Più tardi, nel 1888, Engels, nella sua prefazione al Ludovico Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca {Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie - W.21, pp. 258-466), scriverà: «Prima di dare queste righe alle stampe ho ricercato e riveduto ancora una volta il vecchio manoscritto del 1845-46. Il capitolo su Feuerbach non è terminato. La parte redatta consiste in un'esposizione materialistica della storia, che prova soltanto quanto a quel tempo fossero ancora incomplete le nostre conoscenze della storia economica».

Nonostante questo severo giudizio di Engels, che contrasta in parte col giudizio più positivo dato da Marx, l'interesse di questo scritto non è meramente biografico: il repertorio stesso degli argomenti d'interesse pedagogico qui presentati, che ripropongono in forma più organica e distesa i temi già trattati ed anticipano formulazioni della maturità, conferma il valore di queste pagine come quello di un primo traguardo, cioè appunto il «veder chiaro in se stessi» e nel proprio rapporto col pensiero contemporaneo, che non è da sottovalutare come momento caduco e meramente transitorio. Il rapporto tra essere e coscienza, tra pratica e teoria, si chiarisce qui definitivamente, pur se ancora sulla base della critica dell'ideologia, cioè delle teorie astratte dalla realtà e volte a presentarsi come indi-pendenti e superiori ad essa, più che sulla base dell'analisi della realtà stessa. Così il rapporto uomo-ambiente, la divisione del lavoro come divisione tra città e campagna, tra lavoro intellettuale e lavoro materiale, il carattere di classe dell'ideologia, la prospettiva dello sviluppo onnilaterale del singolo condizionato dall'intero sviluppo sociale, il rifiuto dell'individualismo pedagogico, sono tutti motivi essenziali alla tematica pedagogica marxista e qui svolti con ampia motivazione.

a) La vita determina la coscienza

W.3, pp. 28-31

Dobbiamo cominciare dal constatare il primo presupposto di ogni esistenza umana, e dunque di ogni storia, il presupposto cioè che per poter «fare storia» gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l'abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un'azione storica, una condizione fonda-mentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini... Il secondo punto è che il primo bisogno soddisfatto, l'azione del soddisfarlo e lo strumento già acquistato di questo soddisfacimento portano a nuovi bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica... Il terzo rapporto che in-terviene fino dalle prime origini nello sviluppo storico, è che gli uomini, i quali rifanno ogni giorno la loro propria vita, cominciano a fare altri uomini, a riprodursi; è il rapporto fra uomo e donna, fra genitori e figli: la famiglia...

Appare già dunque, fin dall'origine, un legame materiale tra gli uomini, il quale è condizionato dai bisogni e dal modo della produzione ed è antico quanto gli stessi uomini; un legame che assume sempre nuove forme e dunque presenta una «storia», anche senza che esista alcun non-senso politico o religioso fatto apposta per tenere congiunti gli uomini.

Solo a questo punto, dopo aver già considerato quattro momenti, quattro aspetti delle condizioni storiche originarie, troviamo che l'uomo ha anche una «coscienza». Ma anche questa non esiste fin dall'inizio, come «pura» coscienza. Fin dall'inizio lo «spirito» porta in sé la maledizione di essere «infetto» di materia, che qui si presenta sotto forma di strati d'aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio.

Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per gli altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini...

b) La divisione del lavoro

Ivi, pp. 31-33

La coscienza è dunque fin dal principio un prodotto sociale e tale resta fin tanto che in genere esistono gli uomini...

Questo inizio è di natura animale, come la stessa vita sociale a questo stadio, è pura coscienza da gregge, e l'uomo a questo punto si distingue dal montone soltanto perché il suo è un istinto cosciente. Questa coscienza da montone o tribale perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriori in virtù dell'accresciuta produttività, dell'aumento dei bisogni e dell'aumento della popolazione che sta alla base dell'uno e dell'altro fenomeno. Si sviluppa così la divisione del lavoro, che in origine era niente altro che la divisione del lavoro nell'atto sessuale, e poi la divisione del lavoro che si produce spontaneamente o «naturalmente» in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del bisogno, del caso, ecc. La divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione tra il lavoro manuale e il lavoro mentale. Da questo momento in poi la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale: da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la «pura» teoria, teologia, filosofia, morale, ecc...

D'altronde è del tutto indifferente quel che la coscienza si mette a fare per conto suo; da tutta questa porcheria ricaviamo, come unico risultato, che questi tre momenti, la forza produttiva, la situazione sociale e la coscienza, possono e debbono entrare in contraddizione fra loro, perché con la divisione del lavoro si dà la possibilità, anzi la realtà, che l'attività spirituale e l'attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo tocchino a individui diversi, e la possibilità che essi non entrino in contraddizione sta solo nel tornare ad abolire la divisione del lavoro... Cioè, appena il lavoro comincia ad essere diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o criti- • co, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico... Questo fissarsi dell'attività sociale, questo consolidamento del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo storico.

c) Le idee della classe dominante

Ivi, pp. 46-47

Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che compongono la classe dominante posseggono tra l'altro anche la coscienza, e quindi pensano; in quanto dominano come classe e determinano l'intero ambito di una epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi tra l'altro dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo: è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell'epoca. Per esempio: in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come «legge eterna».

La divisione del lavoro, che abbiamo già visto come una delle forze principali della storia finora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale, cosicché all'interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell'elaborazione dell'illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi. All'interno di questa classe questa scissione può addirittura svilupparsi fino a creare fra le due parti una certa opposizione e una certa ostilità, che tuttavia cade da sé se sopraggiunge una collisione pratica che metta in pericolo la classe stessa: allora si dilegua anche la parvenza che le idee dominanti non siano le idee della classe dominante e abbiano un potere distinto dal potere di questa classe. L'esistenza di idee rivoluzionarie in una determinata epoca presuppone già l'esistenza di una classe rivoluzionaria sui cui presupposti abbiamo già detto quanto occorre.

d) Città e campagna: lavoro intellettuale e materiale

Ivi, pp. 50-52

La più grande divisione del lavoro materiale e intellettuale è la separazione di città e campagna. L'antagonismo tra città e campagna comincia col passaggio dalla barbarie alla civiltà, dall'organizzazione in tribù allo stato, dalla località alla nazione, e si protrae attraverso tutta la storia della civiltà fino ai nostri giorni (VAnti-Corn Law League'). L'esistenza della città implica immediatamente la necessità dell'amministrazione, della polizia, delle imposte, ecc., in una parola dell'organizzazione comunale, e quindi della politica in genere. Apparve qui per la prima volta la divisione della popolazione in due grandi classi, che è fondata direttamente sulla divisione del lavoro e sugli strumenti di produzione. La città è già il fatto della concentrazione della popolazione, degli stru-menti di produzione, del capitale, dei godimenti, dei bisogni, mentre la campagna fa apparire proprio il fatto opposto, l'isolamento e la separazione. L'antagonismo tra città e campagna può esistere solo nell'ambito della proprietà privata. Esso è la più crassa espressione della sussunzione dell'individuo sotto la divisione del lavoro, sotto una determinata attività che gli viene imposta; sussunzione che fa dell'uno il limitato animale cittadino, dell'altro il limitato animale campagnolo, e che rinnova quotidianamente l'antagonismo tra i loro interessi. Il lavoro è qui ancora una volta la cosa principale, il potere sopra gli individui, e fin tanto che questo esiste, deve esistere la proprietà privata. L'abolizione dell'antagonismo fra città e campagna è una delle prime condizioni della comunità, condizione che dipende a sua volta da una quantità di presupposti materiali e che non può essere realizzata dalla semplice volontà, come ciascuno può osservare a prima vista...

Nelle città la divisione del lavoro tra le singole corporazioni era ancora [del tutto spontanea] e all'interno delle corporazioni stesse, tra i singoli lavoratori, non si era ancora affatto sviluppata. Ogni lavoratore doveva essere abile in tutto un ciclo di lavoro, doveva saper fare tutto ciò che andava fatto con i suoi strumenti; le relazioni limitate e gli scarsi collegamenti tra le singole città, la rarità della popolazione e la limitatezza dei bisogni non consentivano il sorgere di una divisione del lavoro più spinta, e perciò chiunque volesse diventare maestro doveva essere completamente padrone del suo mestiere. Per questo negli artigiani medievali si trova ancora un interesse per il proprio particolare lavoro e per l'abilità che poteva elevarsi fino ad un certo, limitato, senso artistico. Per questo, però, ogni artigiano medievale era interamente preso dal suo lavoro, aveva con esso un rapporto di soddisfatto asservimento ed era sussunto sotto di esso assai più del lavoratore moderno, per il quale il suo lavoro è indifferente.

e) Lo sviluppo di individui completi

Ivi, pp. 67-68

Da una parte, dunque, una totalità di forze produttive che hanno assunto, per così dire, una forma obiettiva e che per gli individui stessi non sono più le forze degli individui, ma della proprietà privata, e quindi degli individui solo in quanto sono proprietari privati. In nessun periodo precedente le forze produttive avevano assunto questa forma indifferente alle relazioni degli individui come individui, perché le loro relazioni stesse erano ancora limitate. Dall'altra parte a queste forze produttive si contrappone la maggioranza degli individui, dai quali queste forze si sono staccate e che quindi sono stati spogliati da ogni reale contenuto di vita, sono diventati individui astratti, ma proprio per questo e solo per questo sono messi in condizione di entrare come individui in collegamento tra loro.

L'unico nesso che ancora li lega alle forze produttive e alla loro stessa esistenza, il lavoro, ha perduto in essi ogni parvenza di manifestazione personale e mantiene la loro vita soltanto intristendola. Mentre nei periodi precedenti la manifestazione personale e la produzione della vita materiale erano separate per il fatto che toccavano a persone diverse, e la produzione della vita materiale era ancora considerata, a causa della limitatezza degli individui stessi, come una specie subordinata di manifestazione personale, ora esse sono separate al punto che la vita materiale appare in genere come scopo, la produzione di questa vita materiale, il lavoro (che ora è l'unica forma possibile ma, come noi vediamo, negativa della manifestazione personale), come mezzo.

Le cose dunque sono arrivate a tal punto che gli individui devono appropriarsi la totalità delle forze produttive esistenti non solo per arrivare alla loro manifestazione personale, ma semplicemente per assicurare la loro stessa esistenza. Questa appropriazione è condizionata innanzi tutto dall'oggetto di cui ci si deve appropriare: le forze produttive sviluppate fino a costituire una totalità ed esistenti solo nell'ambito di relazioni universali. Questa appropriazione dunque, già sotto questo aspetto, deve avere un carattere universale corrispondente alle forze produttive e alle relazioni. L'appropriazione di queste forze non è altro essa stessa che lo sviluppo delle facoltà individuali corrispondenti agli strumenti materiali di produzione. Per questo solo fatto l'appropriazione di una totalità di strumenti di produzione è lo sviluppo di una totalità di facoltà negli individui stessi. Questa appropriazione inoltre è condizionata dagli individui che la attuano. Solo i proletari del tempo presente, del tutto esclusi da ogni manifestazione personale, sono in grado di giungere alla loro completa e non più limitata manifestazione personale, che consiste nella appropriazione di una totalità di forze produttive e nello sviluppo, da ciò condizionato, di una totalità di facoltà. Tutte le precedenti appropriazioni rivoluzionarie erano limitate; individui la cui manifestazione personale era limitata da uno strumento di produzione limitato e da relazioni limitate si appropriavano questo strumento di produzione limitata e non facevano che arrivare a una nuova limitazione. Il loro strumento di produzione diventava loro proprietà, ma essi restavano sussunti sotto la divisione del lavoro e sotto il loro proprio strumento di produzione. In tutte le appropriazioni del passato una massa restava sussunta sotto un solo strumento di produzione; nella appropriazione da parte dei proletari una massa di strumenti di produzione deve venire sussunta sotto ciascun individuo, e la proprietà sotto tutti. Le relazioni universali moderne non possono essere sussunte sotto gli individui altrimenti che con l'essere sussunte sotto tutti. L'appropriazione è inoltre condizionata dal modo in cui deve essere compiuta. Essa può essere compiuta soltanto attraverso una unione la quale, per il carattere del proletariato stesso, non può essere a sua volta che universale, e attraverso una rivoluzione nella quale da una parte saranno rovesciate la potenza del modo di produzione e delle relazioni e la struttura sociale sinora esistenti, e d'altra parte si svilupperanno il carattere universale del proletariato e l'energia che gli è necessaria per compiere l'appropriazione: una rivoluzione, infine, nella quale il proletariato si spoglierà di tutto ciò che ancora gli è rimasto della sua presente posizione sociale.

Soltanto a questo stadio la manifestazione personale coincide con la vita materiale, ciò che corrisponde allo sviluppo degli individui in individui completi e alla eliminazione di ogni residuo naturale; e vi corrispondono poi la trasformazione del lavoro in manifestazione personale e la trasformazione delle relazioni fin qui condizionate nelle relazioni degli individui in quanto tali. Con l'appropriazione delle forze produttive totali da parte degli individui uniti cessa la proprietà privata. Mentre sinora nella storia appariva sempre come accidentale una condizione particolare, ora sono diventati accidentali l'isolamento degli individui stessi e il particolare guadagno privato di ciascuno.

f) Ambiente e individuo

Ivi, pp. 245-247

In generale è un'assurdità il supporre, come fa san Max, che si possa soddisfare una passione, separatamente da tutte le altre, senza soddisfare se stesso, l'intero individuo vivente. Se questa passione assume un carattere astratto, distaccato, se mi si contrappone come una potenza estranea, se dunque la soddisfazione dell'individuo appare come soddisfazione unilaterale di una singola passione, la cosa non dipende affatto dalla coscienza o dalla «buona volontà», e meno che mai dalla mancanza di riflessione intorno al concetto della proprietà, come san Max si immagina.

Dipende non dalla coscienza, ma dall'essere; non dal pensiero, ma dalla vita; dipende dall'empirico sviluppo e manifestazione vitale dell'individuo, che a sua volta dipende dalle condizioni esterne. Se le circostanze nelle quali questo individuo vive gli permettono soltanto di sviluppare unilateralmente una qualità a spese di tutte le altre, se esse gli danno materia e tempo per sviluppare soltanto questa unica qualità, quest'individuo non va oltre ad uno sviluppo unilaterale, monco. Non c'è predica moraleggiante che possa servire. E il modo come quest'unica qualità eccezionalmente favorita si sviluppa dipende a sua volta, da una parte, dal materiale che le è offerto per formarsi, dall'altra parte, dalla misura e dal modo in cui le altre qualità restano soffocate... In un individuo, per esempio, la cui vita abbraccia una grande cerchia di molteplici attività e relazioni pratiche col mondo, e che quindi conduce una vita ricca di vari aspetti, il pensiero ha lo stesso carattere di universalità che presenta ogni altra manifestazione della vita di questo individuo. Esso dunque non si fissa come pensiero astratto né ha bisogno di ampi artifici della riflessione, quando l'individuo passa dal pensiero a un'altra manifestazione della vita. È sempre, a priori, un momento che secondo il bisogno scompare e si riproduce nella vita complessiva dell'individuo.

Ivi, pp. 410

Come sinora spiegava ogni deformità degli individui, e quindi ogni deformità dei loro rapporti, con le idee fisse dei maestri di scuola, senza preoccuparsi delle origini di queste idee, così ora Sancio spiega questa deformità col semplice processo naturale della procreazione. Non pensa neppur lontanamente che la capacità di sviluppo dei bambini è condizionata dallo sviluppo dei genitori e che nelle condizioni sociali sinora

esistenti tutte queste deformità hanno una origine storica e possono del pari essere storicamente soppresse.

Anche le differenze naturali di specie, come le differenze di razza, ecc., delle quali Sancio non parla affatto, possono e debbono essere storicamente eliminate. Sancio, che in questa occasione getta uno sguardo furtivo sulla zoologia e scopre così che le «teste balorde nate» formano la classe più numerosa non soltanto tra le pecore e i buoi, ma anche tra i polipi e gli infusori, che non hanno testa, Sancio forse ha sentito dire che si possono migliorare anche le razze animali e produrre, mediante l'incrocio, delle razze, generi del tutto nuovi e più perfetti tanto per il godimento degli uomini quanto per il loro proprio godimento. «Perché non dovrebbe» trarne una conclusione che interessasse gli uomini?

g) Divisione del lavoro e sviluppo unilaterale

Ivi, pp. 377-379

Egli immagina che i cosiddetti organizzatori del lavoro vogliano organizzare l'attività totale di ciascun individuo, mentre proprio essi distinguono fra il lavoro direttamente produttivo, il quale va organizzato, e il lavoro non direttamente produttivo. Ma in questi lavori essi non pensano, come immagina Sancio, che ciascuno debba lavorare al posto di Raffaello, bensì che chiunque abbia la stoffa di un Raffaello debba potersi sviluppare senza impedimenti. Sancio immagina che Raffaello abbia eseguito i suoi dipinti indipendentemente dalla divisione del lavoro che esisteva a Roma al suo tempo. Se confronta Raffaello con Leonardo da Vinci e Tiziano, vedrà come le opere del primo fossero condizionate dal fiorire della Roma dell'epoca giunta al suo pieno sviluppo sotto influenza fiorentina, come le opere di Leonardo fossero condizionate dalla situazione di Firenze, e quelle di Tiziano, più tardi, dallo sviluppo affatto diverso di Venezia. Raffaello, come ogni altro artista, era condizionato dai progressi tecnici dell'arte compiuti prima di lui, dall'organizzazione della società e dalla divisione del lavoro nella sua città e infine dalla divisione del lavoro in tutti i paesi con i quali la sua città era in relazione. Che un individuo come Raffaello possa sviluppare il suo talento dipende dalla divisione del lavoro e dalle condizioni culturali degli uomini che da essa derivano.

Proclamando l'unicità del lavoro scientifico e artistico, Stirner qui si pone ancora molto al di sotto della borghesia...

La concentrazione esclusiva del talento artistico in alcuni individui e il suo soffocamento nella grande massa, che ad essa è connesso, è conseguenza della divisione del lavoro. Anche se in certe condizioni sociali ognuno fosse un pittore eccellente, ciò non escluderebbe che ognuno fosse un pittore originale, cosicché anche qui la distinzione tra lavoro «umano» e lavoro «unico» si risolve in una pura assurdità. In un'organizzazione comunistica della società in ogni caso cessa la sussunzione dell'artista sotto la ristrettezza locale e nazionale, che deriva unicamen-te dalla divisione del lavoro, e la sussunzione dell'individuo sotto quest'arte determinata, per cui egli è esclusivamente un pittore, uno scultore, ecc.: nomi che già esprimono a sufficienza la limitatezza del suo sviluppo professionale e la dipendenza della divisione del lavoro. In una società comunista non esistono pittori, ma tutt'al più uomini che, tra l'altro, dipingono anche.

h) L'«inumano» nella classe dominante

Ivi, pp. 416-418

A p. 185 Sancio pone la grossa questione: «Ma l'inumano che si cela in ogni individuo, come domarlo? Come fare per non liberare l'inumano insieme con l'uomo? Tutto il liberalismo ha un nemico mortale, un avversario insuperabile, come Dio ha il demonio. A lato dell 'uomo sta sempre l'inumano, l'egoista, il singolo. Stato, società, umanità sono incapaci di soggiogarlo»...

La questione, come la intende Sancio stesso, si risolve ancora una volta in una pura assurdità. Egli si immagina che sinora gli uomini si siano sempre fatti un concetto dell'uomo e che poi si siano liberati tanto quanto era necessario per realizzare in sé questo concetto; che la misura della libertà da essi di volta in volta conquistata sia stata determinata dalla rappresentazione che essi di volta in volta si sono fatti dall'ideale dell'uomo; cosicché doveva accadere che in ciascun individuo sopravvivesse un resto che non corrispondeva a questo ideale e che quindi, in quanto «inumano», non veniva liberato o veniva liberato malgré eux.

Nella realtà, naturalmente, la cosa andava in modo che ogni volta gli uomini si sono liberati nella misura loro prescritta e concessa non dal loro ideale dell'uomo, ma dalle forze produttive esistenti. Tutte le liberazioni del passato, sino ad oggi, avevano però a fondamento forze produttive limitate, la cui produzione insufficiente per l'intera società rendeva possibile uno sviluppo soltanto se gli uni soddisfacevano i loro bisogni a spese degli altri, e così essi - la minoranza - ottenevano il monopolio dello sviluppo, mentre gli altri - la maggioranza - per il momento (cioè fino alla creazione di nuove forze produttive) erano esclusi da ogni sviluppo a causa della loro continua lotta per il soddisfacimento dei bisogni più immediati. Così la società si è sviluppata sino ad oggi nel quadro di un antagonismo, che presso gli antichi era l'antagonismo tra liberi e schiavi, nel Medioevo tra nobiltà e servi della gleba, e nell'età moderna è l'antagonismo tra borghesia e proletariato. Ciò spiega da una parte il modo anormale, «inumano», in cui la classe dominata soddisfa i suoi bisogni, e d'altra parte i limiti entro i quali si sviluppano le relazioni e con esse l'intera classe dominante; così che questa limitatezza dello sviluppo consiste non soltanto nell'esclusione di una classe ma anche nelle ristrette capacità della classe che esclude, e l'«inumano» si manifesta ugualmente nella classe dominante. Questo cosiddetto «inumano» è, precisamente come l'«umano», un prodotto dei rapporti attuali; è il loro lato negativo, la ribellione, non fondata su una nuova forza produttiva rivoluzionaria, contro i rapporti dominanti, fondati sulle forze produttive esistenti, e contro il modo di soddisfare i bisogni che ad essi corrisponde. L'espressione positiva «umano» corrisponde ai determinati rapporti dominanti in conformità di un certo stadio della produzione e al modo di soddisfare i bisogni che quei rapporti condizionano, così come l'espressione negativa «inumano» corrisponde al tentativo, ogni giorno nuovamente provocato dal medesimo stadio della produzione, di negare, nell'ambito del modo di produzione esistente, questi rapporti dominanti e il modo di soddisfare i bisogni che domina in seno ad essi.

i) Lo sviluppo del singolo è condizionato dallo sviluppo di tutti

Ivi, p. 423

Gli individui sono sempre e in ogni circostanza «partiti da se stessi», ma poiché non erano unici nel senso di non aver necessità di relazioni reciproche, poiché i loro bisogni, e quindi la loro natura e il modo di soddisfarli, li metteva in relazione tra loro (rapporti sessuali, scambio, divisione del lavoro), essi dovettero entrare in rapporti. Poiché inoltre entravano in rapporti non come puri Io, ma come individui a un certo grado di sviluppo delle loro forze produttive e dei loro bisogni, in rapporti che a loro volta determinavano la produzione e i bisogni, fu proprio la condotta personale, individuale, degli individui, la condotta che avevano come individui l'uno verso l'altro, che creò e che ricrea ogni giorno i rapporti esistenti. Essi entrarono in rapporti reciproci per ciò che erano, partirono «da se stessi» così com'erano, indipendentemente dalla «concezione della vita» che avevano. Questa «concezione della vita», compresa la stessa concezione sbilenca dei filosofi, naturalmente poteva essere determinata soltanto dalla loro vita reale. Da ciò indubbiamente risulta che lo sviluppo di un individuo è condizionato dallo sviluppo di tutti gli altri, con i quali egli è in rapporto diretto o indiretto, e che tra le diverse generazioni di individui che entrano in rapporti tra loro esiste una connessione, che le generazioni posteriori sono condizionate nella loro esistenza fisica da quelle anteriori, riprendono le forze produttive e le forme di relazioni da esse accumulate e ne sono determinate nei loro propri rapporti interni. Si vede insomma che ha luogo uno sviluppo e che la storia di un singolo individuo non può affatto essere staccata dalla storia degli individui passati e contemporanei, essendone invece determinata.

l) Contro lo spontaneismo dello sviluppo

Ivi, pp. 423-424

Il convertirsi del rapporto individuale nel suo contrario, in un rapporto puramente oggettivo, la distinzione tra individualità e casualità, fatta dagli individui stessi, è, come abbiamo già dimostrato, un processo storico e assume, in diversi gradi di sviluppo, forme diverse, sempre più acute e più generali. Nell'epoca presente la dominazione dei rapporti oggettivi sugli individui, il soffocamento della individualità da parte della casualità, ha assunto la sua forma più acuta e più generale, e ha asse-gnato con ciò agli individui esistenti un compito affatto determinato. Essa ha assegnato loro il compito di sostituire alla dominazione dei rapporti e della casualità sugli individui la dominazione degli individui sui rapporti e sulla casualità. Essa non ha posto, come si figura Sancio, l'esigenza «che io mi sviluppi», cosa che ogni individuo sinora ha fatto anche senza aspettare il buon consiglio di Sancio, ma ha assegnato invece il compito di liberarsi da un modo determinatissimo dello sviluppo. Questo compito assegnato dai rapporti attuali si identifica col compito di dare alla società un'organizzazione comunista. Abbiamo già mostrato sopra che per abolire l'autonomia assunta dai rapporti nei confronti degli individui, per abolire l'assoggettamento dell'individualità alla casualità, la sussunzione dei loro rapporti personali sotto i rapporti generali di classe, ecc., condizione necessaria è in ultima istanza l'abolizione della divisione del lavoro.

Abbiamo mostrato altresì che l'abolizione della divisione del lavoro è condizionata dall'esser giunto lo sviluppo delle relazioni e delle forze produttive a una tale universalità che la proprietà privata e la divisione del lavoro siano per esso un impedimento. Abbiamo mostrato inoltre che la proprietà privata può essere abolita soltanto a condizione che gli individui siano giunti a un grado di sviluppo universale, appunto perché le relazioni e le forze produttive da essi incontrate sono universali e possono appropriarsene, ossia farne una libera manifestazione della loro vita, solo individui che si sviluppano su un piano universale. Abbiamo mostrato che gli individui attuali debbono abolire la proprietà privata perché le forze produttive e le forme di relazioni si sono sviluppate al punto che sotto la dominazione della proprietà privata esse sono diventate forze distruttive, e perché l'antagonismo tra le classi è stato spinto all'estremo. Abbiamo mostrato infine che l'abolizione della proprietà pri-vata e della divisione del lavoro è essa stessa l'unione degli individui sulla base data dalle forze produttive e dal commercio mondiale attuali.

Nell'ambito della società comunista, l'unica società nella quale lo sviluppo originale e libero degli individui non è una frase, esso è condizionato appunto dalla connessione tra gli individui, connessione che consiste in parte nei presupposti economici, in parte nella necessaria solidarietà del libero sviluppo di tutti, e infine nel modo universale in cui gli individui manifestano la loro attività sulla base delle forze produttive esistenti. Qui si tratta dunque di individui a un grado determinato dello sviluppo storico, e niente affatto di individui qualsiasi e casuali, anche senza tener conto della necessaria rivoluzione comunista che è essa stessa una condizione comune del loro libero sviluppo.

9. 1847-1849: Marx
Lavoro e istruzione nella realtà e nell'utopia

Il primo passo del 1847 ha, negli appunti di Marx, il titolo di Salario (Arbeitslohn - W6, pp. 535-556), VI. Proposte di rimedi; il secondo passo è nel cap. I di Lavoro salariato e capitale (Lohnarbeit und Kapital, W8, pp. 397-423), rielaborato nel 1849.

Si tratta di due passi appartenenti a una serie di conferenze tenute da Marx, nel dicembre del 1847, all'Unione degli operai tedeschi di Bruxelles; il primo, relativo alle ultime conferenze, è rimasto allo stato di appunti, mentre il secondo, relativo alla prima conferenza, fu pubblicato il 1° aprile 1849, primo di una serie di cinque, sulla «Neue Rheinische Zeitung". Che gli articoli del 1849 non fossero «in realtà che la stampa delle conferenze da lui tenute nel 1847 nell'Associazione operaia di Bruxelles », è Marx stesso a scriverlo in una sua lettera a Engels del 3 giugno 1864 ( W.30, p. 403), in cui denuncia il plagio fattone da Lassalle e annuncia di volerli ripubblicare in appendice «al suo libro», cioè al Capitale. Riportiamo quest'ultimo particolare per sottolineare come Marx ritenesse valide queste sue posizioni anche nella sua età più matura.

L'importanza del primo passo è nella polemica, da una parte, contro l'illusione borghese e piccolo-borghese di poter correggere con l'istruzione l'effetto disumanizzante del lavoro di fabbrica, dall'altra contro l'utilitarismo di un'istruzione volta solo a disporre l'operaio alle variazioni del mercato del lavoro nell'interesse della fabbrica, prescindendo dalle esigenze generali umane. Si accenna, dunque, qui, a un tema anche oggi centrale, cioè alla differenza tra l'istruzione che si suole definire come «pluriprofessiona- le», semplice approccio a molteplici tecniche, e quella che si suole definire come «onnilaterale», basata sullo studio teorico dei principi generali delle scienze, oltre che sui dati della tecnologia.

Marx usa qui l'aggettivo allseitig, cioè lo stesso che noi traduciamo normalmente con «onnilaterale». Poiché, tuttavia, esso non ha qui il significato pregnante e positivo che assume altrove nei testi di Marx, abbiamo preferito renderlo col meno pregnante «universale ». Nel Capitale (cfr. Documento n. 15) Marx partirà proprio dalla critica, qui appena iniziata, del «vero significato» dell'istruzione pluriprofessionale dei borghesi, per porre dialetticamente l'esigenza dell'onnilateralità. Il secondo passo ci riporta al tema dell'alienazione.

Anche Engels, nella sua Prefazione del 30 aprile 1891 a una nuova edizione di Lavoro salariato e capitale ( W.22, p. 209) sottolineava la prospettiva di una società senza classi, nella quale «ad un uguale obbligo di lavoro corrisponderà una situazione in cui anche i mezzi per vivere, per godere la vita, per la educazione e lo sviluppo di tutte le facoltà fìsiche e spirituali saranno a disposizione di tutti, in modo uguale e in misura sempre crescente».

a) I filantropi e l'istruzione pluriprofessionale

W.6, pp. 545-546

2. Un'altra proposta prediletta dai borghesi è l'istruzione, specialmente l'istruzione professionale universale.

Noi non vogliamo richiamare l'attenzione sulla contraddizione risaputa che consiste nel fatto che l'industria moderna sostituisce sempre più il lavoro complesso col più semplice, per il quale non c'è bisogno d'istruzione; non vogliamo richiamare l'attenzione sul fatto che essa getta dietro la macchina sempre più bambini a partire dai sette anni e li riduce a fonti di guadagno non soltanto per la classe borghese ma anche per i loro genitori proletari. Il sistema di fabbrica vanifica le leggi scolastiche - esempio la Prussia; non vogliamo nemmeno richiamare l'attenzione sul fatto che la cultura spirituale, se l'operaio l'avesse, non influirebbe affatto in maniera diretta sul suo salario, che l'istruzione in generale dipende dalle condizioni di vita e che per educazione morale il borghese [intende] l'inculcamento di principi borghesi, e che infine la classe borghese né ha i mezzi, né, se li avesse, li adoprerebbe per offrire al popolo una vera istruzione.

Noi ci limitiamo soltanto a mettere in rilievo una considerazione puramente economica.

Il vero significato che l'istruzione ha presso gli economisti filantropici è questo: insegnare a ciascun operaio quante più branche di lavoro è possibile, in modo che, se per l'introduzione di nuove macchine o per una mutata divisione del lavoro egli viene espulso da una branca, possa trovare il più facilmente possibile sistemazione in un'altra.

Posto che ciò sia possibile:

La conseguenza ne sarebbe che, se in una branca di lavoro ci fosse esuberanza di manodopera, questa esuberanza avrebbe subito luogo in tutte le altre branche di lavoro, e l'abbassamento del salario in un mestiere si trarrebbe immediatamente dietro, anche più di prima, un abbassamento generale del salario.

E già senza di questo, in quanto l'industria moderna rende dappertutto molto più semplice e facile da apprendersi il lavoro, l'aumento del salario in una branca d'industria provocherà subito l'accorrere degli operai verso questa branca d'industria, e l'abbassamento dei salari assumerà più o meno immediatamente un carattere generale.

b) L'attività vitale come sacrificio della vita

Ivi, p. 400

La forza-lavoro è dunque una merce, che il suo possessore, il salariato, vende al capitale. Perché la vende? Per vivere. L'esercizio della forza-lavoro, il lavoro, è però l'attività vitale propria dell'operaio, è la manifestazione della sua propria vita. Ed egli vende ad un terzo questa attività vitale per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari.

La sua attività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua vita. Essa è una merce che egli ha aggiudicata a un terzo. Perciò anche il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l'oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario-, e seta e oro e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di sussistenza, forse in una giacca di cotone, in una moneta di rame e in un tugurio. E l'operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana, costruisce, scava, spacca le pietre, le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere, filare, trapanare, tornire, costruire, scavare, spaccar pietre per dodici ore come una manifestazione della sua vita, come vita? Al contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell'osteria, nel letto. Il significato delle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, trapanare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permette di andare a tavola, al banco della osteria, a letto.

10. 1848: Marx ed Engels
Critica dell'educazione borghese e programma comunista

Dal Manifesto del partito comunista o, come fu ristampato in seguito dai suoi autori, a partire dal 1872, Manifesto comunista, Cap. II, «Proletari e comunisti». (Vedi, per la sua origine, nota al Documento 9).

Le posizioni elaborate negli scritti precedenti vengono qui compendiate in una sintesi a cui la destinazione immediatamente politica nulla toglie del suo rigore scientifico. Il carattere sociale dell'educazione, e perciò la polemica contro la morale dominante, la necessità di una radicale rottura con le idee dominanti, in quanto espressione della classe borghese (motivo che era già nell'Ideologia tedesca, cfr. Documento 7c), e il rapporto istruzione-la- voro sono i motivi principali d'interesse pedagogico. In particolare, è da osservare come l'unificazione dell'istruzione con la produzione materiale sia posta in relazione con l'abolizione della «forma attuale» del lavoro di fabbrica dei fanciulli: si tratta di un punto essenziale, variamente sfumato, a cominciare dai Principi del comunismo di Engels fino agli scritti di Marx del 1866 e del 1875, contemporanei, cioè, alla stesura del Capitale.

E da ricordare, a proposito di questo manifesto di partito e in particolare dei suoi 10 punti programmatici, che nelle Rivendicazioni del Partito comunista in Germania, volantino a firma di K. Marx, K. Schapper, H. Bauer, F. Engels, J. Moll, W. Wolff, diffuso alla fine di marzo del 1848 ( W.5, p. 3), si parla semplicemente, al punto 13), di «separazione completa di stato e chiesa », e al punto 17) di «istruzione popolare generale e gratuita». La maggiore genericità e il carattere democratico-borghese di queste richieste sono conformi alla politica del partito proletario, quale è prevista per l'imminente crisi rivoluzionaria, nell'ultimo capitolo del Manifesto: politica di alleanza con tutte le forze rivoluzionarie.

a) L'educazione sociale dei fanciulli

W.4, pp. 477-478

Tutte le obiezioni, che si muovono al modo comunista di appropriazione e di produzione dei prodotti materiali, sono state estese anche alla appropriazione e produzione dei prodotti intellettuali. Come per il borghese la cessazione della proprietà di classe significa cessazione della produzione stessa, così cessazione della cultura di classe è per lui lo stesso che cessazione della cultura in genere.

La cultura di cui egli deplora la perdita è per la enorme maggioranza degli uomini il processo di trasformazione in macchina.

Ma non polemizzate con noi applicando all'abolizione della proprietà borghese le vostre concezioni borghesi della libertà, della cultura, del diritto, ecc. Le vostre idee sono anch'esse un prodotto dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, così come il vostro diritto non è che la volontà della vostra classe innalzata a legge, una volontà il cui contenuto è determinato dalle condizioni materiali di vita della vostra classe.

Questa concezione interessata, grazie alla quale voi trasformate i vostri rapporti di produzione e di proprietà, da rapporti storici come essi sono, che appaiono e scompaiono nel corso della produzione, in leggi eterne della natura e della ragione, questa concezione voi l'avete in comune con tutte le classi dominanti scomparse. Ciò che voi comprendete quando si tratta della proprietà antica, ciò che voi comprendete quando si tratta della proprietà feudale, voi non potete più comprenderlo quando si tratta della proprietà borghese.

Abolizione della famiglia! Persino i più avanzati fra i radicali si scandalizzano di così ignominiosa intenzione dei comunisti.

Su che cosa si basa la famiglia odierna, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Nel suo pieno sviluppo la famiglia odierna esiste soltanto per la borghesia; ma essa trova il suo complemento nella forzata mancanza di famiglia dei proletari e nella prostituzione pubblica.

La famiglia del borghese cadrà naturalmente col venir meno di questo suo complemento, e ambedue scompariranno con lo sparire del capitale.

Ci rimproverate voi di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei loro genitori? Noi questo delitto lo confessiamo.

Ma voi dite che sostituendo l'educazione sociale all'educazione domestica noi sopprimiamo i legami più intimi.

Ma non è anche la vostra educazione determinata dalla società, dai rapporti sociali entro i quali voi educate, dall'intervento più o meno diretto o indiretto della società per mezzo della scuola, ecc.? Non sono i comunisti che inventano l'influenza della società sulla educazione; essi ne cambiano soltanto il carattere; essi strappano l'educazione all'influenza della classe dominante.

Le declamazioni borghesi sulla famiglia e sull'educazione, sugli intimi rapporti tra i genitori e i figli diventano tanto più nauseanti, quanto più, in conseguenza della grande industria, viene spezzato per i proletari ogni legame di famiglia, e i fanciulli vengono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro.

b) Le idee dominanti sono le idee della classe dominante

Ivi, pp. 479-481

Le accuse che vengono mosse contro il comunismo partendo da considerazioni religiose, filosofiche e ideologiche in generale, non meritano d'essere più ampiamente esaminate.

Ci vuole forse una profonda perspicacia per comprendere che, cambiando le condizioni di vita degli uomini, i loro rapporti sociali e la loro esistenza sociale, cambiano anche le loro concezioni, i loro modi di vedere e le loro idee, in una parola, cambia anche la loro coscienza?

Che cos'altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione spirituale si trasforma insieme con quella materiale? Le idee dominanti di un'epoca furono sempre soltanto le idee della classe dominante.

Si parla di idee che rivoluzionano tutta una società; con ciò si esprime soltanto il fatto che in seno alla vecchia società si sono formati gli elementi di una società nuova, che con la dissoluzione dei vecchi rapporti di esistenza procede di pari passo la dissoluzione delle vecchie idee.

Quando il mondo antico stava per tramontare, le vecchie religioni furono vinte dalla religione cristiana. Quando nel secolo XVIII le idee cristiane soggiacquero alle idee dell'illuminismo, la società feudale stava combattendo la sua lotta suprema con la borghesia, allora rivoluzionaria. Le idee di libertà di coscienza e di religione non furono altro che l'espressione del dominio della libera concorrenza nel campo della coscienza.

«Ma - si dirà - non c'è dubbio che le idee religiose, morali, filosofiche, politiche, giuridiche, ecc., si sono modificate nel corso della evoluzione storica; la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto però si mantennero sempre attraverso tutti questi mutamenti.

Ci sono, inoltre, verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc., che sono comuni a tutte le situazioni sociali. Il comunismo, invece, abolisce le verità eterne, abolisce la religione, la morale, in luogo di dar loro una forma nuova, e con ciò contraddice a tutta l'evoluzione storica verificatasi finora».

A che cosa si riduce questa accusa? La storia di tutta la società si è svolta sinora attraverso antagonismi di classe, che nelle diverse epoche assunsero forme diverse.

Ma qualunque forma abbiano assunto tali antagonismi, lo sfruttamento di una parte della società per opera di un'altra è un fatto comune a tutti i secoli passati. Nessuna meraviglia, quindi, che la coscienza sociale di tutti i secoli, malgrado tutte le varietà e diversità, si muova in certe forme comuni, in forme di coscienza che si dissolvono completamente soltanto con la completa sparizione dell'antagonismo delle classi.

La rivoluzione comunista è la più radicale rottura coi rapporti di proprietà tradizionali; nessuna meraviglia, quindi se nel corso del suo sviluppo avviene la rottura più radicale con le idee tradizionali.

Ma lasciamo stare le obiezioni della borghesia contro il comunismo.

c) Unità di istruzione e di produzione materiale

Ivi, pp. 481-482

Abbiamo già visto sopra come il primo passo nella rivoluzione operaia sia l'elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia.

Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive.

Naturalmente sulle prime tutto ciò non può accadere, se non per via di interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di Produzione, vale a dire con misure che appaiono economicamente insufficienti e insostenibili, ma che nel corso del movimento sorpassano se stesse e spingono in avanti, e sono inevitabili come mezzi per rivoluzione l'intero modo di produzione.

Com'è naturale, queste misure saranno diverse secondo i diversi paesi.

Per i paesi più progrediti, però, potranno quasi generalmente essere applicate le seguenti:

1) espropriazione della proprietà fondiaria e impiego della rendita fondiaria per le spese dello stato;

2) imposta fortemente progressiva;

3) abolizione del diritto di eredità;

4) confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli;

5) accentramento del credito nelle mani dello stato per mezzo di una banca nazionale con capitale di stato e con monopolio esclusivo;

6)  accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello stato;

7)  aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano comune;

8)  eguale obbligo di lavoro per tutti, istituzione di eserciti industriali, specialmente per l'agricoltura;

9)  unificazione dell'esercizio dell'agricoltura e di quella della industria, misure atte ad eliminare gradualmente l'antagonismo tra città e campagna;

10) educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Unificazione dell'istruzione con la produzione materiale, ecc.

Quando, nel corso dell'evoluzione, le differenze di classe saranno sparite e tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il carattere politico. Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l'oppressione di un'altra. Se il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e, come tale, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso abolisce, insieme con questi rapporti di produzione, anche le condizioni di esistenza dell'antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe.

Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe subentra un'associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti.

[...]

Saggio critico: la “pedagogia marxista” (pp.187-264)

1. Istruzione e lavoro

Esiste una pedagogia marxiana? O, in altri termini, è possibile individuare all'interno del pensiero di Marx ‑ della sua analisi, interpretazione e prospettiva di trasformazione del reale ‑. una indicazione diretta per impostare una tematica pedagogica distinta dalle pedagogie del suo e del nostro tempo?

Non è una domanda retorica od oziosa. E accaduto infatti che, in tempi fra loro distanti e con differenti motivazioni, le si sia risposto in modo negativo, nonostante l'indubbia presenza di pagine dedicate ai problemi dell'istruzione tra gli scritti di Marx. Basti ricordare, a titolo di esempio, quanto accadde di dire, nell'ottobre 1920, a O.Iu. Schmidt, durante le discussioni che si svolgevano allora nella Russia sovietica sull'impostazione della nuova scuola socialista, e cioè che «sì, in Marx si trova una frase secondo cui l'istruzione professionale deve cedere il posto all'istruzione politecnica; ma se supponiamo che in questo problema per lui secondario Marx si è sbagliato, non per questo diminuirà la sua aureola o la nostra ammirazione per lui».

Dove, a parte l'ineccepibile rifiuto del dogmatismo, tuttavia la riduzione di questa tematica in Marx a "una frase", e la valutazione di questa "frase" come un accidentale errore sono, in realtà, soltanto un infortunio dello Schmidt, a smentire il quale basterebbero le centinaia di pagine in cui quella tesi pedagogica esplicitamente o implicitamente si motiva, e che sono state in seguito raccolte e studiate da molti autori. Ma più sottili e di maggior peso appaiono altre obiezioni, quale, ad esempio quella che è stata mossa in sede teorica all'ipotesi stessa di una "pedagogia" marxiana da parte di un giovane filosofo esperto dei testi di Marx, Armando Plebe, per il quale Marx, che di fronte alla Filosofia della miseria di Proudhon scrisse la Miseria della filosofia, «avrebbe tenuto un analogo atteggiamento di fronte al problema pedagogico»; poiché «come la filosofia della miseria mostra solo la miseria della filosofia, così la filosofia dell'alienazione mostra solo l'inutilità di una pedagogia astratta»

Ed effettivamente, presentandosi il marxismo in generale come distruzione di ogni filosofia, non lo si può certo ridurre a filosofia astratta; ché questo vorrebbe dire degradare il marxismo a "ideologia", nel duplice senso che Marx dava a questa parola, cioè come l'atteggiamento mentale che sorge in una società divisa in classi, nella quale l'attivi spirituale si trova separata dall'attività materiale, e come l'illusione, che ne deriva, di concepire realmente qualcosa senza concepire alcunché di reale, o la pretesa, insomma, di mettere alla realtà le brache delle proprie escogitazioni. Per Marx, si sa, il comunismo non è un ideale al quale la realtà debba conformarsi, bensì «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente»: nessuna pedagogia astratta, dunque, in lui. Ma esclude ciò, forse, che si possa dare una teoria marxiana della persona e soprattutto, un'analisi marxiana della realtà pedagogica e delle sue contraddizioni, come aspetto di quell'analisi del reale da lui condotta a fondo sull'economia come "anatomia della società civile"? che, insomma, se non di una pedagogia marxiana, si possa almeno parlare di una dimensione pedagogica del marxismo?

Un'indagine filologicamente attenta alle formulazioni esplicite di una critica e di una prospettiva pedagogica negli scritti di Marx e in quelli di Engels, che ne sono assolutamente inseparabili ‑ rivela anzitutto l'esistenza di testi esplicitamente pedagogici, che, non numerosi certo, tuttavia acquistano straordinario rilievo dalla duplice circostanza di riproporsi coerentemente a distanza dì tempo durante un periodo di trent'anni ed oltre, e di coincidere con momenti cruciali non soltanto della sua ricerca, ma anche della storia del movimento operaio. Ciò avviene precisamente in occasione della stesura di tre programmi politici:

a) per il primo movimento storico che assunse il nome di Partito comunista, alla vigilia della rivoluzione del 1848;

b) per la I Associazione internazionale dei lavoratori, nel 1866;

c) per il primo partito operaio unitario in Germania, nel 1875. Trent'anni quasi di tempo, tre occasioni politiche determinanti: il che basta a far considerare quei brevi enunciati come il risultato consapevole e quasi la quintessenza di una più vasta ricerca, e costringe a cercarne le radici in altri testi, pedagogicamente meno espliciti, nei quali tuttavia si fonda una dottrina della persona, che è tutt'uno con la prospettiva dell'emancipazione dell'uomo e della società.

1. 1847‑48: I Principi del comunismo e il Manifesto

Cronologicamente i primi testi da prendere in esame sono anzitutto i Principi del comunismo, prima stesura redatta in forma catechistica da Engels nel novembre del 1847 di quello che doveva essere il Manifesto del Partito comunista, e quindi il testo definitivo di questo manifesto, redatto da Marx entro il gennaio del 1848. (Come vedremo, bisognerà tener presenti anche alcuni appunti, scritti, con altra destinazione, proprio nei pochi giorni che trascorsero tra l'una e l'altra redazione dei due testi principali).

Nel paragrafo 18 dei suoi Principi, Engels, dopo aver affermato, in risposta alla domanda sul prevedibile svolgimento della rivoluzione comunista, che il primo passo sarà l'instaurazione di una «costituzione democratica», cioè di un nuovo potere politico che dovrà consentire l'adozione di misure immediate volte a intaccare direttamente la proprietà privata e garantire l'esistenza del proletariato, elenca come ottava fra queste misure la seguente:

«Istruzione di tutti i fanciulli, a cominciare dal primo momento in cui possono fare a meno delle cure materne, in istituti nazionali e a spese della nazione. Istruzione e lavoro di fabbrica [Fabrikation] insieme».

Queste proposte come si vede, contengono e assorbono anzitutto tradizionali richieste di carattere illuministico‑giacobino o, come si può dire, genericamente democratico, relative all'universalità e alla gratuità dell'istruzione. Ad esse, tuttavia, si aggiunge una precisazione («in istituti nazionali») che, almeno in quanto può lasciar supporre forme e collettive, oltre che di istruzione, anche di vita infantile, ha almeno un certo sapore socialista. Ma tipicamente socialista è qui quella unione istruzione e lavoro di fabbrica (se esattamente così va inteso ‑ come pare ‑ l'anglicismo o francesismo «Fabrikation»), che Engels, del resto non inventa, ma trova già predicata e attuata dagli utopisti, e in particolare da Robert Owen. Naturalmente, sono indicati qui due momenti del processo educativo, in cui a quello che ha inizio appena i bambini possono fare a meno delle cure materne, segue quello associato al lavoro. Vale poi la pena di osservare che, sebbene Engels reclami questa politica scolastica tra le misure atte a «garantire l'esistenza del proletariato, in tutte le sue determinazioni, e cioè non soltanto quelle democratiche relative alla universalità e alla gratuità dell'istruzione, ma anche quelle Socialiste, relative all'unione di istruzione e lavoro, sono destinate a «tutti» i fanciulli e non soltanto ai figli dei proletari. Se ne può quindi dedurre che si tratta di misure che sono, sì, immediate, ma anche di prospettiva, tali, in altre parole, da costituire una indicazione pedagogica non contingente e limitata; ma permanente e di validità universale. Non per nulla Marx aveva indicato nell'emancipazione del proletariati l'emancipazione generale umana.

Ma occorrerà leggere altre pagine dei Principi engelsiani per cogliere le motivazioni di questa scelta. Nel paragrafo 20, rispondendo alla domanda sulle conseguenze dell'abolizione della proprietà privata e cioè sul tema centrale della prospettiva comunista, Engels sviluppa anzitutto un ragionamento che può così riassumersi: 1) la grande industria, e con essa l'agricoltura, liberata dalla pressione della proprietà privata, si svilupperà enormemente, mettendo a disposizione della società una massa di prodotti sufficiente a soddisfare i bisogni di tutti; 2) ciò renderà «superflua e impossibile» la divisione della società in classi, nata dalla divisione del lavoro, poiché, per sviluppare industria e agricoltura, occorreranno non più uomini subordinati a un unico ramo della produzione, che abbiano sviluppato una sola delle loro attitudini, bensì uomini nuovi, che sviluppino le loro attitudini in tutti i sensi. Quindi egli prosegue:

«La divisione del lavoro, già ora minata dalle macchine, la quale fa di uno un contadino, dell'altro un calzolaio, di un terzo un operaio di fabbrica, di un quarto una speculatore in borsa, scomparirà dunque del tutto».

«L'istruzione potrà far seguire ai giovani l'intero sistema della produzione, li metterà in grado di passare a turno dall'uno all'altro ramo della produzione, secondo i motivi offerti dai bisogni della società o dalle loro proprie inclinazioni. Toglierà ai giovani il carattere unilaterale impresso in ogni individuo dall'attuale divisione del lavoro. A questo modo la società organizzata comunisticamente offrirà ai suoi membri l'occasione di applicare onnilateralmente le loro attitudini sviluppate onnilateralmente».

Infine egli conclude citando tra i risultati principali dell'abolizione della proprietà privata, accanto all'estensione della produzione, alla cessazione dello sfruttamento e alla distruzione delle classi, anche «lo sviluppo onnilaterale delle capacità di tutti i membri della società, mediante l'eliminazione della divisione del lavoro esistente finora, mediante l'istruzione industriale [industrielle], mediante l'alternarsi delle attività...».

Sono contenute qui, sia pure in un contesto fortemente venato di riformismo e di utopismo, su cui possiamo ora sorvolare, alcune implicazioni pedagogiche fondamentali, che vale la pena di mettere in evidenza. L'istruzione, in quanto istruzione «industriale», cioè unione di istruzione e lavoro produttivo o «Fabrikation», avendo come suo metodo un tirocinio svolto sull'intero sistema della produzione, perseguirà il fine educativo di togliere ai giovani ogni unilateralità e di svilupparli onnilateralmente, col risultato pratico di renderli disponibili ad alternare le loro attività non solo in corrispondenza con le esigenze della società, ma anche con le loro personali inclinazioni. Alle origini di questa scelta pedagogica sta l'ipotesi storica della divisione del lavoro e della conseguente divisione non soltanto della società in classi ma anche dell'uomo in se stesso, chiuso com'è ciascuno nella propria unilateralità; sta altresì l'esigenza del ricupero della unità della società umana nel suo complesso e della onnilateralità dell'uomo singolo, in una prospettiva che unisce, sia pure con un solo rapido accenno, fini individuali e fini sociali, uomo e società.

Questi Principi engelsiani, abbiamo detto, sono del novembre del 1847 e preparano il Manifesto, scritto tra il dicembre successivo e il gennaio del 1848. Marx, che si incontrò con Engels a Londra dal 29 novembre all'8 dicembre al II Congresso della Lega dei comunisti (dove ebbe l'incarico definitivo della redazione del Manifesto), ne ricevette sicuramente il testo dei Principi e si trattenne qualche giorno con lui per discutere la sua proposta di trasformarli da «catechismo» in «manifesto». Ma nel breve tempo intercorrente tra questa sua presa di coscenza del testo engelsiano e la redazione definitiva del Manifesto, e cioè nella seconda metà dello stesso dicembre, Marx teneva all'Unione degli operai tedeschi di Bruxelles una serie di conferenze, il cui testo fu da lui, solo parzialmente però, pubblicato due anni dopo col titolo ben noto Lavoro salariato e capitale.

Negli appunti per una delle ultime di queste conferenze (W6, p. 545) (rimasti allora inediti e che, trovati in una cartella con l'indicazione autografa «Dicembre 1847», furono pubblicati postumi soltanto nel 1925), egli svolge una tesi che appare in singolare contrasto con quella engelsiana sulla «istruzione industriale», di cui sottolinea il carattere utopistico e riformistico:

«Un'altra proposta prediletta dai borghesi è l'istruzione, in particolare l'istruzione industriale [industrielle] universale...

«Il vero significato che l'istruzione ha presso gli economisti filantropici è questo: addestrare ciascun operaio in quante più branche di lavoro è possibile, in modo che, se per l'introduzione di nuove macchine per una mutata divisione del lavoro egli viene espulso da una branca possa trovare il più facilmente possibile sistemazione in un'altra».

Se le date sono quelle che abbiamo detto, Marx smentisce qui direttamente il carattere socialista di quell'istruzione industriale universale nella quale Engels vedeva un mezzo per superare la divisione della società in classi e l'unilateralità dell'uomo. E’ vero che si potrebbe anche supporre che Marx avesse scritto già da tempo questi suoi appunti, destinati alle conferenze del dicembre 1847 e perciò etichettati poi con questa data nella sua cartella, e che, convinto poi dalla tesi di Engels, Ii abbia messi da parte senza più rielaborarli o pubblicarli. Ma, a parte il fatto della strana coincidenza per cui i due amici avrebbero, all'insaputa l'uno dell'altro, affrontato nello stesso tempo la stessa tematica cogli stessi termini ma con soluzioni opposte, non si può documentare che intervenissero per il momento dubbi su quelle sue tesi da parte di Marx ed è anzi certo che l'interruzione, nel 1849, della pubblicazione di Lavoro salariato e capitale fu dovuta soltanto a difficoltà oggettive di natura politica. Sta di fatto che, accingendosi a scrivere in quello stesso giro di giorni la redazione definitiva del Manifesto, Marx non accolse né confutò, ma semplicemente accantonò l'impostazione engelsiana per la parte contenuta nel paragrafo 20 (pluriprofessionalità), mentre tenne conto chiaramente dei brevi enunciati contenuti nel paragrafo 18 (legame istruzione‑lavoro).

Nel Manifesto (W4, cap. 11, P: 481), infatti, e trascurando anche qui alcune altre indicazioni pedagogiche pur assai interessanti, come l'aggressiva polemica contro ipotetici interlocutori borghesi sul tema della influenza della società nell'istruzione, Marx formula quasi con le stesse parole del paragrafo 18 dei Principi engelsiani la sua tesi sull'istruzione. Nell'elenco delle misure immediate che il proletariato prenderà dopo il primo passo, cioè dopo la conquista della democrazia, come misure ancora insufficienti e insostenibili, ma tuttavia inevitabili per rivoluzionare l'intero modo di produzione (e si confronti per tutto questo contesto il discorso di Engels sulla «costituzione democratica» ecc.), egli cita come ultima (decima) misura la seguente:

«Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro in fabbrica dei fanciulli nella sua forma odierna. Unificazione dell'istruzione con la produzione materiale [mit der materiellen Produktion]».

Pubblicità, gratuità, istruzione più lavoro: la coincidenza dei due testi, o piuttosto, la sostanziale dipendenza del testo di Marx del gennaio 1848 dalla bozza di Engels del novembre 1847 è cosa che salta agli occhi. Eppure non mancano differenze che inducono a riflettere. Certo, il testo di Marx è anzitutto una formulazione più rapida e adatta a un programma di partito: la formula «in istituti nazionali e a spese della nazione» diventa, più concisamente, «pubblica e gratuita»; scompare l'accenno, superfluo in quanto indeterminato, all'età in cui cominciare l'istruzione, e con ciò anche la distinzione tra un possibile momento dell'istruzione avulso dal lavoro e un momento ad esso collegato; nell'enunciato finale l'anglicismo (o francesismo) di Engels, Fabrikation è sostituita dal più tedesco (nonostante l'etimo ugualmente latino) materielle Produktion (ed è difficile dire se e quanto ciò implichi anche una diversa sfumatura di significato). Ma, soprattutto, nel testo di Marx c'è una aggiunta clamorosa: la richiesta di abolizione della forma attuale del lavoro di fabbrica dei fanciulli. Una «dimenticanza» di Engels? Certo, ma motivata dalla sua utopistica fede nell'automatismo dell'efficacia trasformatrice del sistema moderno della produzione. E non sarà da vedere in questa aggiunta di Marx la implicita prosecuzione della sua polemica contro l'istruzione «industriale», proposta prediletta dei borghesi? Si comprende comunque che, chiesta l'abolizione del lavoro di fabbrica dei fanciulli, sia pure soltanto «nella sua forma odierna», Marx preferisca evitare nello stesso contesto l'uso della espressione industrielle che, senza quella abolizione, non rappresenta un'ipotesi positiva. Pare comunque si possa dire che Marx, nell'accettare il principio dell'unione dell'istruzione col lavoro materiale produttivo, esclude tutta ogni istruzione svolta nella fabbrica capitalistica così come essa è, perché per lui la fabbrica non è un sistema che elimina la divisione del lavoro, ma anzi un sistema a cui unicamente l'intervento politico, non riassumibile nelle sole misure immediate e «insufficenti», abolendo aspetti più alienanti, può assegnare una funzione liberatrice.

A questo punto, conclusa questa breve analisi filologica dei primi testi espliciti sull'istruzione, conviene soffermarsi un momento per cercare di collocare nello svolgimento del pensiero di Marx ed Engels queste tesi pedagogica e le sue motivazioni, cioè la necessita di eliminare proprietà privata, divisione del lavoro, sfruttamento e unilateralità dell'uomo, per pervenire a un pieno sviluppo delle forze produttive e al ricupero della onnilateralità.

Questi motivi compaiono in Marx ed Engels sin dal primo momento in cui essi iniziano lo studio dell'economia politica. Li ritroviamo, infatti, già in quel primo «geniale abbozzo» di Engels, che sono gli Umrisse einer Kritik der politischen Okonomie. Lineamenti di una critica de l'economia politica (WI, p. 520), scritti tra la fine del 1843 e il gennaio del 1844, nei quali tuttavia, per usare un'espressione marxiana dei Manoscritti del 1844 (rivolta però a Bruno Bauer e a Stirner), Engels «resti almeno virtualmente del tutto involto nella logica hegeliana» (W3, p 568). Lì, applicando per la prima volta alla critica dell'economia politica il metodo della dialettica hegeliana, egli pone il tema della proprietà privata e della divisione del lavoro come causa di degradazione dell'uomo, osservando tra l'altro che l'operaio, limitato a una particolarissima abilità e impossibilitato a passare da un'occupazione a un'altra più moderna, «può vivere soltanto se può essere addetto a una particolare macchina per un particolare lavoro».

Marx sviluppa poi questo motivo della divisione del lavoro e della proprietà privata («due espressioni identiche», come dirà poi) nel Cap. III, Proprietà privata e comunismo, dei Manoscritti econornico‑filosoflci del 1844 (EB], pp. 465‑588), vera fondazione di tutta la sua ulteriore ricerca.

La constatazione che la divisione del lavoro «scema la capacità di ogni uomo individualmente preso» e comporta «l'indebolimento e l'impoverimento dell'attività individuale», anche Marx la trova negli economisti, ma sua è la definizione storico‑dialettica della divisione del lavoro come nient'altro che «l'espressione economica della socialità del lavoro nella condizione storica dell'alienazione», cioè della proprietà privata. Riprendendo quindi da Engels il leit‑motjv della irrisione verso gli economisti, che concepiscono come eterno ciò che è un risultato storico e ne ricercano perciò le motivazioni in un ipotetico stato originario fuori della storia, egli dichiara di voler partire dal fatto «economico, attuale» della alienazione dell'operaio nel prodotto del suo lavoro, che è anche alienazione nel processo stesso del lavoro e alienazione dell'uomo dall'uomo e dalla natura umana. Da questa condizione storica del lavoro «alienato», in cui l'attività vitale umana, degradata da fine a mezzo, da manifestazione di sé ad attività completamente estranea a se stessa, nega l'uomo stesso, discende una condizione di «immoralità, mostruosità, ilotismo degli operai e dei capitalisti», poiché ciò che nell'uno è «attività di alienazione», è «stato di alienazione» nell'altro, e una «inumana potenza» domina l'uno e l'altro. Ecco l'uomo unilaterale, frutto della divisione del lavoro, che apparirà poi nel testo engelsiano del 1847. Ma Marx, muovendo da questa analisi della minorazione dell'uomo, estende la sua critica a Hegel, del quale, pur giudicando positivo il suo concepire l'uomo come prodotto del proprio lavoro, critica però la dialettica astratta e mistificata.

Hegel, infatti, in quanto vede solo l'aspetto positivo del lavoro, resta al punto dell'economia politica ma in quanto considera l'alienazione soltanto come alienazione (= manifestazione) del pensiero astratto, riduce a un'astrazione l'intero movimento storico, cioè l'alienazione e il suo ricupero. Per Marx, invece, si tratta di superare l'alienazione concreta, la separazione tra lavoro e manifestazione di sé, prodottasi storicamente con la divisione del lavoro. Più tardi egli dirà che la vera divisione del lavoro si presenta come divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, e che nella fabbrica meccanica il lavoro manuale perde ogni carattere di specializzazione, ma che tutta proprio in quanto cessa così ogni sviluppo speciale, si fa sentire la tendenza allo sviluppo onnilaterale dell'individuo. Per questo, però, è necessaria «la appropriazione da parte degli individui di una totalità di forze produttive». Siamo, evidentemente, nella stessa tematica sviluppata da Engels nel 1847: Marx, fondando la sua ricerca, che doveva poi sfociare nel Capitale, poneva nello stesso tempo le basi per quella prospettiva dell'educazione che Engels per primo renderà esplicita. Nella stessa resa dei conti con lo hegelismo, dunque, e nel primo diretto confronto con l'economia politica classica (e «volgare»), sono da ricercare le fonti, che qui abbiamo appena accennato, dei motivi pedagogici marxiani.

2. 1866‑67: Le Istruzioni ai delegati e il Capitale

Questa «grande idea fondamentale» ‑ come dirà Lenin ‑ dell'unione dell'istruzione col lavoro produttivo, assunta ormai come parte integrante di un programma comunista subito sottolineato dallo scoppio della rivoluzione (che, se non agevolò la diffusione del Manifesto, doveva però fare dello «spettro» comunista una vitalissima realtà del mondo moderno), sarà ormai un punto fermo della pedagogia marxista. Circa vent'anni dopo essa sarà non solo accolta, ma anche arricchita e argomentata con più profonda conoscenza della realtà economico‑sociale in un altro documento politico fondamentale: le Istruzioni che, all'inizio del settembre del 1866, Marx rilascerà ai delegati del Comitato provvisorio londinese al I Congresso dell'Associazione internazionale dei lavoratori, a Ginevra. E queste Istruzioni sono, come vedremo, indissociabili dalla contemporanea elaborazione del Capitale.

In esse Marx definiva progressiva e giusta, nonostante il modo orribile in cui viene attuata, la tendenza dell'industria moderna a far collaborare nella produzione fanciulli e adolescenti dei due sessi, e ribadita la tesi che a partire dai nove anni ogni fanciullo deve diventare un operaio produttivo e ogni adulto deve, secondo la legge generale della natura, «lavorare non soltanto col cervello, ma anche con le mani», propone di suddividere i fanciulli, ai fini del lavoro, in tre classi o gruppi ‑ dai 9 ai 12, dai 13 ai 15 e dai 16 ai 17 anni ‑ con orari giornalieri rispettivamente di 2, 4 e 6 ore. Quindi, dopo avere aggiunto che l'istruzione può cominciare prima del lavoro, ma che per il momento si tratta di fissare le misure assolutamente necessarie, riprende il tema ‑ che abbiamo già incontrato nel due testi del 1847‑48 ‑ del potere politico democratico che deve servire ai fini immediati del socialismo («ciò si può ottenere soltanto trasformando la ragione sociale in potere politico.., non possiamo farlo con nessun altro metodo se non mediante leggi imposte con la forza dello Stato»). Infine il suo discorso trapassa per la prima volta in una vera e propria definizione del contenuto pedagogico dell'istruzione socialista:

«Per istruzione noi intendiamo tre cose:

Prima: istruzione intellettuale (geistige Erziehung ‑ Bildung),

Seconda: educazione fisica (körperliche Erziehung ‑ Ausbildun

quale viene impartita nelle scuole di ginnastica e attraverso gli esercizi militari,

Terza: formazione politecnica (politechinische Ausbildung ‑ Erzihung), che trasmetta i fondamenti scientifici generali di tutti i processi produzione, e che contemporaneamente introduca il fanciullo e l'adolescente nell'uso pratico e nella capacità di maneggiare gli strumenti elementari di tutti i mestieri.

Con la suddivisione dei fanciulli e degli adolescenti dai 9 ai 17 a in tre classi, dovrebbe essere collegato un programma graduale e progressivo d'istruzione intellettuale, ginnica e tecnologica...

L'unione di lavoro produttivo remunerato, istruzione intellettuale, esercizio fisico e addestramento politecnico innalzerà la classe operai al di sopra delle classi superiori e medie».

Per la sua sostanza questo documento è immediatamente rapportabile al Manifesto, del quale, sorvolando sugli elementi meramente democratici dell'istruzione (gratuità e obbligatorietà), rende più espliciti gli elementi socialisti: abolizione della forma odierna del lavoro di fabbrica dei fanciulli, e unione dei due termini inscindibili, istruzione e lavoro produttivo. Quanto ai tre momenti in cui Marx articola l'istruzione ‑ intellettuale, fisica, politecnica ‑ lasciando qui da parte l'educazione fisica (non certo secondaria in un sistema che "spezza" e "storpia" fisicamente l'operaio, oltre che abbrutirlo spiritualmente), si deve osservare anzitutto che gli altri due momenti sono considerati, appunto, come due cose diverse: l'istruzione politecnica non assorbe, non sostituisce la formazione intellettuale. Quest'ultima, d'altronde, non trova specificazioni in questo contesto, evidentemente come cosa che può, in un certo senso, essere concepita più o meno secondo moduli tradizionali; mentre l'istruzione politecnica viene specificata, con l'indicazione del suo aspetto teorico (non tuttavia sostitutivo di ogni formazione intellettuale) e di quello pratico, l'uno e l'altro volti ad abbracciare, onnilateralmente, i fondamenti scientifici di tutti i processi di produzione e gli aspetti pratici di tutti i mestieri. La preoccupazione engelsiana, del 1847, di far seguire ai giovani "l'intero sistema della produzione" è dunque ripresa con tutto quello che ciò comporta relativamente alla liberazione dell'uomo dall'asservimento a un solo ramo della produzione, e così via.

Ma importa soprattutto notare che, nonostante il carattere immediato che anche qui si assegna a queste misure, e nonostante il fatto che nel discorso che introduce queste tesi si abbia di mira l'interesse della classe operaia, tuttavia questa istruzione è detta valida per tutti i fanciulli, a qualsiasi classe appartengano (ogni fanciullo senza distinzione, scrive e sottolinea Marx), e la sua validità universale è confermata dalla esplicita affermazione finale, che essa innalzerà la classe operaia (ma, dato che è per tutti, si può intendere la futura umanità lavoratrice) al di sopra delle classi privilegiate del mondo odierno.

Alla lettura di questo testo dobbiamo immediatamente associare quella di un altro testo fondamentale di Marx, il Capitale; e anche qui sarebbe assai utile poter determinare con esattezza quale dei due testi sia stato scritto prima e quale dopo, o piuttosto in che modo essi si siano intrecciati e sovrapposti.

Il Capitale non ha certo la destinazione immediatamente programmatica dei testi finora esaminati: ma le pagine sull'istruzione in esso contenute si avvicinano grandemente alle precedenti e si concludono anch'esse, se non con un vero e proprio programma, tuttavia con un auspicio e una previsione di lotta, il cui tono non è davvero lontano da quello di un programma.

Dopo aver ricordato le clausole sull'istruzione della legislazione inglese sulle fabbriche, che prevedono l'istruzione elementare come condizione obbligatoria per l'assunzione di fanciulli al lavoro, Marx commenta:

«Il loro successo dimostrò per la prima volta la possibilità di collegare l'istruzione e la ginnastica col lavoro manuale, e quindi anche il lavoro manuale con l'istruzione e la ginnastica... Dal sistema della fabbrica, come si può seguire nei particolari negli scritti di Robert Owen, è nato il germe dell'istruzione dell'avvenire, che collegherà per tutti bambini oltre una certa età il lavoro produttivo con l'istruzione e la ginnastica, non solo come metodo per aumentare la produzione sociale, ma anche come unico metodo per produrre uomini pienamente sviluppati».

La base tecnica della grande industria, continua Marx, a differenza di quelle dell'artigianato e della manifattura che l'hanno preceduta, è una base rivoluzionaria, cioè "la modernissima scienza della tecnologia", la quale elabora e accantona con uguale rapidità le forme dei processi di produzione, causando variazione nel lavoro e quindi mobilità, cioè necessità di spostamenti, dell'operaio. Questa continua variazione si somma con la divisione del lavoro che la fabbrica ha ereditato, esasperandola, dai modi di produzione precedenti; onde l'operaio, reso sempre più parziale, diventa sempre più superfluo ad ogni variare della base tecnica, della produzione, ed è esposto a perdere col vecchio mezzo di lavoro anche ogni possibilità di lavoro e di vita (si pensi agli Umrisse einer Kritik der Nationalòkonomje di Engels del 1843). Tanto più, dunque, si fa sentire, dice Marx, insieme col riconoscimento della variazione del lavoro, l'esigenza della versatilità dell'operaio, la necessità di sostituire a una miserabile popolazione operaia ("unilaterale") tenuta di riserva per far fronte alle variazioni del lavoro, la disponibilità assoluta dell'uomo ("onnilaterale"). E Marx conclude:

«Un elemento di questo processo di sovvertimento, sviluppatosi spontaneamente sulla base della grande industria, sono le scuole politecniche e agronomiche, un altro elemento sono le "écoles d 'enseignemeni professionnel", nelle quali i figli degli operai ricevono qualche istruzione in tecnologia e nel maneggio pratico dei differenti strumenti di produzione. Se la legislazione sulle fabbriche, che è la prima concessione strappata a gran fatica al capitale, combina col lavoro di fabbrica soltanto l'istruzione elementare, non c'è dubbio che l'inevitabile conquista del potere politico da parte della classe operaia conquisterà anche all'istruzione tecnologica teorica e pratica il suo posto nelle scuole degli operai».

La sostanziale coincidenza dei due testi ‑ Istruzioni e Capitale ‑ è evidente. Comincia dalla questione del potere politico, come condizione per l'attuazione della scuola dell'avvenire: la trasformazione della ragione sociale in potere politico e le leggi generali imposte con la forza dello Stato, delle Istruzioni, divengono nel Capitale l'inevitabile conquista del potere politico da parte della classe operaia (vale la pena di richiamare ai due testi, di Engels e di Marx, del 1847‑48, dove la questione era posta praticamente negli stessi termini). Non dissimile è anche la definizione dell'istruzione "politecnica" nelle Istruzioni e "tecnologica" nel Capitale: il che tuttavia lascia aperta la discussione sull'uso dei due termini, non propriamente identici.

I fondamenti scientifici generali di tutti i processi di produzione (Istruzioni), divengono la "modernissima scienza della tecnologia" (Capitale) grazie alla quale «le policrome configurazioni del processo di produzione, apparentemente prive di nesso reciproco e stereotipe, si scomposero in applicazioni delle scienze naturali, consapevolmente pianificate», e si scoprirono «le poche grandi forme fondamentali del movimento nelle quali si svolge di necessità ogni azione produttiva del corpo umano, nonostante la molteplicità degli strumenti adoperati». Il maneggio pratico dei differenti strumenti di produzione, nel capitale, è, quasi alla lettera, la ripetizione della formula usata nelle Istruzioni. Sostanzialmente identica è, infine, pur nella diversa formulazione, la valutazione di questa istruzione come superiore a ogni tipo storico di istruzione finora esistito, che porrà la classe operaia al di sopra delle classi dominanti attuali (Istruzioni) e produrrà uomini pienamente sviluppati (Capitale). Anzi, quando nel Capitale Marx parla di «unico metodo» per produrre questi uomini, egli esclude assai recisamente la validità di ogni altra forma storica di istruzione, che non sia quella «dell'avvenire», associata al lavoro produttivo.

Ma se i due testi presentano tante compiute coincidenze, non mancano nemmeno qui, come nel 1847, e sebbene l'autore questa volta sia sempre Marx, alcune differenze non inessenziali. Anzitutto la differente terminologia: nelle Istruzioni, scritte da Marx in inglese, si usa ‑ come si è visto ‑ il termine di istruzione o addestramento «politecnico» (polytechnical training), e non «tecnologico» (technological), per indicare l'istruzione nella prospettiva del socialismo; nel Capitale il termine «politecnico» è invece attribuito soltanto alle scuole storicamente esistenti con questo nome, nelle quali sarà da riconoscere piuttosto quell'istruzione industriale «universale» che Marx aveva criticato, in quanto inessenziale a modificare il rapporto di lavoro dell'operaio, già nel lontano 1847. Ma, a parte ciò, l'istruzione tecnologica, che è uno degli elementi delle scuole politecniche (e agronomiche e professionali) esistenti, parsimoniosamente elargito dai borghesi ai figli degli operai, è posta in due testi come il centro pedagogico della scuola dell'avvenire. Ora, il termine «tecnologia» (ma non «politecnico», ci sembra), è spesso presente negli appunti che Marx andava prendendo per la stesura del Capitale nei Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (Gr., pp. 587, 598 e passim), dove parla ripetutamente del progresso della tecnologia in quanto applicazione delle scienze alla produzione.

Comunque, a parte il problema della scelta definitiva del nome da dare al le scuole dell'avvenire, «tecnologia» indica il contenuto pedagogico presente, in misura limitata, già nella scuola «politecnica» elargita dalli borghesia agli operai. Ma, soprattutto, ci pare che il «po!itecnismo» sottolinei il tema della «disponibilità» per i vari lavori o per la variazioni dei lavori; mentre la «tecnologia» sottolinea, con la sua unità di teoria e pratica, il carattere di totalità o onnilateralità dell'uomo, non più diviso o limitato al solo aspetto manuale o al solo aspetto intellettuale (pratico‑teorico) dell'attività produttiva. Il primo termine, proponendo una preparazione pluriprofessionale, si contrappone alla divisione del lavoro specifica della fabbrica moderna, il secondo, prevedendo una formazione teorica e pratica insieme, si oppone alla divisione originaria tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, che la fabbrica moderna esaspera. Il primo accentua l'idea della molteplicità delle attività (per cui Marx aveva parlato di una società comunista in cui, ad esempio, i pittori saranno «uomini che dipingono anche» (W3, p. 379), il secondo la possibilità di una piena e totale manifestazione di sé, indipendentemente dalla specifica occupazione di ciascuno.

Un altro problema resta aperto nella differenza dei due testi contemporanei, Istruzioni e Capitale, e in esso si direbbe che le istruzioni rappresentino il testo più completo e quindi il più recente e definitivo (ma resterebbe sempre da spiegare perché Marx nel corso del suo ulteriore lavoro di revisione del Capitale non abbia sentito il bisogno di trasferirvi quanto di più elaborato aveva espresso nelle Istruzioni). Nelle Istruzioni non solo abbiamo una più chiara articolazione del rapporto istruzione‑lavoro, in quanto i due termini si fronteggiano direttamente da soli, senza quella specie di terzo incomodo della ginnastica (che viene assunta, con l'addestramento tecnologico, sotto il titolo di istruzione); ma sotto questo titolo, insieme alla istruzione tecnologica e all'educazione fisica, troviamo anche, al primo posto, la formazione intellettuale. Ebbene, della formazione intellettuale in quanto tale, in quanto parte del processo generale di istruzione, nel Capitale non si fa parola. Che non sia questione da poco, è subito chiaro.

Ha o non ha per Mar, diritto di cittadinanza pedagogica una formazione intellettuale altra dall'istruzione tecnologica teorica e pratica? Ha o non ha diritto di cittadinanza pedagogica una cultura che non sia quella direttamente impegnata a costruire la base teorica e tecnica del lavoro, cioè dell'attività attraverso cui gli uomini producono le varie condizioni di esistenza? Per ora ci basti aver sollevato il problema, ricordando solo che non si ha il diritto di ritenerlo fittizio e di accantonarlo alla leggera, se è vero che, come è stato autorevolmente osservato dal Della Volpe, quando lo stesso Marx, in un'altra famosa pagina del Capitale, postula l'ipotesi di un «regno della libertà» e quindi del libero sviluppo culturale e spirituale degli individui fuori dal lavoro, egli si sarebbe «dimenticato» il suo concetto originario della libertà insita nel lavoro, e avrebbe commesso un delitto «di lesa filosofia e di leso socialismo». Basti qui osservare che Marx nel Capitale oscilla, almeno nell'espressione, tra due diverse impostazioni in quanto parla, una volta, di conquista dell'istruzione tecnologica nelle scuole «degli operai», come se questa istruzione non potesse sostituirsi a tutta l'altra istruzione ed essere l'istruzione di tutti; ma parla, un'altra volta, del binomio lavoro‑istruzione (intellettuale, fisica, tecnologica?), come germe dell'istruzione dell'avvenire per tutti i bambini (e non solo per i figli degli operai), come «unico modo per produrre uomini onnilaterali» (e vale la pena di notare che questo fine pedagogico è associato, come già in Engels nel 1847, al fine sociale dell'aumento della produzione).

Ma la cosa più importante nel Capitale, e che segna la differenza di metodo tra l'impostazione del 1847‑48 e quella del 1866, è che le tesi programmatiche del partito proletario appaiano qui come niente altro che lo sviluppo razionale, volontario e cosciente di elementi «contraddittori» sorti spontaneamente come fatti «naturali» nel cuore della società borghese. Il programma proletario si presenta, alla lettera, come niente altro che lo «svolgimento delle contraddizioni» della forma esistente della produzione: il che rappresenta, dice Marx, «l'unica via storica per la sua dissoluzione e la sua trasformazione».

Che una simile impostazione non solamente coinvolga tutta la dottrina del materialismo storico (divisione del lavoro, come mezzo storicamente necessario per l sviluppo delle forze produttive, cioè divisione della società in classi e di visione degli uomini fra loro nella produzione delle proprie condizioni di vita, e dell'uomo singolo in sé, cioè formazione di uomini in sé divisi e unilaterali, ecc.), ma coinvolga anche tutta la teoria del movimento dialettico del reale (contraddittorietà del reale, nel quale ogni processo spontaneo e naturale dello sviluppo è contemporaneamente generatore di aspetti contraddittori, negatori di positività preesistenti a livello inferiore, e destinati quindi a essere essi stessi negati attraverso l'inasprimento della contraddizione ad antagonismo assoluto, fino a che lo sviluppo stesso delle forze produttive, così conseguito, consenta all'uomo di intervenire in modo volontario e cosciente, e di riprodurre a un livello superiore l'originaria positività, ecc.), che una simile impostazione coinvolga, in una parola, tutto il marxismo ‑ il dato e il processo, il sistema e il metodo, si licet ‑ e vi si collochi, anzi, come uno dei suoi momenti-chiave, mi pare risulti inoppugnabilmente. Il che vuol poi dire, se ce ne fosse bisogno, che il posto di queste tesi «pedagogiche» nel marxismo non è davvero né marginale né casuale.

Occorrerà dunque collocare meglio nella biografia intellettuale di Marx anche questa «seconda fase» delle sue tesi pedagogiche, così come abbiamo rapidamente tentato di collocarvi la prima.

Quando Engels nel 1888, rileggendo in Ludovico Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca (W21, p. 264), il loro vecchio manoscritto su l'Ideologia tedesca, osservava che l'esposizione materialistica della storia in essa contenuta «prova soltanto quanto a quel tempo fossero ancora incomplete le loro conoscenze della storia economica» egli aveva ragione, nel senso che i termini del loro discorso di allora ‑ proprietà privata, divisione del lavoro, alienazione nonostante il loro partire da un «fatto economico, attuale», se già avevano superato il carattere empirico‑metafisico di dati elevati a leggi, proprio degli economisti, restavano tuttavia ancora al livello di determinazioni generiche. Marx, insomma, anche se aveva davanti agli occhi la attuale società capitalistica e i suoi rapporti di produzione, non aveva ancora elaborato né i termini specifici di questi rapporti né il metodo della sua ricerca. Questa elaborazione avverrà soprattutto a partire dal 1857, quando egli comincerà la stesura dei suoi appunti di critica dell'economia politica, cioè del Capitale.

In questi anni, soprattutto con l'introduzione del 1857 e con tutti i Grundrisse prima, e con la Prefazione del 1859 alla Critica dell'economia politica poi, Marx darà l'esposizione più sistematica della sua teoria e del suo metodo, che può essere utilmente messa a confronto coi primo momento di critica dell'economia politica e della dialettica hegeliana, contenuto nei Manoscritti del 1844.

In particolare il capitolo sul Metodo dell'economia politica della Introduzione del 1857 pone come scientificamente corretto il partire non dal reale o concreto rappresentato (popolazione, ecc.) per giungere attraverso astrazioni sempre più sottili alle determinazioni più semplici (divisione del lavoro, valore, ecc.), bensì il partire dall'astratto, cioè da queste categorie semplici, per giungere al concreto, purché sempre questo concreto, e cioè la determinata situazione storica (la società), sia il presupposto di quel processo di astrazione compiuto nel pensiero.

Ora, si prenda il concetto di «lavoro»; il lavoro, dice Marx nel 1857, sembra «una categoria del tutto semplice» e come rappresentazione di lavoro in generale è molto antica, anzi la «più semplice e antica relazione in cui gli uomini compaiono come produttori»; eppure, soltanto nella forma di esistenza moderna, quando si presenta come indifferenza verso un lavoro determinato, come facilità di passaggio da un lavoro all'altro, come mezzo in generale per creare ricchezza, e non come «destinazione particolare dell'individuo», essa diviene, per la prima volta, «praticamente vera», una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che la producono: le astrazioni più generali, infatti, «sorgono solo dove si dà il più ricco sviluppo del concreto». Ebbene, in confronto con questa concezione, il lavoro «alienato» del 1844, nonostante il valore di intuizione condizionante la successiva ricerca marxiana, resta privo per i appunto delle determinazioni che lo fanno specifico della società capitalistica. Mancano, cioè, in esso tutte le condizioni specifiche che ne fanno nel Capitale il «pluslavoro» produttore del «plusvalore», manca la determinazione di quelle categorie e astrazioni semplici determinanti dal cui studio Marx riterrà infine necessario cominciare la sua critica della economia politica (la merce, il valore d'uso e il valore di scambio, il denaro, il capitale, ecc.), e grazie alle quali la definizione, che è nel Capitale, di «una formazione sociale nella quale il processo di produzione padroneggia gli uomini», così simile ad altre del 1844, acquisterà però una tanto diversa e concreta pregnanza.

Così nel Capitale si avrà a che fare non più solo con la divisione del lavoro in generale, come nel 1844, ma con una sua forma specificamente sviluppata. Essa si definisce attraverso lo studio storico‑logico delle forme successive della produzione moderna: dalla cooperazione pianificata, che spoglia l'operaio dei limiti individuali e sviluppa le facoltà della specie; alla manifattura, che riproducendo entro l'officina la divisione del lavoro trovata nella società, genera il virtuosismo dell'operaio parziale, la specializzazione del tutto unilaterale, la limitazione degli individui a sfere professionali e particolari; alla grande industria, che riproduce in maniera anche più mostruosa la divisione del lavoro della manifattura; alla sua forma capitalistica moderna, dove gli operai, in quanto operaio complessivo combinato o corpo lavorativo sociale, non sono più il soggetto dominante, ma vengono ridotti a oggetto, parti di un automa consistente di organi meccanici e di organi intelligenti, e la scienza è totalmente separata da loro.

E' dallo studio storico‑logico di questa specifica divisione del lavoro e ‑ come abbiamo visto ‑ di un processo sviluppatosi spontaneamente al suo interno, che si ripropone, a questo punto della ricerca di Marx, il tema pedagogico dell'unione di istruzione e lavoro produttivo. E poiché, da una parte, come Marx scriveva nel 1857, «il soggetto reale rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua indipendenza fuori della mente, fino a che, almeno, il cervello si comporta solo speculativamente» (Gr., p. 22), ma, dall'altra, per lui non si tratta soltanto di interpretare il mondo, bensì di mutano, egli coordina immediatamente alla constatazione del processo naturale e spontaneo il motivo dell'intervento volontario e cosciente (quante volte questi termini sono contestualmente usati e contrapposti in Marx!), destinato a far esplodere la contraddizione ‑ in questo caso, tra condizione operaia ed esigenza oggettiva di uomini onnilaterali ‑ e a passare dalla realtà di uno sviluppo produttivo che esiste solo nella contraddizione, alla possibilità di eliminare questa contraddizione.

3. 1875: La Critica del programma di Gotha

La rassegna dei passi espliciti sull'istruzione può, a questo punto, concludersi con un altro testo programmatico fondamentale: le Note in margine al programma del Partito operaio tedesco, più conosciute come Critica al programma di Gotha, del 1875 (W19, pp. 30‑31).

A quasi dieci anni di distanza dai testi precedenti, e a quasi trenta dal Manifesto, intervenendo per la terza volta nella redazione di un programma politico di partito, Marx, tra altre osservazioni di rilievo su cui dobbiamo però qui sorvolare (gratuità e obbligo; rapporto tra scuola, Stato e Chiesa), prende in esame le formulazioni proposte per il programma di unificazione dei due partiti operai tedeschi e così le annota:

«"Educazione popolare [o istruzione elementare: Volkserziehung] uguale per tutti"? Che cosa ci si immagina con queste parole? Si crede forse che nella società odierna (e solo di essa si tratta) l'istruzione possa essere uguale per tutte le classi? Oppure si vuole che anche le classi superiori debbano essere coattivamente ridotte a quel po' di istruzione la scuola popolare ‑ che sola è compatibile con le condizioni economiche, non soltanto dei lavoratori salariati, ma anche dei contadini?...

«"Istruzione generale obbligatoria, insegnamento gratuito"... Il paragrafo sulle scuole avrebbe dovuto perlomeno pretendere delle scuole tecniche (teoriche e pratiche) in unione con la scuola popolare [Voiksschule]

«"Proibizione [generale] del lavoro dei fanciulli"... La sua realizzazione ‑ quando fosse possibile ‑ sarebbe reazionaria, perché, regolando severamente la durata del lavoro secondo le diverse età, e prendendo altre misure precauzionali per la protezione dei fanciulli, il legame precoce tra il lavoro produttivo e l'istruzione è uno dei più potenti mezzi di' trasformazione dell'odierna società.».

Queste affermazioni, così risolutamente polemiche verso il progetto di programma del Partito operaio tedesco, riconfermano ancora una volta i temi fondamentali della «pedagogia» marxiana: l'unione di istruzione e lavoro produttivo per i fanciulli, ma previa l'abolizione di quella che nel Manifesto veniva chiamata la sua forma attuale; l'esigenza di quelle scuole «tecniche» che, col loro duplice contenuto, teorico e pratico (e nonostante l'abbandono delle più pregnanti, e da noi discusse, definizioni come «politecniche» o «tecnologiche»), rappresentano la stessa educazione dell'avvenire auspicata nelle Istruzioni e nel Capitale. Ma più importante appare il fatto che quella annotazione restrittiva che nel Capitale pareva attribuire l'istruzione tecnologica alle sole scuole per gli operai, sembra qui riconfermata da! reciso rifiuto di un'educazione uguale per tutte le classi, almeno come obiettivo da realizzare immediatamente: nella società odierna, borghese, «della quale solo si tratta», l'istruzione non può essere subito resa uguale per tutte le classi, senza il rischio, evidentemente, di un suo abbassamento di livello, come si dice oggi. Ciò significa anche confermare l'autonoma validità di quella formazione intellettuale che nelle Istruzioni del 1866 era al primo posto come componente dell'istruzione senza aggettivi.

Eppure, proprio quell'inciso «nella società odierna» riconferma indirettamente che nella società avvenire sarà diversamente: non per nulla il legame istruzione‑lavoro (che secondo le Istruzioni del 1866, comprendendo anche la formazione intellettuale, era tale da «innalzare la classe operaia molto al di sopra delle classi superiori e medie») viene qui prospettata come «uno dei più potenti mezzi di trasformazione della odierna società». Il problema del contenuto di questa istruzione nel suo complesso, che le Istruzioni del 1866 articolavano in intellettuale, fisica e tecnologica, resta ancora indeterminato; tema permanente di ricerca per il pedagogista sensibile alle sollecitazioni del reale.

4. Lenin «discepolo» di Marx

Queste tesi pedagogiche non hanno esercitato una diretta influenza sul pensiero pedagogico moderno e sull'organizzazione degli istituti scolastici, fino al momento della loro ripresa da parte di Lenin e della loro assunzione a base del sistema scolastico del primo Stato socialista.

Lenin, effettivamente, fu il primo e il solo a ripercorrere questa analisi marxiana, in particolare in due momenti della sua vita: una prima volta durante la prodigiosa stagione intellettuale della sua giovinezza nella polemica contro i populisti, e una seconda volta al momento della presa del potere da parte dei bolscevichi. Vale la pena di ricordare brevemente le sue indicazioni a conclusione di questa prima rassegna di quelle marxiane.

Nel 1897, criticando le proposte utopistiche di riforma dell'istruzione presentate dallo Jugiakov, egli indicava che l'unica idea giusta in esse contenuta era quella già esposta dai «grandi utopisti del passato» (come, per ragioni di censura, doveva chiamare Marx): «che non si può concepire l'ideale di una società futura senza unire l'istruzione al lavoro produttivo della giovane generazione». E aggiungeva: «Né l'istruzione avulsa dal lavoro produttivo, né il lavoro produttivo avulso dall'istruzione potrebbero porsi all'altezza dell'attuale livello della tecnica e del presente stato delle conoscenze scientifiche». Venti anni dopo, nel 1917, egli formulava la scelta programmatica che sarà poi approvata dall'VIII Congresso de! Partito operaio socialdemocratico russo (bolscevico) nel marzo 1919, di una scuola politecnica «che faccia conoscere, in teoria e in pratica, tutti i principali rami della produzione» e che sia fondata sullo «stretto legame dell'insegnamento col lavoro produttivo dei ragazzi». Infine, nel 1920 (in L'estremismo, malattia infantile del comunismo), tracciando la prospettiva comunista, egli ribadiva che «si passerà alla soppressione della divisione del lavoro tra gli uomini, all'educazione, istruzione, preparazione di uomini onnilateralmente sviluppati e onnilateralmente preparati, di uomini capaci di fare tutto». Non si potevano riprendere con maggiore essenzialità e rigore i temi pedagogici marxiani, nella prospettiva più generale dell'emancipazione dell'uomo.

E non aveva, del resto, già lo stesso Marx stupendamente riassunto questa prospettiva, reinserendovi anche i termini tipici della sua «pedagogia» e «antropologia», nella citata Critica al programma di Gotha? «In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro è divenuto non soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive, e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!» (W19, p. 21).

2. Che cos'è il lavoro?

Il lavoro occupa, dunque, un posto centrale nella proposta pedagogica marxiana, e poiché in sede appunto di pedagogia ‑ si può forse, a torto o a ragione, illudersi di sapere che cosa sia o che cosa possa essere istruzione, ma è più arduo avere o credere di avere un'idea precisa di che cosa sia lavoro, nonostante la secolare sperimentazione in proposito, e poiché, soprattutto, non pare che si abbia diffusamente un'idea precisa di che cosa sia lavoro per Marx, ecco che capire che cosa propriamente questo lavoro sia diventa pregiudiziale a ogni giusta interpretazione e collocazione storica della sua proposta.

1. Il lavoro: un'espressione negativa

Contro, forse, le aspettative del marxista ingenuo, e nonostante la convinzione comune degli amarxisti e degli anti‑marxisti, l'espressione «lavoro», sia che significhi l'attività del lavoratore, sia che significhi il prodotto di questa attività, non gode, come si direbbe, di una buona stampa negli scritti di Marx, e non ha, o perlomeno non ha né sempre né automaticamente, un significato positivo in lui, che anzi rimprovera a Hegel di vederne soltanto l'aspetto positivo. Fin dal principio ‑ e si vedano per questo i Manoscritti del 1844, in cui è contenuta quella critica a Hegel (EBJ, p. 574) ‑ «lavoro» è in Marx termine storicamente determinato, che indica la condizione dell'attività umana in quella che egli chiama «economia politica», cioè la società fondata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, e la teoria o ideologia che l'esprime.

Nella condizione descritta dall'economia politica, dunque, il lavoro, in quanto appunto principio dell'economia politica, è l'essenza soggettiva della proprietà privata, sta di fronte al lavoratore come proprietà d'altri, a lui estranea, ed è dannoso e funesto per lui; anzi, la sua stessa realizzazione appare come «privazione» dell'operaio, giacché, per quanto l'economia politica occulti l'alienazione che è nell'essenza del lavoro, il rapporto stesso della proprietà privata contiene il prodursi dell'attività umana come lavoro, e dunque come un'attività umana completamente estranea a se stessa, completamente estranea all'uomo e alla natura, e quindi alla coscienza e alla vita. E questo lavoro, in quanto storicamente determinato, è perciò stesso l'unica forma di lavoro esistente, poiché ogni umana attività e stata finora lavoro, e dunque industria, attività alienata a se stessa, è stata ‑ come Marx obietta a Hegel il «divenir per sé dell'uomo nell'alienazione, o in quanto uomo alienato». E Marx può riassumere questa determinazione del lavoro, nel quale la manifestazione di vita è essa stessa espropriazione di vita, con la formulazione, perentoria e inequivoca, che «il lavoro è l'uomo perduto a se stesso» (EBI, pp. 473, 477, 512, 523, 530, 539, 543, 562, 574).

È vero che, nel discutere questo rapporto, Marx usa talvolta anche il termine «lavoro», accanto a quello di «vita produttiva» o «attività vitale umana», ma, in generale, appunto per specificare che questa attività, che come libera attività consapevole è il carattere specifico dell'uomo, si trova, nelle condizioni dell'economia politica, degradata a «mezzo per la soddisfazione di un bisogno» (ivi, pp. 515, 516). In un'altra pagina, però, Marx scrive: «Ma poiché, per l'uomo socialista, tutta la cosiddetta storia universale non è che la generazione dell'uomo dal lavoro umano, il divenire della natura per l'uomo...» (ivi, p. 546), dove lavoro è inteso nella sua accezione positiva. Ma di questo parleremo in seguito.

Abbiamo fin qui seguito Marx nel primo scritto organico, anche se mai portato a compimento, sull'economia politica. Ma questa concezione del lavoro come lavoro estraniato o alienato non è esclusiva di questo scritto. Negli anni immediatamente seguenti, Marx riprende questi temi nell'ideologia tedesca, del 1844‑45, in parte coi medesimi termini, in parte con termini nuovi, ma sempre con la medesima impostazione. «Il lavoro ‑ egli scrive ‑ è qui ancora una volta la cosa principale, il potere sopra gli individui»: qui, cioè nelle condizioni storicamente determinatesi della divisione del lavoro, che è «espressione identica» a proprietà privata, e cioè sempre nelle condizioni descritte dall'economia politica. Il lavoro, egli dirà ancora, riproponendo come già nei Manoscritti del 1844 il processo storico dell'alienazione, ha perduto ogni parvenza di «manifestazione personale» (Selbstbetätigung), ed ora è l'unica forma possibile, ma negativa, della manifestazione personale. Il lavoro «sussume» gli individui sotto una determinata classe sociale, predestinando la loro posizione nella vita e il loro sviluppo personale, e riducendoli così da «individui» a «membri di una classe»: una condizione che potrà essere eliminata soltanto mediante il superamento della proprietà privata e del lavoro stesso. E la perentoria conclusione della ricerca contenuta nella prima parte dell'ideologia tedesca è analoga a quella che conclude i Manoscritti del 1844: i proletari «per affermarsi personalmente [ovvero, come persone] devono abolire la propria condizione di esistenza quale è stata fino ad oggi, che in pari tempo è la condizione di esistenza di tutta la società fino ad oggi, il lavoro» (W3, pp. 50, 31, 67, 52, 77). Abolire il lavoro, cioè l'attività umana, come è stato finora.

Importante soprattutto rilevare che il prodursi dell'attività umana come lavoro (alienato) è un risultato storico, dovuto alla divisione originaria del lavoro. Che poi l'indagine storica, o preistorica, non abbia in Marx eccessivi sviluppi, ed eviti così le astrazioni naturalistiche e giusnaturalistiche, è del tutto coerente: gli accenni di Marx restano qui piuttosto indeterminati, limitandosi ad annotare che si sviluppa «così» la divisione del lavoro, che in origine era niente altro che la divisione nell'atto sessuale, e poi la divisione del lavoro che si produce spontaneamente o naturalmente in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del bisogno, del caso. Ora, proprio dal momento in cui l'attività vitale umana, dell'uomo come «ente generico» o del genere umano nel suo insieme, si presenta divisa e dominata dalla spontaneità, dalla naturalità e dalla casualità, ogni uomo, sussunto sotto la divisione del lavoro, appare unilaterale e incompleto. Questa divisione diventa reale quando si presenta come divisione tra il lavoro manuale e il lavoro mentale, perché allora «si dà la possibilità, anzi la realtà, che l'attività spirituale e l'attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo tocchino a individui diversi». Il problema è quindi, per Marx, di «tornare ad abolire la divisione del lavoro» (dove va osservata non soltanto l'identità di questa espressione con quelle che abbiamo già letto sulla abolizione del lavoro, ma anche l'idea di un ritorno, ma a un più alto livello, a una condizione di attività umana indivisa ‑ ivi, p. 30).

Questo è dunque il senso negativo del concetto di lavoro in Marx; e abbiamo già accennato come nella sua ricerca esso si venga via via determinando sempre più precisamente come lavoro salariato produttore di capitale (e seguirlo su questo punto vorrebbe dire ripercorrere tutta la sua ricerca, che non è il fine di queste note). Onde la soppressione del lavoro, di cui Marx parla, significa insomma soppressione del lavoro salariato, cioè della forma esistente del lavoro, o, in altri termini, soppressione di quella particolare figura sociale, prodotto della storia umana, che è il lavoratore salariato; che è poi quanto Marx diceva sin dai suoi primi incontri con questi problemi, e ripeteva poi nel Manifesto, ammonendo che nella rivoluzione sociale i proletari non hanno nulla da perdere, se non le loro catene (1V 4, p. 73). In questo senso Marx aveva ragione di constatare già nei Manoscritti del 1844, che l'aver convertito, come lui aveva fatto, «la questione dell'origine della proprietà privata in quella del rapporto del lavoro espropriato col processo di sviluppo [storico] dell'umanità» era stata un passo determinante per la soluzione del problema dell'alienazione del lavoro (EBI, p. 512).

2. L'attività vitale o manifestazione di sé

Con intenzione polemica, ma anche ‑ crediamo ‑ con verità, abbiamo fin dall'inizio sottolineato il carattere negativo del lavoro. Ma, lo abbiamo visto, proprio perché forma storica dell'attività umana, il lavoro non è altro che una forma o esistenza contraddittoria che, al di fuori delle sue immediate e contingenti determinazioni, presuppone questa stessa attività vitale o affermazione di sé (Selbstbetätigung) che, appunto, si produce come lavoro, ma senza la quale la vita stessa non sussisterebbe («che cos'è la vita, se non attività?», si domandava nei Manoscritti del 1844 ‑ EBJ, p. 515). Marx non ha bisogno per ritrovarla, di andarla a ricercare in una sua esistenza ideale, come gli economisti quando presuppongono uno stato originario, da loro immaginato e che non spiega niente (ivi, p. 511); egli la ritrova implicita nella stessa attività alienata o lavoro. E’ vero che nella Ideologia tedesca anch'egli non sa rinunciare a risalire addietro nelle origini storiche dell'uomo, ma lo fa non senza una certa ironia nei riguardi di «gente priva di presupposti» come i tedeschi, coi quali si deve cominciare col constatare il primo presupposto di ogni esistenza umana, e dunque di ogni storia, cioè, che per poter «fare storia» gli uomini devono essere in grado di vivere, e che dunque la prima azione storica fu la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa. Su questa base, si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, la religione, per tutto ciò che si vuole, ma in realtà «essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza»; e solo dopo aver constatato il moltiplicarsi dei bisogni su quella prima base produttiva, e il riprodursi degli uomini, e il loro organizzarsi socialmente nel produrre, si trova che «l'uomo ha anche una coscienza», che è fin dall'inizio un prodotto sociale» (W3, pp. 28, 20, 30, 31).

Ma bisogna osservare che non è tanto in questa ricerca storica o preistorico‑naturalistica, che Marx fonda la sua concezione dell'attività vitale umana come manifestazione di sé, e ne postula, a livello storico attuale, il possibile recupero. Ciò che fa uomo l'uomo, in confronto agli animali, è che «l'animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa», mentre «l'uomo fa della sua attività vitale stessa l'oggetto del suo volere e della sua coscienza. Egli ha una cosciente attività vitale: non c'è una sfera determinata con cui immediatamente si confonde». L'uomo, insomma, nel suo lavoro, che è un ricambio con la natura, agisce volontariamente e coscientemente, in base a un piano e, soprattutto, non legato a nessuna sfera particolare, vive universalmente della natura inorganica: «l'universalità dell'uomo si manifesta praticamente nell'universalità per cui l'intera natura è fatta suo corpo inorganico» (EBI, pp. 224‑225). E’ questo carattere volontario, cosciente, universale dell'attività umana, per cui l'uomo si distingue dagli animali e si sottrae al dominio di qualsiasi sfera particolare, è in opposizione a quanto è invece naturale, spontaneo, particolare, cioè al dominio della naturalità (Naturwüchsigkeit) e della casualità (Zufdlligkeit) in cui l'uomo non domina, ma è dominato, non è individuo totale, ma membro unilaterale di una determinata sfera (classe, ecc.), e vive insomma nel regno della necessità, ma non ancora in quello della libertà (W3, pp. 75, 54).

La divisione del lavoro ha, dunque, diviso l'uomo e la società umana, ma è stata la forma storica dello sviluppo della sua attività vitale, del suo rapporto‑dominio sulla natura. Marx traccia un rapido schizzo del suo svolgersi dalle forme più semplici a quelle via via più complesse e più produttive, ma insieme più contraddittorie, fino al formarsi della grande industria, che «sussunse le scienze naturali sotto il capitale e tolse alla divisione del lavoro l'ultima parvenza del suo carattere naturale». Essa ha enormemente sviluppato le forze produttive, ma dando loro una forma per così dire obiettiva, che le contrappone agli individui, come cosa a loro estranea, della proprietà privata. In questa fase, «il lavoro ha perduto... ogni parvenza di manifestazione personale», e solo appropriandosi di una totalità di strumenti di produzione, o di forze produttive si può arrivare alla manifestazione personale, ovvero: «Soltanto a questo stadio la manifestazione personale coincide con la vita materiale, ciò che corrisponde allo sviluppo degli individui in individui completi e alla eliminazione di ogni residuo naturale» (W3, pp. 67‑68). Questa la prospettiva che Marx sviluppa nell'ideologia tedesca, andando oltre i Manoscritti del 1844, dove la soppressione della proprietà privata era, sì, designata come la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane, e il comunismo, in quanto negazione della negazione, era considerato, con accentuazione «antropologica», appropriazione della essenza umana, ma senza che si vedesse uno sviluppo reale delle forze produttive, e senza che l'appropriazione della totalità delle forze produttive risultanti da questo sviluppo fosse considerata come la condizione preliminare per quella emancipazione (EBI, pp. 539‑540 e 553).

3. Continuità di questa tematica

Ora, si deve affermare recisamente che questi temi non sono esclusivi degli anni giovanili e degli interessi filosofico‑antropologici di Marx, ma sono costantemente tenuti presenti, ripresi, specificati in seguito, proprio sulla base che sola poteva dar loro concretezza e vigore, sulla base cioè di una più approfondita conoscenza critica del reale. Tutti i Grundrisse ne sono uno sviluppo, e da questo gigantesco abbozzo essi trapassano poi nel Capitale.

Il lavoro estraniato, alienato, del 1844 è ancora presente, nei Grundrisse, nella stessa espressione, quando Marx dice, ad esempio, che il lavoratore si impoverisce sempre più in quanto la forza creativa del suo lavoro si costituisce davanti a lui come la forza del capitale, come «potenza estranea», ed egli «si aliena del lavoro come forza produttiva della ricchezza». Tutti i progressi della civiltà, ogni aumento delle forze produttive arricchiscono non il lavoratore, ma il capitale, accrescono soltanto la potenza che domina il lavoro, e si ha quindi come processo necessario che le sue proprie forze si pongono di fronte al lavoratore come estranee. Anche nei Grundrisse si sottolinea la storicità e non naturalità di questo processo: si tratta di un rapporto del lavoratore alla sua attività che non è in alcun modo quello «naturale», ma contiene già di per sé una specifica determinazione economica; e si sottolinea che il capitale, tendendo senza posa alla forma generale della ricchezza, spinge il lavoro oltre i limiti dei suoi bisogni naturali e crea così gli elementi materiali per lo sviluppo della ricca individualità, che è altrettanto onnilaterale nella sua produzione che nel suo consumo, e il lavoro quindi non compare più come lavoro, ma come pieno sviluppo dell'attività stessa, nella quale la necessità di natura nella sua forma immediata è scomparsa, perché al posto del bisogno naturale ne è subentrato uno storicamente sviluppato (Gr., pp. 716 e 214‑217). Anzi, questo processo oggettivo promosso dal capitale mostra che proprio la forma estrema di estraniazione in cui, nel rapporto capitale‑lavoro salariato, l'attività produttiva appare rispetto alle sue stesse condizioni e al suo stesso prodotto, non è altro che un necessario punto di passaggio, e contiene già in sé, soltanto in forma ancora rovesciata, a testa in giù, le piene condizioni materiali per lo sviluppo totale, universale delle forze produttive dell'individuo (ivi, pp. 414‑415).

Ma importa soprattutto che qui Marx analizza esplicitamente la forma antinomica del lavoro. Di fronte al capitale, che è lavoro oggettivato (in un dato rapporto sociale), il lavoro non oggettivato si presenta in due modi: negativamente, come non‑materia‑prima, non-strumento, non‑prodotto, cioè come la assoluta miseria; e positivamente, come esistenza del lavoro stesso, non come oggetto ma come attività, come universale possibilità di ricchezza. Ecco che lavoro alienato e attività vitale umana, lavoro e manifestazione di sé ritornano in una opposizione di positivo e negativo rigorosamente segnata. Marx la riassume sottolineando che non è per nulla una contraddizione, o piuttosto è una frase del tutto contraddittoria (anche il famoso civettare con la dialettica non è poi tanto raro in queste sue pagine!) che («il lavoro sia da una parte la assoluta miseria in quanto oggetto, e dall'altra la assoluta possibilità di ricchezza in quanto soggetto e attività»: infatti, i due aspetti si condizionano a vicenda e conseguono dalla divisione del lavoro (ivi, p. 203).

Seguire questa tematica anche nel Capitale ci porterebbe troppo lontano, tante sono le determinazioni in cui essa vi compare, ripetendo spesso i termini tipici dei Manoscritti del 1844 a cominciare da «estraniazione» e «alienazione»: le abbiamo già schematicamente indicate altrove, ci basti qui questo accenno.

Quello che qui ci interessa piuttosto sottolineare è che ininterrottamente, dal 1844‑46 al 1857‑58, al 1867, anno di pubblicazione del primo volume del Capitale, e via via fino agli ultimi armi di revisione dei volumi destinati a uscire postumi, lavoro diviso e manifestazione personale, lavoro negativo o assoluta miseria, lavoro positivo o universale possibilità di ricchezza (e così via con le altre specificazioni adottate nel Capitale e negli altri scritti economici degli ultimi anni), o, in altri termini, il lavoro nelle condizioni descritte dall'economia politica, cioè nelle condizioni della divisione del lavoro o della proprietà privata, e il lavoro fuori di queste condizioni; dopo la soppressione della sua divisione e della proprietà privata dei mezzi di produzione, si presentano come un'espressione contraddittoria, una perpetua antinomia. Antinomia logica, nel senso che, eccettuata forse l'ideologia tedesca, dove il lavoro tout court è sempre e soltanto espressione negativa, Marx non può non servirsi dello stesso termine nelle due opposte accezioni, e antinomia reale, nel senso che costituiscono una coppia antagonistica.

A noi, pur dopo aver messo in luce per primo l'aspetto negativo, interessa sottolineare, con ugual vigore, ambedue gli aspetti di questa contrapposizione. Da una parte, che nelle condizioni storicamente determinate le quali ‑ contro l'incapacità di storicizzare propria degli economisti e del buon senso dell'uomo comune ‑ non sono affatto destinate a durare eterne, il lavoro è veramente «l'uomo perduto a se stesso», la negazione di ogni manifestazione umana, l'assoluta miseria. Non sono parole o formule. L'insensibile, il duro, l'antiromantico Marx, mai disposto alle sentimentali lacrime, ha raccolto durante tutta la sua vita le testimonianze su questa assoluta miseria e ha dedicato tutto se stesso al compito di indagarne le ragioni e di sopprimerla. Dall'altra parte, che l'attività dell'uomo si presenta come l'umanizzazione della natura, il divenire della natura per l'uomo, il quale operando in modo volontario, universale e cosciente, come ente generico o individuo sociale, e facendo dell'intera natura il suo corpo inorganico, si libera dalla soggezione alla casualità, alla naturalità, alla ristrettezza animale, crea una totalità di forze produttive e ne dispone per svilupparsi onnilateralmente. Se non si comprende questa natura contraddittoria dell'attività umana, non si comprende nulla di Marx: comprendere questa antinomia vuol dire porsi al centro di tutto il suo pensiero.

4. Obiezioni provocate da questa antinomia

Chi volesse rimproverare a Marx di concepire l'uomo come lavoro, dando di questo lavoro un'interpretazione astrattamente negativa e facendone un addebito a Marx, chi volesse, quindi, rimproverare a Marx di fondare su questo lavoro il processo di formazione dell'uomo, veda piuttosto come lui prima e più di ogni altro abbia compreso il carattere non naturale ma storico di questo negativo lavoro, ne abbia denunciato la «infamia», si sia adoperato per cancellarlo. Veda, quindi come la sua concezione positiva dell'attività umana, della manifestazione di sé, mai considerata come cosa dell'individuo singolo o astratto, ma sempre del concreto individuo sociale, in un grandioso rapporto con la natura e la storia, batta in breccia ogni interpretazione corrente e deteriore di ciò che per lui sarebbe il lavoro o la produzione (la «economia»!) nella vita storica dell'umanità e, in particolare, nel processo di emancipazione e quindi di formazione dell'uomo.

Chi, poi, volesse considerare ovvia e non nuova questa sua ipotesi di unire istruzione e lavoro, che altri avrebbero auspicato o praticato prima e dopo di lui, consideri invece come in lui il lavoro trascenda appunto, necessariamente ogni caratterizzazione pedagogico-didattica per identificarsi con l'essenza stessa dell'uomo. È una concezione che esclude ogni possibile identificazione o riduzione della tesi pedagogica marxiana dell'unione di istruzione e lavoro produttivo nell'ambito delle consuete ipotesi dì un lavoro sia con destinazione meramente professionale, sia con funzione didattica come strumento di acquisizione e verifica delle nozioni teoriche, sia con fini morali di educazione del carattere e di formazione di un atteggiamento di rispetto per il lavoro e per chi lavora. Comprende, piuttosto, tutti questi momenti, ma li trascende, anche.

Si potrebbero citare molti esempi di critica a Marx per aver posto il lavoro (o il bisogno: ma è la stessa cosa, il crescere dei bisogni e della capacità di soddisfarli è il crescere stesso della civiltà dell'uomo, dai bisogni puramente animali a quelli sempre più umani) o l'«economia» alla base di tutta la concezione dell'uomo: esempi di una critica che viene da parte di spiritualisti, idealisti, persone aderenti a una fede religiosa, e che in generale, muovendo da pregiudizi di indole personale, non hanno saputo finora mettersi alla prova col reale pensiero di Marx, ma si sono fermati a singole formulazioni sue (o, peggio, circolanti indebitamente come sue), avulse dal contesto dei suo pensiero.

Comunque, l'obiezione di chi oppone a Marx di fondare sul lavoro tutta la sua problematica dell'emancipazione dell'uomo non è priva di motivazioni che possano dedursi dallo stesso Marx, se appunto è vero, come abbiamo cercato di dimostrare, che il lavoro è nelle condizioni storiche date, distruzione dell'uomo, creazione di un potere estraneo all'uomo, che lo domina. Ci si può insomma porre la domanda: come può il lavoro liberare l'uomo, se è la condizione dei suo asservimento? E, più in particolare, in sede pedagogica, come può questo lavoro, associandosi all'istruzione, costituire hic et nunc il contenuto e il metodo per la formazione dell'uomo onnilaterale? In realtà, dalla posizione marxiana, una sola risposta è possibile a questo inquietante interrogativo, almeno per quanto riguarda la seconda domanda: e cioè che non è certo il lavoro come processo o parte del processo educativo che può da solo rovesciare la condizione sociale e liberare l'uomo: può tuttavia essere un elemento che concorre alla sua liberazione, dato l'inevitabile condizionamento reciproco intercorrente tra scuola e società (di questo parleremo meglio in seguito). Ma questa reale partecipazione del lavoro come processo educativo alla trasformazione sociale, tanto più sarà efficace quanto più sarà non mero accorgimento didattico, ma reale inserimento nel processo lavorativo sociale, collegamento tra strutture educative e strutture produttive, il che non vuoi nemmeno dire necessariamente collegamento <(scuola‑fabbrica», dato che i due termini non sono egualmente coessenziali alla società moderna, rappresentando piuttosto la «scuola» un residuo di organizzazioni sociali precedenti; ma vuoi certamente dire collegamento istruzione-produzione.

Una obiezione di maggior rilievo può sorgere, invece, dall'interno stesso delle posizioni marxiane, ed è quella di chi osserva che, se il lavoro è appunto l'attività vitale e la manifestazione dell'uomo, il suo rapporto volontario, cosciente, universale con la natura, il divenire antropologico della natura ecc., non si comprende come poi il suo regno resti un
regno della necessità anche quando siano date tutte le condizioni per la sua piena manifestazione, e il regno della libertà sia da ricercarsi comunque di là dal lavoro. Non ha forse detto Marx che, messa a disposizione dell'uomo una totalità di forze produttive, lavoro e manifestazione di sé coincidono?

Una risposta a questa obiezione, che contiene anch'essa le sue evidenti implicazioni pedagogiche, può venire da una ricerca che accerti che cosa sia veramente per Marx questo regno della libertà fondata sul lavoro: una ricerca che ci riporterebbe, a dire il vero, a ripercorrere tutto il Capitale, e in particolare tanto alla sua documentazione storiografica sulla lotta per la giornata lavorativa, quanto alla sua ricerca strutturale sul rapporto tra tempo di lavoro e tempo libero.

5. Il regno della libertà

Abbiamo visto che, come la divisione del lavoro, che comporta immediatamente la disumanizzazione dell'uomo è un formarsi storico, così il suo contraddittorio sviluppo, creando una totalità di forze produttive, un totale dominio dell'uomo sulla natura, rende necessaria e inevitabile da parte dell'uomo l'appropriazione di queste forze, nella quale è anche lo sviluppo di una totalità di facoltà. Questo tema si svolge in tutta la successiva ricerca marxiana, fino a trovare nel Capitale alcune formulazioni emblematiche.

Come il concreto sviluppo di queste forze produttive si attui nella fabbrica, al cui interno si riproduce e si esaspera la divisione del lavoro già esistente all'interno della società, e come questa esasperata divisione del lavoro non contenga più in sé quelle possibilità di limitato sviluppo che erano consentite dalla divisione del lavoro all'interno della società, ma distrugga ogni specializzazione esigendo una miserabile popolazione lavoratrice disponibile per la produzione capitalistica, Marx lo ha già detto. E ha detto come questa assenza di specializzazione si congiunga con un'esigenza di assoluta versatilità, affinché l'operaio possa essere sempre di nuovo disponibile ad ogni rapidissimo variare della «modernissima» tecnologia; e ne ha concluso che diviene allora una questione di vita e di morte il sostituire alla miserabile popolazione «versatile» tenuta di riserva, la totale disponibilità dell'uomo per tutte le esigenze della produzione. In un'altra famosa‑ e discussa ‑ pagina del Capitale, Marx, prendendo le mosse dal pluslavoro di una parte della popolazione, che in una società antagonistica, è completato dall'ozio assoluto di un'altra parte della popolazione o società, conclude osservando che, in una forma più elevata di società, la creazione preventiva di questi mezzi materiali crea la possibilità di ridurre per tutti il tempo dedicato al lavoro materiale. L'uomo civile, in qualsiasi forma di civiltà e sotto tutti i possibili modi di produzione, per soddisfare i suoi bisogni deve, come il selvaggio, lottare con la natura, e per quanto egli possa porre sotto il proprio controllo il suo «ricambio organico» con essa, questo resta sempre un «regno della necessità». E conclude: «Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità o dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria». Soltanto qui, infatti, si ha lo sviluppo delle capacità umane che è fine a se stesso, del quale è condizione la riduzione della giornata lavorativa (W25, pp. 931933).

È un passo giustamente famoso, perché nel suo immediato legame con le questioni concrete di critica dell'economia politica che formano, appunto, l'oggetto del Capitale, contiene però una prospettiva che sembra trascendere largamente (per qualcuno addirittura contraddire) il campo della pura economia e attìngere una prospettiva più alta. È opportuno, quindi, vederne la genesi nella precedente ricerca marxiana, e verificarne la concordanza o meno con essa; e per questo, nulla forse può meglio servire degli appunti contenuti nei cosiddetti Grundrisse.

Il problema è, dunque, quello del rapporto tra tempo di lavoro e tempo libero. Nella determinante definizione marxiana del pluslavoro come produttore di plusvalore, ovvero di capitale, nel quale assumono chiara determinatezza economica le sue ipotesi «antropologiche» giovanili sul lavoro che crea il potere a sé estraneo che lo domina, si istituisce un rapporto tra tempo di lavoro «necessario» (alla vita e alla riproduzione del lavoratore), e quello che appare in principio come un tempo disponibile, che il capitalista tende a destinare, come pluslavoro, alla produzione di plusvalore, negandogli di configurarsi come tempo libero, per l'operaio stesso. Seguiamo nei Grundrisse il presentarsi di queste determinazioni.

Nel constatare la pretesa dei capitalisti che gli operai restino sempre a un minimo di godimento di vita e si comportino come pure macchine, il che porterebbe a un puro abbrutimento, che renderebbe di per sé impossibile aspirare anche soltanto alla ricchezza in forma generale, Marx commenta: «La partecipazione dell'operaio a godimenti superiori, anche intellettuali, l'agitazione per i suoi propri interessi, avere giornali, ascoltare conferenze, educare bambini, sviluppare il gusto, ecc., la sua unica partecipazione alla civiltà, che lo separa dallo schiavo, è economicamente possibile solo grazie al fatto che egli allarga la cerchia dei suoi godimenti nei periodi di prosperità» (Gr, pp. 197‑198). Tutte le possibilità di vita pienamente umana sono legate al problema del tempo di lavoro che il capitalista tende a prolungare a proprio vantaggio. Ma il rapporto è più complesso di quanto qui non appaia, e in una nota dei Grundrisse Marx dimostra le tendenze, ugualmente necessarie e del tutto contraddittorie, del capitale nei riguardi del tempo di lavoro: il capitale deve mettere in moto lavoro umano e renderlo (relativamente) superfluo, cioè ridurre il lavoro necessario per aumentare il pluslavoro. Per far ciò, esso deve accrescere il lavoro generale (cioè le giornate lavorative contemporanee di una numerosa popolazione lavoratrice), per ridurre il lavoro necessario del singolo operaio e aumentarne il pluslavoro produttore di plusvalore; il che comporta che alla creazione di pluslavoro da una parte corrisponde una creazione di meno‑lavoro dall'altra, cioè di relativo ozio (idleness) o di lavoro non‑produttivo. E questo, dice Marx, vale non solo per i capitalisti, ma anche per le classi servili che costituiscono tutto il corteo dei loro dipendenti (poveri, lacchè, ruffiani ecc.), rappresentando la differenza essenziale tra questa classe servente e la classe lavorante. «In rapporto, quindi, all'intera società la creazione di tempo disponibile si presenta anche come creazione di tempo per la produzione di scienza, arte, ecc.».

Ora, il processo reale di sviluppo della società non comporta che ciascun individuo, una volta soddisfatte le sue esigenze immediate di vita, possa concedersi questo «superfluo», bensì che «un individuo o classe di individui viene costretto a lavorare più di quanto è necessario al soddisfacimento dei suoi bisogni, perché da una parte si pone pluslavoro e dall'altra non‑lavoro e eccedenza di ricchezza». Ma, se questo è il processo reale, Marx oppone la prospettiva ad esso immanente: «Secondo la realtà, lo sviluppo della ricchezza esiste solo in queste contraddizioni; secondo la possibilità, proprio il suo sviluppo è la condizione della eliminazione di queste contraddizioni» (ivi, pp. 302-305). Che cosa sia, per Marx, la ricchezza, soprattutto in questo contesto, ce lo dice egli stesso: è «l'universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive ecc. degli individui, generata nello scambio universale, il pieno sviluppo del dominio umano sulle forze della natura, sia della cosiddetta natura che della sua propria natura: l'assoluta estrinsecazione delle sue facoltà creative, senz'altra condizione che il precedente sviluppo storico» (ivi, p. 387).

Questa è dunque la posta in gioco nel rapporto tra tempo di lavoro e tempo disponibile, tra lavoro necessario e pluslavoro nella economia capitalistica, e tra lavoro necessario e tempo libero di tutta la società, in una forma più elevata di essa. E Marx constata il contraddittorio maturarsi di una situazione in cui il grande pilastro della produzione e della ricchezza sia non il lavoro immediato compiuto dall'uomo, né il tempo in cui egli lavora, bensì la sua comprensione della natura e il suo dominio su di essa mediante la propria esistenza come corpo sociale, in un parola, lo sviluppo dell'individuo sociale. Ciò si ha in quanto, con lo sviluppo della grande industria, la creazione della ricchezza reale (e abbiamo visto che cosa essa significhi) dipende sempre meno dal tempo di lavoro e sempre più dalla potenza degli elementi in essa agenti, cioè dal generale stato della scienza e dal progresso della tecnologia, che è l'applicazione di questa scienza nella produzione. E allora, dice Marx, «il furto di tempo di lavoro altrui, su cui si fonda l'attuale ricchezza, appare miserabile fondamento in confronto a questo sviluppo recente». Ormai il tempo di lavoro non è più la misura della ricchezza e «il pluslavoro della massa ha cessato di essere condizione per lo sviluppo dell'universale ricchezza, tanto quanto il non‑lavoro di pochi per lo sviluppo delle potenze universali della testa umana».

Ma il capitale, che chiama in vita tutte le potenze della scienza e della natura e tutte le relazioni sociali per rendere (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro la creazione della ricchezza, misura poi proprio sul tempo di lavoro tutte le gigantesche forze sociali così create, giacché forze produttive e rapporti sociali non sono per lui che mezzi. «In fact ‑ commenta ironicamente Marx ‑, essi sono le condizioni materiali per farlo saltare in aria». Insomma, come l'apprendista stregone del Manifesto, il capitale ‑ del tutto inintenzionalmente ‑ riduce a un minimo il lavoro umano, il dispendio di energia, ma «ciò tornerà utile al lavoro emancipato, ed è la condizione della sua emancipazione» (ivi, pp. 594, 589).

Marx conclude con una frase di grande pregnanza: una frase che suona stranamente sospesa, senza un predicato: un puro enunciato in cui si sintetizza in forma lapidaria il suo pensiero: «Il libero sviluppo delle individualità, e quindi non il ridurre il lavoro necessario per porre pluslavoro, ma in generale la riduzione al minimo del lavoro necessario della società, alla quale quindi corrisponde la formazione artistica, scientifica, ecc. degli individui mediante un tempo divenuto libero per essi tutti e mediante i mezzi procurati» (ivi, p. 593). Insomma, il tempo di disumanizzazione dell'uomo nel lavoro diviene premessa alla creazione, grazie al lavoro ma fuori di esso, di un tempo totalmente umano. Questo motivo del compito progressivo che il capitale, concreto Mefistofele, di fatto adempie, riducendo il lavoro necessario nella sua sete di pluslavoro, torna anche altrove, soprattutto in una pagina che vale la pena di tradurre per intero:

«La creazione di molto disposable time oltre il tempo di lavoro necessario per la società in generale e per ogni membro della medesima (cioè spazio per lo sviluppo delle piene forze produttive dei singoli quindi anche della società), questa creazione di tempo‑di‑non‑lavoro appare dal punto di vista del capitale, come di tutti i gradi precedenti, come tempo‑di‑nonlavoro o tempo libero per alcuni. Il capitale ci aggiunge che esso aumenta il tempo di pluslavoro della massa con tutti i mezzi della tecnica e della scienza, perché la sua ricchezza consiste direttamente nell'appropriazione di tempo di pluslavoro; giacché suo scopo è direttamente il valore, non il valore d'uso. Così è, malgré lui, instrumental in creating the means of social disposable time, per ridurre a un minimo sempre più basso il tempo di lavoro per tutta la società, e così rendere libero il tempo di tutti per il loro proprio sviluppo. La sua tendenza è però sempre di creare da una parte disposable time, dall'altra to convert it into surplus labour. Se la prima cosa gli riesce troppo bene, esso soffre di sovraproduzione e allora il lavoro necessario viene interrotto, perché da parte del capitale non può essere valorizzato nessun surplus labour.

Quanto più si sviluppa questa contraddizione, tanto più risulta che la crescita delle forze produttive non può più essere contenuta entro l'appropriazione di surplus labour altrui, bensì che la massa lavorativa stessa deve appropriarsi il proprio pluslavoro. Se essa lo ha fatto ‑ e con ciò il disposable time cessa di avere un'esistenza contraddittoria ‑ da una parte il tempo di lavoro necessario avrà la sua misura nei bisogni dell'individuo sociale, dall'altra parte lo sviluppo della forza produttiva sociale crescerà così rapidamente che sebbene ora la produzione sia calcolata sulla ricchezza di tutti, il disposable time di tutti aumenta. Infatti la ricchezza reale è la sviluppata forza produttiva di tutti gli individui. Non è più, quindi, in alcun modo il tempo di lavoro, ma il disposable time la misura della ricchezza. Il tempo di lavoro come misura della ricchezza pone la ricchezza stessa come fondata sulla miseria, e il disposable time come esistente nella e per la opposizione al tempo di pluslavoro, che è il porre l'intero tempo di un individuo come tempo di lavoro e degradazione quindi dello stesso a semplice lavoratore, sussunzione sotto il lavoro. Il macchinismo più sviluppato costringe quindi l'operaio a lavorare ora più a lungo di quanto facesse il selvaggio o di quanto facesse lui stesso coi più semplici, rozzi strumenti» (ivi, p. 595).

Abbiamo citato a lungo, perché ci è sembrato che il passo fosse significativo; ma avremmo potuto citare, qui e altrove, con altrettanta ricchezza. Invero questo concetto, che il tempo libero può essere tanto tempo d'ozio quanto tempo per un'attività più elevata, e che pertanto il risparmio di tempo di lavoro è uguale all'aumento di tempo libero, cioè tempo per il pieno sviluppo dell'individuo (ivi, p. 599), è fondamentale nello svolgersi del pensiero marxiano relativo al posto del lavoro ‑ questa espressione contraddittoria ‑ nel processo di liberazione dell'uomo. E ci pare che sia qui implicita la risposta all'obiezione che abbiamo riconosciuto di maggior rilievo, perché più intimamente connessa con le posizioni marxiane, sul lavoro da intendersi non come un regno della necessita, ma come regno della libertà esso stesso.

Per concludere riassumendo brevemente quanto abbiamo potuto vedere in questa sommaria rassegna della concezione che Marx ha del lavoro e del suo posto nel farsi dell'uomo, possiamo dunque dire che l'uomo è uomo in quanto cessa di identificarsi, alla guisa degli animali, con la propria attività vitale nella natura; in quanto inizia a produrre le condizioni stesse di una sua vita umana, cioè i mezzi di sussistenza e i rapporti con cui si pone con l'altro uomo nel produrla nella divisione del lavoro; in quanto conosce e vuole la propria attività e la configura come un rapporto non limitato con una sola parte della natura ma, almeno potenzialmente, come un rapporto universale o onnilaterale con tutta la natura come suo corpo inorganico; e in quanto, infine, umanizza la natura, facendo della storia naturale e di quella umana un solo processo, e nel far questo modifica se stesso, crea l'uomo, appunto, e la società umana.

Ma questa auto‑creazione di una figura o struttura umana avviene e non può non avvenire nell'ambito di rapporti in cui, dividendosi il lavoro, si divide l'uomo: si divide il singolo in se stesso, in quanto ciascuno è contestualmente il luogo di realtà e di possibilità contraddicentisi, e si dividono i singoli tra loro nella società, in quanto le capacità umane appartengono, divise e perciò deformate separatamente o agli uni o agli altri individui, ma non agli uni ed agli altri contemporaneamente.

Tale è stato il processo storico di contraddittoria formazione ‑ cioè sviluppo e perdita di se stesso, crescita e divisione ‑ dell'uomo, dal momento della sua uscita, grazie al lavoro, dalla pura natura. A un dato stadio di questo sviluppo ‑ e solo a un dato stadio ‑ la creazione di una totalità di forze produttive, tra le quali la scienza, rende possibile il recupero dell'interezza o onnilateralità. La proprietà privata dei mezzi collettivi di produzione, che è appropriazione del lavoro di altri, è stata anche appropriazione privata della scienza e sua separazione dal lavoro; essa ha, sì, negato il preesistente legame tra scienza e operazione, proprio della limitata produzione artigianale, ma ha creato a sua volta le condizioni per il proprio superamento. Essa rende, cioè, ineluttabile il recupero di una identità tra scienza e lavoro; e questo recupero non può attuarsi ormai che come ri‑appropriazione della scienza da parte di tutti gli individui nel processo collettivo della produzione moderna, del moderno dominio dell'uomo sulla natura.

Questa «ricostruzione» delle tesi di Marx sul lavoro, che noi abbiamo intrapreso in vista di una conclusione di contenuto pedagogico, coincide sostanzialmente, ci sembra, con la ricostruzione o sintesi che, al termine del I Libro del Capitale, Marx compie ‑ civettando audacemente con la dialettica ‑ per l'insieme della sua ricerca economica (W.23, p. 791). «Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l'ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. E la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale fondata sulla conquista dell'era capitalistica: la cooperazione e il possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso». E evidente che in Marx «individuale» si oppone non a «collettivo», ma a «privato». Ed infatti, proprio
la proprietà privata dei mezzi di produzione collettivi esclude una loro proprietà da parte di tutti i singoli individui, impedisce lo sviluppo dell'individuo come persona, e contrappone l'uomo all'uomo come un potere estraneo che lo domina. In due situazioni «limitate» della storia è esistita o proprietà privata dei mezzi individuali, o proprietà privata dei mezzi collettivi, ma non ancora una proprietà individuale dei mezzi collettivi di produzione, che può essere attinta soltanto in una situazione di sviluppo totale. L'individuo, d'altronde, come potrebbe impadronirsi di una totalità di forze produttive, altrimenti che nella comunità coi suoi simili? Che è lo stadio in cui, appunto, individualità e comunità coincidono, e non possono non coincidere.

Analogamente a quanto avviene nel processo economico generale di produzione della vita (che è poi il processo di formazione dell'uomo in quanto uomo, genere umano, umanità), nel processo specifico della formazione degli individui e delle generazioni nel loro crescere fisiologico-psicologico (cioè nell'educazione) l'esigenza ineluttabile, ovvero la tendenza oggettiva e quindi il fine, è di formare a una vita della comunità in cui scienza e lavoro appartengono a tutti gli individui. Cioè la scuola non può configurarsi altrimenti che come il processo educativo in cui scienza e lavoro coincidono: una scienza non meramente speculativa, ma operativa, perché nel suo essere operativa si riassume ciò che è specificamente umano, la capacità di dominio sulla natura; un lavoro non volto ad acquisire abilità parziali di tipo artigianale, ma il più possibile coordinato, almeno in prospettiva, alla tecnologia della fabbrica, cioè della più moderna forma della produzione. Come ciò possa tradursi in scelte e determinazioni pedagogiche precise, sia per la scienza che per il lavoro (e sebbene, nel processo lavorativo, in quanto processo fra l'uomo e la natura, gli elementi semplici rimangano identici (W. 25, p. 89 1), né Marx lo ha precisato, né è cosa da tentare di esaurire in questo contesto. Marx ha soltanto fornito un'indicazione, anzi ha costatato un'esigenza oggettiva; ma tale, comunque, da fondare la sua «pedagogia» su basi diverse dalle altre che pur si richiamano al lavoro.

In sostanza, egli si è trovato di fronte al processo storico (e contraddittorio) della separazione di godimento e produzione, di lavoro mentale e lavoro manuale, che ha analizzato direttamente nel cuore stesso della società, la produzione, solo indirettamente seguendone il presentarsi nelle altre determinazioni del vivere civile. Ha indicato nettamente sia la distruzione del vecchio artigianato, all'interno del quale si poteva dominare interamente un limitato processo produttivo tanto da elevarsi in esso fino a un limitato senso artistico (W3, p. 52), cioè a una limitata pienezza di espressione umana, sia la separazione di scienza e lavoro esistente nella fabbrica, che sottrae all'operaio le potenze intellettuali del lavoro, sia, infine, il sorgere spontaneo (e contraddittorio) del germe di un'istruzione nuova per la classe operaia moderna: cioè di scuole come quelle della classe dominante (e non più del semplice tirocinio), scuole investite anch'esse dalla modernissima scienza, la tecnologia, destinata in modo contraddittorio a far dominare interamente non più un limitato processo produttivo, ma una totalità di rami di produzione.

L'unione di istruzione e lavoro, che egli non inventa, ma trova già auspicata e praticata da pedagogisti e riformatori sociali, e attuata anzi nella stessa fabbrica, si rivela dunque parte di un processo di ricupero (Zurücknahme) dell'interezza dell'uomo compromessa dalla divisione del lavoro e della società, ma di cui lo stesso sviluppo delle forze produttive, che sono forze materiali e intellettuali, dominio dell'uomo sulla natura, consente, anzi esige, la restituzione. E, soprattutto, ciò significa una ricollocazione del processo educativo nel processo lavorativo: in un processo lavorativo ‑ la fabbrica moderna ‑ di sua natura totale, onnicomplettente, dinamico. Parlare di nesso istruzione‑lavoro fuori di questa collocazione, vuol dire fermarsi alle parole e non capire nulla della posizione marxiana: vuol dire confonderla con le varie didattiche onestamente escogitate da pedagogisti volenterosi, ma che nulla hanno a che fare col tentativo marxiano di interpretare il processo reale e le contraddizioni che incessantemente lo sollecitano.

3. L'uomo onnilaterale

Il tema del lavoro, che abbiamo cercato di considerare in tutta la sua contraddittoria pregnanza nei testi marxiani, per meglio determinare la sua possibile funzione di contenuto nel processo d'istruzione dell'avvenire, richiede di essere completato con un'indagine sulla figura umana e sulle prospettive del suo sviluppo, da Marx definito come «onnilaterale» (ailseitig), che avviene appunto sulla base del lavoro o piuttosto della sua attività vitale. E abbiamo già visto che la «onnilateralità» è posta oggettivamente come il fine dell'istruzione.

La divisione del lavoro condiziona la divisione della società in classi e, con essa, la divisione dell'uomo; e poiché essa diventa veramente tale solo quando si presenta come divisione tra lavoro manuale e lavoro mentale, così le due figure dell'uomo diviso, ciascuna unilaterale, sono essenzialmente quella del lavoratore manuale, operaio, e dell'intellettuale (Marx riprende qui l'opposizione di Adam Smith tra il facchino e il filosofo ‑ EBI, p. 558). Anzi, come la divisione del lavoro è, nella sua forma dispiegata, divisione tra lavoro e non‑lavoro, così l'uomo si presenta come lavoratore e non‑lavoratore. E proprio il lavoratore ‑presentandosi il lavoro diviso, o alienato, come assoluta miseria e perdita dell'uomo stesso si presenta come la completa disumanizzazione; ma d'altra parte ‑ essendo l'attività vitale umana, o manifestazione di sé, una universale possibilità di ricchezza ‑ nel lavoratore è contenuta altresì una universale possibilità umana.

Anche per questa caratterizzazione della condizione umana, per tutto il corso della ricerca marxiana ‑ senza limitarsi agli anni degli interessi filosofico‑antropologici (se pure questa caratterizzazione ha un senso) un filo rosso unisce determinazioni di suggestiva pregnanza e coerenza. Dai Manoscritti del] 844 agli ultimi libri del Capitale, sia l'unilateralità delle singole figure umane, sia la contrapposizione tra lavoratore manuale e intellettuale, sia l'assoluto antagonismo tra lavoratore e non lavoratore, ricompariranno di continuo in un contesto che ‑ lo ripetiamo acquista via via di rigore scientifico, in quanto più immediatamente si fonda sulla anatomia, scientificamente conoscibile, della società civile senza tuttavia nulla perdere di forza speculativa. E poiché, anzi, questa continuità tematica, questo incessante ritorno di formulazioni pregnanti è, come abbiamo visto, forse una delle spie più evidenti del concrescere della ricerca marxiana sulle sue stesse prime esperienze, con interruzioni temporali, si, ma senza rotture ideali (il che, ovviamente, non esclude, ma anzi include gli sviluppi, gli approfondimenti, le correzioni), vale certamente la pena, non diremmo di tentarne un catalogo completo, tanto impossibile quanto superfluo, ma almeno di dare un breve saggio del loro vario e continuo ripresentarsì. La divisione del lavoro, ovvero la proprietà privata ci ha fatto ottusi e unilaterali (EB1, p. 540). La divisione crea unilateralità, e sotto il segno dell'unilateralità, appunto, si collocano tutte le determinazioni negative, così come sotto il segno opposto della onnilateralità (ovviamente molto meno frequenti, dato che essa non è ancora cosa di questo mondo) si collocano tutte le prospettive positive della figura umana.

1. Unilateralità del proletario e del capitalista

Sin dalle primissime pagine dei Manoscritti del 1844, il lavoratore ci compare davanti abbassato fisicamente e mentalmente a una macchina (inutile contare quante volte questa degradazione a macchina dell'operaio ricompaia in seguito!), reso dalla divisione del lavoro sempre più unilaterale e dipendente, considerato dall'economia politica bestia da soma o uomo da fatica, un animale ridotto ai più stretti bisogni corporali (questo della limitatezza dei bisogni o, all'opposto, della loro espansione, è anche motivo costante). Tutto il capitolo sul Lavoro alienato è poi una denuncia di questa condizione dell'operaio, che diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, tanto più privo di valore e dignità quanto più crea valori, tanto più deforme quanto più il suo prodotto ha forma, tanto più imbarbarito quanto più il suo oggetto è raffinato, tanto più senza spirito e schiavo della natura quanto più il lavoro è spiritualmente ricco. Il lavoro produce deformità, imbecillità, cretinismo dell'operaio, che diventa un oggetto estraneo e disumano, in cui nessuno dei suoi sensi c'è più, e che non solo non ha più bisogni umani, ma in cui anche i bisogni animali cessano, poiché è divenuto un essere insensibile e senza bisogni (ivi, pp. 474‑475, 478, 513‑514, 539, 542).

E se dai Manoscritti del 1844 passiamo alle opere successive, troveremo gli stessi termini e le stesse parole. Nella Sacra famiglia leggiamo che nel proletariato è fatta astrazione da ogni umanità, perfino dalla parvenza dell'umanità, e che tutte le inumane condizioni di vita della società attuale si riassumono ugualmente nella sua situazione (W2, p. 38). Nella Ideologia tedesca, dove torna il tema della estraniazione e dove è così netta l'assunzione negativa del termine «lavoro» che ha in sé implicita la concezione negativa del lavoratore, si addita l'unilateralità che sorge da questa condizione, e si constata che, in quanto le circostanze nelle quali un individuo vive gli permettono di sviluppare soltanto una qualità a spese delle altre, l'individuo non va oltre uno sviluppo unilaterale, monco (W3, pp. 32, 72). E nella Miseria della filosofia, infine, torna la denuncia dell'idiotismo del mestiere, generato dalla divisione del lavoro (W4, p. 155).

Frequenti sono, d'altra parte, le caratterizzazioni dell'unilateralità anche dei capitalisti (come in genere dei privilegiati). «In primo luogo è da notare che tutto ciò che si palesa nell'operaio come attività di espropriazione, di alienazione, si palesa nel non‑lavoratore come stato di espropriazione, di alienazione», e l'immoralità, la mostruosità, l'ilotismo sono, insieme, degli operai e dei capitalisti, e se un'inumana potenza domina l'operaio, ciò vale anche per il capitalista. Chi gode della ricchezza, infatti, sì realizza come essere effimero, irreale, languido, un essere sacrificato e nullo, che considera la realizzazione umana come realizzazione del suo disordine, del suo capriccio, delle sue idee arbitrarie e bislacche (EB1, pp. 522‑523, 554). Lo stesso motivo torna anche più nettamente segnato nella Sacra famiglia, dove si dice che la classe possidente e la classe del proletariato rappresentano la stessa autoe-straniazione umana (W2, p. 7); e poi nella Ideologia tedesca, dove, a proposito della divisione tra città e campagna ‑ storicamente determinante quanto la divisione tra lavoro manuale e mentale, essendo in sostanza l'espressione sociologica della divisione del lavoro, così come quella ne è l'espressione psicologica egli osserva che la sussunzione sotto la divisione del lavoro fa dell'uno il limitato animale cittadino, dell'altro il limitato animale campagnolo, e che, di fronte al modo anormale, inumano in cui la classe dominata soddisfa i suoi bisogni, stanno i limiti in cui si sviluppano le classi dominanti, così che questa limitatezza consiste non soltanto nell'esclusione di una classe, ma anche nelle ristrette capacità della classe che esclude, e l'inumano si manifesta egualmente nella classe dominante (ad esempio con «la concezione sbilenca dei filosofi» o le «idee dei maestri di scuola», o la « magniloquenza dei bottegai del pensiero» ‑ W3, pp. 417, 423, 75, 67, 53).

Insomma capitalisti o lavoratori sono gli uni e gli altri sussunti sotto una classe, membri di una classe, e non individui. A questa caratterizzazione «filosofica» dell'unilateralità corrispondono osservazioni di tipo «sociologico», sempre negli scritti giovanili di Marx, ai quali può essere interessante affiancarne anche alcuni di Engels, in cui si presentano al vivo i tipi umani della società divisa.

Engels condusse interessanti indagini sociologiche, sia con articoli su giornali tedeschi, già nel 1839, sia con corrispondenze dall'Inghilterra, nei suoi primi viaggi per conto della ditta paterna. In esse dava conto anche della realtà dell'istruzione di allora per gli operai;e della lotta che gli operai facevano per avere scuole, documentando come queste o non esistessero affatto o fossero elargite dalle organizzazioni religiose a fini esclusivamente religiosi. Anche in Germania le scuole riservate ai ceti subalterni impartivano soltanto un'istruzione catechistica: Rudolf Tarnow, un poeta popolare del tempo, ironizzando su questo tipo di scuola, immagina che il patrono di una scuola raccomandasse agli insegnanti di insegnare agli allievi soprattutto molto catechismo: «dem Jun gen Volk, vor allen Dingen, viel Katechismus beizubringen» (Der Schulpatron). Vero è che cominciavano a sorgere alcune scuole popolari dipendenti dall'amministrazione civile, nelle quali, accanto al catechismo delle religioni dominanti nelle varie zone, si insegnavano anche gli elementi di altre scienze, cioè praticamente la matematica e un po' di storia, con risultati che venivano giudicati positivi (W.1, pp. 469, 470, 525‑528).

Ma in generale Engels osservava che l'istruzione impartita nelle scuole create dalla borghesia per gli operai ‑ e insomma dai ceti dominanti per i ceti subalterni ‑ facendo loro perdere ogni «disponibilità» originaria, li portava a una vera e propria atrofia morale e desolazione intellettuale; e più tardi aggiungerà che gli operai inglesi sono uomini quando cominciano a ribellarsi, ma bestie quando si adattano alla situazione esistente (W2, p. 3).

D'altra parte, nella descrizione sociologica di questa situazione, emerge anche una polemica, anch'essa di tipo populista, contro la uguale degenerazione delle classi colte la cui cultura è decrepita e inconsistente. Sono stati tormentati a scuola, dice Engels, con un pà di latino, e poi sono diventati persone «rispettabili», ma non hanno in realtà nessuna cultura e nessuna capacità pratica, e appaiono spiritualmente caduti in basso, chiusi a ogni progresso e veramente soltanto degli schiavi spregevoli. Così alla denuncia contro lo strumentalismo della scuola popolare si associa la condanna violenta anche della cultura tradizionale e dell'educazione delle classi colte, puramente decorativa e priva di ogni
reale sostanza (W 1, p. 525).

Ma la fenomenologia dell'uomo unilaterale non si esaurisce nella sede filosofica o sociologica degli scritti giovanili: continua e si specifica anch'essa nella successiva ricerca marxiana, arricchendosi di tutte le concrete determinazioni che l'economia politica le fornisce. La sussunzione degli individui sotto determinati rapporti torna ‑ l'abbiamo visto nei Grundrisse, e porta alla constatazione del totale abbrutimento dell'operaio, distrutto e sussunto nel processo del macchinismo stesso, trasformato in un suo accessorio vivente. E infine, nel Capitale l'operaio ricompare come nei primi scritti economico‑filosofici, ma in modo tanto più determinato ‑ nella sua figura di uomo parziale, appropriato e annesso per la vita a una funzione unilaterale, avvilito, mutilato, storpiato, ridotto a una mostruosità, reso incapace di fare alcunché di indipendente, intellettualmente e fisicamente rattrappito. Ricompare la miserabile popolazione operaia, estraniata dalle potenze intellettuali del processo lavorativo, la degradazione e la distruzione dei fanciulli e degli adolescenti, e tutte le infinite determinazioni che con drammatica insistenza ripropongono lungo tutto il corso della ricerca storica e teorica del Capitale sia lo stato immediato di subordinazione dell'operaio alla macchina, che la condizione generale di inumanità che gliene deriva (Gr., pp. 369‑370, 382, 510‑511, 516‑517, 675‑676).

2. Una morale divisa

La considerazione della divisione della società e dell'uomo coinvolge necessariamente anche l'ambito dei rapporti propri della sfera morale. In una pagina dei Manoscritti del 1844, nel capitolo Bisogno, produzione e divisione del lavoro, Marx, dopo avere constatato che nella società divisa quanto più l'uomo produce tanto meno possiede, aggiunge «non soltanto i tuoi sensi immediati, del mangiare eccetera, tu devi risparmiare; anche la partecipazione agli interessi generali, la pietà, la confidenza eccetera, anche tutto questo devi risparmiarti se vuoi essere uomo economico, se non vuoi andare in malora dietro illusioni» (EBI, p. 273).

Dunque: per essere uomo economico, cioè per vivere in una società divisa, si deve rinunciare alla propria realtà umana. «Quando chiedo all'economista ‑ aggiunge Marx ‑ se obbedisco alle leggi economiche quando traggo denaro dall'abbandono o messa in vendita del mio corpo al piacere di estranei, l'economista mi risponde: tu non agisci contro le mie leggi, però vedi che cosa dice la mia signora cugina, la morale, e che cosa dice la cugina religione. La mia morale e la mia religione economica non hanno nulla da obiettarti». Allora chi ha posto questa domanda all'economista dice: «Ma a chi devo mai credere? All'economista o alla morale? La morale dell'economia è il guadagno, l'economia della morale è la ricchezza di coscienza, di virtù, ecc., ma come posso essere un virtuoso, se io non sono, come posso avere una buona coscienza se io non so?» E Marx conclude: «L'alienazione nella sua essenza implica che ogni sfera [cioè l'economia, la morale, la religione] mi impongano una norma diversa e antitetica; una la morale, un'altra l'economia politica, perché ciascuna è una determinata alienazione dell'uomo e fissa una particolare cerchia dell'attività sostanziale estraniata e si comporta come estranea rispetto all'altra estraniazione" (ivi, p. 660). Insomma, ogni forma particolare dell'attività estraniata è a sua volta estranea alle altre forme particolari della stessa attività sostanziale, cioè all'attività vitale stessa dell'uomo. Questa è, infatti, la realtà delle società storicamente esistite, delle società divise in classi: che in esse ogni sfera dell'attività umana presuppone una sua particolare morale, un suo particolare modo di comportamento, una norma diversa e antitetica.

Non è questo il solo esplicito riferimento alla morale in Marx. Altri potremmo rintracciarne, se non in questa forma di discussione teorica, nella concreta denuncia che Marx fa delle condizioni della società capitalistica, o nella prospettiva del comunismo. Si ricordi tutto ciò che Marx ha detto a proposito della degradazione degli operai e della degradazione anche della classe dominante, si ricordi come nel Manifesto ‑ tanto per citare uno dei testi più ovvi ‑ Marx opponga la sua sfida alla morale, alla religione corrente, al concetto corrente della famiglia, proponendo una concezione superiore (W4, pp. 478‑479). Nel Capitale torna la stessa polemica contro questi modi di essere della vita associata, ciascuno dei quali impone una sua norma che ignora le altre, onde c'è conflitto continuo tra queste norme che le sfere dell'attività sostanziale umana impongono all'uomo. La conclusione che in breve si può trarre da questa posizione di Marx è, dunque, una esigenza di reintegrazione di un principio unitario del comportamento dell'uomo. Esigenza a cui non è sufficiente rispondere ipotizzando una teoria pedagogica e un sistema di educazione che reintegrino immediatamente queste varie sfere divise fra loro; ma che comunque presuppone una prassi educativa che, legandosi allo sviluppo reale della società, attui la non separazione degli uomini in sfere aliene, estraniate le une alle altre e contrastanti, cioè una prassi educativa che si fondi su un modo di essere il più possibile associativo e collettivo al suo interno, e insieme collegato alla realtà sociale che è intorno.

3. Aspetti positivi dell'uomo unilaterale

Accanto a questa caratterizzazione così ossessivamente negativa della figura sia del lavoratore alienato che del capitalista, prodotti contraddittori della stessa società contraddittoria, sta la caratterizzazione solo parzialmente positiva di alcuni aspetti sia dell'una che dell'altra figura. Forse, parafrasando il discorso di Marx su ciò che è il lavoro secondo la realtà e secondo la possibilità, si potrebbe dire che il lavoratore è secondo la realtà unilaterale e secondo la possibilità onnilaterale.

La figura del capitalista compare nel suo aspetto parzialmente e apparentemente positivo soprattutto nei numerosi passi in cui la sua condizione è direttamente contrapposta alla demoralizzazione bestiale e alla completa semplicità rozza e astratta dei bisogni del lavoratore alienato, in quanto essa è il raffinamento dei bisogni e dei mezzi relativi, essendo «ogni bisogno reale ed efficace solo se ci sono le condizioni della sua attuabilità». A questa contrapposizione, che è nei Manoscritti del 1844, L’Ideologia tedesca aggiunge che proprio la divisione del lavoro crea la possibilità, anzi la realtà che l'attività spirituale e l'attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo tocchino a individui diversi (EBJ, p. 548, e W3, p. 33). E tuttavia questo privilegio dell'attività spirituale, del godimento, del consumo, è solo apparentemente e parzialmente positivo, come si palesa nel fatto che chi può comprare la bravura è valoroso, anche se è vile, e che il denaro tramuta la fedeltà in infedeltà, l'amore in odio e l'odio in amore, la virtù in vizio e il vizio in virtù, lo schiavo in padrone e il padrone in schiavo, l'idiozia in intelligenza e l'intelligenza in idiozia (ivi, p. 566). È, insomma, una condizione di positività solo relativa, perché la divisione del lavoro coinvolge tutti sotto il suo segno, né lascia luogo a onnilateralità, ma semmai soltanto a una molteplicità di bisogni e godimenti.

Di fronte al positivo proprio della classe dominante, che consiste dunque nella realtà dell'appropriazione del godimento, della cultura, ecc. grazie al lavoro altrui, il positivo del lavoratore consiste invece come abbiamo accennato ‑ in una possibilità: o, più concretamente nella sua disponibilità astratta di godimento, di cultura, ecc., e nella sua diretta e consapevole opposizione allo stato di cose presente. E infatti, come Engels esaltava nei suoi scritti sociologici giovanili la classe operaia inglese, perché non aveva nessuna cultura, ma anche nessun pregiudizio, Marx riprendendo questo giudizio nel Capitale, esalterà la spontanea ignoranza che «tiene i cervelli a maggese» senza corrompere la loro capacità di sviluppo (W I, p. 527, e W23, p. 422). Quanto si ripresenti qui implicito il giudizio negativo su ogni forma di istruzione e di educazione tradizionale, è evidente fin troppo. Ed è importante che, accanto a questo giudizio, se ne esprima un altro che lo completa, sulla capacità culturale autonoma della classe operaia. Alla ignoranza della classe dominante che, dopo essere stata tormentata a scuola col latino, vive dilapidando il proprio patrimonio, immersa nei pregiudizi, andando a caccia e basta, e all'ignoranza e all'abbrutimento del lavoratore educato alle scuole borghesi, si contrappone l'operaio inglese, che è il solo lettore dei classici della filosofia tedesca, tradotti dai propagandisti socialisti. Ed Engels, usando polemicamente la parola tipica della respectability britannica, può dire che soltanto gli operai inglesi sono autenticamente rispettabili (r'Vl, p. 527).

Marx, dal suo canto, pur quando constata l'impossibilità dell'esistenza di un uomo intero nella società divisa, esalta tuttavia l'operaio comunista come tipo di uomo moralmente e intellettualmente positivo già nella realtà di allora. È una pagina tipica di questo entusiasmo operaistico di Marx ed Engels giovani. «Quando operai comunisti si riuniscono, loro scopo è innanzi tutto la dottrina, la propaganda ecc. Ma al tempo stesso acquistano con ciò un nuovo bisogno, il bisogno della società, e quel che appare un mezzo diventa lo scopo. Questo movimento pratico lo si vede nei suoi risultati più splendidi quando si osservano degli ouvriers socialisti francesi riuniti». Engels aveva esaltato gli operai inglesi, Marx esalta gli ouvriers francesi: «Fumare, bere, mangiare ecc. non sono più ivi mezzi di unione o associativi: la società, l'unione, la conversazione, che la loro società ha per scopo, bastano loro, la fraternità umana non è una frase ma la verità presso di loro, e la nobiltà dell'umanità ci splende incontro da quelle figure indurite dal lavoro» (EBJ, pp. 553‑55).

E si potrebbero ricordare altre pagine in cui ci sono analoghe esaltazioni della classe operaia, per esempio nell'ideologia tedesca, in cui, citando gli economisti francesi contemporanei, Marx ripete che «oggigiorno proprio tra i proletari si sviluppa al massimo l'individualismo» (W3, p. 212), quella che noi diremmo oggi la persona umana. Così nella Sacra famiglia, un anno dopo: «Bisogna aver conosciuto lo studio, l'avidità di sapere, l'energia morale, l'impulso a progredire senza sosta degli ouvriers francesi e inglesi, per potersi fare un'idea dell'umana nobiltà di questo movimento» (W2, p. 89). Con accentuazione moralistica, dunque, Marx ed Engels ‑ sia l'uno che l'altro ‑ esaltano questa figura di operaio educato alla propria scuola associativa, contrapponendo questo come uomo in cui si sviluppa al massimo la sua individualità, come uomo veramente rispettabile, al rappresentante delle classi dominanti, ozioso, parassita, che ha perso ogni sostanziale rispettabilità. Il che ci dà tutta una messe di indicazioni che si presentano come testimonianze di un'inchiesta sociologica negatrice di ogni validità positiva della cultura e del modo di educazione tradizionale, e naturalmente ci richiamano al fatto che anche la classe dominante appare nettamente una classe in cui si manifesta, come nella classe dominata, la alienazione.

Si potrà dunque concludere che in questo quadro dell'umanità divisa e perciò ugualmente unilaterale, dove tuttavia una parte è esclusa da ogni partecipazione al godimento e al consumo ‑ dei beni sia materiali che intellettuali, ovviamente ‑ e l'altra ne ha l'esclusivo privilegio in nome del denaro che tramuta l'idiozia in intelligenza e rende valoroso il codardo, è alla classe esclusa che si deve guardare come a quella suscettibile di uscire, e fare uscire con sé le altre classi, dalla estraniazione: nell'emancipazione dell'operaio è implicita la generale emancipazione umana (EBJ, pp. 521‑522). Ma per questa determinazione si può risalire alla Critica della filosofia del diritto di Hegel, pubblicata nel febbraio del 1844 (W], p. 391): «La filosofia non può realizzarsi senza la eliminazione del proletariato, il proletariato non può eliminarsi senza la realizzazione della filosofia». Poi, La Sacra famiglia, con dialettica schiettamente hegeliana, addita nella classe possidente il lato positivo della antitesi, che si sente a sua agio nella autoestraniazione, e sa che in questa estraniazione è la sua potenza e la parvenza di una esistenza umana; mentre il proletariato è il lato negativo, la miseria consapevole della sua miseria intellettuale e fisica, la disumanizzazione consapevole di essere disumanizzazione, e che perciò sopprime se stessa (w2, pp. 37‑38); e l'ideologia tedesca ripete: solo i proletari del tempo presente, del tutto esclusi da ogni manifestazione personale, sono in grado di giungere alla loro completa e non più limitata manifestazione personale, che consiste nell'appropriazione di una totalità di forze produttive e nella sviluppo, da ciò condizionato di una totalità di facoltà. Ma anche la loro ribellione, se resta nell'ambito del modo di produzione esistente, se non si fonda su una forza produttiva rivoluzionaria, resta pur sempre l'«inumano» (ivi, p. 417).

4. La figura dell'uomo onnilaterale

Di fronte alla realtà della estraniazione umana, nella quale ogni uomo, estraniato dall'altro, è estraniato dalla stessa natura e lo sviluppo positivo è limitato a una cerchia ristretta, sta l'esigenza della onnilateraljtà, di una sviluppo totale, completo, multilaterale, in tutti i sensi delle facoltà e delle forze produttive, dei bisogni e della capacità del loro soddisfacimento.

Nei Manoscritti del 1844 ‑ dove è già la puntualizzazione del rapporto uomo‑natura nel lavoro, come un rapporto che è insieme volontario, cosciente e universale, dove la natura tutta è fatta corpo inorganico dell'uomo, dove tutta la cosiddetta storia universale non è che il divenire della natura per l'uomo e la generazione dell'uomo dal lavoro umano, e l'industria è il reale rapporto storico con la natura ‑ compare per la prima volta in questo contesto l'espressione «onnilaterale», là dove Marx dice che l'uomo, appunto, «si appropria in una guisa onnilaterale del suo essere onnilaterale, dunque da uomo totale» (EBJ, pp. 546, 544, 539). In una pagina dell'Ideologia tedesca che contiene una chiave precisa per intendere il senso reale dell'onnilateralità di Marx, si dice che mentre nelle precedenti rivoluzioni gli uomini si erano appropriati di forze produttive limitate, nella rivoluzione proletaria una totalità di forze produttive sviluppatesi nel modo storico della divisione del lavoro e della proprietà privata viene sussunta sotto ciascun individuo e la proprietà sotto tutti: giacché «le relazioni universali moderne non possono essere sussunte sotto gli individui altrimenti che con l'essere sussunte sotto tutti», e soltanto a questo stadio la manifestazione personale coincide con la vita materiale, ciò che corrisponde allo sviluppo degli individui in individui completi. Si stabilisce, quindi, un nesso reciproco per cui l'individuo non può svilupparsi onnilateralmente se non si ha una totalità di forze produttive, e una totalità di forze produttive non può essere padroneggiata che dalla totalità degli individui liberamente associati: e, insomma, lo sviluppo originale e libero degli individui nella società comunista (W3, pp. 67‑68, 424‑425).

Questa geniale, ma ancora generica intuizione esige, però, maggiore determinatezza. Nella Miseria della filosofia la prospettiva della onnilateralità compare già più strettamente collegata con la vita della fabbrica, anzi della moderna fabbrica meccanizzata: nella quale, avendo il lavoro perduto ogni carattere di specializzazione, proprio col cessare di ogni sviluppo speciale, che era invece tipico della produzione artigiana, comincia a farsi sentire il bisogno di universalità, la tendenza verso uno sviluppo onnilaterale dell'individuo (W4, pp. 155‑156). Il punto di partenza, comunque, è sempre quello istituito nella Ideologia tedesca: ma il discorso poggia concretamente sulla considerazione, scientificamente perseguibile, della base economica.

E proprio su questo tema si stabilisce l'aggancio tra la speculazione degli anni giovanili e la successiva ricerca economica. Nei Grundrisse, ad esempio, si afferma, a proposito delle forme di produzione prevalentemente agricole (schiavitù, ecc.), che «all'interno di una determinata cerchia le individualità possono apparire grandi, ma non c'è da pensare a uno sviluppo libero e completo né dell'individuo né della società». Perché questo divenga possibile è necessario che dalla vecchia condizione in cui l'uomo, limitato dal punto di vista religioso, nazionale, politico, ma tuttavia posto come scopo della produzione, può affermare la sua limitata personalità, si passi alla situazione attuale, in cui l'uomo è degradato ad accessorio di una macchina, la produzione si presenta come scopo degli uomini, e la ricchezza come scopo della produzione. Ma la ricchezza, una volta abbandonata la limitata forma borghese, che cos'è l'abbiamo già visto ‑ «se non l'universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive ecc., degli individui, creata nello scambio universale? Che cosa, se non il pieno sviluppo del dominio dell'uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cos'è se non l'estrinsecazione assoluta delle sue facoltà creative...?».

Questa ricchezza richiama immediatamente la totalità delle forze produttive, è un risultato a cui l'umanità perviene attraverso la propria storia: «Gli individui universalmente sviluppati, i cui rapporti sociali come le loro proprie relazioni di comunità sono anche sottoposti ai loro propri controlli di comunità, non sono un prodotto della natura, ma della storia. Il grado e la universalità dello sviluppo delle facoltà in cui questa individualità diviene possibile, presuppone appunto la produzione sulla base dei valori di scambio, che primamente produce con l'universalità l'estraniazione dell'individuo da sé e da altri, ma anche l'universalità e l'onnilateralità delle sue relazioni e capacità». Involontario demiurgo di questo processo è il capitale che, in quanto anela senza posa alla forma universale della ricchezza, spinge il lavoro «oltre i limiti della sua bisognosità e crea così gli elementi materiali per lo sviluppo della ricca individualità, che è tanto onnilaterale nella sua produzione quanto nel suo consumo» (Gr., pp. 38, 79‑60, 231). Onnilateralità è, dunque il pervenire storico dell'uomo ad una totalità di capacità produttive e insieme a una totalità di capacità di consumi o godimenti: nei quali, sappiamo, è da vedere soprattutto il godimento di quei beni spirituali, oltre che materiali, da cui il lavoratore è stato escluso in seguito alla divisione del lavoro.

Sono, queste, prospettive tuttavia indeterminate, alle quali manca ancora un reale contenuto. Ma via via che il corso dell'ulteriore ricerca consentirà di determinare meglio il concreto processo di disumanizzazione, e la divisione del lavoro diverrà una specifica divisione non soltanto all'interno della società, ma anche all'interno della fabbrica con la perdita di ogni specializzazione, e l'operaio apparirà incalzato e travolto dal variare di una tecnologia, cioè di una scienza operativa, da lui separata, ma che muta incessantemente le sue condizioni di lavoro e gli richiede una versatilità senza contenuto, allora anche la prospettiva del lavoratore onnilaterale si configurerà in forma più determinata e concreta. Allora Marx potrà irridere al vecchio ammonimento conservatore di una situazione di divisione e di unilateralità: Ne sutor ultra crepidam! ["Calzolaio, non andare oltre le scarpe", Plinio, Storia naturale, 35] perché «questo nec plus ultra della sapienza artigiana [cioè di una rigida divisione del lavoro all'interno della società, col correlativo formarsi di personalità anche grandi ma rigorosamente chiuse all'interno di una cerchia determinata] è diventato terribile follia dal momento nel quale l'orologiaio Watt ha inventato la macchina a vapore, il barbiere Arkwright ha inventato il telaio continuo, e l'operaio orefice Fulton il battello a vapore" (1V23, p. 513). L'uomo che spezza il cerchio che lo chiude in una esperienza limitata e crea nuove forze di dominio sulla natura, che si rifiuta di essere orologiaio, barbiere, orefice e trapassa ad attività più elevate, ecco il tipo d'uomo che Marx ha in mente.

E non è certo fuor di luogo osservare che, proprio a questo proposito, in una sua breve nota egli dia una precisa indicazione di carattere strettamente pedagogico: egli esalta John Bellers, come «un vero fenomeno» nella storia dell'economia politica, per aver capito, fra l'altro, sin dalla fine del secolo XVII, «come fosse necessario superare l'attuale educazione e l'attuale divisione del lavoro, che generano ipertrofia e atrofia ai due estremi della società, sia pure in direzione opposta».

L'educazione è qui posta accanto alla divisione del lavoro come causatrice di unilateralità, aprendo, fra l'altro, il problema della interazione tra scuola e società, sul quale Marx tornerà in altra occasione con un interessante accenno, purtroppo non sviluppato. In questo contesto Marx cita come «detto molto bene» da John Bellers ‑ ed è una lode che vale almeno quanto, per Owen, il prender da lui 1c mosse per tracciare la prospettiva dell'educazione dell'avvenire ‑ non solo il suo elogio del lavoro corporale come «istituzione originaria di Dio» (Marx dirà: legge di natura), ma anche un suo giudizio sui sistemi di educazione fondati su dottrine oziose o occupazioni stupide. E il suo commento è forse il più concreto suo giudizio in sede specificamente pedagogico‑didattica: «Profetico presentimento contro i Basedow e i loro scimmiotti moderni» (ivi, nota 309).

Dunque, un uomo educato con dottrine non oziose, con occupazioni non stupide, capace di uscire dalla ristretta cerchia di un lavoro diviso. Questo è il tipo di uomo onnilaterale che Marx propone, superiore all'uomo esistente, tanto quanto la classe operaia sarà posta al di sopra delle attuali classi superiori e medie dall'unione di lavoro e istruzione.

Che, dato il carattere non utopistico della ricerca marxiana, manchino a questa figura di uomo onnilaterale determinazioni così precise come quelle che abbiamo visto relative all'uomo unilaterale, è ovvio. Marx non disegna mai una società futura, non si spinge, come Owen, a prevedere magari la buona salute degli uomini appartenenti a questa o quella delle classi di età e di lavoro che egli prescriveva. Forse, tuttavia, permangono in lui elementi di oscillazione tra una concezione dell'onnilateralità intesa come disponibilità, variazione e multilateralità, o invece come pieno possesso di capacità teoriche e pratiche, come piena capacità di godimenti umani. Questa disponibilità e variabilità è presente sin dall'Ideologia tedesca, quando Marx, in opposizione alla società divisa, dove anche l'artista, la grande personalità, come ad esempio Raffaello, è «sussunta sotto la ristrettezza locale e nazionale», e dove comunque si ha la concentrazione esclusiva del talento artistico in alcuni individui, da una parte, e il suo soffocamento nella massa, dall'altra, ipotizza una società comunista dove non esistono pittori, ma «tutt'al più, uomini che dipingono, anche» (W3, pp. 377_378)24. La stessa ipotesi, che abbiamo visto, di un Watt, di un Arkwright, di un Fulton, non si sottraggono a questo rischio di utopismo. Che sembra contraddetto in pieno dalla sempre più evidente esigenza odierna di un'alta specializzazione attraverso cui attingere le più alte possibilità dello sviluppo umano; ma è forse sostenuta e confermata dall'ipotesi di un sempre maggiore tempo libero «per una educazione da essere umani» (W23, p. 315).

Ma cerchiamo di ricostruire l'uomo onnilaterale non tanto quale Marx lo disegna incidentalmente qua e là in opposizione alla figura reale dell'uomo unilaterale, ma piuttosto quale emerge dal contesto della sua ricerca, come tendenza contraddittoriamente posta e negata dalla società moderna e assumibile ormai come fine consapevole.

In quanto risultato di un processo storico di autocreazione, l'uomo si presenta come una totalità di disponibilità. L'appropriazione individuale (nel senso che abbiamo già visto) di una totalità di forze produttive oggettivamente esistenti significa ormai l'assoluta estrinsecazione delle facoltà creative soggettive dell'uomo, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico. L'uomo appare allora universalmente disponibile nei «bisogni» o consumi, cioè nelle esigenze umane (che si possono configurare scherzosamente come il cacciare o il pescare o l'allevare o il criticare della sarcastica obiezione di Marx agli ideologi tedeschi, oppure come il dipingere, il fare politica, lo studio, l'avidità di sapere, l'energia morale, l'impulso a progredire, la socievolezza, la conversazione, la fraternità umana, la formazione artistica e così via ché tali sono le concrete determinazioni degli umani godimenti che Marx occasionalmente ci propone). E appare altresì disponibile nella produzione, nella quale, non più sussunto sotto aspetti determinati, è in grado di far fronte come individuo alla variazione della tecnologia. Lavoro onnilaterale, e non‑lavoro altrettanto onnilaterale come sviluppo delle potenze universali della testa, del cervello umano: questo è il manifestarsi dell'uomo.

Ché se la produzione capitalistica dilapida gli uomini, dilapida non solo la loro carne e il loro sangue, ma pure i loro nervi e i loro cervelli tuttavia, proprio «per mezzo del più mostruoso sacrificio dello sviluppo degli individui soprattutto si assicura e realizza lo sviluppo dell'umanità in quest'epoca storica che immediatamente precede la cosciente ricostituzione dell'umana società» (W25, p. 99). Questa ri‑costituzione (un'espressione che ancora una volta colloca chiaramente tutto il problema dell'uomo in una dimensione storica) significa passaggio dal sacrificio all'espansione degli individui, necessitato oggettivamente dalle stesse condizioni che li sacrificano, dato che sono le stesse nuove forze oggettive create dalla società nel suo contraddittorio sviluppo ad avere «bisogno di uomini nuovi» (W12, p. 4). E a questi uomini nuovi, non integrati o sussunti sotto rapporti limitati, nessuna morale di gruppo detterà i suoi imperativi unilaterali e contrastanti con quelli di altre morali, né la morale sarà contestata dalla «cugina» economia o da altre sfere dell'umano operare. Il che non vorrà certo dire l'esistenza di individui e società senza conflitti, ma piuttosto una loro vita in cui i conflitti, e le scelte che essi comportano, implicano una volontà libera da soggezioni particolari.

Quanto alle implicazioni pedagogiche che tutto questo comporta, in sintesi esse possono esprimersi nell'affermazione che per la reintegrazione dell'onnilateralità dell'uomo si richiede la riunificazione delle strutture della scienza con quelle della produzione. Non può infatti esser valida né l'estensione a tutti della cultura tradizionale nel tipo di scuola finora esistito per i ceti dominanti, né il permanere della formazione subalterna, finora elargita ai ceti produttivi, attraverso l'antico tirocinio artigianale o le nuove forme di istruzione collegate all'industria moderna.

In realtà, Marx ha preso atto del sorgere di un nuovo tipo di scuole, come espressione di un nuovo processo in corso ‑ le scuole politecniche e agronomiche, le écoles d'enseignement professionnel (W23, p. 535) ‑ ma non ha mai pensato che esse soddisfacessero pienamente l'esigenza reale dell'uomo: ha sottolineato invece la necessità di dare un posto, anche nelle scuole per gli operai, a un'istruzione tecnologica che fosse, insieme, teorica e pratica: e non si può in alcun modo sottovalutare che cosa significhi questo elemento della teoria in un contesto non solo di reintegrazione dell'onnilateralità dell'uomo, ma anche di superamento della separazione avvenuta nella fabbrica tra scienza e lavoro. L'orientamento praticistico e professionale dell'istruzione non è cosa di Marx, bensì, occorre pur dirlo, del sistema capitalistico che egli denuncia. Si veda il suo pensiero nel Capitale, là dove egli, parlando della formazione dei lavoratori del commercio, osserva appunto che «la produzione capitalistica orienta verso la pratica i metodi di insegnamento» (W25, p. 311). Ancora una volta, l'accusa, che si tende a rivolgere alla pedagogia marxista, di aver di mira soltanto la tecnica, di auspicare una scuola volta soltanto alla formazione pratica, di non saper pensare che in termini di homo oeconomicus, non è altro che ciò che Marx individua e critica come un limite della società capitalistica. Non è il marxismo, ma è il capitalismo, è la produzione capitalistica che ‑ come Marx denuncia - limita per i lavoratori l'istruzione alla pratica.

4. Scuola e società: il contenuto dell'istruzione

Un'utile occasione di riepilogare le principali idee pedagogiche di Marx può essere fornita dai suoi due interventi, dell'agosto 1869, al Consiglio generale della Associazione internazionale dei lavoratori, nei quali, a due anni di distanza dai suoi scritti essenziali in proposito le Istruzioni ai delegati, qui direttamente richiamate, e il Capitale ‑ egli tratta in parte le stesse questioni, come l'istruzione politecnica, in parte questioni trattate altrove, come il rapporto della scuola con lo Stato e la Chiesa, in parte questioni nuove, come il contenuto stesso dell'insegnamento.

Purtroppo, però, di quei due interventi non ci sono pervenuti, nei verbali dell'Internazionale, che i rendiconti sommari, di mano del suo amico Eccarius; una redazione, quindi, indiretta e schematica, ma che ha tutta l'apparenza del documento fedele, sì che vale la pena non soltanto di renderli noti anche in Italia, ma anche di dedicare loro un breve commento, che consenta di ricapitolare rapidamente i punti essenziali della tematica pedagogica marxiana.

Presentiamo qui di seguito il testo dei verbali dell'Internazionale, con le note ad esso apposte dal curatore dell'edizione russo‑tedesca, curata dall'Istituto per il marxismo‑leninismo presso il Comitato centrale del Partito tedesco d'unità socialista (SED) sulla base dell'edizione russa curata dall'Istituto per il marxismo‑leninismo presso il Comitato centrale del Partito comunista dell'Unione Sovietica (PCUS). Delle note stesse, del resto, potrà essere utile discutere.

L'istruzione nella società moderna

Il cittadino Marx disse che a questa questione è collegata una difficoltà di tipo particolare. Da una parte si richiede un mutamento delle condizioni sociali per creare un sistema d'istruzione corrispondente, e dall'altra parte si richiede un corrispondente sistema d'istruzione per poter cambiare le condizioni sociali. Perciò noi dobbiamo partire dalla situazione esistente.

Nei Congressi si è discussa la questione se l'istruzione debba essere statale o privata. L'istruzione statale è considerata come istruzione sotto controllo del governo, ma ciò non è assolutamente indispensabile. Nel Massachusset ogni municipalità è tenuta a garantire a tutti i fanciulli un'istruzione scolastica elementare. Nelle città con più di 5.000 abitanti si debbono mantenere scuole per l'istruzione politecnica, nelle città maggiori scuole superiori. Lo Stato aggiunge qualche cosa, ma non molto. Nel Massachusset 1/8 delle tasse locali è speso per l'istruzione, a New York 1/5. I comitati scolastici che amministrano le scuole sono organizzazioni locali; essi nominano gli insegnanti e scelgono i libri di testo. Il difetto del sistema americano consiste nel fatto che porta a un carattere localistico e che l'istruzione dipende dal livello di ciascun distretto. Perciò è stata avanzata la proposta di un controllo centrale. La tassazione a vantaggio della scuola è obbligatoria, non però la frequenza dei fanciulli. La proprietà è tassata, e la gente che paga le tasse desidera che il denaro sia impiegato utilmente.

L'istruzione può essere statale, senza stare sotto il controllo del governo. Il governo può nominare ispettori, il cui compito è di vigilare sul rispetto della legge ‑ senza che abbiano il diritto di immischiarsi nell'istruzione vera e propria ‑, così come gli ispettori di fabbrica vigilano sulla osservanza delle leggi sulle fabbriche.

Il Congresso può decidere senza indugio che l'istruzione scolastica deve essere obbligatoria. Per quanto riguarda la circostanza che i fanciulli non dovrebbero essere immessi nel lavoro, una cosa è sicura: ciò non porterebbe a riduzioni dei salari, e la gente ci si abituerebbe.

I proudhonisti sostengono che l'istruzione gratuita è un controsenso, poiché lo Stato deve pagarla. Ovviamente qualcuno deve pagarla, ma non coloro che sono meno di tutti in condizioni per farlo. L'oratore [Marx] non è favorevole all'istruzione superiore gratuita.

Per quanto riguarda il sistema d'istruzione prussiano, sul quale si è tanto parlato, vuole osservare per concludere che questo sistema persegue soltanto lo scopo di formare buoni soldati.

II

Il cittadino Marx disse che su certi punti siamo d'accordo.

La discussione è cominciata con la proposta di riconfermare la risoluzione di Ginevra, che chiede di collegare l'istruzione intellettuale col lavoro fisico, gli esercizi ginnici e la formazione politecnica. Nessuna opposizione è stata sollevata contro di ciò.

La formazione politecnica, che è auspicata da autori proletari, deve compensare le manchevolezze che sorgono dalla divisione del lavoro, la quale impedisce agli apprendisti di acquisire una conoscenza approfondita del loro mestiere. Ma si è sempre partiti da quello che la borghesia intende per istruzione tecnica, e di conseguenza lo si è interpretato in modo errato.

Per quanto riguarda la proposta della signora Law sul bilancio della chiesa, sarebbe auspicabile dal punto di vista politico che il Congresso si pronunci contro la chiesa.

La proposta del cittadino Milner non è adatta a esser discussa in connessione con la questione scolastica; questa istruzione i giovani devono riceverla dagli adulti nella lotta quotidiana per la vita. L'oratore non accetta Warren come un vangelo, questa è una questione sulla quale solo con difficoltà si potrebbe arrivare a un'opinione concorde. C'è da aggiungere che un'istruzione del genere non può impartirla la scuola, ma deve piuttosto essere data dagli adulti.

Né nelle scuole elementari né in quelle superiori si devono introdurre materie che ammettano una interpretazione di partito o di classe. Solo materie come scienze naturali, grammatica ecc. possono essere insegnate a scuola. Le regole grammaticali, per esempio, non cambiano se vengono spiegate da un credente tory o da un libero pensatore. Materie che ammettano conclusioni differenti non devono essere insegnate nella scuola; di esse possono occuparsi gli adulti sotto la guida di insegnanti come la signora Law, che teneva lezioni sulla religione.

1. Istruzione tecnologica e lavoro infantile

Come risulta dal discorso conclusivo di Marx, la discussione nel Consiglio generale aveva preso le mosse, per quanto riguarda i temi dell'istruzione, dalla ratifica della risoluzione approvata tre anni prima al I Congresso dell'Internazionale a Ginevra: dovendosi, infatti, elaborare il programma da sottoporre al IV Congresso, si erano prese in esame le conclusioni dei tre congressi precedenti. La risoluzione di Ginevra non aveva fatto altro che assumere le proposte sull'istruzione politecnica associata all'istruzione intellettuale, al lavoro manuale e alla ginnastica, che Marx, impossibilitato a partecipare al Congresso, aveva esposto per iscritto nelle sue Istruzioni ai delegati dell'agosto 1866. I successivi congressi non erano giunti a risoluzioni comuni per l'opposizione dei francesi alla proposta di affidare l'istruzione allo Stato; nel terzo congresso si era tuttavia approvata la proposta di sopperire alla carenza di scuole ufficiali organizzando conferenze di scienza e di economia per gli operai. Sebbene nell'internazionale, nel 1869 come nel 1866, ci sia unanimità di consensi su questo problema, tuttavia Marx deve tornarci su, tanto nel primo intervento quanto nel discorso conclusivo, per chiarire alcuni punti che gli sembra non siano stati ben compresi.

Il primo punto riguarda la questione del lavoro produttivo dei ragazzi, e tende a rispondere a due diverse obiezioni: 1) che esso comporti inevitabilmente una forma di sfruttamento del lavoro infantile, e 2) che il minor costo del lavoro infantile porti con sé una diminuzione dei salari dei lavoratori adulti. Nel resoconto sommario di cui disponiamo, le risposte di Marx a queste obiezioni possono risultare estremamente sbrigative; ma il senso del suo discorso potrà esser meglio compreso se messo a confronto con altri suoi testi in cui è esplicitamente trattato lo stesso argomento.

Per la questione dello sfruttamento del lavoro infantile, già nel 1848, elencando alla fine del II capitolo del Manifesto dei comunisti le misure da prendere dopo la presa del potere in una imminente rivoluzione, Marx chiede la «unificazione dell'istruzione con la produzione materiale», ponendo però come premessa la «abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale» (rV4, p. 480). Anzi, proprio questa riserva, esplicita e contestuale, distingue Marx da quanti prima di lui avevano associato o sostenuto l'opportunità di associare l'istruzione al lavoro di fabbrica: anche da Owen, che pure modificava di fatto la forma attuale del lavoro di fabbrica dei fanciulli, e dallo stesso Engels. Va inoltre tenuto presente che la situazione reale, alla metà dell'Ottocento, era che i fanciulli appartenenti alle classi lavoratrici non avevano ancora alcun diritto o possibilità concreta di accedere all'istruzione scolastica, riservata ai fanciulli dei ceti abbienti, mentre avevano ormai perduto la possibilità di partecipare all'unica forma di istruzione ad essi per secoli o millenni riservata: quella, cioè, che si svolgeva non in istituzioni educative appositamente riservate alla crescita umana dei fanciulli, o scuole, ma direttamente sul lavoro, accanto agli adulti, nella produzione artigiana o contadina. La fabbrica moderna, che si sostituiva alla bottega artigiana e, grazie all'espropriazione capitalistica delle terre feudali, comunali e contadine, reclutava largamente nelle campagne le sue riserve di mano d'opera, inseriva, sì, la popolazione una volta artigiana e contadina nel centro di una forma di produzione moderna, togliendole però, senza nulla sostituirvi, quei complementi di vita che le antiche strutture sociali consentivano: l'assistenza ecclesiastica ad esempio, e soprattutto l'istruzione sul lavoro.

Marx denuncia il «fatto terribile che una gran parte dei fanciulli occupati nelle fabbriche e nelle manifatture moderne, saldati fin dalla più tenera età alle manipolazioni più semplici, vengono sfruttati per anni e anni senza che apprendano un qualsiasi lavoro che li renda utili più tardi anche soltanto nella stessa manifattura o nella stessa fabbrica» (W23, p. 508); e che la fabbrica non consentiva alcuna formazione sul lavoro, di tipo artigianale: distrutte le scuole artigiane, richiedeva ai fanciulli soltanto un lavoro senza acquisizioni tecniche e culturali, senza prospettive di progresso. In queste condizioni, la richiesta di associare, per i fanciulli, l'istruzione al lavoro, formulata come la formulava Marx (abolendo la forma esistente del lavoro infantile di fabbrica e associando nella formazione tecnologica la teoria alla pratica, senza contare la formazione intellettuale e la ginnastica), significava far leva sul fatto nuovo dell'inserimento dei fanciulli nel cuore della moderna produzione, che li sottraeva a forme di vita primitive, per fare però scaturire da questo fatto nuovo ‑ e non in opposizione ad esso, che sarebbe stato utopistico e velleitario ‑forme più progredite di vita e di rapporti sociali. Significava, altresì, restituire ai ceti artigiani e contadini, che erano stati espropriati di una forma di istruzione che era un loro limitato possesso, una forma superiore di istruzione, legata a nuovi, più progrediti (e perciò stesso più contraddittori) rapporti di produzione. Ancora nel 1875, nella sua Critica al programma di Gotha (W. 19, p. 32), Marx ribadirà la richiesta del legame precoce dell'istruzione col lavoro produttivo, come «uno dei più potenti mezzi di trasformazione della società», ma subordinandola alla severa regolamentazione della durata del lavoro secondo le diverse età (nel 1866 aveva anzi precisato: due ore tra i 9 e i 12 anni, quattro ore tra i 13 e i 15 anni, sei ore tra i 16 e i 17 anni) (W16, p. 193).

Queste sono le risposte che Marx dà alle obiezioni che vengono opposte all'associazione di istruzione e lavoro di fabbrica muovendo dalle posizioni, umanitarie ma corporative e conservatrici, di coloro che, nell'ipotesi illusoria della difesa dei salari o della tutela dei fanciulli, si oppongono alla realtà rivoluzionaria di un processo oggettivo, che, insomma, non comprendono, per ripetere quanto ‑ egli diceva nel 1865 sempre al Consiglio generale della I Internazionale «che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una ricostruzione economica della società» (W16, p. 152)28. Ma Marx deve rispondere anche a quanti, accettando in apparenza le sue proposte, in realtà ne danno un'interpretazione di tipo borghese; ed è quanto egli fa nel terzo capoverso del discorso conclusivo: «Si è sempre partiti da quello che la borghesia intende per istruzione tecnica, e di conseguenza lo si è interpretato in modo errato».

Marx riprende, anche qui, una sua antica polemica, del 1847, contro una «proposta prediletta dai borghesi»: quella della «istruzione professionale universale» (W6, p. 545)29, consistente nell'addestrare l'operaio in quante più branche di lavoro è possibile, per far fronte all'introduzione di nuove macchine o a mutamenti nella divisione del lavoro. A dire il vero, anche Marx mostrerà in più occasioni di non sottovalutare questo aspetto, denuncerà il fatto che «la divisione del lavoro incatena gli operai a un determinato ramo d'industria», e che molti individui «sono mandati in rovina dalla mancanza di mobilità causata dalla divisione del lavoro», e valuterà positivamente «il riconoscimento della variazione dei lavori e quindi della maggior versatilità possibile dell'operaio» (W23, p. 512). Ma egli non si limita certo a questo auspicio di una maggiore «disponibilità» dell'operaio per la variazione del lavoro: la sua concezione dell'istruzione tecnologica ‑«teorica e pratica», come aveva chiarito nel 1866 ai delegati al I Congresso dell'Internazionale (W]6, p. 195) esprime l'esigenza di far acquisire conoscenze di fondo, cioè le basi scientifiche e tecnologiche della produzione, e la capacità di maneggiare gli strumenti essenziali delle varie professioni, cioè di lavorare ‑ secondo natura ‑ col cervello e con le mani, perché ciò corrisponde a una interezza di sviluppo umano.

Insomma, al criterio borghese della «pluri-professionalità» Marx oppone l'idea della «onnilateralità», dell'uomo completo, che lavora non solo con le mani ma col cervello, e che, consapevole del processo che svolge, lo domina e non ne è dominato. E ci pare che la sua polemica contro «quello che la borghesia intende per istruzione tecnica» sia attuale anche oggi; ci pare, anzi, che perfino nella moderna pedagogia socialista si tenda talvolta a ridurre il politcnicismo, o meglio l'istruzione tecnologica teorica e pratica, a una mera questione di disponibilità, di pluri-professionalità. E varrebbe forse la pena di verificare questo punto e di studiare se forse le strutture produttive del modo di produzione socialistico non corrispondano sostanzialmente alle stesse esigenze immediate del sistema di produzione capitalistico, che solo la coscienza e la volontà socialista, nella misura in cui siano presenti, tendono a correggere. Va osservato, infatti, se non erriamo, che contrariamente a quanto avviene nel passaggio dalle forme di produzione precapitalistiche a quelle capitalistiche nel passaggio dalle forme di produzione capitalistiche a quelle socialistiche non si verificano mutamenti sostanziali nelle strutture produttive: i mezzi di produzione (la fabbrica capitalistica) sono qualcosa più che la semplice premessa della fabbrica socialista, anzi non hanno nemmeno bisogno di mutare nel passaggio dall'un regime all'altro. Quelli che devono mutare sono i rapporti di produzione o di proprietà. La stessa «seconda rivoluzione» industriale non è peculiare né del sistema di produzione capitalistico né di quello socialistico. Che da questa struttura comune scaturiscano esigenze e tendenze oggettive comuni, ci pare ovvio. Solo la risposta politica ‑ volontaria e cosciente ‑ può essere diversa.

2. Il rapporto della scuola con la società, lo Stato, la Chiesa

L'osservazione iniziale di Marx sulla «difficoltà» particolare inerente al rapporto scuola-società ‑ o, come egli dice, al rapporto tra «condizioni sociali» e «sistema scolastico» ‑ come rapporto di tipo particolare, che suppone un condizionamento reciproco, risponde
alla proposta di Eccarius, di confermare la risoluzione di Ginevra e limitare la discussione al problema di chi deve controllare e finanziare l'istruzione, superando l'opposizione «antistatalista» dei francesi. Essa contiene un ammonimento a non confidare troppo sulle possibilità rivoluzionarie di un sistema scolastico nei confronti della società di cui è prodotto e parte, ma insieme anche a escludere ogni rinvio pessimistico e rinunciatario a intervenire in questo settore soltanto a rivoluzione avvenuta, quando già le strutture sociali siano mutate.

Sarebbe semplicistico ridurre tutto il senso del breve ma rilevante accenno di Marx a una questione di rapporti tra strutture e sovrastrutture. Già le cose non sono mai così semplici in Marx, nemmeno nelle famosissime pagine della Prefazione alla Critica dell'economia politica, dov'egli traccia la storia autobiografica della sua scoperta di questo rapporto e lo enuncia esplicitamente (rV13, pp. 631‑633). Marx pone lì un rapporto almeno triplice, tra a) una «base reale», data dall'insieme dei rapporti di produzione (i quali, del resto, già presuppongono «un determnato grado di sviluppo delle forze produttive materiali»), e costituiscono la «struttura economica della società», b) una «sovrastruttura giuridica e politica» che si innalza su quella base, e alla quale corrispondono c) «determinate forme di coscienza sociale». Ma, soprattutto, Marx evita ogni schematismo nel delineare questi momenti e il loro rapporto: una attenta lettura di quelle pagine ci rappresenta piuttosto una contraddizione di fondo tra i due primi termini, «forze» e «rapporti di produzione», e l'identificazione di questi ultimi con la loro «forma giuridica», cioè coi rapporti di proprietà, e in ultima istanza con tutte le «forme ideologiche» in cui gli uomini concepiscono e combattono il conflitto reale.

La forma più precisa in cui egli determina questo rapporto è al tempo stesso la più generica: che «il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita», o, più in generale ancora, che «non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza» (ivi, p. 9). Ma, comunque stiano le cose in Marx su questo punto nodale della sua teoria che non è certo possibile esaurire qui, mi pare che il senso della sua osservazione lo si potrebbe ritrovare proprio in quelle stesse pagine, là dove egli si richiama fila necessità di partire dal reale: «L'umanità ‑ egli dice si pone sempre soltanto compiti che può risolvere, poiché, se si osserva
meglio, si troverà sempre che i compiti stessi sorgono soltanto dove le condizioni materiali per la loro soluzione già esistono o almeno sono in fieri».

E del resto, nel momento più maturo della sua ricerca, cioè nel Capitale, dove Marx pone come una «questione di vita o di morte»che dalla variazione del lavoro, realmente esistente nella fabbrica e che rende superfluo l'operaio unilaterale, sorga l'esigenza della maggiore versatilità possibile dell'operaio, anzi di un individuo totalmente sviluppato, tutta la sua tesi sull'istruzione tecnologica e sull'unione di istruzione e lavoro si formula appunto come uno sviluppo del reale, o piuttosto delle sue contraddizioni (l'V 23, p.508). Comunque, in questo suo intervento, o piuttosto nel resoconto sommario di cui noi disponiamo, Marx non va oltre l'enunciazione della particolare difficoltà di questa questione, del rapporto reciproco esistente tra condizioni sociali e sistema d'istruzione, e,infine, del conseguente richiamo alla realtà.

Nel discorso che segue, sulla questione dell'istruzione statale o privata e dei rapporti della scuola con Stato, governo e Chiesa, e che si allarga ai problemi dell'obbligo, della gratuità e della laicità, della democrazia e delle libertà scolastiche, c'è anche una risposta implicita alla questione precedente. Il punto di vista di Marx risulta chiaro ed attuale ancora oggi. Alla concezione di chi, per statolatria o per statofobia ‑ la cosa non fa troppa differenza ‑ non sa concepire l'istruzione statale se non come un'istruzione controllata dal governo, egli replica con l'ovvia, ma spesso dimenticata osservazione che Stato e governo sono due cose diverse, e che «l'istruzione può essere statale senza essere sorto il controllo del governo». Osservazione ovvia ma spesso dimenticata, invero.

Non mancano, infatti, esempi, nel nostro o in altri paesi con vari regimi sociali, di enunciazioni (diverse o addirittura contrarie nei loro fini, da parte liberale o clericale o socialista) in cui si deplora o si auspica o si attua lo statalismo sempre entro lo schema di una sostanziale identificazione Stato‑governo. Ci si risparmino le citazioni, che emergerebbero anche troppo facilmente: ma la polemica di tipo liberale contro la scuola statale in nome della libertà d'insegnamento, o quella di tipo clericale che adopera le stesse parole per difendere una scuola illiberale, o l'ipotesi e la pratica di una scuola dello Stato proletario come scuola ideologicamente qualificata sono tutti esempi di posizioni a cui Marx ha già risposto con quella sua ovvia osservazione. Egli la illustra con l'esempio delle scuole del Massachusset e con l'analogia degli ispettori di fabbrica in Inghilterra: la scuola può essere statale in quanto lo Stato emana le disposizioni generali, contribuisce con suoi fondi, controlla l'osservanza della legge, ma per tutto il resto, fino alla nomina degli insegnanti e alla scelta dei manuali, può dipendere dalle rappresentanze locali (le quali ‑ si consideri ‑ possono essere a loro volta democratiche in varia misura).

Vale la pena di osservare che questi esempi americani e inglesi non compaiono soltanto qui in Marx: a conferma della validità di questo resoconto sommario, si può ricordare che circa sei anni più tardi, nella sua Critica al programma di Gotha, del 1875, Marx dichiarava «assolutamente da respingere» l'idea di una «educazione del popolo ad opera dello Stato» e si richiamava ancora una volta all'esempio degli Stati Uniti, per osservare che lo Stato si dovrebbe limitare a determinare per legge i mezzi per le scuole, il livello d'istruzione degli insegnanti, le materie d'insegnamento, e a sorvegliare con i suoi ispettori l'osservanza di queste disposizioni. E ripeteva che questo non vuol dire affatto «nominare lo Stato educatore del popolo», perché anzi «si devono escludere governo e Chiesa da ogni influenza sulla scuola» (W19, p. 30).

Dunque Marx non improvvisa qui una tesi «liberale»; la sua posizione è assolutamente coerente con la sua concezione del socialismo. Ed era del resto una tesi già espressa da lui anche in altra sede, nei suoi scritti della fine di maggio del 1871 sulla Comune di Parigi, nei quali egli aveva esaltato i provvedimenti della Comune riguardo all'istruzione: «Tutti gli istituti d'istruzione furono aperti gratuitamente al popolo, e liberati in pari tempo da ogni ingerenza della Chiesa e dello Stato. Così non solo l'istruzione fu resa accessibile a tutti, ma la scienza stessa fu liberata dalle catene che i pregiudizi di classe e la forza del governo le avevano imposto» (W17, p. 339). In questo senso, della separazione della Chiesa dalla scuola, andrà inteso anche l'accenno di Marx all'opportunità che il Congresso si pronunci contro la Chiesa.

Per concludere su questo punto, occorre sottolineare, anche per introdurre il discorso seguente, che per Marx l'opposizione allo «Stato educatore» non è un espediente transitorio, da far valere contro la Stato borghese e da accantonare quando dovesse trattarsi di uno Stato proletario. Per quanto peso abbia in lui la necessità dell'uso del potere politico nella rivoluzione socialista, la prospettiva liberatrice del socialismo non si configura mai in lui come un aumento della sfera statuale. Il discorso si farebbe anche qui molto complesso: ci limiteremo a citare ancora una volta la Critica al programma di Gotha, dove egli considera una «vana scappatola» il dire che si parla di uno «Stato futuro». Marx, infatti, osservava ai suoi interlocutori che il loro «Stato futuro» non era altro che una forma di Stato borghese più avanzata, già esistente nella Svizzera o negli Stati Uniti, e che in realtà essi intendevano «per Stato la macchina del governo, ossia lo Stato in quanto costituisce un organismo a sé, separato dalla società in seguito a una divisione del lavoro» (W19, p. 30). Ce n'è abbastanza per confermare la coerenza di questo resoconto sommario con testi importanti di Marx e per escludere l'ipotesi di un suo diverso giudizio sui compiti dello Stato nei riguardi della scuola in una società socialista.

3. Obiettività dell'insegnamento

Un'ultima questione, di molto rilievo a nostro parere, è trattata nel discorso di chiusura di Marx: quella del contenuto dell'insegnamento scolastico; che è forse la più nuova ‑ nel senso che, per quanto ci consta, non se ne trova esplicita trattazione in altre sue pagine ‑ e la più ricca di implicazioni pedagogiche. Alla proposta di Milner, che la scuola impartisca un insegnamento di economia politica (e il Milner pensa a una data teoria dell'economia politica), Marx replica recisamente escludendo in partenza che un tale argomento abbia a che fare con le questioni scolastiche: non è nemmeno all'ordine del giorno, insomma.

La tesi di Marx è chiara: «materie che ammettano un'interpretazione di partito o di classe», che, come l'economia politica e la religione, «ammettano conclusioni differenti», non devono trovare posto nelle scuole di nessun livello. Nella scuole si devono insegnare materie come le scienze naturali e la grammatica, che «non cambiano se insegnate da un credente o da un libero pensatore»; tutto il resto i giovani devono impararlo dalla vita, dal contatto diretto con l'esperienza degli adulti. Di fronte a questa tesi così recisa, è da discutere preliminarmente la nota dell'edizione russo‑tedesca. Ci sembra che non si possa ridurre la questione al fatto che Milner avrebbe proposto che la «scuola borghese del tempo» impartisse cognizioni di economia politica, e che ciò era inaccettabile dal punto di vista del proletariato perché avrebbe rafforzato l'influenza borghese sulle giovani generazioni. Un'interpretazione del genere non solo forza un pò la mano al Milner, che certo non avrà parlato esplicitamente di scuola «borghese», anche se questa era la conseguenza inevitabile della sua proposta, ma riduce la posizione di Marx a un mero espediente tattico, mentre abbiamo già visto quanto per Marx si trattasse di una questione di principio. Il sottinteso di quella nota editoriale è ‑ ci pare ‑. che, mentre dal punto di vista del proletariato è doveroso respingere ogni utilizzazione politica della scuola da parte dello Stato borghese, questa utilizzazione diventi lecita da parte di uno Stato proletario.

Marx dice una cosa alquanto diversa. Per rifarci ancora alla Critica al programma di Gotha, egli non prospetta certo il passaggio da uno Stato borghese a uno Stato proletario, bensì il passaggio da una società capitalistica a una società comunista e, solo durante questo passaggio, uno Stato transitorio che non potrà essere che una dittatura rivoluzionaria del proletariato. Anzi, egli traduce subito la domanda: «quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista?», nell'altra più precisa: «quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano analoghe alle odierne funzioni statali?». Per lui la libertà ‑ a parte il necessario periodo transitorio di permanenza dello Stato come dittatura proletaria ‑ consiste non nell'attribuire allo Stato gli stessi compiti in funzione di altre classi, ma «nel mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo subordinato ad essa» (W.19, p. 30)32. Se non si è forzata la mano al moderno annotatore di Marx, così come ci sembra che egli la forzasse al Milner, diremmo che la sua interpretazione si fonda piuttosto sulla prassi degli attuali Stati socialisti e, di là da questa, sulla teorizzazione esplicita di Lenin (relativa, del resto, a un periodo appunto transitorio di «dittatura rivoluzionaria del proletariato», subito dopo la rivoluzione bolscevica), che definisce un'ipocrisia borghese l'esistenza della scuola al di fuori della politica, e afferma senza mezzi termini che «la nostra opera nel campo della scuola consiste anche nella lotta per l'abbattimento della borghesia». Ma non bisogna nemmeno dimenticare la denuncia che Lenin faceva del modo «volgare e distorto» in cui si soleva interpretare il legame della scuola con la politica.

Fin qui si è fatta della filologia, cercando di ridare a Marx quello che è di Marx, a Lenin quello che è di Lenin, e ad altri quello che è d'altri. Ma il problema posto da Marx ci interessa perché è anche oggi reale, attuale, e dalle sue parole può venirci uno stimolo a ridiscuterlo.

La distinzione netta che Marx istituisce tra materie opinabili e materie non opinabili richiama un po' una pagina ‑ uno stupendo manifesto della scienza moderna ‑ di Leonardo da Vinci, là dove alle «bugiarde scienze mentali», «per le quali sempre si disputa e contende», egli contrappone le vere scienze, «nate dall'esperienza, madre d'ogni certezza» e che passano «per le matematiche dimostrazioni», dove è stato «posto silenzio alla lingua dei litiganti». Grande, senza dubbio, è il fascino di queste pagine di Leonardo, di questa prospettiva di Marx, di un insegnamento che sia soltanto di cose certe e di strumenti per la loro acquisizione e il loro uso. Ma è così vera e assoluta questa distinzione? E davvero nell'istruzione non c'è posto per le scienze mentali? La distinzione è, in sostanza, l'odierna ‑ e antichissima ‑ tra scienze umane e scienze matematico‑naturali, tra materie letterarie e materie scientifiche, tra arti del trivio e del quadrivio, artes sermocinales e artes reales. Ma sono forse prive di «grida» queste ultime? Ad esempio, e per restare nel campo dell'insegnamento, si è forse posto silenzio oggi alla lingua dei litiganti a proposito del darwinismo? O le matematiche moderne comportano discussioni minori che la storiografia? Una distinzione rigorosa che sia condotta lungo questa discriminante dell'opinabile e del certo, è senza dubbio illusoria.

Tuttavia, ci pare che il discorso di Marx, fondato su questa distinzione, non sia arbitrario: esso mira a escludere dall'insegnamento ogni propaganda, ogni contenuto che non sia una acquisizione immediata di sapere, mira a costruire un insegnamento rigoroso di nozioni e di tecniche. Se si considera il tipo di scuola per i lavoratori che egli ha davanti a sé nel suo tempo e nella prospettiva del futuro collegata al lavoro di fabbrica e fondata sulla teoria e la pratica della modernissima scienza della tecnologia si vedrà che c'è poco posto per una cultura «disinteressata». Eppure, proprio nel testo più esplicito della sua «pedagogia», cioè nelle istruzioni ai delegati, del 1866, Marx aveva messo al primo posto la «formazione intellettuale», pur senza ulteriormente definirla (Wi 6, p. 194). Che cosa può essere se non, appunto, tutto ciò che non è immediatamente interessato, strumentale, operativo, cioè l'apertura verso quel mondo delle lettere, delle arti, della storia, del pensiero, che Marx, del resto, sapeva assai bene apprezzare? Forse, la chiave per bene intendere il pensiero di Marx sta proprio qui, nel fatto che egli collega, con austero rigore, la struttura scuola al bisogno sociale di «riprodurre la vita», di «regolare il ricambio organico con la natura», dove la libertà umana si esplica soltanto come «regolamento razionale» di questo ricambio. Ma non nega certo che questo rimanga sempre «un regno della necessità» e che «al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà» (W25, p. 828). Soltanto, per lui la struttura scuola resta essenzialmente destinata all'apprendimento di ciò che è necessario all'uomo nel «regno della necessità»; il resto, ciò che lo colloca nel «regno della libertà», egli, ben lungi dal negarlo, lo rimanda piuttosto nella vita quotidiana, nel commercio spirituale con gli adulti.

Siamo, insomma, in presenza di una data concezione del rapporto scuola‑società, del posto che la scuola luogo di lavoro dei fanciulli ‑ può avere in essa. Marx, di fronte alla tendenza oggettiva dell'industria del suo tempo ad attrarre fanciulli e adolescenti dei due sessi nell'opera della produzione sociale ‑ una tendenza per lui progressiva, salutare e giusta, malgrado il modo orribile in cui era attuata sotto il dominio del capitale ‑ la considerava come un fatto permanente, inerente al sistema di produzione moderno, corrispondente a una «situazione razionale della società». Non aveva, del resto, ogni sistema di produzione sempre attratto nella sua attività anche i fanciulli? Di fronte a questa tendenza oggettiva e progressiva, egli poneva la richiesta emergente anch'essa dalla realtà ‑ di associare ormai l'istruzione al lavoro di fabbrica. Il posto sociale della scuola si configura dunque per lui soprattutto come un'integrazione della fabbrica, così come l'apprendistato dei mestieri era stato un'integrazione della bottega artigiana, e così via.

Ora, non c'è dubbio che lo sviluppo successivo gli ha dato torto ‑ almeno per ora ‑ in questo primo secolo da che egli tracciava queste prospettive. Fino ad oggi la scuola è cresciuta anche all'interno, ma soprattutto intorno e fuori del mondo della produzione, come struttura a sé stante, come luogo specifico della generazione crescente, per quanto in varia maniera e in varia misura si tenda a farla corrispondere alle esigenze della produzione. Non solo, ma ha sviluppato anche la tendenza non a limitarsi semplicemente all'insegnamento delle tecniche culturali e delle nozioni certe, ma a investire sempre più le scienze «mentali», a identificare, insomma, nei suoi scopi istruzione ed educazione. E probabile, anzi, che proprio là dove la tendenza a integrare la scuola nella fabbrica emerge più chiaramente, come nei paesi socialisti, si faccia sentire anche più forte la tendenza a fare della scuola un centro di educazione oltre che di istruzione. Una scuola che limitandosi all'istruzione intesa come strumento, come possesso di tecniche, rinunciasse ai compiti dell'educazione e della «formazione dei sentimenti», non sarebbe concepibile oggi.

Ma proprio questa realtà, ci pare, costringe a fare anche più seriamente i conti con la richiesta marxiana di non dar luogo in essa all'opinabile, a ciò che può consentire conclusioni di parte. Perché, se è vero, come diceva Lenin, che la scuola fuori della politica è una menzogna e un'ipocrisia, se è vero che ogni scuola è ideologicamente orientata, lo vogliano o non lo vogliano i singoli che vi operano all'interno o che la giudicano dall'esterno, è anche vero che tanto più, allora, si rende necessario determinare in che modo e fino a che punto questo tipo di impegno sociale della scuola debba o possa attuarsi.

4. Quali scelte pedagogiche, quali contenuti educativi?

La lettura di questo intervento di Marx all'Internazionale ci ha consentito di verificare la sua proposta centrale relativa all'unione di istruzione e lavoro, e di determinarne altre, relative al rapporto scuola‑società e alla obiettività dell'insegnamento pubblicamente organizzato. Resta da vedere meglio come egli prospettasse gli specifici contenuti di questo insegnamento obiettivo e, in generale, quale fosse il suo orientamento nei confronti delle correnti pedagogiche che si possono schematicamente additare come quella conservatrice (della discriminazione sociale, della divisione tra scienza e lavoro, dei contenuti letterari, dell'autorità del docente) e quella innovatrice (della vocazione naturale dei singoli, dei contenuti prevalentemente scientifici o comunque moderni, del puerocentrismo).

E evidente che il marxismo si pone in diretta polemica con tutte quelle tendenze pedagogiche nuove che, pur rappresentando una valida opposizione alle istituzioni scolastiche e alle posizioni pedagogiche tradizionali della società divisa, tuttavia possono condizionarne un superamento soltanto apparente e parziale. Sì, di fronte alla pedagogia tradizionale del determinismo ambientale, che destinava ciascun uomo a un processo formativo non soltanto limitato, ma predeterminato dalla collocazione sociale, le pedagogie nuove, che per diverse vie puntano su tutto ciò che può esser definito come natura del fanciullo o dell'uomo, operano indubbiamente una rottura, ma restano limitate a uno sviluppo spontaneo e perciò stesso parziale: pongono l'uomo di fronte soltanto a se stesso, anziché direttamente al mondo concreto delle cose e dei rapporti sociali: sostituiscono a un processo educativo «eteronomo» un processo «autonomo», che è ugualmente limitato. Si riveda invece la polemica giovanile di Marx contro Stirner: «Nei diversi stadi della vita Stirner non vede che "scoperte di se stesso", e queste "scoperte di se stesso" si riducono sempre a una situazione di coscienza. La modificazione fisica e sociale che si opera negli individui e che produce una modificazione nella coscienza naturalmente non lo interessa. Perciò in Stirner il fanciullo, il giovane e l'uomo trovano sempre il mondo bell'e pronto, così come non fanno altro che "scoprire se stessi"; assolutamente niente vien fatto per provvedere affinché qualche cosa possa esser trovata» (lJ23, p. 513, n. 309).

È una netta presa di posizione contro ogni pedagogia naturalistica, fondata sulla «autonomia» della singola individualità, che è se stessa per natura, e che non ha bisogno che di un autonomo svolgimento. E si confronti del resto questa netta presa di posizione col breve ma perentorio accenno ‑ che abbiamo già ricordato ‑ contro la pedagogia fondata sul gioco, dove Marx definisce un «profetico presentimento contro i Basedow e i loro scimmiotti moderni» l'osservazione di John Bellers che un'occupazione puerilmente stupida lascia stupide le menti dei bambini (EBJ, p. 599). Come per lui il lavoro non può diventare gioco al modo che vorrebbe Fourier così nemmeno l'istruzione, che fa tutt'uno col lavoro, può essere semplicemente gioco.

E se a queste determinazioni aggiungiamo il suo severo richiamo al fatto che nella scuola non possono essere insegnate se non discipline rigorosamente consistenti di nozioni incontrovertibili e che non diano luogo a conclusioni personali, come la matematica o la grammatica, e il suo radicale ripudio di tutto ciò che nel processo di istruzione può essere soggettivo (EBI, pp. 543‑544) ‑ il che, si badi bene, non vuol dire assolutamente esclusione della validità di ciò che non è concreto apprendimento di nozioni esatte; ché anzi Marx colloca tutto questo processo di vera e propria «educazione» nella stessa vita dove i fanciulli tornano insieme agli adulti ‑; se aggiungiamo questi contenuti che egli assegna all'istruzione come processo specifico da perseguire in un luogo specifico, ne avremo il quadro di una scuola concreta e severa; insomma, di un regno della necessità e non della libertà per i fanciulli, il cui intrinseco e positivo valore consisterà proprio in questa appropriazione di una totalità di possibilità di dominio sulla natura e sull'uomo stesso.

Ma si può trarre dagli scritti di Marx qualche determinazione più precisa circa ciò che egli considera contenuto dell'istruzione? Quale deve essere per lui se non è l'umanesimo libresco, se non è una istruzione orientata verso la pratica ‑ il tipo, il contenuto e il metodo della formazione dell'uomo integrale, solo adombrati dall'unione di studio e lavoro e dall'insegnamento tecnologico teorico e pratico? Queste parole, che Marx adopera in un contesto in cui acquistano una pregnanza indubbia, tuttavia non hanno nei suoi scritti, e non hanno nella realtà di allora nessuna rispondenza, nessuna determinazione reale. Ci vengono da Marx indicazioni più concrete in questa direzione?

Anche qui ci dobbiamo fermare soprattutto su pagine giovanili, alle quali Marx non ha avuto occasione di ritornare in seguito, dove egli tratta, anche se non espressamente, alcuni temi riguardanti la collocazione delle scienze e il rapporto tra scienze e filosofia. Da questi argomenti possono venire indicazioni per comprendere quale potesse essere il suo orientamento circa il tema del contenuto dell'istruzione.

Nei Manoscritti del 1844, dopo aver enunciato una tesi che ricomparirà pochi mesi dopo come una delle «tesi» su Feuerbach, dopo aver detto, cioè, che la soluzione delle antitesi teoriche è possibile soltanto in una guisa pratica, soltanto per l'energia pratica dell'uomo, e dopo aver aggiunto, specificando, che tale soluzione delle antitesi reali esistenti non è compito soltanto della conoscenza, bensì un reale compito di vita, che «la filosofia non poteva risolvere perché lo concepiva soltanto come compito teorico...» (e qui il manoscritto resta sospeso), Marx aggiunge che «le scienze naturali hanno svolto un'enorme attività e si sono appropriate un materiale ognora crescente; ciò nondimeno la filosofia è rimasta loro estranea tanto quanto esse sono rimaste estranee alla filosofia. La loro momentanea unione è stata soltanto una fantastica illusione. La stessa storiografia fa attenzione alle scienze naturali solo incidentalmente, come momento del rischiaramento dei pregiudizi e dell'utilità di certe grandi scoperte. Ma quanto più praticamente la scienza della natura è penetrata mediante l'industria nella vita umana e l'ha trasformata e ha preparato l'emancipazione umana, tanto più essa immediatamente ha dovuto completarne la disumanizzazione. L'industria [cioè l'attività produttiva sociale] è il reale rapporto storico della natura e quindi della scienza naturale con l'uomo» (W23, p. 382).

Che quanto più la scienza della natura è penetrata mediante l'industria nella vita umana e l'ha trasformata, tanto più però ha completato la disumanizzazione nell'uomo, è un enunciato che torna nel Capitale, dove Marx constata che l'industria capitalistica separa la scienza dal lavoro, che in essa la scienza si configura come un ente a sé, non è più parte integrante del lavoro svolto dall'operaio, ma è anch'essa una forza alienata, un potere al di fuori di lui, che lo domina e che perciò contribuisce alla sua disumanizzazione. Mentre, infatti, nel processo di lavoro artigianale il rapporto tra consapevolezza scientifica ed esecuzione pratica era immediato, nella grande fabbrica industriale le due funzioni si separano nettamente e l'operaio viene derubato anche di ogni possibilità teorica. La scienza gli si pone di fronte, in modo estraneo: è una parte del processo della sua disumanizzazione (W23, p. 382).

D'altronde, dice Marx, «l'industria è il reale rapporto storico della natura e quindi della scienza naturale con l'uomo». E’ anche questo un tema che torna in tutte le opere giovanili di Marx, soprattutto nell'ideologia tedesca, dove egli ripete quasi alla lettera che, appunto, l'unità dell'uomo con la natura è sempre esistita nell'industria (W3, p. 44). Ma qui, nei Manoscritti del 1844, Marx non si limita a questa constatazione: egli aggiunge che «le scienze naturali diventano la base della scienza umana, così come ora sono già divenute, sebbene in figura di alienazione, la base della vita umana effettiva. Ed una base per la vita, ed una per la scienza, questa è senz'altro una menzogna. La sensibilità deve essere alla base di ogni scienza». La scienza è reale scienza solo quando procede dalla sensibilità. «La storia stessa è una parte reale della storia naturale, della umanizzazione della natura. La scienza naturale comprenderà un giorno la scienza dell'uomo, come la scienza dell'uomo comprenderà la scienza naturale. Non ci sarà che una scienza» (EBI, p. 544).

Non ci possono essere, dunque, per Marx una scienza naturale e una scienza dell'uomo separate, perché il rapporto dell'uomo con la natura è posto nell'industria, cioè nella sua attività vitale, produttiva (ovvero, nell'attività produttiva di vita), e questa è insieme una storia naturale e una storia umana. Non c'è, dunque, soluzione tra l'uomo e la natura. L'uomo concresce con la natura, in quanto la sua industria, la sua attività produttiva è un'attività che si rivolge alla natura universalmente, in modo libero, cosciente, volontario, per trasformare la natura e trasformare in essa se stesso. In questa prospettiva Marx postula l'esigenza di una storia naturale che sia anche storia umana, di una scienza naturale che sia anche una scienza dell'uomo, perché non ci dovrà essere che una scienza.

Per quanto manchi in queste pagine giovanili un diretto aggancio con problemi di classificazione delle scienze ‑ come ne tenterà Engels più tardi nella Dialettica della natura e nell'Antidühring ‑ e di organizzazione dell'istruzione, tuttavia, anche per il loro coincidere con formulazioni del Marx maturo, esse ci riportano indubbiamente ad una accentuazione dei contenuti «scientifici», intesi sia come elementi di oggettivo rigore, sia come contenuti onnicomplettenti che consentono una comprensione generale del mondo naturale ed umano. Ma già sappiamo il posto che Marx riserva al tempo libero e ad attività culturali extrascolastiche nella formazione dell'uomo: questo regno della libertà è il regno delle vocazioni individuali, delle attività disinteressate, non immediatamente produttive, che sono per Marx parte integrante della figura umana, e perciò della sua formazione o educazione.