Norberto Bobbio

Dizionario di Politica

Gruppo editoriale L’Espresso, Roma 2006

MARXISMO (pp. 444-455)


1. MARX E IL PROBLEMA DELLO STATO.

Per «m.» s'intende l'insieme delle idee, dei concetti, delle tesi, delle teorie, delle proposte di metodologia scientifica e di strategia politica, in generale la concezione del mondo, della vita associata e della politica, considerate come un corpo omogeneo di proposizioni sino a costituire una vera e propria «dottrina», ricavabili dalle opere di Karl Marx e di Friedrich Engels. La tendenza, che pur si è più volte manifestata, a distinguere il pensiero di Marx da quello di Engels si svolge all'interno dello stesso m., cioè è essa stessa una forma di m. Si distinguono diversi m. sia in base alle diverse interpretazioni del pensiero dei due fondatori sia in base ai giudizi di valore con cui si pretende di distinguere il m. che si accetta da quello che si rifiuta: tanto per fare qualche esempio, m. della Seconda e della Terza Internazionale, m. revisionista e ortodosso, volgare, rozzo, dommatico ecc.

In questa sede, ci si limita a esporre le linee della teoria marxistica dello Stato, in generale della politica, con l'avvertenza che si terrà conto principalmente delle opere di Marx, e solo sussidiariamente di quelle di Engels, che, come sempre, e quindi anche in questo caso, ripresentando spesso le tesi di Marx in polemica con i detrattori o con i fraintenditori, finisce talvolta per irrigidirle.

Com'è noto, Marx non scrisse alcuna opera di teoria dello Stato in senso stretto, anche se la sua prima opera di lena, rimasta peraltro incompiuta e per quasi un secolo medita (scritta nel 1843 fu pubblicata per la prima volta nel 1927), fu un commento e una critica, paragrafo per paragrafo, di una parte cospicua della sezione riguardante lo Stato della Filosofia del diritto di Hegel (opera ormai nota con il titolo Critica della filosofia del diritto pubblico di Hegel), e anche se nell'opera immediatamente successiva, rimasta pure incompiuta e medita, nota con il titolo Manoscritti economico‑filosofici del 1844, preannunciò nelle prime righe della Prefazione che avrebbe fatto seguire «l'una all'altra in saggi diversi e indipendenti la critica del diritto, della morale e della politica».

Molti anni più tardi, nella Prefazione a Per la critica dell'economia politica (1859), raccontando la storia della sua formazione, narrò come fosse passato dai primi studi giuridici e filosofici agli studi di economia politica, e come, attraverso queste ricerche, fosse arrivato alla conclusione «che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza».

Per ricostruire il pensiero di Marx intorno allo Stato bisogna quindi ricorrere agli sparsi accenni in cui ci si imbatte nelle opere economiche, storiche e politiche: per quanto, dopo l'opera giovanile di critica alla filosofia del diritto di Hegel, non vi sia opera di Marx che tratti specificamente del problema dello Stato, non vi è parimenti opera da cui non si possano estrarre su questo stesso problema brani rilevanti e illuminanti. Non occorre aggiungere che, a causa di questa frammentarietà e anche a causa del fatto che questi frammenti sono disseminati lungo un periodo di più di trent'anni e le tesi che essi concisamente esprimono sono spesso esposte occasionalmente e polemicamente, ogni ricostruzione troppo rigida della teoria marxiana dello Stato rischia di essere deformante o per lo meno unilaterale. Ma è preferibile correre questo rischio che non adagiarsi nell'accettazione di una insuperabile ambiguità, o nella rilevazione della presenza di due (o magari tre o quattro) teorie parallele.

Partendo dalla critica alla filosofia del diritto e dello Stato di Hegel, che lo porta a un rovesciamento del rapporto tradizionale tra società (naturale o civile) e Stato, Marx propone una teoria dello Stato strettamente connessa con la teoria generale della società e della storia che egli ricava dallo studio dell'economia politica. Questa teoria generale gli permette di dare un'interpretazione e di fare una critica dello Stato borghese a lui contemporaneo nelle diverse forme in cui si presenta e di dare un'interpretazione e di formulare alcune proposte relative allo Stato che dovrà seguire a quello borghese; infine di dedurre la fine o l'estinzione dello Stato. Da ciò segue che per un'esposizione quanto è più possibile sistematica delle linee generali della teoria marxiana dello Stato sembra opportuno toccare i cinque seguenti punti: 1° critica delle teorie precedenti, in particolare della teoria hegeliana (§ 2); 2° teoria generale dello Stato (§ 3); 3° teoria dello Stato borghese in particolare (§ 4); 4° teoria dello Stato di transizione (§ 5); 5° teoria dell'estinzione dello Stato (§ 6).

II. LA CRITICA DELLA FILOSOFIA POLITICA HEGELIANA.

Nella filosofia del diritto di Hegel era giunta a compimento (e a esasperazione) la tendenza, caratteristica del pensiero politico che accompagna la nascita e la formazione dello Stato moderno, da Hobbes in poi, a celebrare lo Stato o come la forma razionale dell'esistenza sociale dell'uomo, in quanto garante dell'ordine e della pace sociale, che è l'unico interesse che tutti gli individui viventi in società hanno in comune (Hobbes); o in quanto arbitro imparziale al di sopra delle parti che impedisce la degenerazione della società naturale, cioè retta soltanto dalle leggi della natura o della ragione, in uno stato di conflitti permanenti e insolubili (Locke); o in quanto espressione della volontà generale attraverso la quale ciascuno, rinunciando alla libertà naturale in favore di tutti gli altri, acquista la libertà civile o morale ed è più libero di prima (Rousseau); o in quanto è il mezzo attraverso cui è possibile dare attuazione empirica al principio giuridico ideale della coesistenza delle libertà esterne, onde è non tanto l'effetto di un calcolo utilitario quanto di un obbligo morale da parte degli individui l'uscire dallo Stato di natura ed entrare nello Stato (Kant). Iniziando la sezione della Filosofia del diritto dedicata allo Stato, Hegel aveva detto che «lo Stato, in quanto è la realtà della volontà sostanziale [...] è il razionale in sé e per sé», deducendone che il «dovere supremo» dei singolì individui era quello «di essere componenti dello Stato» (§ 258).

La critica che Marx, sotto l'influenza di Feuerbach, muove a Hegel nello scritto giovanile, poc'anzi citato Critica della filosofia del diritto pubblico di Hegel (contenente un commento ai § 261‑313 dei Lineamenti della filosofia del diritto), ha a dire il vero più valore filosofico e metodologico che non politico, nel senso che ciò che interessa precipuamente a Marx in questo scritto è la critica del metodo speculativo di Hegel, cioè del metodo secondo cui ciò che dovrebbe essere il predicato, l'idea astratta, diventa il soggetto, e ciò che dovrebbe essere il soggetto, l'essere concreto, diventa il predicato, come risulta più chiaramente che da qualunque spiegazione, dall'esempio seguente.

Hegel, partendo dall'idea astratta di sovranità, anziché dalla figura storica del monarca costituzionale, formula la proposizione speculativa «la sovranità dello Stato è il monarca», mentre, partendo dall'osservazione della realtà, il filosofo non speculativo deve dire che «il monarca [cioè quel tal personaggio storico che ha quei determinati attributi] ha il potere sovrano» (nelle due proposizioni, come si vede, soggetto e predicato sono invertiti). In un capitolo della Sacra famiglia (1845), che è il miglior commento a questa critica, intitolato Il mistero della costruzione speculativa, Marx, dopo avere illustrato con altro esempio lo stesso tipo di inversione (per il filosofo non speculativo la pera è un frutto, mentre per il filosofo speculativo il frutto si pone come pera), spiega che questa operazione consistente nel concepire la sostanza come soggetto (mentre dovrebbe essere il predicato) e I fenomeno come predicato (mentre dovrebbe essere I soggetto) «forma il carattere essenziale del metodo hegeliano» (La sacra famiglia, p. 66).

S'intende che, una volta applicata la critica del metodo speculativo alla filosofia politica di Hegel, Marx ne ricava il rifiuto non soltanto del metodo hegeliano ma anche dei risultati che Hegel ha creduto di poter dedurre con questo metodo in ordine ai problemi dello Stato. Ciò che Marx critica e rifiuta è la stessa impostazione del sistema della filosofia del diritto hegeliana, fondato sulla priorità dello Stato sulla famiglia e sulla società civile (cioè sulle sfere che storicamente precedono lo Stato), priorità che Hegel assevera né osservando e rispettando la realtà storica del suo tempo né studiando come effettivamente si venne formando lo Stato moderno, ma deducendola dall'idea astratta di Stato come totalità superiore e precedente alle sue parti. Mentre nella realtà famiglia e società civile sono i presupposti dello Stato, «nella speculazione diventa il contrario» ovvero «i soggetti reali, la società civile, la famiglia [...] diventano dei momenti obiettivi dell'idea, irreali, allegorici», o, con altre parole, mentre esse sono «l'agente» (cioè un reale soggetto storico) vengono, nella filosofia speculativa, «agite» dall'idea reale, e «debbono la loro esistenza a uno spirito altro dal loro», onde «la condizione diventa il condizionato, il determinatore il determinato, il producente il prodotto del suo prodotto» (Opere filosofiche giovanili, pp. 18‑19). Sin dalle prime battute del commento Marx chiama questo procedimento «misticismo logico».

Non è il caso di soffermarsi sulle critiche particolari che Marx muove a questa o a quella tesi politica di Hegel: basti dire che le più importanti sono quelle che riguardano la concezione dello Stato come organismo, la esaltazione della monarchia costituzionale, l'interpretazione della burocrazia come classe universale, la teoria della rappresentanza per ceti contrapposta al sistema rappresentativo nato dalla Rivoluzione francese. Importa mettere in particolare rilievo che il rifiuto del metodo speculativo di Hegel porta Marx a rovesciare il rapporto tra società civile e Stato, che di questo metodo è una conseguenza, a fermare la propria attenzione ben più sulla società civile che non sullo Stato, e quindi a intravvedere la soluzione del problema politico non già nella subordinazione della società civile allo Stato ma al contrario nell'assorbimento dello Stato da parte della società cìvile, in che consiste la «vera» democrazia, di cui i francesi dicono che in essa «lo Stato politico perisce» (Ibid., p. 42), e il cui istituto fondamentale, il suffragio universale, tende a eliminare la differenza tra Stato politico e società civile, ponendo «entro lo Stato politico astratto l'istanza dello scioglimento di questo, come parimenti dello scioglimento della società civile» (Ibid., p. 135).

III. Lo STATO COME SOVRASTRUTTURA.

Il rovesciamento del rapporto tra società civile e Stato operato da Marx rispetto alla filosofia politica di Hegel segna una vera e propria rottura con tutta la tradizione della filosofia politica moderna. Mentre questa tende a vedere nella società pre-statuale (sia essa lo Stato di natura di Hobbes, o la società naturale di Locke, o lo Stato di natura o primitivo di Rousseau del Contratto sociale, o lo Stato dei rapporti di diritto privato‑naturale di Kant, o appunto la famiglia e la società civile dì Hegel) una sotto‑struttura, reale, sì, ma effimera, destinata a essere risolta nella struttura dello Stato in cui soltanto l'uomo può condurre una vita razionale, e quindi a scomparire in tutto o in parte, una volta costituito lo Stato, Marx considera lo Stato, inteso come l'insieme delle istituzioni politiche, in cui si concentra la massima forza imponibile e disponibile in una determinata società, puramente e semplicemente come una sovrastruttura rispetto alla società pre-statuale, che è il luogo dove si formano e si svolgono i rapporti materiali di esistenza, e in quanto sovrastruttura destinato a scomparire a sua volta nella futura società senza classi. Mentre la filosofia della storia degli scrittori precedenti sino a Hegel (e con particolar forza proprio in Hegel) procede verso un sempre maggiore perfezionamento dello Stato, la filosofia della storia di Marx procede all'inverso verso l'estinzione dello Stato.

Ciò che per gli scrittori precedenti è la società pre-statuale, cioè il regno della forza irregolare e illegittima ‑ sia esso il bellum omnium contra omnes di Hobbes, o lo Stato di guerra o di anarchia che, secondo Locke, una volta cominciato non può essere abolito se non con un salto nella società civile o politica, o la «société civile» di Rousseau, in cui vige il preteso diritto del più forte, che in realtà non è diritto, ma mera costrizione, o lo Stato di natura come Stato «senza nessuna garanzia giuridica» e quindi provvisorio di Kant ‑ è per Marx ancora lo Stato, il quale, in quanto regno della forza, o, secondo la nota definizione che ne viene data nel Capita/e, «violenza concentrata e organizzata della società» (vol. I, p. 814), è non l'abolizione né il superamento bensì il prolungamento dello Stato di natura, cioè è lo Stato di natura come Stato storico, o preistorico, non soltanto immaginario o fittizio, dell'umanità.

Già nei Manoscritti economico‑filosofici del 1844 Marx esprime questo concetto fondamentale, che lo Stato non è il momento subordinante ma è il momento subordinato del sistema sociale preso nel suo complesso, affermando che «la religione, la famiglia, lo Stato, il diritto, la morale, la scienza, l'arte ecc. non sono che modi particolari della produzione e cadono sotto la sua legge universale» (p. 112). Ancora più chiaramente e distesamente nella grande opera immediatamente successiva, L'ideologia tedesca (1845‑1846): «La vita materiale degli individui, che non dipende affatto dalla loro pura 'volontà", il loro modo di produzione e la forma di relazioni che si condizionano a vicenda, sono la base reale dello Stato e continuano a esserlo in tutti gli stadi nei quali sono ancora necessarie la divisione del lavoro, del tutto indipendentemente dalla volontà degli individui. Questi rapporti reali non sono affatto creati dal potere dello Stato; essi sono piuttosto il potere che crea quello» (p. 324).

Nell'opera dello stesso periodo, a differenza della precedente rimasta medita, pubblicata nel 1845, La sacra famiglia, il capovolgimento dell'idea tradizionale, impersonata in questo contesto da Bruno Bauer, per cui «l'essere universale dello Stato deve tener uniti i singoli atomi egoistici», non potrebbe essere espressa con maggior incisività: «Solo la superstizione politica immagina ancora oggi che la vita civile debba essere tenuta insieme dallo Stato, mentre, al contrario, è lo Stato, in realtà, che è tenuto insieme dalla vita civile» (p. 131). In tema di rapporti tra struttura e sovrastruttura il passo che fa testo è quello celeberrimo della Prefazione a Per la critica de/l'economia politica: «L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.

Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico, e spirituale della vita» (p. 11).

Contro la «superstizione politica», cioè contro la sopravalutazione dello Stato, l'attacco di Marx, checché ne dicano alcuni interpreti recenti, è costante. È questo rifiuto della superstizione politica che gli fa dire in uno scritto giovanile, La questione ebraica (1843), che la Rivoluzione francese non è stata una rivoluzione compiuta, perché è stata soltanto una rivoluzione politica, e che l'emancipazione politica non è ancora l'emancipazione umana. E in uno scritto della maturità contro Mazzini che questi non ha mai capito nulla perché «per lui lo Stato, che crea nella sua immaginazione, è tutto, mentre la società, che esiste in realtà, non è niente» (che è un altro modo di dire che una rivoluzione soltanto politica non è una vera rivoluzione).

Marx affermò che la Rivoluzione francese non fu una rivoluzione compiuta poiché l'emancipazione politica non è ancora l'ernancipazione umana.

IV. LO STATO BORGHESE COME DOMINIO Di CLASSE.

Il condizionamento della sovrastruttura politica da parte della struttura economica, o che è lo stesso la dipendenza dello Stato dalla società civile, si manifesta in ciò che la società civile è il luogo dove si formano le classi sociali e si rivelano i loro antagonismi, e lo Stato è l'apparato o l'insieme degli apparati, di cui quello determinante è l'apparato repressiva (l'uso della forza monopolizzata), la cui funzione principale è, almeno in generale, e quindi fatti salvi casi eccezionali, di impedire che l'antagonismo degeneri in lotta perpetua (che sarebbe un ritorno puro e semplice allo Stato di natura), non già mediando gli interessi delle classi contrapposte ma rafforzando, cioè contribuendo a mantenere, il dominio della classe dominante sulla classe dominata. Nel Manifesto del Partito comunista, il ((potere politico» vi è definito, con una formula diventata ormai classica, ((il potere di una classe organizzato per opprimerne un'altra».

Pur non trascurando le forme di potere politico in altri tipi di società diverse da quella borghese, Marx concentrò la propria attenzione e raccolse la grande maggioranza delle sue riflessioni sullo Stato borghese. Quando egli parla dello Stato come del «dominio», o come del «dispotismo» di classe, o come della «dittatura» di una classe sull'altra, l'oggetto storico è quasi sempre lo Stato borghese. Sin da uno dei suoi primi articoli, commentando i Dibattiti sulla legge contro i furti di legna (1842), aveva notato come l'interesse del proprietario di foreste fosse «il principio determinante dell'intera società», con la conseguenza che: «Tutti gli organi dello Stato diventano orecchi, occhi, braccia, gambe, con cui l'interesse del proprietario ascolta, osserva, valuta, provvede, afferra e cammina». Quindi, aveva concluso, con una frase che merita di essere sottolineata, contro le interpretazioni deformanti e a parer mio anche banalizzanti che insistono più sull'indipendenza che non sulla dipendenza dello Stato dalla società: «Questa logica, che trasforma il dipendente del proprietario forestale in un'autorità statale, trasforma l'autorità statale in un dipendente dal proprietario» (Scritti politici giovanili, p. 203).

Proprio con particolare riguardo allo Stato borghese, cioè a quella fase dello sviluppo della società civile in cui gli ordini si sono trasformati in classi e la proprietà in quanto privata si è emancipata completamente dallo Stato, Marx afferma nell'ideologia tedesca, che lo Stato «non è altro che la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità, tanto verso l'esterno che verso l'interno, al fine di garantire reciprocamente la loro proprietà e i loro interessi». Dopo aver precisato ancora una volta che «l'indipendenza dello Stato oggi non si trova più che in quei paesi dove gli ordini non si sono ancora sviluppati in classi», e quindi in Germania, ma non negli Stati Uniti, formula la propria tesi nei seguenti termini generali e inequivocabili: «Lo Stato è la forma in cui gl'individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni e in cui si riassume l'intera società civile di un'epoca» (L'ideologia tedesca, p. 40).

Che in certi periodi di crisi, in cui il conflitto di classe diventa più acuto, la classe dominante ceda o sia costretta a cedere il proprio potere politico diretto, che essa esercita attraverso il parlamento (che non è altro che un «comitato d'affari» della borghesia), a un personaggio che appare al di sopra delle parti, come accadde in Francia in seguito al colpo di stato del 2‑Xll‑1851 che diede il supremo potere a Luigi Napoleone, non significa affatto che lo Stato muti la propria natura: ciò che avviene in questo caso (il cosiddetto ((bonapartismo>, che Engels estenderà, facendone una categoria storica, al regime instaurato da Bismarck in Germania) (Carteggio Marx‑Engels, IV, p. 406) è puramente e semplicemente il passaggio delle prerogative sovrane, all'interno dello stesso Stato borghese, dal potere legislativo al potere esecutivo, rappresentato dal reggitore della pubblica amministrazione, in altre parole, dal parlamento alla burocrazia che peraltro preesiste al parlamento, essendosi formata durante la monarchia assoluta e costituendo uno ((spaventoso corpo parassitaria che avvolge come un involucro il corpo della società francese e ne ostruisce tutti i pori» (II 18 brumaio, in K. Marx e F. Engels, Le opere, p. 575).

Questa sostituzione di un potere all'altro può dare l'impressione che lo Stato si sia reso indipendente dalla società civile: e, invece, anche questa forma straordinaria di «dispotismo individuale» non può reggersi se non si appoggia a una determinata classe sociale, che nel caso specifico di Luigi Napoleone è, secondo Marx, la classe dei contadini piccoli proprietari; e soprattutto la funzione del potere politico, sia esso in possesso di un'assemblea come il parlamento o di un uomo come il dittatore, non cambia: Bonaparte sente, osserva Marx, che «la sua missione consiste nell'assicurare l'ordine borghese» (Ibid., p. 584), anche se poi, avvolto nelle contraddizioni del suo ruolo di mediatore al di sopra delle parti, cioè di un ruolo il cui esercizio e il cui successo sono resi impraticabili dalle condizioni obiettive della società di classe, non riesce nell'intento (o per lo meno Marx giudica che, invece dell'ordine promesso, il presunto salvatore finisca per lasciare il paese in preda a una nuova anarchia). In realtà, se la borghesia rinuncia al proprio potere diretto, cioè al regime parlamentare, per affidarsi al dittatore, ciò accade perché essa ritiene (se pur a torto, cioè facendo un calcolo che risulterà sbagliato), che in un momento difficile il dittatore assicuri il suo dominio nella società civile, che è il dominio che conta, meglio che il parlamento, cioè (<confessa», come dice Marx, «che per mantenere intatto il suo potere sociale deve essere spezzato il suo potere politico», o più rozzamente, «che per salvare la propria borsa essa deve perdere la propria corona» (Ibid., p. 530).

V. LO STATO DI TRANSIZIONE.

Della più volte assenta dipendenza dello Stato dalla società civile, del potere politico dalla classe dominante, Marx dà una precisa conferma là dove pone il problema del passaggio dallo Stato in cui classe dominante è la borghesia allo Stato in cui classe dominante sarà il proletariato. Su questo problema sarà indotto a meditare soprattutto dall'episodio della Comune di Parigi (marzo‑maggio 1871). In una lettera a Ludwig Kugelmann del 12‑1V‑187 1, riferendosi proprio all'ultimo capitolo dello scritto sul colpo di stato in Francia (1118 brumaio di Luigi Bonaparte), in cui aveva affermato che «tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina [intendi la macchina dello Stato] invece di spezzarla» (Ibid., p. 576), ribadisce, a distanza di vent'anni, che «il prossimo tentativo della Rivoluzione francese non consisterà nel trasferire da una mano a un'altra la macchina militare e burocratica, come è avvenuto fino a ora, ma nello spezzarla, e che tale è la condizione preliminare di ogni rivoluzione popolare sul continente» (Lettere a Kugelmann, p. 139). Precisa quindi che l'obiettivo cui mirano gl'insorti parigini è proprio questo: essi non tendono a impadronirsi dell'apparato dello Stato borghese, ma cercano di «spezzarlo».

Nelle considerazioni sulla Comune Marx ritorna frequentemente su questo concetto: ora dice che l'unità della nazione doveva diventare una realtà «attraverso la distruzione di quel potere statale che pretendeva di essere l'incarnazione di questa unità indipendente e persino superiore alla nazione stessa, mentre non ne era che un'escrescenza parassitaria»; ora parla della Comune come di una nuova forma di Stato che «spezza» il moderno potere statale, e che sostituisce al vecchio governo centralizzato «l'autogoverno dei produttori» (La guerra civile in Francia, in K. Marx e F. Engels, Le opere, pp. 911‑912).

Sembra dunque che per Marx la dipendenza del potere statale dal potere di classe sia tanto stretta che ii passaggio dalla dittatura della borghesia alla dittatura del proletariato non possa avvenire semplicemente attraverso la conquista del potere statale, cioè di quell'apparato di cui la borghesia si è servita per esercitare il proprio dominio, ma esiga la distruzione di quelle istituzioni e la loro sostituzione con istituzioni completamente diverse. Se lo Stato fosse soltanto un apparato neutrale al di sopra delle parti, la conquista di questo apparato o anche soltanto la penetrazione in esso sarebbero di per se stesse sufficienti a modificare la situazione esistente. Lo Stato è, sì, una macchina, ma non è una macchina che ognuno possa adoperare a suo piacimento: ogni classe dominante deve foggiare la macchina statale secondo le proprie esigenze.

Sui caratteri del nuovo Stato Marx dà alcune indicazioni tratte per l'appunto dall'esperienza della Comune (dalle quali trarrà ispirazione Lenin nel saggio Stato e rivoluzione e negli scritti e discorsi dei primi mesi della rivoluzione): soppressione dell'esercito permanente e della polizia prezzolata, e sostituzione a essi del popolo armato; funzionari o elettivi o posti sotto il controllo popolare, e quindi responsabili e revocabili; giudici elettivi e revocabili; soprattutto suffragio universale per l'elezione dei delegati con mandato imperativo e quindi revocabili; abolizione della tanto vantata ma fittizia separazione dei poteri («La Comune doveva essere non un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo»); e infine ampio decentramento tale da ridurre a poche ed essenziali le funzioni del governo centrale («Le poche ma importanti funzioni che sarebbero ancora rimaste per un governo centrale [...] sarebbero state adempiute da funzionari comunali, e quindi strettamente responsabili») (Ibid., pp. 908909). Marx chiamò questa nuova forma di Stato «governo della classe operaia» (Ibid., p. 912), mentre Engels, nell'introduzione a una ristampa degli scritti marxiani sulla guerra civile in Francia, la chiamò con forza, e con intenzione provocante, «dittatura del proletariato»: «Il filisteo socialdemocratico recentemente si è sentito preso ancora una volta da salutare terrore sentendo l'espressione: dittatura del proletariato. Ebbene, signori, volete sapere come è questa dittatura? Guardate la Comune di Parigi. Questa fu la dittatura del proletariato» (Ibid., p. 1163).

Sin dal Manifesto Marx ed Engels avevano detto molto chiaramente che, essendo sempre il potere politico il potere di una classe organizzato per opprimerne un'altra, il proletariato non avrebbe potuto esercitare il proprio dominio se non diventando a sua volta classe dominante. Sembra che Marx abbia parlato per la prima volta di «dittatura del proletariato» in senso proprio (e non in senso polemico come ne parla nelle Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850) (Ibid., p. 463) in una nota lettera a Joseph Weydemeyer del 5‑111‑1852, ove confessa di non essere stato il primo ad aver dimostrato l'esistenza delle classi, e si riconosce il solo merito di aver dimostrato: «1° che l'esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2° che la lotta delle classi necessariamente conduce alla dittatura del proletariato; 3° che questa dittatura costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi». L'espressione viene per così dire consacrata nella Critica al programma di Gotha (1875): «Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra. A esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato» (Ibid., p. 970).

VI. L'ESTINZIONE DELLO STATO.

Come appare dalla lettera a Weydemayer, il tema della dittatura del proletariato è strettamente connesso a quello dell'estinzione dello Stato. Tutti gli stati esistiti sono sempre stati dittature di una classe. A questa regola non fa eccezione lo Stato in cui
classe dominante diventa il proletariato; ma, a differenza delle dittature delle altre classi, che sono sempre state dittature di una minoranza di oppressori su una maggioranza di oppressi, la dittatura del proletariato, in quanto dittatura della stragrande maggioranza degli oppressi su una minoranza destinata a scomparire di oppressori, è ancora, si, una forma di Stato, ma tale che, avendo come obbiettivo la eliminazione dell'antagonismo di classe, tende alla graduale estinzione di quello strumento di dominio di classe che è appunto lo Stato.

II primo accenno alla scomparsa dello Stato si trova nell'ultima pagina della Miseria della filosofia: «La classe lavoratrice sostituirà, nel corso del suo sviluppo, all'antica società civile una associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non vi sarà più potere politico proprio» (p. 140). Ii Manifesto immette il tema della scomparsa dello Stato nel proprio programma: «Se il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e, come tale, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso abolisce, insieme con questi rapporti di produzione, anche le condizioni d'esistenza dell'antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe» (in K. Marx e F. Engels, Le opere, pp. 314‑315).

L'analisi che Marx fa in La guerra civile in Francia della nuova forma di governo della Comune mostra che egli ne individua la novità rispetto a tutte le forme di dominio precedenti proprio nel fatto che essa contiene in germe le condizioni per la graduale scomparsa dello Stato come mero strumento di repressione: la Comune fu «una forma politica fondamentalmente espansiva, mentre tutte le precedenti forme di governo erano state unilateralmente repressive)) (Ibid., pp. 911‑912).

Lo Stato in cui classe dominante è il proletariato non è dunque uno Stato come tutti gli altri perché è destinato a essere l'ultimo Stato: è uno Stato di «transizione» alla società senza Stato. Ed è uno Stato diverso da tutti gli altri, perché non si limita a impadronirsi dello Stato esistente, ma ne crea uno nuovo, e ne crea uno tanto nuovo da porre le condizioni per la fine di tutti gli stati. Lo Stato di transizione, insomma, è caratterizzato da due elementi diversi e che debbono essere tenuti ben distinti: esso, pur distruggendo lo Stato borghese precedente, non distrugge lo Stato in quanto tale; eppure, costruendo un nuovo Stato, già pone le fondamenta della società senza Stato.

Questi due caratteri servono a contraddistinguere la teoria di Marx, per un verso, da quella socialdemocratica, per l'altro verso, da quella anarchica. La prima ritiene che compito del movimento operaio sia quello di conquistare lo Stato (borghese) dall'interno, non già di «spezzarlo»; la seconda ritiene che si possa distruggere lo Stato in quanto tale senza passare attraverso lo Stato di transizione. Contro la teoria socialdemocratica Marx sostiene, invece, che lo Stato (borghese) non possa essere conquistato ma debba prima essere distrutto; contro la teoria anarchica sostiene che ciò che deve essere distrutto non è lo Stato tout court ma appunto lo Stato borghese, perché lo Stato in quanto tale, una volta distrutto lo Stato borghese, è destinato a estinguersi. Tenendo distinti i due momenti dialetticamente uniti della soppressione e del superamento, si può dire che la soppressione dello Stato borghese non è la soppressione dello Stato ma è la condizione per il suo superamento. Ed è perciò che lo Stato borghese deve essere in un primo tempo soppresso, a differenza di quel che ritengono i socialdemocratici, per poter essere in un secondo tempo, a differenza di quel che ritengono gli anarchici, superato.

[NORBERTO BOBBIO]


BIBLIOGRAFIA.

La maggior parte dei passi di Marx e di Engels sono citati, quando non è detto altrimenti, dal volume antologico: K. MARX, F. ENGELS, Le opere, Editori Riuniti, Roma 1966.

Altrimenti:

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ID., La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma 1954.

ID., Per la critica dell'economia politica, Editori Riuniti, Roma 1957.

ID., L'ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1958.

ID., Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1963.

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