Erich Fromm

Psicoanalisi della società contemporanea

Mondadori, Milano 1987

1.

In Fuga dalla libertà, Fromm ha analizzato il paradosso per cui il processo di svincolamento dell’individuo dalla rete dei rapporti comunitaristici e parentali, vale a dire il riconoscimento della libertà e dell’indipendenza come diritti naturali dell’individuo, ha prodotto, nella prima metà del Novecento, uno smarrimento psicologico tale da indurre la rinuncia alla libertà in due diverse forme: la sottomissione al Capo, in quanto rappresentante della Nazione, nei paesi la cui organizzazione sociale è di tipo gerarchico, e il conformismo, l’adesione passiva al modello normativo dominante, nei Paesi democratici.

In Psicoanalisi della società contemporanea, Fromm concentra la sua attenzione sulla civiltà industriale avanzata, vale a dire sugli Stati Uniti, ove egli vive e lavora, il cui modello di sviluppo e il cui way of life vengono colti come anticipatori di fenomeni destinati ad investire tutti i Paesi occidentali.

Fromm è del tutto consapevole che l’applicazione degli strumenti analitici ad un’intera società è un procedimento azzardato, tanto più che egli, in nome della sua cultura marxista, non considera l’insieme sociale come una semplice somma di individui. Si autorizza comunque a procedere nell’analisi sulla base di una concezione antropologica originale che assume la natura umana come un prodotto dell’evoluzione naturale che contiene dei programmi. Nell’interazione con l’ambiente, tali programmi possono dispiegarsi, dando luogo all’autorealizzazione dell’essere, oppure arrestarsi ad un livello di sviluppo carente. In questo secondo caso, l’individuo può sviluppare un disagio psichico franco o apparire normale senza di fatto esserlo.

E’ sulla base di un modello ideale di pieno sviluppo delle potenzialità umane, dunque, che si può valutare qualitativamente la normalità dominante in un determinato contesto sociale.

Fromm scrive:

“L'uomo, quale appare in una data cultura, è sempre una manifestazione della natura umana, una manifestazione tuttavia che, nella sua specifica estrinsecazione, è determinata dalla struttura sociale in cui egli vive. Difatti come un bambino nasce con tutto il suo potenziale umano che si dovrà sviluppare in circostanze sociali e culturali favorevoli, così il ge­nere umano nel corso del processo storico si sviluppa nell'ambito delle proprie potenzialità.

Il punto di vista dell'umanesimo normativo è sostenuto dalla convinzione che, come in altre questioni, anche per il problema dell'esistenza umana vi sono soluzioni giuste ed errate, soddisfa­centi e insoddisfacenti. La salute mentale viene raggiunta se l'uomo si sviluppa, sino a raggiungere la maturità completa, in accordo con le caratteristiche e le leggi della natura umana, e le malattie mentali consistono in un mancato sviluppo in questo senso. Date tali premesse, il metro di giudizio della salute mentale non sarà stabilito in rapporto all'adattamento individuale in un dato ordi­namento sociale, ma dovrà essere universale, valido per tutti gli uomini, e in grado di dare una risposta soddisfacente al problema dell'esistenza umana.

Ciò che trae specialmente in inganno quando si considerino le condizioni mentali dei membri di una società, è la « convalida consensuale » dei loro concetti. Si ritiene ingenuamente che, se certi sentimenti o certe idee sono condivisi dai più, essi sono giusti. Niente è più lontano dal vero. La convalida consensuale in sé non ha nulla a che vedere con la salute mentale. Come c'è una folie à deux, così c'è una folie à mìllions. Il fatto che milioni di persone condividano gli stessi vizi non fa di questi vizi delle virtù, il fatto che essi condividano tanti errori non fa di questi errori delle verità, e il fatto che milioni di persone condividano una stessa forma di malattia mentale non fa che questa gente sia sana.

C'è tuttavia una differenza importante tra malattie mentali individuali e sociali, che suggerisce una differenziazione tra i due concetti: quello di deficienza e quello di nevrosi. Se una persona non riesce a raggiungere libertà, spontaneità e genuina espressione di sé, si può ritenere che essa abbia delle gravi forme di deficienza, sempre che si creda che libertà e spontaneità siano delle mete obiet­tive raggiungibili da ogni creatura umana. Se poi questa meta non è raggiungibile dalla maggioranza dei membri di una data società, allora abbiamo a che fare con il fenomeno di una deficienza social­mente strutturata. L'individuo la condivide con molti altri, ma non crede si tratti di una deficienza e la sua sicurezza non è minacciata dalla consapevolezza di essere diverso, di essere, per così dire, un proscritto. Ciò che può aver perso in ricchezza, in sentimento genuino di felicità, è compensato dal senso di sicurezza datogli dall'adattamento al resto dell'umanità, sempre però com'egli la vede. In effetti può avvenire che proprio questa deficienza sia stata elevata a virtù dalla sua cultura, e che pertanto gliene derivi un accresciuto sentimento di successo.” (pp. 22-24)

La deficienza socialmente strutturata è una condizione di pseudonormalità, che Fromm vede fortemente rappresentata nella società:

“Oggi ci incontriamo con persone che agiscono e sentono come automi: che non hanno mai avuto un'esperienza veramente propria, che conoscono se stessi non come sono nella realtà, ma come gli altri si attendono che siano, il cui sorriso convenzionale ha sostituito la risata genuina, le cui chiacchiere insignificanti hanno sostituito il colloquio comunicativo, la cui opaca dispera­zione ha preso il posto di un'autentica sofferenza. Due cose si possono dire per costoro: una è che soffrono di una mancanza di spontaneità e di individualità che può sembrare incurabile; nello stesso tempo si può anche rilevare come essi non sono essenzial­mente diversi da milioni di altri che si trovano in eguali condizioni. Alla maggior parte di loro la cultura fornisce strutture che li met­tono in grado di vivere con una deficienza senza ammalarsi. È come se ogni cultura fornisse il rimedio contro le esplosioni di evidenti sintomi nevrotici, conseguenza della deficienza che questa stessa cultura ha provocato.” (p. 25)

2.

Per capire come si sia determinata una situazione del genere, occorre, secondo Fromm, risalire alle origini, ricostruire le caratteristiche singolari dell’uomo allo stato nascente, e capire quali problemi di ordine esistenziale e sociale tali caratteristiche abbiano posto.

L’assunto di fondo di tale ricostruzione è che “sia ontogeneticamente sia filogeneticamente la nascita dell'uomo è essenzialmente un evento negativo.” (p. 31)

Le argomentazioni che comprovano tale assunto sono le seguenti:

L'animale « viene vissuto » attraverso le leggi biologiche della natura, cioè le subisce; fa parte della natura e non può trascenderla. Esso non ha una coscienza d'ordine morale, non ha consapevolezza di se stesso e della propria esistenza; non ha la ragione, se per ragione intendiamo la capacità di penetrare oltre la superficie per­cepita dai sensi e comprendere l'essenza che sta sotto tale super­ficie; perciò non ha la concezione del vero, anche se può avere un'idea di quel che sia l'utile.

L'esistenza animale è un'esistenza di armonia tra l'animale e la natura; non nel senso, beninteso, che le condizioni naturali non minaccino spesso l'animale e non lo costringano ad aspre lotte per sopravvivere, ma nel senso che l'animale è equipaggiato dalla na­tura per dominare proprio le condizioni cui deve far fronte, come il seme è equipaggiato per utilizzare le condizioni del suolo, del clima, ecc. alle quali esso si è adattato nel processo evolutivo.

Ad un certo punto dell'evoluzione animale è accaduta una par­ticolare frattura, comparabile al primo sorgere della materia, al primo sorgere della vita, al primo sorgere dell'esistenza animale. Questo nuovo evento si verifica quando nel processo evolutivo l'azione cessa di esser determinata dall'istinto, quando l'adattamen­to della natura perde il suo carattere coercitivo, quando l'azione n0n è più prestabilita da un meccanismo ereditariamente trasmesso. Quando l'animale trascende la natura, quando trascende il ruolo meramente passivo di creatura, quando diventa, biologicamente parlando, l'animale più sprovveduto, allora nasce l'uomo. A questo punto l'animale si è emancipato dalla natura con la stazione eretta, e il cervello si è molto più sviluppato di quanto non fosse nell'ani­male più progredito. La nascita dell'uomo può esser durata cen­tinaia di anni, ma quel che importa è che è sorta una nuova specie che trascende la natura, e la vita è divenuta cosciente di se stessa.

Consapevolezza di sé, ragione e immaginazione guastano l'«ar­monia» che caratterizza l'esistenza animale. Il loro apparire ha fatto dell'uomo un'anomalia, il capriccio dell'universo. Egli è parte della natura, soggetto alle sue leggi fisiche e incapace di modificarle, ma trascende il resto della natura. Egli è posto di fronte a se stesso, pur rimanendo parte del tutto; è senza dimora per quanto incate­nato alla dimora che condivide con tutte le creature. Gettato in questo modo in un tempo e in un luogo fortuiti, ne è spinto fuori in maniera altrettanto fortuita. Essere che ha coscienza di sé, egli riconosce la sua sprovvedutezza e le limitazioni della sua esistenza. Egli prevede la sua stessa fine: la morte. Non è mai libero dalla dicotomia della sua esistenza: non può liberarsi della sua mente, anche se volesse farlo; finché è vivo, non può liberarsi del suo corpo, e il suo corpo fa sì che egli voglia esser vivo. La ragione, sommo bene dell'uomo, è anche la sua maledizione; essa lo costrin­ge a lottare perennemente per risolvere un'insolubile dicotomia. L'esistenza umana è in questo diversa da quella di tutti gli altri organismi; essa si trova in uno stato di costante e inevitabile squi­librio. La vita dell'uomo non può « esser vissuta » ripetendo la forma tipica della propria specie, egli è obbligato a viverla. L'uomo e il solo animale che possa annoiarsi, che possa sentirsi cacciato dal paradiso. L'uomo è il solo animale che guarda alla propria esi­stenza come ad un problema che deve risolvere e al quale non può sfuggire. Non può retrocedere alla condizione preumana di armonia con la natura, ma deve andare avanti per sviluppare la sua ragione fino a divenire padrone della natura e di se stesso.

Il problema dell'esistenza umana è pertanto unico in tutta la natura: l'uomo è, si può dire, caduto fuori della natura, e tuttavia vi è ancora dentro; egli è in parte divino e in parte animale, in parte infinito e in parte finito. La necessità di trovare sempre nuove soluzioni alle contraddizioni della sua esistenza, di trovare sempre più alte forme di unità con la natura, con i suoi simili e con se stesso è all'origine di tutte le energie psichiche che deter­minano l'uomo e di tutte le sue passioni, affetti e preoccupazioni.”(p. 33)

Dunque:

“Tutte le passioni e tutti gli sforzi dell'uomo sono tentativi di trovare una risposta al problema della sua esistenza, ovvero tenta­tivi di sfuggire alla follia. (Ricordiamo, di passaggio, che il vero problema della vita mentale non sta nel perché certuni diventano pazzi, ma piuttosto nel perché la maggioranza sfugge alla pazzia). Sia l'uomo mentalmente sano sia il nevrotico sono mossi dal biso­gno di trovare una risposta; la sola differenza è che una risposta corrisponde più di un'altra all'insieme dei bisogni dell'uomo e che di conseguenza porta ad un maggior sviluppo dei suoi poteri e della sua felicità. Ogni cultura fornisce un sistema strutturato nel quale talune soluzioni, e perciò talune aspirazioni e soddisfazioni, sono predominanti.” (p. 36)

3.

La condizione originaria dell’uomo, che residua ancora oggi nelle sfere più profonde della soggettività, è quella di un essere bisognoso, debole, vulnerabile, finito e consapevole di essere destinato a finire.

Tale condizione può essere compensata solo dal legame sociale che stabilisce un’unione di gruppo solidale e coooperativo:

“L'uomo viene strappato dall'unione originaria con la natura che caratterizza l'esistenza animale. Possedendo nel contempo ra­gione e immaginazione, egli è cosciente di esser solo e staccato, riconosce la propria" impotenza, la propria ignoranza e la casualità della sua nascita e della sua morte. Non riuscirebbe a sopportare per un solo istante questa sua condizione se non potesse trovare nuovi legami con i suoi simili, che sostituiscano quelli vecchi, regolati dagli istinti. Anche se tutti i suoi bisogni fisiologici fossero soddisfatti, egli sentirebbe la sua condizione di solitudine e di sin­golarità come una prigione dalla quale dovrebbe fuggire per con­servare la propria sanità mentale. Effettivamente, il pazzo è uno che non è riuscito a stabilire nessun genere di rapporto, e si trova come in una prigione, anche se non dietro le sbarre. La necessità di unirsi ad altri esseri viventi e di esser loro collegato è un bisogno imperativo dal cui soddisfacimento dipende la salute psichica dell'uomo. Questo bisogno è presente in tutti i fenomeni che costituiscono l'intera gamma degli intimi rapporti umani, di tutte le passioni che sono chiamate amore, nel più largo senso della parola.

Questa unione può essere cercata e raggiunta in diversi modi. L'uomo può cercare di entrare in armonia con il mondo sottomet­tendosi ad una persona, ad un gruppo, ad una istituzione, a Dio. In questo modo egli supera l'isolamento della sua esistenza indi­viduale diventando parte di qualcuno o di qualche cosa più grandi di lui, e sente la sua identità in rapporto al potere cui è sottomesso. Un'altra possibilità di vincere l'isolamento si volge in senso op­posto; l'uomo può cercare di unirsi al mondo dominandolo, facendo in modo che gli altri siano una parte di lui stesso, e trascendendo così, per mezzo dell'autorità, la sua esistenza individuale. L'ele­mento comune sia alla sottomissione sia al dominio sugli altri è il carattere simbiotico della relazione. Nell'un caso e nell'altro l'uomo perde in integrità e in libertà; egli vive soddisfacendo la sua sete di collegamento con gli altri, ma soffrendo della mancanza di quell'intima forza e fiducia in se stesso che sarebbero necessarie per una condizione di libertà ed indipendenza; oltre a ciò egli è costantemente minacciato dalla ostilità conscia o inconscia che deve necessariamente sorgere dalla relazione simbiotica2. Il rea­lizzarsi della tendenza alla sottomissione (masochistica) e della tendenza al dominio (sadistica) non porta mai alla soddisfazione.” (p. 38)

Per quanto l’appartenenza sociale e l’unione con gli altri, posto che riesca a trascendere la tendenza alla sottomissione e al dominio, e a tradursi in legami interpersonali significativi, sia un potente rimedio alla solitudine e all’ansia esistenziale legata alla consapevolezza che l’uomo ha della sua condizione, esse non bastano, secondo Fromm, a colmare il vuoto prodotto dalla perdita del legame armonioso con la Natura.

L’uomo ha bisogno anche di oggettivare le sue potenzialità nella creazione di un mondo materiale e simbolico che ne soddisfi la sete di benessere e alimenti il suo bisogno di provare piacere nel vivere:

“Un altro aspetto della situazione umana strettamente connesso con il bisogno di stabilire dei rapporti, è la situazione dell'uomo come creatura, e il suo bisogno di trascendere questo stato di crea­tura passiva. L'uomo è scaraventato in questo mondo senza che egli lo sappia, lo approvi e lo voglia, e, senza approvarlo o volerlo, ne è poi strappato di nuovo. In questo non è diverso dall'animale, dalla pianta, dalla materia inorganica. Ma, essendo dotato di ragione e di immaginazione, non può accontentarsi della passiva condizione di creatura, di dado gettato fuori dal bossolo. Egli è mosso dallo stimolo di trascendere il suo stato di creatura e l'ac­cidentalità e passività della sua esistenza, diventando « creatore ».

L'uomo può creare la vita. È questa la miracolosa facoltà che egli in effetti condivide con tutti gli esseri viventi, con la diffe­renza però che soltanto l'uomo è cosciente di esser creato e di essere creatore. L'uomo può creare la vita, meglio, la donna può creare la vita mettendo al mondo il bambino e curandolo fino a che non sia cresciuto abbastanza per badare alle proprie necessità.

L'uomo — l'uomo e la donna — possono creare seminando, pro­ducendo oggetti materiali, creando l'arte, creando idee, amandosi l'uri l'altro. Nell'atto creativo l'uomo trascende se stesso come creatura, eleva se stesso al di sopra della passività e accidentalità della sua esistenza, entro il regno della volontà creativa e della libertà. Nel bisogno umano di trascendenza risiede una delle radici dell'amore, come anche dell'arte, della religione e della produzione materiale.

Creare presuppone attività e interessamento. Presuppone amo­re per ciò che si crea. Come potrebbe allora l'uomo risolvere il problema di trascendere se stesso, se non fosse capace di creare, se non potesse amare? C'è un'altra risposta a questo bisogno di trascendenza: se io non posso creare la vita, posso distruggerla. Anche distruggere la vita fa sì che io la trascenda. Effettivamente, che l'uomo sia capace di distruggere la vita è miracoloso quanto il fatto che egli sia in grado di crearla, poiché la vita è il miracolo, l'inesplicabile. Nell'atto di distruzione l'uomo mette se stesso al di sopra della vita, trascende se stesso in quanto creatura. In tal modo la scelta finale dell'uomo, nella misura in cui questi è por­tato a trascendere se stesso, sta nel creare o nel distruggere, nel­l'amare o nell'odiare. L'enorme potenza della volontà di distru­zione che riscontriamo nella storia dell'uomo e di cui abbiamo avuto così terrificanti testimonianze proprio nella nostra epoca, è radicata nella natura dell'uomo, così come è radicato in lui l'im­pulso a creare. Dire che l'uomo è capace di sviluppare la sua capacità primaria di amore e di ragione non vuol dire che si abbia una fede ingenua nella bontà umana. La distruttività è una capa­cità secondaria radicata nella stessa esistenza dell'uomo, e che ha la stessa intensità e lo stesso potere di ogni altra passione8. Ma (e questo è il punto essenziale del mio ragionamento) essa è sola­mente l'alternativa della creatività. Creazione e distruzione, amore e odio non sono due istinti indipendenti l'uno dall'altro. Entrambi sono risposte allo stesso bisogno di trascendenza e la volontà di distruzione deve sorgere quando non si sia potuto soddisfare la volontà di creazione. Tuttavia la soddisfazione del bisogno di crea­re conduce alla felicità, e la distruzione alla sofferenza, soprattutto per colui che distrugge.” (p. 44 - 45)

Oltre che il bisogno di appartenenza e di oggettivazione creativa, l’uomo però avverte anche l’esigenza di raggiungere uno statuto identitario come individuo, di esprimere e realizzare il suo io:

“L'uomo può esser definito come l'animale che può dire «io», che può aver coscienza di sé come di una entità separata. L'anima­le, essendo nella natura, e non trascendendola, non ha coscienza di se stesso, non ha bisogno di un senso di identità. L'uomo strap­pato alla natura, dotato di ragione e di fantasia, ha bisogno di formarsi un concetto di se stesso, ha bisogno di dire e di sentire «io sono io». Poiché non viene vissuto ma vive, poiché ha per­duto l'unità originaria con la natura, poiché deve prendere delle decisioni ed è conscio di se stesso e del suo prossimo come di persone separate, egli deve sentirsi il soggetto delle sue azioni. Come per i bisogni di correlazione, radicamento e trascendenza, questo bisogno del senso di identità è tanto essenziale e imperativo che l'uomo non resterebbe equilibrato se non trovasse qualche modo per soddisfarlo. Il senso umano di identità si sviluppa nel processo di emancipazione dai «legami primari» che lo uniscono alla madre e alla natura. Il bambino, sentendosi ancora uno con la madre, non può dire «io», e neppure ne avverte il bisogno. Soltanto dopo aver concepito il mondo degli altri come separato e diverso da se stesso egli giungerà alla coscienza di sé come di un essere distinto, e «io» riferito a se stesso è una delle ultime parole che impara ad usare.

Nello sviluppo del genere umano, la coscienza che l'uomo ha di se stesso come di una entità separata è in rapporto al suo grado di emancipazione dal clan e al grado cui è giunto il processo di individuazione.

Il membro di un clan primitivo potrebbe esprimere il suo senso di identità nella formula «io sono io», egli non può ancora concepire se stesso come un «individuo» che ha un'esi­stenza indipendente dal gruppo. Nel mondo medievale, l'individuo era identificato col suo ruolo sociale nella gerarchia feudale. Il contadino non era chi si trovava ad essere contadino, e il signore feudale chi si trovava ad essere un signore feudale. Egli era con­tadino o signore, e questo sentimento dell'inalterabilità della sua situazione era una parte essenziale del suo senso di identità. Quan­do il sistema feudale crollò, questo senso di identità rimase scosso e sorse la pressante domanda: «chi sono io?», o, più precisa­mente: «come posso sapere che io sono io?». È il problema che fu posto in termini filosofici da Cartesio. Egli rispondeva alla ricerca di identità dicendo: «dubito dunque penso; penso dunque sono». Questa risposta poneva tutto l'accento esclusivamente sull'esperienza dell'«io» come soggetto di ogni attività intellettuale, e non vedeva che l'«io» si riconosce anche nel processo senti­mentale e nell'attività creativa.

Lo sviluppo della cultura occidentale mirava a porre le basi per l'esperienza totale dell'individualità. Liberando l'individuo politi­camente ed economicamente, insegnandogli a pensare da sé, e liberandolo dall'oppressione autoritaria, si sperò di renderlo capace di sentirsi «io» nel senso che egli era il centro e il soggetto attivo dei suoi poteri, e si riconosceva tale. Ma soltanto una mi­noranza raggiunse la nuova esperienza dell'«io». Per la maggio­ranza l'individualismo era poco più che una facciata dietro la quale si nascondeva l'incapacità di raggiungere un sentimento individuale di identità.” (p. 66-67)

4.

L’allentamento dei legami comunitari e l’impossibilità di portare a compimento un processo di autentica individuazione, che comporta una differenziazione creativa del soggetto ma anche lo stabilirsi di legami significativi con il mondo sociale rappresentano le cause della pseudonormalità che Fromm ritiene un tratto caratteristico della società contemporanea.

Esse, agendo in maniera congiunta, determinano la strutturazione di una personalità di base, che Fromm definisce come carattere sociale:

“Che cosa si intende per carattere sociale? Con questo concetto intendo il nucleo della struttura di carattere condiviso dalla mag­gior parte delle persone di una medesima cultura in contrasto con il carattere individuale con il quale persone appartenenti ad una stessa cultura si differenziano l'una dall'altra. Il concetto di carat­tere sociale non è un concetto statico nel senso che esso sia sempli­cemente la somma complessiva dei tratti di carattere che si trovano nella maggioranza delle persone di una data cultura.” (p. 82)

Il carattere sociale dà luogo ad un adattamento all’esistente: ma si tratta di un adattamento per difetto che mortifica o sacrifica quote rilevanti di potenzialità di sviluppo. Esso di fatto non fa capo ai bisogni dell’individuo, ma a quelli del sistema sociale cui appartiene:

“Funzione propria del carattere sociale è quella di condizionare le energie dei mem­bri della società in modo tale che il loro comportamento non dipenda da decisioni coscienti sull'opportunità di seguire o non seguire il sistema sociale, ma dipenda dalla volontà di agire come devono agire, trovando nel contempo soddisfazione nell'agire in accordo con le esigenze della cultura. In altre parole, è funzione del carattere sociale modellare e incanalare l'energia umana entro una data società per il buon andamento continuo di questa società. (p. 83)

Alla domanda “Quale genere di uomini, dunque, richiede la nostra società? Qual è il «carattere sociale» adatto al capitalismo del ventesimo secolo?” (p. 101), Fromm risponde:

“Esso richiede uomini che cooperino regolarmente in grandi gruppi; che vogliano consumare sempre di più, e i cui gusti siano standardizzati e possano essere facilmente influenzati e previsti.

Esso richiede uomini che si sentano liberi e indipendenti, non soggetti ad alcuna autorità, o principio, o coscienza, e tuttavia disposti ad esser comandati, a far quello che ci si attende, a inse­rirsi senza attriti nella macchina sociale. Come può l'uomo esser guidato senza forza, diretto senza capi, spinto senza alcun fine, salvo quello di essere in movimento, di funzionare, di andare avanti…?” (p. 111-112)

La risposta s’incentra sull’alienazione, intesa come processo:

“Per alienazione si intende una forma di esperienza per la quale la persona conosce se stessa come uno straniero. L'uomo è diven­tato, per così dire, estraneo a se stesso. Egli non riconosce se stesso come il centro del suo mondo, come il creatore dei suoi propri atti, ma i suoi atti e la loro conseguenza sono diventati i suoi padroni, cui egli obbedisce e cui può persino tributare venerazione. La persona alienata ha perduto contatto con se stessa, così come è anche esclusa dal contatto con ogni altra persona. Questa e gli altri si conoscono come vengono conosciute le cose, con i sensi e col buon senso, ma nello stesso tempo senza essere collegati produttivamente a se stessi e al mondo esterno.

Il significato più antico con cui veniva usato il termine « alie­nazione » indicava una persona pazza; aliène in francese; alienado in spagnolo, sono parole antiquate per indicare lo psicotico, la persona interamente e assolutamente alienata {alienist, in inglese, è ancora usato per indicare il medico che cura i pazzi).

Nel secolo scorso la parola « alienazione » è stata usata da Hegel e da Marx, riferendosi non allo stato di pazzia, ma ad una forma meno violenta di autoestraniamento che consente ad una persona di agire ragionevolmente in questioni pratiche, ma che costituisce una delle più gravi deficienze socialmente strutturate Nel sistema di Marx è chiamata alienazione quella condizione del­l'uomo ove i suoi « propri atti diventano per lui un potere alieno, che lo sovrasta o gli si oppone, .invece di essere controllato da lui»2»”. (p. 121-122)

“L'alienazione come noi la troviamo nella moderna società è quasi totale; essa permea le relazioni dell'uomo col suo lavoro, con le cose che consuma, con lo stato, con i suoi simili, e con se stesso. L'uomo ha creato un mondo di cose fatte da lui come non era mai esistito prima. Egli ha inventato una complicata macchina sociale per amministrare la macchina tecnica da lui costruita. Ma tutta questa sua costruzione lo sovrasta. Egli non sente se stesso come creatore e centro, ma come il servo del Golem che ha creato. Quanto più potenti e gigantesche sono le forze che egli scatena, tanto più impotente egli si sente come essere umano. Egli con­fronta se stesso con le sue forze impersonate nelle cose che ha creato e da lui alienate. È dominato dalla propria creazione ed ha perduto la proprietà di se stesso. Ha costruito un vitello d'oro e dice:  « Questi sono i vostri dèi che vi hanno tratto dall'Egitto ».” (125)

5.

Il processo di alienazione investe tutti i rapporti che l’uomo intrattiene con la realtà: con i simili anzitutto:

“Che cosa è per l'uomo moderno il rapporto con i suoi simili? È un rapporto tra due astrazioni, tra due macchine viventi che usano l'una dell'altra. Il datore di lavoro usa coloro che egli im­piega; il venditore usa i suoi clienti. Ognuno è una merce per ogni altro, sempre da trattarsi con una certa cordialità perché, anche se non è utile adesso, può esserlo più tardi. Non si trova più molto amore o molto odio nelle relazioni umane odierne. C'è piuttosto una superficiale cordialità, ed una più che superficiale correttezza, ma dietro questa superficie ci sono distanza e indiffererenza. Ma v'è anche una buona dose di sottile diffidenza” (p. 139)

ma anche con se stesso:

“Qual è il rapporto dell'uomo con se stesso? Ho descritto al­trove questo rapporto come un «orientamento di mercato» 32. In questo orientamento l'uomo sente se stesso come una cosa da im­piegarsi vantaggiosamente sul mercato. Egli non riconosce se stesso come un agente attivo, come il portatore di poteri umani. Egli è alienato da questi poteri. Il suo fine è di vendere vantaggiosamente se stesso sul mercato.” (p. 141)

Alla mercificazione del rapporto con i simili e con se stesso, occorre poi aggiungere “un aspetto particolare della vita moderna: la sua routiniziazione e la repressione della consapevolezza dei problemi basilari dell'esistenza umana. Incontriamo qui un problema univer­sale della vita. L'uomo deve guadagnarsi il suo pane quotidiano, e questo è sempre un compito che lo assorbe più o meno intensa­mente. Egli deve badare ai molti compiti della vita quotidiana che gli prendono tempo ed energia, ed è irretito in una certa routine necessaria per il raggiungimento di questi compiti. Egli costruisce un ordine sociale, convinzioni, costumi, idee che lo aiutano a fare quel che è necessario e a vivere con i suoi simili con un minimo di contrasti. È proprio di ogni cultura che essa costruisca un mon­do artefatto, fabbricato dall'uomo, sovrimposto al mondo naturale in cui l'uomo vive. Ma l'uomo può realizzare se stesso soltanto se resta in contatto con i fatti fondamentali della sua esistenza, se può provare l'esaltazione dell'amore e della solidarietà, come anche il tragico fatto della sua solitudine e del carattere frammentario della sua esistenza. Se egli è totalmente irretito nella routine e nel­l'artificiosità della vita, e se del mondo può vedere soltanto la banale apparenza che egli stesso se ne costruisce, perde il contatto con sé e con il mondo e la possibilità di comprenderli entrambi. In ogni cultura noi troviamo il conflitto tra la routine e il tenta­tivo di ritornare alle realtà fondamentali dell'esistenza.” (p. 143-144)

Non c’è nessuna autorità a monte del processo di alienazione. Essa si realizza per l’organizzazione del sistema nel suo complesso, che costringe gli uomini a conformarsi al modo comune di essere e di comportarsi:

“L'autorità alla metà del ventesimo secolo ha mutato il suo carattere; essa non si presenta più come autorità manifesta, bensì come autorità anonima, invisibile, alienata. Non c'è nessuno che ordini, né una persona, né una idea, né una legge morale. Però tutti ci conformiamo come o più di quanto non si farebbe in una società fortemente autoritaria. Infatti, non c'è nessuna autorità, al di fuori di «oggetti». Quali sono questi «oggetti»? Il guadagno, le neces­sità economiche, il mercato, il senso comune, l'opinione pubblica, quel che “si» fa, «si» pensa, «si» sente. Le leggi dell'autorità anonima sono invisibili quanto le leggi del mercato, e altrettanto incontestabili. Chi può attaccare l'invisibile? Chi può ribellarsi contro Nessuno?

Fino a che c'era una autorità manifesta, c'era contrasto e c'era ribellione contro l'autorità irrazionale. Nel conflitto con gli impe­rativi della propria coscienza, nella lotta contro l'autorità irrazio­nale si sviluppava la personalità — e particolarmente si sviluppava il senso dell'io. Io riconosco me stesso come «io» in quanto du­bito, protesto, mi ribello. Anche se mi sottometto e prevedo la sconfitta, mi sento «io»: «io», lo sconfitto. Ma se non sono consapevole di sottomettermi e di ribellarmi, se sono guidato da una autorità anonima, perdo il senso di me stesso e divento «uno qualsiasi», una parte dell'«oggetto».

Il meccanismo attraverso cui l'autorità anonima agisce è il conformismo.” (p. 151-152)

Da questa analisi discendono le conseguenze psicosociologiche dell’alienazione:

“La persona alienata… non può esser sana. Poiché si considera come una cosa, come un investimento che deve esser maneggiato da sé e dagli altri, manca del senso dell'io. Questa mancanza dell'io crea ansietà profonda. L'ansietà generata dal confrontarsi con l'abisso della nullità è più terrificante persino delle torture dell'inferno. Nella visione dell'inferno io sono punito e torturato; nella visione della nullità sono portato al limite della pazzia perché non posso dire più « io ». Se l'età moderna è stata giustamente chiamata l'era dell'ansietà ciò è principalmente a causa di questa ansietà generata dalla mancanza dell'io. Nella misura in cui « io sono come tu mi vuoi », io non sono; sono ansioso, dipendente dall'approva­zione degli altri, alla ricerca costante di piacere. La persona alie­nata si sente inferiore quando teme di non essere pari agli altri. Poiché il suo senso del valore è basato sull'approvazione come ricompensa per il confosmismo, essa si sente naturalmente minac­ciata nel suo senso dell'io e nella stima di se stessa da qualsiasi sentimento, pensiero o azione che potrebbe passare per una devia­zione. Tuttavia, in quanto è uomo e non automa, non può fare a meno di deviare e perciò deve sempre sentirsi intimorito dalla disapprovazione. Come risultato deve cercare sempre più di con­formarsi, di esser approvato dagli altri, di riuscire. Non è la voce della sua coscienza che gli dà forza e sicurezza, bensì il sentimento di non aver perduto lo stretto contatto con il gregge.

Un altro risultato della alienazione è la prevalenza di un senti­mento di colpa. È difatti sorprendente che in una cultura fonda­mentalmente irreligiosa come la nostra il senso di colpa si sia così esteso e profondamente radicato. La maggior differenza dà quella che potrei dire una comunità calvinista sta nel fatto che il senti­mento di colpa non è molto conscio, né si riferisce ad un concetto religiosamente strutturato di peccato. Ma se scaviamo un po' sotto la superficie troviamo che la gente si sente colpevole per centinaia di cose; per non aver lavorato abbastanza sodo, per esser stata troppo indulgente, o per non esserlo stata abbastanza verso i pro­pri figli, per non aver fatto abbastanza per la mamma, o per esser stata troppo buona con un debitore; la gente si sente in colpa sia per aver fatto cose buone sia per averne fatto di cattive; pare quasi che debba trovare qualche cosa di cui sentirsi colpevole.

Quale può esser la causa di tutto questo senso di colpa? Sembra vi siano due cause fondamentali che, benché del tutto differenti, portano al medesimo risultato. Una causa è la stessa da cui sorgono i sentimenti di inferiorità. Non esser come tutti, non esser total­mente adatto fa sì che uno si senta colpevole nei confronti degli ordini della grande entità anonima. L'altra origine della colpa è la sola coscienza dell'uomo; egli sente le sue doti o le sue capacità, la sua facoltà di amare, di pensare, di ridere, di piangere, di mera­vigliarsi e di creare; egli sente che la sua vita è la sola possibilità che gli è stata offerta e che, se perde questa possibilità, perde tutto. Egli vive in un mondo con più conforti e comodità di quanti ne avessero mai conosciuti i suoi avi, ma sente che, mentre insegue sempre più comodità, la vita gli sfugge tra le dita come sabbia. Egli non può far a meno di sentirsi colpevole per questa possibilità sciupata e perduta. Tale sentimento di colpa è molto meno conscio del primo, ma l'uno rafforza l'altro, e l'uno spesso serve come razionalizzazione per l'altro. Così l'uomo alienato si sente colpevole per esser se stesso e per non esser se stesso, per esser vivo e per esser un automa, per esser una persona e per esser una cosa.

L'uomo alienato è infelice. Il consumo di svaghi serve a repri­mere la consapevolezza della sua infelicità. Cerca di risparmiar tempo eppure è ansioso di ammazzare in qualche modo il tempo che ha risparmiato. Invece di salutare il nuovo giorno con l'entu­siasmo che soltanto l'esperienza dell'« io sono io » può dare, è contento che un altro giorno sia finito senza smacchi o umiliazioni. Egli è sprovvisto del costante flusso di energia che sgorga da una produttiva correlazione col mondo.” (p. 200-201)

6.

Operata questa diagnosi, inquietante e per alcuni aspetti spietata, Fromm cerca anche di definire dei criteri di “cura”. Egli è molto attento a sfuggire alla trappola dello psicologismo scrivendo che: “l'equilibrio e la salute mentale possono essere raggiunti solamente con muta­menti simultanei nella sfera dell'organizzazione industriale e poli­tica, dell'orientamento spirituale e filosofico, della struttura del carattere, e delle attività culturali. La concentrazione dello sforzo in ognuna di queste sfere escludendo o trascurando le altre rende impossibile ogni mutamento. Difatti sembra sia questo uno dei più importanti ostacoli al progresso dell'umanità.” (p. 261)

La cura ovviamente è la disalienazione dell’uomo, vale a dire la liberazione e lo sviluppo delle potenzialità che egli deve sacrificare sull’altare dell’efficienza sociale:

“La persona mentalmente sana è la persona produttiva e non alienata: la persona che collega se stessa al mondo amorevolmente e che usa la sua ragione per afferrare obiettivamente la realtà, che conosce se stessa come un'unita entità individuale e nello stesso tempo si sente una con i suoi simili, che non è soggetta ad autorità irrazionale e accetta volontariamente l'autorità razionale della coscienza  e della ragione, che continua a nascere durante tutta la vita e che considera il dono dell'esistenza come la più pre­ziosa possibilità.

Ricordiamo anche che questi obiettivi di salute mentale non sono ideali che debbano essere imposti ad una persona o che l'uomo possa raggiungere soltanto se supera la sua « natura » e  sacrifica il suo « innato egoismo ». Al contrario l'aspirazione alla salute mentale, alla felicità, all'armonia, all'amore, alla produtti­vità è insita in ogni essere umano che non sia nato come un idiota morale o mentale. Data una possibilità, queste aspirazioni si affermano con forza come si può riconoscere in innumerevoli situazioni. Occorrono potenti congiunture e circostanze per per­vertire e soffocare questa innata aspirazione all'equilibrio: e in­fatti attraverso la maggior parte della storia conosciuta, l'uso del­l'uomo da parte dell'uomo ha prodotto tale perversione. Credere che questa perversione sia insita nell'uomo è come gettar semi nel deserto e dichiarare che non hanno voluto germogliare.

Quale società corrisponde a questo fine di salute mentale, e quale sarebbe la struttura di una società equilibrata? Innanzitutto una società in cui nessun uomo sia un mezzo per i fini di un altro, ma sia sempre e senza eccezione un fine in se stesso; dunque, dove nessuno sia usato, e neppure usi se stesso per fini che non siano quelli dello sviluppo dei suoi poteri umani; dove l'uomo sia il centro e dove tutte le attività economiche e politiche siano subor­dinate al fine del suo sviluppo. Una società equilibrata è quella dove qualità come l'attività, lo spirito di sfruttamento, la volontà ai possesso, il narcisismo non abbiano possibilità di essere usate per un maggior guadagno materiale o per l'aumento del prestigio personale. Dove l'operare secondo coscienza si presenti come una qualità fondamentale e necessaria, e dove l'opportunismo e la mancanza di principi siano riconosciuti come asociali, dove l'indi­viduo affronti i problemi sociali così che questi divengano pro­emi personali, dove il suo rapporto con i propri simili non sia separato dalle sue relazioni di natura privata. Una società equilibrata inoltre è quella che consente all'uomo di aver a che fare con dimensioni manovrabili e osservabili nel loro insieme, e di partecipare attivamente e responsabilmente alla vita sociale, come anche di padroneggiare la propria vita. È quella che promuove la solidarietà umana e non solo permette ai suoi membri di stabilire amorevolmente dei rapporti l'uno con l'altro, ma anche li stimola a ciò; una società equilibrata promuove l'attività produttiva di ognuno nel suo lavoro, stimola lo sviluppo della ragione e rende l'uomo capace di dare espressione ai suoi intimi bisogni nell'arte e nei rituali collettivi.” (p. 265-266)

La conclusione del saggio è una previsione drammatica non priva di un barlume di speranza:

“Nel diciannovesimo secolo il problema era: Dio è morto; nel ventesimo secolo è questo: è morto l'uomo. Nel diciannovesimo secolo inumanità voleva dire crudeltà; nel ventesimo secolo vuol dire autoalienazione schizoide. Il pericolo del passato era che gli uomini diventassero schiavi. Il pericolo del futuro è che gli uomini possano diventare robot. È vero che i robot non si ribellano. Ma, data la natura dell'uomo, i robot non possono vivere e restar sani, essi diventano «Golem» che distruggeranno se stessi e il loro mondo perché non possono più tollerare la noia di una vita priva di significato.

I nostri pericoli sono la guerra e il robotismo. Qual è l'alter­nativa? Abbandonare i binari su cui ci muoviamo e fare il passo successivo verso la nascita e l'autorealizzazione dell'umanità.” (p. 345)

7.

Sarebbe difficile oggi, per qualunque studioso di scienze umane e sociali, assumere il ruolo  di diagnosta e terapeuta di un’intera civiltà. Fromm può permetterselo dall’alto di una cultura praticamente sconfinata. Non è facile definire, a distanza di tempo, che cosa è vivo e che cosa è morto di un’analisi penetrante ma, forse, troppo ambiziosa.

Sicuramente vivo, più che mai, è il riferimento ad un malessere profondo che pervade la società occidentale. L’analisi di Fromm concerne il contesto statunitense della metà del secolo scorso. Dato che il modello di sviluppo vigente in quel contesto si è diffuso agli altri paesi occidentali e, nel corso degli ultimi venti anni, è diventato egemonico, non c’è da sorprendersi che i disturbi psichici siano cresciuti in termini direttamente proporzionali alla crescita della ricchezza.

Questo significa che la barriera opposta dalla pseudonormalità, da quella che Fromm chiama la deficienza strutturale di carattere, all’insorgenza del disagio psichico comincia ad essere scalzata o a fare acqua da tutte le parti.

Se ormai un terzo dei cittadini dei paesi sviluppati – una media che tiene conto sia del 50% conteggiato negli Stati Uniti che il 20% accertato nelle nazioni del Nord Europa – sperimentano uno stato di sofferenza, è evidente che i meccanismi di adattamento conformistico funzionano in maniera sempre meno efficiente.

Sarebbe ingenuo non tenere conto che tra la società analizzata da Fromm e la nostra se c’è un nesso di continuità, legato al fatto che il modello di sviluppo socioeconomico è sempre lo stesso – quello capitalistico -, c’è anche una diversità profonda. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, finita la guerra e smantellati i regimi nazifascisti, il mondo occidentale si unificava all’insegna della democrazia e procedeva con un certo entusiasmo verso un boom che si sarebbe realizzato e  generalizzato negli anni Sessanta. Nonostante la Guerra Fredda, il clima era dunque fiducioso e sotteso dalla speranza di un miglioramento del tenore di vita. Fromm segnalava giustamente che quel clima implicava anche il pericolo che gli esseri umani si trasformassero in macchine iperefficienti e in automi ciecamente orientati verso il consumismo. Ma il suo allarme non poteva valere certo ad invertire un trend spinto dalla Grande Promessa di vivere meglio.

Oggi l’Occidente è in crisi, nonostante le apparenze. Tranne che per una minoranza privilegiata, per effetto della globalizzazione, della competizione sui mercati, dei fenomeni immigratori, della crescita della piccola criminalità, del terrorismo, il presente e il futuro sono gravidi di incertezza e investiti da fantasmi di ogni genere.

Se il cittadino medio di Fromm era alienato, anestetizzato, estrovertito e invasato dalla pulsione consumista, il cittadino di oggi è anestetizzato ma anche angosciato, efficiente ma anche stressato e disilluso, compulsivo a livello consumistico ma senza il vantaggio di partire da una situazione di base di bisogno.

L’analisi di Fromm, insomma, sullo stato psicosociologico del cittadino medio, pur mantenendo il suo valore, va ripresa, approfondita, aggiornata.

Altro è il discorso da fare per l’antropologia che fa da presupposto alle analisi del saggio.

Benché debitrice di A. Gehlen e di M. Heidegger, che, peraltro non vengono citati, l’antropologia di Fromm ha un timbro originale poiché si riconduce alla nascita dell’uomo come ente naturale sulla base di  ipotesi estremamente verosimili, che esitano nell’attribuire alla natura umana due bisogni primari e radicali: il bisogno di un legame sociale di appartenenza e di cooperazione, atto a sopperire alla sua debolezza, vulnerabilità e finitezza, e un bisogno di autorealizzazione che comporta la necessità di trasformare l’ambiente naturale, adattandolo alle sue esigenze, e quella di creare una cultura “spirituale” al fine di esprimere le sue potenzialità creative e di costruire una visione del mondo simbolica atta a rispondere alle istanze esistenziali intrinseche al suo essere.

Non occorre sottolineare in quale misura tale concezione sia affine a quella che, nel mio percorso di ricerca, ho ricondotto alla teoria dei bisogni intrinseci.

C’è però una differenza rilevante tra la teoria struttural-dialettica e l’antropologia di Fromm. La prima, infatti, oltre a supportare l’ipotesi di due funzioni psichiche o substrutture dell’Io – il Super-Io e l’Io antitetico -, cui Fromm non fa cenno, implica una tensione intrinseca all’essere umano la cui natura è, in realtà, una doppia natura.

Quest’aspetto è particolarmente importante perché esso, oltre alla sua utilità immediata a livello psicopatologico, consente di comprendere le vicissitudini della cultura umana meglio di quanto fa Fromm alla luce del riferimento all’umanesimo normativo.

Questo concetto è criticabile per due motivi. Primo, perché esso, riecheggiando Marx, implica che l’uomo sia corredato dalla natura per raggiungere uno stato ideale, una piena realizzazione di sé sotto il profilo sociale e interiore al di sotto della quale egli inevitabilmente sperimenta un disagio esistenziale e psicologico. L’adattamento che gli uomini hanno manifestato sinora nelle condizioni socio-culturali più varie lascia pensare che, se potenzialmente l’uomo può raggiungere un buon livello di integrazione, egli può accontentasi anche di molto meno senza risentirne gravemente.

Il secondo motivo fa riferimento al fatto che il modello normativo frommiano sembra troppo incline a valorizzare la coltivazione della vita interiore: è, insomma, un modello di saggezza e di virtù più che di semplice umanità.

Si tratta di un modello che sicuramente ha un carattere obbligatorio per una quota di esseri umani, vale a dire per gli introversi. Gli estroversi, anche se coltivano quel tanto di introversione che fa parte della loro natura,  hanno un bisogno prevalente di adattamento al mondo esterno che non potrà mai essere sormontato a favore di quello interno.

Ciò significa che l’umanesimo normativo, nella misura in cui fa riferimento al migliore uso delle potenzialità umana, dipende più da una programmazione sociale che costruisca un mondo umano che non dallo sforzo dei singoli.