Eric J. Hobsbawm

Il trionfo della Borghesia

CAPITOLO PRIMO pp. 13-45

LA PRIMAVERA DEI POPOLI


Ai primi del 1848, l'eminente pensatore politico francese Alexis de Tocqueville prendeva la parola alla Camera dei Deputati per esprimere sentimenti comuni alla maggioranza degli europei: «Stiamo dormendo su un vulcano - disse - [...]. Non vedete che la terra ha ripreso a tremare? Soffia un vento di rivoluzione, la tempesta cova all'orizzonte».

Quasi contemporaneamente, due esuli tedeschi, il trentenne Karl Marx e il ventottenne Friedrich Engels, formulavano i principi della rivoluzione proletaria, dalla quale Tocqueville metteva in guardia i suoi colleghi, nel programma che poche settimane prima erano stati incaricati di redigere dalla tedesca Lega dei Comunisti, e che apparve anonimo a Londra verso il 24 febbraio 1848 col titolo (tedesco) di Manifesto del Partito Comunista, da tradursi «in inglese, francese, tedesco, italiano, fiammingo e danese»3. Nel giro di qualche settimana, anzi (nel caso del Manifesto) di poche ore, sembrò che le speranze e i timori dei profeti dovessero avverarsi. La monarchia francese venne abbattuta da un moto insurrezionale, fu proclamata la repubblica, e si aprì il ciclo della rivoluzione europea.

La storia del mondo moderno aveva conosciuto molte rivoluzioni di maggior portata, e molte di maggior successo. Nessuna però si diffuse più rapidamente e in un raggio più vasto, correndo come un fuoco di sterpaglia al disopra di frontiere, paesi e perfino oceani. In Francia, centro naturale e detonatore delle rivoluzioni europee, la proclamazione della repubblica avvenne il 24 febbraio: il 2 marzo la rivoluzione aveva già guadagnato la Germania di Sud-ovest, il 6 la Baviera, l'11 Berlino, il 13 Vienna e subito dopo l'Ungheria, il 18 Milano e quindi l'Italia (dove un'insurrezione indipendente aveva già investito la Sicilia). All'epoca, il più veloce servizio d'informazioni disponibile a chiunque (quello della banca Rothschild) non poteva portare le notizie da Parigi a Vienna in meno di cinque giorni. Nel giro di una settimana, nessun governo restava in piedi in una superficie dell'Europa ora occupata in tutto o in parte da dieci Stati4 - prescindendo da ripercussioni minori in un certo numero d'altri paesi.

Il 1848 fu inoltre la prima rivoluzione potenzialmente estesa a tutto il globo, di cui si può discernere l'influenza nell'insurrezione del 1848 a Pernambuco nel Brasile e, qualche anno dopo, nella remota Colombia. In un certo senso, fu il paradigma del tipo di «rivoluzione mondiale» che da allora dovevano sognare i ribelli, e che in rari istanti, come all'indomani di grandi guerre, dovevano credere di poter riconoscere. In realtà, il fenomeno di esplosioni continentali o mondiali simultanee è estremamente raro. In Europa, quella del 1848 è la sola che abbia inciso sia sulle aree «sviluppate», sia su quelle arretrate del continente. Fu insieme la più estesa e la meno fortunata di questo genere di rivoluzioni: a sei mesi dal suo scoppio, se ne poteva tranquillamente prevedere la sconfitta su tutta la linea; a diciotto, i regimi da essa abbattuti, salvo uno, erano tutti restaurati, e l'eccezione (la Repubblica francese) prendeva il più possibile le distanze dal moto insurrezionale cui doveva la propria esistenza.

Le rivoluzioni del 1848 stanno quindi in un curioso rapporto con il contenuto del presente volume. Senza il loro avvento, e il timore di un loro ricorso, la storia d'Europa nel venticinquennio successivo sarebbe stata ben diversa. D'altra parte il 1848 fu tutt'altro che «la svolta decisiva in cui l'Europa non riuscì a cambiare strada». Quel che l'Europa non riuscì a compiere, fu una svolta in senso rivoluzionario. E, mancando questa, l'anno della rivoluzione fa parte a sé, preludio ma non opera compiuta, portone dal cui stile architettonico non si intuisce la natura di ciò che, varcandone le soglie, ci si troverà dinnanzi.

La rivoluzione trionfò nel grande nodo centrale del continente, benché non alla sua periferia. Questa comprendeva paesi troppo distanti o isolati nella loro storia per esserne, in una misura qualsiasi, direttamente o immediatamente colpiti (la penisola iberica, la Svezia, la Grecia), troppo arretrati per possedere i ceti sociali politicamente esplosivi dell'area rivoluzionaria (la Russia, l'impero ottomano), ma anche i soli già industrializzati e con un gioco politico retto da norme alquanto diverse, come la Gran Bretagna e il Belgio 5. A sua volta, l'area rivoluzionaria, composta essenzialmente dalla Francia, dalla Confederazione germanica, dall'impero asburgico - che si estendeva fin nell'Europa di Sud-est e in Italia - era piuttosto eterogenea, perché comprendeva regioni arretrate e difformi come la Calabria e la Transilvania, sviluppate come la Sassonia e la Renania, istruite come la Prussia e incolte come la Sicilia, divise da grandi distanze come le città di Kiel e Palermo, Perpignano e Bucarest. Quasi tutte erano governate da quelli che si possono chiamare approssimativamente monarchi e principi assoluti, ma la Francia era già una monarchia borghese e costituzionale, e la sola repubblica di rispetto sul continente, la Confederazione elvetica, aveva inaugurato l'anno della rivoluzione, già alla fine del 1847, con una breve guerra civile. I paesi colpiti dall'ondata rivoluzionaria spaziavano, per numero di abitanti, dai 35 milioni della Francia alle poche migliaia dei principati da opera buffa della Germania centrale; per condizione, da grandi potenze indipendenti di statura mondiale a province o a Stati satelliti di potenze straniere; per struttura, da complessi centralizzati ed uniformi ad aggregati elastici e polimorfi.

Soprattutto, storia, struttura sociale ed economica, vita politica, dividevano l'area rivoluzionaria in due parti, i cui estremi sembravano avere ben poco in comune. La loro struttura sociale era fondamentalmente diversa anche a prescindere dal predominio netto e pressoché universale della popolazione rurale su quella urbana, e delle città minori sulle grandi - fattore su cui si tende a sorvolare a causa della prevalenza sproporzionata della popolazione cittadina, soprattutto delle città maggiori, nella vita politica6. In Occidente, i contadini erano giuridicamente liberi e le grandi tenute padronali non avevano un peso relativo degno di nota; in buona parte dell'Oriente la servitù sussisteva, e la proprietà fondiaria era fortemente concentrata nelle mani della nobiltà terriera. In Occidente, «borghesia» significava banchieri, mercanti, imprenditori capitalistici, liberi professionisti e funzionari di concetto (professori inclusi), benché alcuni di questi si considerassero come appartenenti a un ceto superiore (l'haute bourgeoisie), pronto a competere, almeno nelle spese, con la nobiltà fondiaria; in Oriente, l'equivalente del ceto urbano era formato in larga misura da gruppi nazionali ben distinti dalla popolazione locale, come i tedeschi e gli ebrei, ed era, comunque, molto più esiguo. La vera controparte della «borghesia» era qui il settore colto e/o orientato verso gli affari dei gentiluomini di campagna e dei nobili minori, uno strato che in alcune regioni era di una consistenza eccezionale. L'area centrale, dalla Prussia a nord fino all'Italia centro-settentrionale a sud, che fu in un certo senso il cuore dell'area rivoluzionaria, univa in vario modo le caratteristiche delle regioni relativamente «sviluppate» e di quelle arretrate.

Politicamente, l'area rivoluzionaria era altrettanto eterogenea. Fuorché in Francia, la posta in gioco non era soltanto il contenuto politico e sociale dello Stato, ma la sua stessa forma o, perfino, esistenza. I tedeschi ambivano a costruire una «Germania» - unitaria o federale? - partendo da una miriade di principati di varia estensione e natura. Analogamente, gli italiani aspiravano a fare di quella che il cancelliere austriaco Metternich aveva definito, in modo spregiativo ma non inesatto, una pura espressione geografica, un'Italia unita. Gli uni e gli altri, con la solita visione preconcetta dei nazionalisti, includevano nei loro programmi popoli che non erano e spesso non si sentivano né tedeschi né italiani, come i cèchi. La pietra d'inciampo per i movimenti tedesco e italiano e, in genere, per tutti quelli coinvolti nella rivoluzione europea, a prescindere da quello francese, era il grande impero multinazionale degli Asburgo, che da un lato si estendeva fino in Germania e in Italia, dall'altro comprendeva cèchi, magiari e una parte sostanziosa di polacchi, rumeni, jugoslavi ed altre popolazioni slave. Alcune di queste, o almeno i loro esponenti politici, vedevano nell'impero una soluzione meno inaccettabile dell'assorbimento ad opera di nazionalismi espansionistici come il tedesco o l'ungherese: «Se l'Austria non esistesse - si vuole dicesse il professor Palack, portavoce dei cèchi - sarebbe il caso d'inventarla».

Perciò, in tutta l'area rivoluzionaria, la politica agiva simultaneamente lungo direttrici diverse. I radicali, è vero, avevano da proporre una soluzione semplice: una repubblica democratica unitaria e centralizzata in Germania, in Italia, in Ungheria o in che altro paese fosse, costruita, in base ai principi sperimentati della rivoluzione francese, sulle rovine di tutti i regni e i principati e sventolante la sua versione del tricolore, che, come al solito su modello francese, era l'epitome della bandiera nazionale. I moderati, d'altra parte, erano irretiti in una trama di calcoli complessi, basati essenzialmente sulla paura della democrazia che, nel loro pensiero, si identificava con la rivoluzione sociale. Dove le masse non avevano già spazzato via i principi, non era saggio incoraggiarle a minare le basi dell'ordine sociale; dove l'avevano fatto, era desiderabile sgombrarne le strade e le piazze, e smantellare le barricate, simboli essenziali nel 1848. La questione, perciò, era quale fra i principi paralizzati ma non deposti dalla rivoluzione si potesse indurre a sostenere la buona causa. Come, esattamente, costruire una Germania o un'Italia federale e liberale? In base a quale formula? Sotto quali auspici? Poteva essa contenere nello stesso tempo il re di Prussia e l'imperatore d'Austria (come pensavano i moderati «grandi-tedeschi», da non confondere con i democratici radicali che erano per definizione dei «grandi-tedeschi» di un genere di­verso) o doveva essere «piccolo-tedesca», cioè escludere l'Austria? Analogamente, i moderati nell'impero asburgico praticavano quel gioco consistente nell'elucubrare costituzioni federali e multinazionali che cesserà solo con la scomparsa dell'impero stesso nel 1918. Dove l'azione rivoluzionaria o la guerra rivoluzionaria irruppero, non vi fu molto tempo per questo tipo di speculazioni costituzionali; dove no, come nella maggior parte della Germania, esse abbondarono, e poiché qui i professori e i burocrati costituivano un'alta percentuale del liberalismo moderato - il 68 per cento dei deputati all'Assemblea di Francoforte consisteva di funzionari, il 12 per cento di «liberi professionisti» - i dibattiti di quel fugace Parlamento dovevano assurgere a sinonimo di futilità intelligente.

Le rivoluzioni del 1848 esigono quindi uno studio minuzioso, Stato per Stato, regione per regione, che qui non trova posto. Malgrado tutto, però, esse ebbero molti aspetti comuni, non ultimo il fatto che scoppiarono dovunque quasi simultaneamente, che i loro destini si intrecciarono, e che furono tutte rivelatrici di uno stato d'animo e di uno stile omogenei, di una peculiare atmosfera romantico-utopistica e di una retorica simile, per indicare la quale i francesi hanno inventato l'aggettivo quarantehuitarde. Ogni storico la riconosce subito e a colpo sicuro: le barbe, le cravatte svolazzanti, i cappelli a larghe tese, i tricolori, le barricate onnipresenti, il senso iniziale di liberazione, di speranza immensa e di confusione ottimistica. Era «la primavera dei popoli» - e, come la primavera, non durò a lungo. Dobbiamo considerarne brevemente le caratteristiche comuni.

In primo luogo, tutte riuscirono e fallirono rapidamente e, quasi dovunque, globalmente. Nei primi mesi, tutti i governi dell'area rivoluzionaria vennero spazzati via o ridotti all'impotenza. Tutti crollarono, o si ritirarono, in pratica, senza colpo ferire. Ma, quasi dappertutto, in un arco di tempo relativamente breve la rivoluzione aveva perso l'iniziativa - in Francia alla fine di aprile, nel resto dell'Europa rivoluzionaria durante l'estate - sebbene il movimento conservasse una certa capacità di contrattacco a Vienna, in Ungheria e in Italia. In Francia, il primo segno di ripresa conservatrice furono le elezioni di aprile, in cui il suffragio universale mandò a Parigi, accanto a non più di un'esile minoranza di monarchici, una maggioranza di conservatori eletti dai contadini - una classe politicamente inesperta più che reazionaria, l'arte di rivolgersi alla quale non era stata ancora appresa dalla sinistra di neutralità puramente urbana. (In realtà, nel 1849 le aree «repubblicane» e di sinistra della campagna francese, ben note agli studiosi della politica in Francia in anni più tardi, si erano già delineate, e fu qui - per esempio in Provenza - che l'abolizione della repubblica nel 1851 si scontrò con le più forti resistenze). La seconda tappa fu l'isolamento e la sconfitta degli operai rivoluzionari a Parigi nell'insurrezione di giugno.

La svolta nel centro-Europa si ebbe allorché l'esercito asburgico, riacquistata la sua libertà di manovra dopo la fuga dell'imperatore in maggio, poté ricomporsi e, in giugno, soffocare la rivolta radicale di Praga - non senza l'appoggio della borghesia moderata, tedesca e cèca - riprendendo così possesso del territorio boemo, cuore economico dell'impero, e, poco dopo, il controllo dell'Italia settentrionale. Una rivoluzione tardiva e condannata a breve vita nei principati danubiani venne repressa grazie all'intervento russo e turco.

Fra l'estate e la fine dell'anno, sia in Germania che in Austria gli anciens régimes erano quindi di nuovo in sella, benché in ottobre si dovesse riconquistare con le armi, e a prezzo di oltre quattromila vite, la città sempre più rivoluzionaria di Vienna; solo dopo, il re di Prussia trovò il coraggio per ristabilire senza gravi turbamenti la propria autorità sugli insorti berlinesi, e il resto della Germania (a parte una certa opposizione nel Sudovest) si mise rapidamente in linea, abbandonando alle loro vuote discussioni il Parlamento, o meglio l'Assemblea costituente tedesca eletta nei giorni radiosi della primavera, e le più radicali Diete prussiana ed altre, in attesa di scioglierle. All'inizio dell'inverno, due sole regioni restavano nelle mani dei rivoluzionari - una parte dell'Italia e l'Ungheria. Esse vennero riconquistate, dopo una modesta ripresa di attività rivoluzionaria nella primavera del 1849, verso la metà dell'anno.

Arresisi gli ungheresi e i veneziani nell'agosto 1849, la rivoluzione era morta. Con l'unica eccezione della Francia, tutti i vecchi regnanti tornarono sul trono - in qualche caso, come nell'impero asburgico, un trono più saldo di prima -, e i rivoluzionari sciamarono in esilio. Anche qui con l'eccezione della Francia, in pratica tutti i mutamenti costituzionali, tutti i sogni politici e sociali della primavera del 1848, vennero rapidamente spazzati via, e nella stessa Francia la repubblica non ebbe più di due anni e mezzo in cui sopravvivere. Un mutamento costituzionale di portata maggiore v'era stato, ma uno solo: l'abolizione della servitù della gleba nell'impero asburgico7. Eccetto quest'unica conquista, certo importante, il 1848 ci appare come la sola rivoluzione nella storia moderna d'Europa che alle maggiori promesse, al più vasto orizzonte e al successo più immediato unisca la disfatta più rapida e completa. In un certo senso, essa ricorda quell'altro fenomeno di massa degli anni Quaranta che fu il cartismo in Inghilterra. I suoi obiettivi specifici si realizzarono col passar del tempo - ma non per via rivoluzionaria o in un contesto rivoluzionario. Neppure le sue più vaste aspirazioni andarono perdute, ma i movimenti che dovevano riprenderle e portarle avanti dovevano essere completamente diversi da quelli del 1848. Non è un caso che il documento di quell'anno le cui ripercussioni sulla storia mondiale furono le più durature ed importanti sia stato il Manifesto del Partito Comunista.

Tutte le rivoluzioni ebbero in comune qualcos'altro, che spiega in larga misura il loro fallimento. Furono, nel fatto o nell'anticipazione immediata, rivoluzioni sociali degli operai comuni. Perciò spaventarono i liberali moderati che avevano spinto al potere e in posizioni di prestigio - e perfino alcuni dei politici più radicali - almeno quanto i sostenitori dei vecchi regimi. Il conte di Cavour, futuro architetto dell'Italia unita, aveva messo il dito su questo punto debole alcuni anni prima (1846):

Se l'ordine sociale fosse davvero minacciato, se i grandi princìpi sui quali riposa, corressero un pericolo reale, si vedrebbero - ne siamo persuasi - molti fra gli oppositori più determinati, fra i repubblicani più esaltati, presentarsi per primi nelle file del partito conservatore8.

Ora, quelli che avevano fatto la rivoluzione erano indiscutibilmente i «poveri che lavorano» (labouring poor). Erano stati es­si a morire sulle barricate; a Berlino, fra le 300 vittime degli scontri di marzo v'erano stati appena quindici rappresentanti delle classi colte e circa trenta mastri artigiani; a Milano, fra i 350 morti delle Cinque Giornate, solo dodici studenti, impiegati o proprietari fondiari9. Era stata la loro fame a scatenare le dimostrazioni trasformatesi in rivoluzioni. Le campagne delle regioni occidentali rimasero relativamente tranquille; se la Germania sudoccidentale assistette a un numero molto maggiore di rivolte contadine di quanto comunemente non si scriva, altrove il timore di una insurrezione agraria fu abbastanza acuto da far scambiare l'apparenza con la realtà, benché non occorresse molta immaginazione a questo fine in aree come l'Italia meridionale, dove i contadini invadevano spontaneamente con bandiere e tamburi i latifondi e procedevano a spartirli. Spaventata da false voci di una poderosa rivolta dei servi guidati dal poeta S. Petöfi (1823-1849), la Dieta ungherese - un'assemblea in cui i grandi agrari erano in schiacciante maggioranza - votò l'immediata abolizione della servitù della gleba fin dal 15 marzo 1848, solo pochi giorni dopo che il governo imperiale, nello sforzo di privare i rivoluzionari della loro base contadina, l'aveva decretata con effetto immediato in Galizia parallelamente alla soppressione del lavoro obbligatorio e di altre corvées nelle terre cèche. Nessun dubbio: «l'ordine sociale» era in pericolo.

Il pericolo non si presentava con la stessa gravità dappertutto. Governi conservatori potevano comprare e di fatto comprarono i contadini, soprattutto là dove i proprietari terrieri, o i mercanti e usurai che sfruttavano la popolazione rurale, appartenevano a una nazionalità diversa e, nell'ipotesi più probabile, non «rivoluzionaria»: polacca, magiara o tedesca. E improbabile che la borghesia germanica, inclusi gli uomini d'affari renani in baldanzosa ascesa, si lasciasse veramente turbare i sonni da una prospettiva immediata di comunismo o anche solo di governo proletario, prospettiva che non fu mai seriamente considerata neppure a Colonia, dove Marx aveva stabilito il suo quartier generale, o a Berlino, dove il tipografo Stephan Born dava vita a un movimento operaio organizzato di un certo rilievo. Ma la borghesia europea, come nel 1840-1850 aveva creduto di intravvedere nella pioggia e nel fumo del Lancashi­re l'immagine dei problemi sociali che l'avrebbero assillata nel futuro, così credeva ora di intravvedere dietro le barricate di Parigi, questa grande anticipatrice ed esportatrice di rivoluzioni, un'altra immagine dell'avvenire. E la rivoluzione di febbraio non fu soltanto opera del proletariato: fu una rivoluzione sociale cosciente, il cui obiettivo non era una repubblica come che sia, ma la «repubblica democratica e sociale». I suoi leader erano socialisti e comunisti; del suo governo provvisorio faceva parte un operaio autentico, un meccanico noto come Albert; e, per qualche giorno, rimase incerto se la sua bandiera sarebbe stata il tricolore o la bandiera rossa della rivolta sociale.

Se non là dove erano in gioco questioni di autonomia o indipendenza nazionale, l'opposizione moderata degli anni Quaranta non aveva né desiderato la rivoluzione, né lavorato seriamente per essa; e anche nella questione nazionale aveva preferito allo scontro la trattativa e la diplomazia. Indubbiamente, avrebbe desiderato qualcosa di più, ma era disposta a trattare o per concessioni alle quali poteva ragionevolmente supporre che solo il più ottuso o arrogante dei regimi assoluti, come quello zarista, non si sarebbe prima o poi deciso a piegarsi, o per mutamenti d'ordine internazionale che avevano tutte le probabilità d'essere prima o poi accettati dall'oligarchia di «grandi potenze» che in materia decideva ogni cosa. Trascinati nel vortice della rivoluzione dalle forze dei poveri e/o dall'esempio di Parigi, i moderati cercarono naturalmente di trarre il massimo profitto da una situazione che non si erano aspettati fosse tanto favorevole. Ma in ultima analisi, e spesso fin dall'inizio, si preoccuparono assai più della minaccia da sinistra, che dei vecchi governi. Da quando Parigi vide sorgere le sue barricate, tutti i liberali moderati (e, come notava Cavour, buona parte degli stessi radicali) divennero conservatori in potenza. E via via che, più o meno rapidamente, l'opinione moderata cambiava bandiera o si ritirava dalla scena, gli operai e i radicali democratici intransigenti rimasero isolati o, cosa ancor più fatale, si trovarono schierato di fronte un blocco tra le forze conservatrici ed ex moderate e quelle degli anciens régimes: come lo chiamarono i francesi, un «partito dell'ordine». Il fallimento del Quarantotto trasse origine dal fatto che lo scontro decisivo non fu, in ultima istanza, fra i poteri costituiti e le «forze del progresso», ma fra l'«ordine» e la «rivoluzione sociale». La sua battaglia cruciale non fu quella del febbraio, ma quella del giugno a Parigi, quando gli operai lanciatisi in una insurrezione isolata vennero sconfitti e massacrati: combatterono duramente, e duramente morirono. I caduti nelle battaglie di strada furono circa 1.500 - due terzi o poco meno da parte governativa-; ma è tipico della ferocia dell'odio dei ricchi per i poveri che circa tremila insorti vennero passati per le armi dopo la sconfitta, altri dodicimila arrestati, e i più deportati in campi di lavoro in Algeria10.

La rivoluzione mantenne quindi il suo slancio solo là dove i radicali erano abbastanza forti e legati al movimento popolare o per trascinare con sé i moderati, o per farne a meno, come era probabile che avvenisse soprattutto nei paesi in cui il problema-chiave era quello della liberazione nazionale e per risolverlo era necessaria una costante mobilitazione delle masse. Ecco perché essa durò più a lungo in Italia e, soprattutto, in Ungheria11.

In Italia, i moderati raccoltisi intorno all'anti-austriaco re di Piemonte, il cui esempio, dopo l'insurrezione di Milano, venne seguito con notevoli riserve mentali dai principi minori, scesero in lotta non cessando però di guardare con sospetto i repubblicani, e con aperta ostilità la rivoluzione sociale. In luglio, tuttavia, sfruttando la debolezza militare degli Stati italiani, le esitazioni piemontesi e, forse ancor più, il rifiuto di chiedere soccorso alla Francia (il cui intervento si temeva potesse rafforzare la causa repubblicana), l'esercito austriaco riorganizzato ebbe la meglio, a Custoza, sulle forze nemiche. (Si noti di passaggio che ad un appello ai francesi si oppose, col suo infallibile istinto per le mosse politicamente futili, anche il grande repubblicano Giuseppe Mazzini). La sconfitta screditò i moderati, e il comando nella lotta di liberazione passò ai radicali, che nel corso dell'autunno presero il potere in diverse regioni e, all'inizio del 1849, instaurarono a Roma la repubblica, splendida arena per la retorica mazziniana. (Venezia, sotto la guida lucida ed equilibrata di Daniele Manin, si era già costituita in repubblica indipendente, e riuscì a salvarsi sinché, alla fine d'a­gosto, gli austriaci non la riconquistarono, come già poco prima avevano riconquistato l'Ungheria).

Dal punto di vista militare, per l'Austria i radicali non rappresentavano un pericolo serio e, quando nel 1849 spinsero il Piemonte a riaprire le ostilità, i suoi eserciti non ebbero difficoltà a sconfiggerli nella battaglia di Novara. Inoltre, benché più decisi a cacciare l'Austria e ad unificare l'Italia, i radicali condividevano coi moderati il timore di una repubblica sociale. Lo stesso Mazzini, con tutto il suo zelo per il popolo comune, non gradiva che i suoi interessi si spingessero oltre la sfera delle idee, detestava il socialismo, e respingeva ogni interferenza nella proprietà privata. Così, dopo il suo insuccesso iniziale, la rivoluzione italiana visse su tempo concesso in prestito. Ironia della storia, a schiacciarla furono, tra gli altri, i soldati di una Francia non più rivoluzionaria, che ai primi di giugno riconquistarono Roma. La spedizione romana fu da parte francese un tentativo di ristabilire contro l'Austria la propria influenza diplomatica nella penisola, col vantaggio sussidiario d'essere popolare fra i cattolici sul cui appoggio il regime post-rivoluzionario contava.

A differenza dell'Italia, l'Ungheria era già un'entità politica più o meno unita («le terre della corona di S. Stefano»), con una sua costituzione, un grado non trascurabile di autonomia, e quasi tutti gli elementi di uno Stato sovrano, salvo l'indipendenza. La sua debolezza era che l'aristocrazia magiara, dominante su questa vasta area quasi del tutto agraria, tenesse soggiogato non soltanto il contadiname ungherese delle grandi pianure, ma una popolazione composta forse per il 60% di croati, serbi, slovacchi, rumeni e ucraini, per tacere di una sostanziosa minoranza tedesca. Questi popoli contadini guardavano con una certa simpatia una rivoluzione che liberava i servi della gleba, ma ne erano allontanati dal rifiuto persino della maggioranza dei radicali di Budapest di fare la ben che minima concessione alla loro diversità nazionale, così come i loro esponenti politici ne erano allontanati da una rabbiosa politica di magiarizzazione, e dall'incameramento di territori di confine un tempo in qualche modo autonomi in uno Stato magiaro centralizzato e unitario. Fedele all'antica massima imperialistica del divide et impera, la corte viennese li appoggiava, e doveva essere un esercito croato sotto il bano Jelacic, amico del pioniere del nazionalismo jugoslavo L. Gaj, a dirigere l'attacco alla rivoluzionaria Vienna e alla rivoluzionaria Ungheria.

Comunque, nell'ambito della superficie attuale dell'Ungheria, o poco meno, la rivoluzione ottenne e conservò l'appoggio di massa della popolazione (magiara) per motivi sia nazionali che sociali. Ai contadini la libertà era stata data non dall'imperatore, ma dalla rivoluzionaria Dieta ungherese, e fu solo in questa parte d'Europa che la sconfitta della rivoluzione fu seguita da qualcosa di simile ad una guerriglia rurale, mantenuta viva per diversi anni dal celebre bandito Sandor Rósza. Allo scoppio della rivoluzione, la Dieta, composta di una Camera alta di proprietari terrieri o inclini al compromesso, o moderati, e di una Camera bassa dominata da gentiluomini di campagna e giuristi radicali, non aveva che da trasformare in azione la protesta, e lo fece prontamente sotto la guida dell'abile avvocato, giornalista ed oratore Lajos Kossuth (1802-1894), la figura rivoluzionaria internazionalmente più nota del 1848. Agli effetti pratici, l'Ungheria, sotto un governo di coalizione di moderati e radicali riconosciuto con qualche riluttanza da Vienna, rimase uno Stato riformato autonomo almeno finché gli Asburgo non furono in grado di riconquistarla. Dopo Custoza, sentendosi di nuovo sicura, la dinastia revocò le leggi di riforma del marzo, invase il territorio ungherese, e mise i suoi dirigenti di fronte all'alternativa di capitolare o radicalizzarsi. Sotto l'ispirazione di Kossuth, l'Ungheria bruciò i suoi vascelli, e nell'aprile 1849 depose l'imperatore, senza tuttavia proclamare ufficialmente la repubblica. L'appoggio delle masse popolari e le doti di comando di Gòrgey permisero agli ungheresi di opporre agli austriaci qualcosa più della pura e semplice resistenza: essi furono sconfitti solo dopo che Vienna ebbe disperatamente chiesto aiuto all'arma estrema della reazione, l'esercito zarista. Il passo fu decisivo. Il 13 agosto gli ultimi resti dell'armata magiara si arresero - non al comandante austriaco, ma a quello russo. Sola fra le rivoluzioni del 1848, la rivoluzione ungherese non cadde né parve mai sul punto di cadere per debolezza o per contrasti interni, ma sotto la forza schiacciante del nemico. È vero che le probabilità di evitare la conquista militare, dopo che tutto il resto era crollato, erano nulle.

V'era un'alternativa qualsiasi alla generale débâcle? Quasi certamente no. Come si è visto, fra i principali gruppi sociali coinvolti nel movimento rivoluzionario, la borghesia, di fronte alla minaccia alla proprietà, scoprì di preferire l'ordine all'occasione che le si era offerta di realizzare in pieno il suo programma.

Lo spettro della rivoluzione «rossa» unì liberali moderati e conservatori. I «notabili» francesi, cioè le ricche famiglie influenti e rispettabili nelle cui mani si concentrava la gestione degli affari politici, cessarono l'antica contesa fra sostenitori dei Borboni e sostenitori degli Orléans - o perfino di una repubblica - e raggiunsero una coscienza nazionale di classe attraverso un «partito dell'ordine» di nuova versione. Nella restaurata monarchia asburgica, i personaggi-chiave dovevano essere il ministro degli Interni Alexander Bach (1806-1867), già all'opposizione come liberale moderato, e il magnate della navigazione e del commercio K. von Bruck (1798-1860), figura di primo piano nella città portuale in rapido sviluppo di Trieste. In Germania, i banchieri e imprenditori renani che parlavano in nome del liberalismo borghese, e che avrebbero preferito una monarchia costituzionale limitata, accettarono tuttavia la comoda situazione di pilastri di una Prussia restaurata che, ad ogni buon conto, li salvava dal rischio di un suffragio democratico. In cambio, i regimi conservatori saliti nuovamente al potere erano più che disposti a far concessioni al liberalismo economico, giuridico e perfino culturale degli uomini d'affari, finché ciò non implicava una ritirata politica. Come vedremo, il decennio reazionario 1850-­1860 doveva essere, in termini economici, un periodo di liberalizzazione sistematica. Così, nel 1848-1849, i liberali moderati dell'Europa occidentale fecero due importanti scoperte: che la rivoluzione era pericolosa, e che, per ottener soddisfazione ad alcune delle loro principali richieste, soprattutto in campo economico, se ne poteva fare a meno. La borghesia cessò d'essere una forza rivoluzionaria.

A sua volta, il nerbo della piccola borghesia radicale, gli artigiani, i piccoli bottegai ecc., e perfino gli agricoltori, malcontenti, i cui leader e i cui portavoce erano degli intellettuali (soprattutto giovani e marginali), rappresentava bensì una forza rivoluzionaria considerevole, ma ben di rado un'alternativa politica. Essi appartenevano in genere alla sinistra democratica. In Germania, la sinistra chiedeva nuove elezioni, perché, alla fine del 1848 e agli inizi del 1849, il suo radicalismo godeva di buon seguito in numerose regioni, benché ormai avesse perduto il fulcro delle grandi città riconquistate dalla reazione. In Francia, i democratici radicali ottennero 2 milioni di voti nelle elezioni del 1849, contro 3 ai monarchici e 800.000 ai moderati.

Essi reclutavano i loro attivisti negli ambienti intellettuali, sebbene forse soltanto a Vienna gli studenti universitari della Legione Accademica rappresentassero delle vere e proprie truppe d'assalto. E' un errore credere che il 1848 sia stato una «rivoluzione degli intellettuali». Essi non ne occuparono il proscenio più che nella maggioranza delle altre rivoluzioni scoppiate, come in gran parte questa, in paesi relativamente retrogradi, in cui il grosso dei ceti medi consisteva e consiste tuttora di uomini con un certo grado di cultura e di esperienza nel maneggio della parola scritta: laureati in genere, giornalisti, insegnanti, funzionari. E tuttavia indiscutibile che gli intellettuali vi fecero spicco, e basti ricordare poeti come Petöfi in Ungheria, Herwegh e Freiligrath (membro della redazione della «Neue Rheinische Zeitung», il giornale di Marx) in Germania, Victor Hugo e il sempre moderato Lamartine in Francia, un gran numero di professori universitari (per lo più moderati) ancora in Germania12, medici come G.G.Jacoby (1804-1851) in Prussia e Adolf Fischhof (1816-1893) in Austria; scienziati come F.V. Raspail (1794-1878) in Francia, e una pleìade di giornalisti e pubblicisti, fra i quali il più celebre era Kossuth, e il più formidabile Marx.

Come individui, questi uomini potevano recitare una parte decisiva; come appartenenti a un ceto sociale specifico, o come portavoce della piccola borghesia radicale, no. Il radicalismo degli «uomini della strada», che si esprimeva nella richiesta di una «costituzione democratica dello Stato, sia costituzionale, sia repubblicana, che desse loro e ai loro alleati, i contadini, la maggioranza, e di una costituzione democratica dei Comuni che desse loro il controllo diretto sulla proprietà comunale e mettesse in loro mano una serie di funzioni esercitate oggi dalla burocrazia»13, era abbastanza genuino, anche se da una parte la crisi secolare, che minacciava il modo tradizionale di vita dei mastri artigiani e dei loro affini, dall'altra la depressione economica temporanea, gli conferivano un taglio di particolare asprezza.

Meno profonde erano le basi del radicalismo degli intellettuali. Esso si fondava in gran parte sull'incapacità (allora temporaneamente rivelatasi) della nuova società borghese prima del 1848 di offrire posti sufficienti e di status adeguato al numero straordinario di persone colte che andava sfornando e le cui ambizioni restavano in larga misura insoddisfatte. Che cosa ne fu di tutti gli studenti radicali del 1848 nel prospero ventennio successivo? Essi fissarono il quadro biografico, così familiare e universalmente accettato in Europa, per cui i figli dei borghesi, prima di «sistemarsi», correvano la loro brava cavallina politica e sessuale; poi le prospettive di sistemazione non mancavano, soprattutto perché il declino della vecchia nobiltà e la caccia ossessiva della borghesia affaristica al denaro lasciavano spazio sempre più largo a chi poteva vantare titoli essenzialmente accademici. Nel 1842, in Francia, il 10% dei professori di liceo veniva ancora dall'ambiente dei «notabili»; nel 1877, non ne venne nessuno. Nel 1868, vi si sfornarono più diplomati (bacheliers) che nel 1830-1840, ma di questi un numero molto maggiore poteva ora entrare in banca, in commercio, nel giornalismo di successo e, dopo il 1870, nella politica come professione14.

Inoltre, quando si vedevano dinnanzi lo spettro della rivoluzione rossa, anche i democratici radicaleggianti, divisi com'erano fra una schietta simpatia per il «popolo» e il senso della proprietà e del denaro, tendevano a rifugiarsi nella retorica. Diversamente dalla borghesia liberale, non cambiarono parte: si limitarono ad oscillare, benché mai troppo a destra.

Da parte loro, gli operai non possedevano l'organizzazione, la maturità e la guida necessarie per offrire un'alternativa politica: soprattutto, forse, non giocava a loro favore la congiuntura storica. Abbastanza forti per far sembrare reale e minacciosa la prospettiva di rivoluzione sociale, erano troppo deboli per fare qualcosa di più che incutere timore al nemico. Disponevano di forze gigantesche in quanto erano concentrati in masse fameliche nei punti politicamente più sensibili: le grandi città, specialmente le capitali. Ma questo vantaggio celava alcune gravi debolezze: in primo luogo, la loro inferiorità numerica - non sempre rappresentavano la maggioranza neppure nelle città, che a loro volta, in generale, comprendevano solo una modesta minoranza della popolazione complessiva - e, in secondo luogo, la loro immaturità politica e ideologica. Il loro strato politicamente più cosciente e combattivo era formato da operai qualificati in laboratori precapitalistici o fabbriche non meccanizzate (come si diceva allora in Inghilterra, artisans). Presi nel vortice di ideologie socialrivoluzionarie o addirittura socialiste e comuniste nella Francia giacobino-sanculotta, avevano in quanto massa aspirazioni molto più modeste in Germania, come doveva constatare a Berlino il tipografo comunista Stephan Born. I poveri e i non specializzati nelle città e, fuori d'Inghilterra, il proletariato industriale e minerario nel suo insieme, non avevano ancora un'ideologia politica sviluppata. Nella zona industriale del nord della Francia, lo stesso repubblicanismo non si aprì un varco prima della fine della Seconda Repubblica: il 1848 vide esclusivamente assorbite da problemi economici locali Lilla e Roubaix, e le loro sommosse dirette non contro re o borghesi, ma contro gli ancor più miseri immigranti belgi.

Dove i plebei urbani, o più di rado i nuovi proletari, entravano nel raggio dell'ideologia giacobina, socialista o democratico-repubblicana, o - come a Vienna - in quello degli attivisti studenteschi, essi divenivano una forza politica, almeno come rivoltosi. (La loro partecipazione alle elezioni era ancora bassa e imprevedibile, a differenza di quella dei tessìtori rurali pauperizzati che, come in Sassonia o in Gran Bretagna, tendevano decisamente a radicalizzarsi). Il fenomeno, paradossalmente, era raro nella Francia giacobina, fuorché a Parigi, mentre in Germania la Lega dei Comunisti di Marx forniva all'estrema sinistra gli elementi di una rete nazionale. Fuori di questo raggio di influenza, i labouring poor erano politicamente irrilevanti.

Naturalmente, non si deve sottovalutare il potenziale di una forza sociale pur così giovane e immatura come il «proletariato» del 1848, ancora solo vagamente conscio di sé in quanto classe. In un certo senso, le sue potenzialità rivoluzionarie erano anzi più forti di quel che saranno poi. La generazione di ferro di prima del '48, la generazione del pauperismo e della crisi, non aveva incoraggiato molti a credere che il capitalismo potesse, e meno ancora volesse, assicurare loro condizioni di vita decenti, o che, perfino, sarebbe sopravvissuto. La stessa giovinezza e debolezza della classe operaia, ancora in procinto di emergere dalla massa confusa dei «poveri che lavorano», e da quella dei mastri artigiani e bottegai indipendenti, impediva una sua concentrazione esclusiva sulle rivendicazioni economiche, se non nelle frange più incolte ed isolate della classe. Le rivendicazioni politiche senza le quali nessuna rivoluzione è possibile, nemmeno la più puramente sociale, erano insite nella stessa situazione. L'obiettivo popolare del 1848, la «repubblica democratica e sociale», era insieme sociale e politico. L'esperienza della classe lavoratrice vi iniettò, almeno in Francia, elementi istituzionali nuovi, basati sulla pratica dell'azione sindacale e cooperativa, benché non ne creasse nessuno così originale e potente come i soviet della Russia ai primi del secolo XX.

D'altra parte, l'ideologia e la leadership erano appena agli albori. La stessa forma organizzativa più elementare, il sindacato, non comprendeva più di qualche centinaio, nell'ipotesi migliore qualche migliaio, di iscritti. Abbastanza spesso, perfino le società di operai specializzati pionieri delle leghe di mestiere i tipografi in Germania, i cappellai in Francia - fecero la loro prima comparsa solo durante la rivoluzione. I socialisti e comunisti organizzati erano numericamente ancora più esigui: qualche dozzina, al massimo qualche centinaio. Eppure, il 1848 fu la prima rivoluzione in cui i socialisti o più probabilmente i comunisti - giacché il socialismo pre-1848 era stato in larga misura un movimento apolitico di costruzione di utopie - apparissero fin dall'inizio in avanscena. Fu l'anno non soltanto di Kossuth, Ledru-Rollin (1807-1874) e Mazzini, ma di Karl Marx (1818­1883), Louis Blanc (1811-1882) e L.A. Blanqui (18051881) - l'inflessibile ribelle che usciva da una vita consumata in prigionia solo quando per breve tempo una rivoluzione lo liberava -, di Bakunin, e dello stesso Proudhon. Ma che cosa significava il socialismo, per i suoi adepti, oltre che un nome inteso ad indicare una classe operaia cosciente di sé, con la sua aspirazione ad una società diversa da quella capitalistica, e fondata sul suo abbattimento? Perfino il suo avversario non era chiaramente definito. Si faceva un gran parlare di «classe lavoratrice» o perfino di «proletariato», ma, durante la stessa rivoluzione, mai di «capitalismo».

Quali erano, in realtà, le prospettive politiche di una classe operaia socialista? Lo stesso Karl Marx non credeva che la rivoluzione proletaria fosse all'ordine del giorno. Persino in Francia, il proletariato era «ancora incapace di superare la repub­blica borghese altrimenti che nell'idea, nell'immaginazione»; «né un consapevole bisogno immediato lo spingeva a combattere per rovesciare con la violenza la borghesia, né esso era pari a questo compito». Il massimo che si sarebbe potuto ottenere era una repubblica borghese che rendesse esplicita la vera natura della lotta avvenire - quella fra borghesia e proletariato - e, a sua volta, unisse agli operai gli strati intermedi della società presente «nella misura in cui la loro situazione si faceva più insopportabile e più acuto il loro contrasto con la borghesia»15.

Era prima di tutto una repubblica democratica e, in secondo luogo, lo stadio di trapasso da una rivoluzione borghese incompiuta ad una rivoluzione proletaria-popolare e di qui alla dittatura del proletariato o, nella frase che Marx può aver attinto da Bianqui e che rifletteva la convergenza temporanea fra i due grandi rivoluzionari all'indomani immediato del 1848, la «rivoluzione in permanenza». Ma, diversamente da Lenin nel 1917, Marx non giunse a concepire la sostituzione della rivoluzione proletaria a quella borghese se non dopo la sconfitta del 1848, e, se mai formulò allora una prospettiva paragonabile a quella di Lenin (incluso «l'appoggio alla rivoluzione di una riedizione della guerra dei contadini», per dirla con Engels), non lo fece a lungo. Non ci si doveva aspettare nell'Europa occidentale e centrale una seconda edizione del 1848. La classe operaia, come egli non tardò a riconoscere, doveva seguire un'altra via.

Così, le rivoluzioni del 1848 sorsero e si infransero come una grande ondata, lasciandosi dietro poco più di un mito e di una promessa. «Avrebbero dovuto» essere delle rivoluzioni borghesi; ma la borghesia le disertò. Si sarebbero potute rafforzare a vicenda sotto la guida della Francia, impedendo o ritardando la restaurazione dei vecchi governanti e tenendo in scacco lo zar; ma la borghesia francese preferì la stabilità sociale interna ai vantaggi e ai pericoli d'essere nuovamente la grande nation; per motivi analoghi, i leader moderati della rivoluzione esitarono a chiedere l'intervento francese. Nessun'altra forza fu in grado di dar loro slancio e coerenza, salvo, in casi speciali, la lotta di indipendenza nazionale contro una potenza politicamente dominante, e anche questa falli, perché le lotte nazionali rimasero isolate e, comunque, furono troppo deboli per reggere al peso della potenza militare degli anciens régimes.

Le grandi figure caratteristiche del 1848 recitarono per qualche mese la loro parte da eroi sul palcoscenico europeo e scomparvero per sempre - con l'eccezione di Garibaldi, che doveva conoscere un ancor più glorioso momento dodici anni dopo. Kossuth e Mazzini spesero la loro vita in esilio, dando un contributo diretto minimo alla conquista dell'indipendenza o dell'unità dei rispettivi paesi, benché ricompensati con un posto sicuro nei loro pantheon nazionali. Ledru-Rollin e Raspail non conobbero mai più un attimo di celebrità pari alla Seconda Repubblica, e gli eloquenti professori dell'Assemblea di Francoforte si rifugiarono nei loro studi e nelle loro aule universitarie. Degli esuli appassionati degli anni Cinquanta, che creavano i loro grandi piani e i loro governi rivali nelle nebbie londinesi, nulla sopravvive all'infuori dell'opera dei più isolati e atipici di tutti, Marx e Engels.

E tuttavia, il 1848 fu qualcosa più di un episodio storico breve e irrilevante. Se le trasformazioni da esso causate non furono quelle che i rivoluzionari avrebbero voluto, e non è nemmeno facile definirle in termini di regimi politici, leggi e istituzioni, esse furono nondimeno profonde. Il 1848 segnò la fine, almeno nell'Occidente europeo, della politica della tradizione, delle monarchie convinte che i loro popoli (a parte i malcontenti dei ceti intermedi) accettassero, anzi salutassero con entusiasmo, il potere di dinastie per investitura divina veglianti su società gerarchicamente stratificate, sancite dalla religione dei padri; la fine della credenza nei diritti e doveri patriarcali degli uomini economicamente e socialmente superiori. Come scri­veva ironicamente su Metternich il poeta austriaco Griliparzer, che pure non era un rivoluzionario:

Qui giace, per la sua fama troppo tardi, Il Don Chisciotte della legittimità, Che vero e falso a piacer suo contorse, Dapprima agli altri, poi menti a se stesso, Da furfante, pazzo divenne coi capelli grigi, Poiché finì per credere alle proprie menzogne 16.

D'ora innanzi, le forze del conservatorismo, del privilegio e della ricchezza si sarebbero dovute difendere in modi affatto nuovi. Perfino i contadini analfabeti ed arretrati dell'Italia del Sud, nella grande primavera del '48, cessarono di appoggiare l'assolutismo come avevano fatto cinquant'anni prima. Quando procedevano in corteo ad occupare le terre, è raro che esprimessero ostilità verso la «costituzione».

I difensori dell'ordine sociale dovevano imparare la politica del popolo. Fu questa la maggior novità introdotta dalle rivoluzioni del 1848. Perfino i più ultrareazionari junker prussiani scoprirono durante quell'anno di aver bisogno di un giornale che fosse in grado di influenzare I'«opinione pubblica» - concetto in sé legato al liberalismo e incompatibile con la gerarchia tradizionale. Il più intelligente degli arcireazionari prussiani del 1848, Otto von Bismarck (1815-1898), doveva poi dimostrare una lucida comprensione della natura della politica della società borghese e un maneggio sovrano delle sue tecniche. Le innovazioni politiche più importanti di questo genere si verificarono tuttavia in Francia.

Qui la disfatta dell'insurrezione operaia del giugno aveva lasciato un potente «partito dell'ordine», capace di sconfiggere la rivoluzione sociale ma non di conquistare un grande appoggio di massa, neppure fra i molti conservatori che, pur nel difendere l'«ordine», non desideravano impegnarsi nel tipo esatto di repubblicanismo moderato ora al potere. Il popolo era ancora troppo in fermento per consentire una limitazione del diritto di voto: non prima del 1850 ne venne esclusa una parte sostanziosa della «vil moltitudine» - cioè un terzo circa in Francia, due terzi circa nella radicale Parigi. Ma se, nel dicembre 1848, i francesi non elessero alla presidenza della repubblica un moderato, non elessero neppure un radicale. (Non v'era nessun candidato monarchico). Il vincitore, con una maggioranza schiacciante - 5,5 milioni di voti su 7,4 votanti effettivi - fu Luigi Napoleone, nipote del grande imperatore. Benché dovesse rivelarsi un politico notevolmente astuto, quando rientrò in Francia nel tardo settembre egli non sembrava possedere alcun punto di forza oltre a un nome prestigioso e all'appoggio finanziario di un'amante inglese. Non era un rivoluzionario sociale, evidentemente, ma non era neppure un conservatore; i suoi partigiani amavano anzi scherzare sul suo giovanile interesse per il sansimonismo, e le sue presunte simpatie per i poveri. Ma vinse fondamentalmente perché i contadini votarono compatti per lui sotto la parola d'ordine: «Non più imposte, abbasso i ricchi, abbasso la Repubblica, viva l'imperatore!»; in altre parole, come notava Marx, contro la repubblica dei ricchi. A loro volta, gli operai votarono per lui perché ai loro occhi egli significava «la destituzione di Cavaignac [il generale che aveva represso l'insurrezione di giugno], l'abdicazione del repubblicanismo borghese, la cassazione della vittoria di giugno» 17; e i piccoli borghesi, perché non sembrava schierarsi dalla parte della grossa borghesia.

L'elezione di Luigi Napoleone mostrò che anche la democrazia del suffragio universale, questo istituto identificato con la rivoluzione, era compatibile con il mantenimento dell'ordine sociale. Perfino una massa schiacciante di malcontenti poteva non eleggere dei governanti impegnati ad «abbattere la società presente». Delle più vaste lezioni di questa esperienza non si fece subito tesoro perché, poco dopo, lo stesso Luigi Napoleone soppresse la repubblica ed instaurò l'impero, pur non dimenticando mai i vantaggi politici di un suffragio universale ben manipolato, che non a caso reintrodusse. Egli doveva essere il primo capo di Stato moderno a governare non con la pura e semplice forza armata, ma con quel misto di demagogia e public relations di cui è molto più facile servirsi ai vertici dello Stato che in qualunque altra posizione. La sua esperienza confermò che l'«ordine sociale» non solo può presentarsi sotto mentite spoglie in modo da abbacinare e convogliare i fautori della «sinistra», ma, in un paese o in un'epoca in cui i cittadini vengono mobilitati per partecipare alla vita politica, così deve fare.

Le rivoluzioni del 1848 chiarirono infine che la borghesia, il liberalismo, la democrazia politica, il nazionalismo, perfino la classe operaia, sarebbero stati d'ora innanzi aspetti permanenti del paesaggio politico. La sconfitta delle rivoluzioni poteva allontanarli temporaneamente dalla vista, ma, quando fossero riapparsi, avrebbero determinato il modo di agire e il comportamento di quegli statisti che meno simpatizzavano per essi.


NOTE


1 P. Goldammer (a cura di), 1848, Augenzeugen der Revolution, Berlino 1973, p.58.

2 Ivi, p. 666.

3 In realtà, nel corso dell'anno esso venne tradotto anche in polacco e svedese, ma si può ben dire che le sue irradiazioni politiche fuori da una piccola cerchia di rivoluzionari tedeschi rimasero insignificanti finché non venne ripubblicato nei primi anni Ottanta.

4 Francia, Germania occidentale ed orientale, Austria, Italia, Cecoslovacchia, Ungheria, e parti della Polonia, della jugoslavia e della Romania. Altrettanto seri possono considerarsi i riflessi politici della rivoluzione in Belgio, Svizzera e Danimarca.

5 V'è pure il caso della Polonia, dal 1796 divisa fra Russia, Austria e Prussia, che avrebbe sicuramente partecipato alla rivoluzione se i suoi governanti russi e austriaci non fossero riusciti a mobilitare i contadini contro la piccola nobiltà (rivoluzionaria).

6 Dei delegati della Renania al «preparlamento» tedesco, 45 rappresentavano grandi città, 24 città minori, e solo 10 le campagne, in cui tuttavia risiedeva il 73% della popolazione complessiva. Cfr. K. Repgen, Màszbewegung und Maiwahien des Revolutionsjahres 1848 im Rheinland, Bonn 1955, p. 118.

7 In generale, si può dire che la servitù della gleba e i diritti signorili sui contadini nel resto dell'Europa occidentale e centrale (Prussia inclusa) erano stati aboliti nel periodo rivoluzionario e napoleonico francese (1789-1815), benché per la soppressione di alcune sopravvivenze dello stato di sudditanza in Germania si dovesse aspettare il 1848. In Russia e in Romania, il servaggio durò fino agli anni 1860 (cfr. cap. X).

8 Cit. da D. Cantimori in G. Manacorda (a cura di), 111848-Raccolta di saggi e testimonianze, «Quaderni di Rinascita», Roma 1948, p. 62.

9 R. Hoppe -J. Kuczynski, Eine... Analyse derMérzgefallenen 1848 in Berlin, in «Jahrbuch für Wirtschaftsgeschichte», IV, 1964, pp. 200-76; D. Cantimori, in F. Fejtò (a cura di), 1848- Opening of an Era, Londra 1948.

10 Cfr. R. Ikor, Insurrection ouvrière dejuin 1848, Parigi 1936. La rivoluzione di febbraio a Parigi era costata 370 vite.

11 In Francia non erano in questione l'unità e l'indipendenza nazionali. Il nazionalismo tedesco era assorbito dal problema dell'unificazione di numerosi staterelli finora separati, ma l'ostacolo alla sua soluzione non era la dominazione straniera, bensì - a prescindere da interessi costituiti di ordine particolaristico - l'atteggiamento delle due grandi potenze tuttavia considerate come tedesche, la Prussia e l'Austria. Le aspirazioni nazionali slave contrastavano in primo luogo con quelle di nazionalità rivoluzionarie come la tedesca e la magiara, e quindi tendevano a favorire, tacitamente se non di fatto, la controrivoluzione. Perfino i cèchi vedevano nell'impero asburgiCo una garanzia di protezione contro l'assorbimento in una Germania nazionale. I palacchi non presero parte se non marginalmente a questa rivoluzione.

12 Gli insegnanti francesi, benché sospetti ai governi, erano rimasti tranquilli sotto la monarchia di Luglio, e parvero schierarsi a favore dell"«ordine» nel 1848.

13 K. Marx - F. Engels, Indirizzo del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti, Londra, marzo 1850, in Werke, VII, p. 247 [trad. it., p. 91].

14 P. Gerbod, La condition universitaire en France au 19 siècle, Parigi 1965.

15 K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in Werke, VII, pp. 30-1 [trad. it., pp. 164-71.

16 F. Grillparzer, Sdmtliche Werke: ausgewàhlte Briefe, Gesprdche, Berichte, 4 voli., Monaco 1960-1965, vol. I, p. 137.

17 Marx, op. cit., in Werke, VII, p.44 [trad. it., p. 179].