G. Bedeschi

Introduzione a La Scuola di Francoforte

Laterza, Bari 2002

VIII. EPILOGO (pp. 134-155)

1.

In quanto indirizzo culturale dichiaratamente marxista (almeno in una prima fase, cioè negli anni Trenta; ma anche successivamente gli esponenti dell'Istituto per la Ricerca Sociale non rinnegheranno mai alcuni temi essenziali dell'opera di Marx), la 'teoria critica' svolge diversi motivi interessanti, che costituiscono un elaborato tentativo di superare le difficoltà sempre più evidenti del marxismo classico a tenere il passo con gli sviluppi delle società industriali avanzate.

I 'francofortesi', infatti, avvertono chiaramente: a) che la classe operaia non è più il soggetto rivoluzionario ipotizzato da Marx, capace di superare la società borghese; b) che il dominio sociale non può essere spiegato nei modi troppo semplicistici della coercizione e della violenza materiali (la famosa ' dittatura ' delle classi dominanti), e che in realtà esso fa corpo con tutta una serie di elementi culturali (in senso lato), ideologici non meno che psicologici, che ne costituiscono spesso l'aspetto più importante (di qui il tentativo di utilizzare la psicoanalisi ai fini dell'indagine socio‑politica: un fatto nuovo nella storia del marxismo); c) il carattere datato e ormai superato dell'analisi marxista incentrata sul dualismo fra Stato e società civile, nel momento in cui negli Stati capitalistici avanzati si registra un intervento sempre più massiccio dello Stato nell'economia (attraverso la legislazione in materia economica e sindacale; attraverso gli strumenti della programmazione e del credito; attraverso il controllo diretto di determinati settori dell'industria e dei servizi, ecc.): un intervento così ampio, che non si può più parlare della sfera economica come di una sfera autonoma dallo Stato, né si possono più fare indagini economiche che prescindano dall'intreccio fra economia e politica, o addirittura dal primato della sfera politica.

E tuttavia, nonostante questi spunti di indubbio interesse, non si può dire che ad essi corrispondano soluzioni soddisfacenti. La stessa revisione del marxismo operata dalla Scuola di Francoforte, pur muovendo da constatazioni giuste e realistiche, non dà alcun apprezzabile contributo al progresso delle scienze sociali. Come, infatti, la Scuola accentua e radicalizza, in fatto di teoria politica, la critica marxista della società liberai‑democratica, fino a far proprie le posizioni del marxismo più rozzo ed estremistico (diciamo rozzo ed estremistico perché, dopotutto, Marx, pur criticando i diritti dell'uomo e del cittadino e l'emancipazione solo politica realizzata dalla borghesia, non mancava di distinguere fra bonapartismo e Stato liberale); così, in fatto di teoria sociale, la Scuola si ispira alle componenti più utopiche e irrealistiche dei marxismo medesimo, formulando un rifiuto globale, o 'grande rifiuto', della società contemporanea.

Essa postula infatti il sorgere di una comunità radicalmente nuova, emancipata da qualunque autorità, da qualunque condizionamento materiale e sociale, da qualunque forma non solo di dominio, ma anche di organizzazione (l'odiato 'apparato'). E poiché la società contemporanea è una società industriale avanzata, in cui la scienza è una componente decisiva dell'industria, la Scuola di Francoforte non esita a pronunciare una condanna tanto intransigente quanto sommaria della scienza e delle sue applicazioni ai processi produttivi e, più in generale, dell'organizzazione industriale del mondo moderno.

E' inutile insistere su questi aspetti, che abbiamo già avuto modo di vedere minutamente nel corso del presente lavoro. Ora conviene piuttosto affrontare un problema che abbiamo sempre lasciato nell'ombra, e che è invece di grande importanza per intendere l'ispirazione ideale della Scuola di Francoforte nella sua genesi e nei suoi presupposti.

Si tratta, in sostanza, di rispondere alla seguente domanda: la critica della società industriale svolta dalla Scuola è solo e soltanto una deformazione spiritualistica del marxismo (come certamente in gran parte è: basti pensare al concetto di alienazione identificato col lavoro e col principio di prestazione), o conserva piuttosto, nonostante tutto, un legame consistente con l'opera di Marx? A questa domanda noi abbiamo già risposto implicitamente in modo affermativo quando abbiamo detto che la Scuola di Francoforte si ispira alle componenti più utopiche e irrealistiche del marxismo, in primo luogo all'idea di una palingenesi radicale della società, che abolisca una volta per tutte ogni contraddizione, ogni conflitto, che realizzi una completa conciliazione fra uomo e uomo e fra uomo e natura, che sopprima qualunque differenziazione all'interno del complesso sociale, rendendo così superflua qualsiasi autorità e impossibile qualsiasi forma di dominio. Ma se questo è vero, non è meno vero che la Scuola di Francoforte nega proprio uno dei concetti‑chiave della dottrina marxista: il progresso dell'umanità reso possibile dal suo crescente dominio sulla natura realizzato grazie all'impetuoso e inarrestabile sviluppo della scienza e dell'industria. A questo punto sorge inevitabilmente la domanda: come può la Scuola conservare un contatto vivo e reale con l'opera di Marx se ne nega un concetto così centrale e sotto ogni profilo decisivo? Bisogna ammettere che si tratta di una domanda imbarazzante, alla quale non sembra facile rispondere.

Senonché, se si vuole intendere davvero, in tutti i suoi aspetti, il rapporto difficile e complesso della Scuola di Francoforte con la concezione marxista, non si deve mai perdere di vista, a nostro avviso, un fatto fondamentale: e cioè che nel marxismo confluiscono due ispirazioni radicalmente diverse: l'una materialistica e illuministico-industrialistica, l'altra idealistica e organicistico‑romantica. La 'teoria critica ' ha optato sin dall'inizio per la seconda ispirazione, approfondendola e radicalizzandola. Su questo delicato nodo problematico vale la pena di soffermarsi brevemente.

2.

Che nel marxismo siano presenti entrambe le ispirazioni che abbiamo detto sembra indubbio, come analisi recenti hanno ribadito con grande chiarezza . E benché i due atteggiamenti ideali siano, nella concezione di Marx, strettamente intrecciati fra loro, è possibile ‑ proprio perché si tratta di due atteggiamenti diversi ‑ isolarli l'uno dall'altro e vederli separatamente.

L'esaltazione della missione storica della borghesia e dell'enorme sviluppo delle forze produttive da essa promosso, è una costante dell'opera di Marx. Basti pensare alle celebri parole del Manifesto: «La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria. Essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d'Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le Crociate». In appena un secolo di dominio, essa «ha creato delle forze produttive il cui numero e la cui importanza superano quanto mai avessero fatto tutte insieme le generazioni passate»

Questo apprezzamento del ruolo storicamente progressivo della borghesia e del capitalismo industriale distingue sin dall'inizio, in modo rigoroso, la critica marxiana da tutte le altre critiche di tipo romantico della società borghese moderna. Decisivo, in questo senso, è il giudizio che, nel Manifesto, Marx dà su Sismondi, il cui pensiero è da lui giudicato come l'espressione più caratteristica delle aspirazioni e delle esigenze della piccola borghesia di fronte ai sommovimenti e ai terremoti sociali provocati dalla rivoluzione industriale. Sismondi, dice Marx, ha individuato molto acutamente le contraddizioni esistenti nei moderni rapporti di produzione:

«Ha messo a nudo gli eufemismi ipocriti degli economisti. Ha dimostrato in modo incontestabile gli effetti deleteri dell'introduzione delle macchine e della divisione del lavoro, la concentrazione dei capitali e della proprietà fondiaria, la sovraproduzione, le crisi, la rovina inevitabile dei piccoli borghesi e dei piccoli contadini, la miseria del proletariato, l'anarchia della produzione, le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, la guerra industriale di sterminio tra le nazioni, il dissolversi degli antichi costumi, degli antichi rapporti di famiglia, delle antiche nazionalità».

Senonché, a tutto ciò Sismondi contrappone solo il passato; egli vuole ristabilire i vecchi mezzi di produzione e di scambio, e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società; oppure vuole imprigionare i moderni mezzi di produzione e di scambio nel quadro dei vecchi rapporti di produzione ch'essi hanno spezzato e che non potevano non spezzare. II socialismo di Sismondi deve dunque essere considerato, secondo Marx, reazionario e utopistico a un tempo: critica sì la società moderna, ma in nome di un passato che non può più essere resuscitato. Perciò le sue parole d'ordine sono le corporazioni nella manifattura e l'economia patriarcale nell'agricoltura: un programma romantico e organicistico, che la rivoluzione industriale ha irrimediabilmente travolto.

A questo punto di vista Marx terrà fermo anche in tutta l'opera della maturità. Come è stato giustamente rilevato [da L. Colletti]:

«Questo atteggiamento originario di Marx doveva sempre più consolidarsi, in seguito, attraverso il confronto assiduo con l'economia politica classica e, soprattutto, con l'opera di Smith e di Ricardo. In tutto il Capitale e le Teorie sui plusvalore non si incontra mai un solo passo in cui egli riecheggi i temi della «critica romantica» della società industriale moderna. Ciò che lo divide da essa è un'opposizione di principio. La «critica romantica» è volta al passato; idoleggia la società patriarcale; ne esalta l'«organicismo»; ne trasfigura le miserie nella vaga luce del ricordo. La critica di Marx, invece, guarda al futuro; pensa alla società dell'avvenire, cioè al «comunismo», come alla società più progredita che sorgerà sulla base delle enormi forze produttive (scienza e tecnica comprese) che sono state suscitate dallo sviluppo capitalistico».

Sotto questo profilo non c'è dubbio che in Marx è presente una componente 'illuministica', la stessa che operava nel pensiero di Smith, e che può essere espressa attraverso questa semplicissima proposizione: senza aumento della produttività del lavoro non c'è progresso economico, e senza progresso economico non c'è incivilimento dell'umanità. E tuttavia, detto ciò, non c'è dubbio che in Marx opera anche un'altra ispirazione, radicalmente diversa. Infatti, quando critica la società borghese moderna, egli critica in primo luogo e fondamentalmente la scissione, o il complesso di scissioni, che essa ha determinato: la scissione, all'interno della merce, fra valore d'uso e valore di scambio, che trapassa nella scissione fra merce e denaro; la scissione fra il lavoratore e i mezzi di produzione, fra il salariato e il capitale; la scissione fra le determinazioni economiche e le determinazioni politiche, fra la sfera sociale e la sfera giuridica, fra lo Stato e la società civile, ecc. Contro tutto ciò Marx invoca l'unità, il ristabilimento del vincolo sociale che si è spezzato. Di qui l'istanza organicistica che opera potentemente al fondo del suo pensiero. E non è certo un caso che egli, sin dai suoi lavori giovanili, accetti la critica hegeliana dell'' atomismo prodotto dalla società borghese moderna.

Anche nell'opera più aspramente critica verso Hegel, la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Marx, dopo aver respinto il metodo speculativo hegeliano, afferma: «e tuttavia riconosciamo in Hegel della profondità in questo suo cominciare ovunque con l'opposizione delle determinazioni (proprie dei nostri Stati) e porvi l'accento»

Si tratta, appunto, delle opposizioni che lacerano il mondo moderno, e che devono essere soppresse.

Perciò, non a caso, in Marx ritroviamo molto dell'organicismo hegeliano. La critica di Hegel alla rivoluzione francese, perché essa dissolve il popolo «in un mucchio» di individui atomistici, privi di legami profondi e senza «eticità vera» , è certamente condivisa da Marx. Il quale, infatti, la riprende nella Questione ebraica, là dove critica i diritti dell'uomo e del cittadino: e cioè, in primo luogo, la scissione fra uomo e cittadino, la concorrenza, la conflittualità, l'atomismo che caratterizzano la ' società civile ', la libertà borghese che è solo la libertà di una monade, isolata e contrapposta a tutte le altre monadi, ecc. superfluo ricordare quanto questa tematica dell''unità organica', che Marx mutua da Hegel, debba al mito protoromantico della ' bella eticità ' attribuita alla polis, in cui ogni cittadino era membro di una comunità compatta, coesa, armonica, senza interessi particolaristici e volontà divergenti: il singolo era solo apparentemente tale, e in realtà era un'articolazione della totalità, dalla quale non si distingueva, e dalla quale soltanto riceveva senso e significato.

Che questa componente organicistica operi potentemente nella critica rivolta da Marx alla società borghese moderna in nome della società comunista (da Marx definita non Gesellschaft ‑società ‑ bensì Gemeinwesen ‑ comunità) è provato non solo da quello che si è detto finora, ma anche dall'influsso culturale che la posizione marxista ha esercitato. Come ha opportunamente sottolineato un autorevole studioso di Marx e del marxismo, esattamente vent'anni dopo la pubblicazione del Capitale, appariva nel 1887 una delle maggiori opere della sociologia tedesca. Era Gemeinschaft und Gesellschaft di Tönnies: cioè, appunto, Comunità e Società. La trattazione di Tönnies, che rinviava fin dal sottotitolo alle questioni del socialismo e del comunismo, era imperniata sulla delineazione di due «modelli» alternativi: la Gemeinschaft in quanto comunità di «vita reale e organica», e la Gesellschaft come formazione sociale solo «astratta e meccanica». Nella prefazione alla prima edizione dell'opera, l'autore indicava in Marx una delle principali fonti a cui egli si era ispirato. E, nella trattazione critica della Gesellschaft, adottava largamente le analisi del Capitale, per quanto concerneva i fenomeni dello «scambio», del «contratto», del «mercato delle merci», della «forza‑lavoro» e della struttura stessa delle classi.

E vero che nel modello di comunità tracciato da Tönnies confluiscono forti elementi di tradizionalismo, e che tale comunità è fondamentalmente rurale e patriarcale, sicché l'accostamento a Marx va fatto con grande cautela; ma non è meno vero che l'utilizzazione da parte di Tönnies di parecchi motivi marxiani è tutt'altro che priva di significato.

In ogni caso, è indubbio che l'esaltazione che Marx ha fatto della missione storica della borghesia e dell'industrialismo, e la critica, di ispirazione organicistica, che egli ha nel contempo rivolto ad essi, dimostrano la presenza in lui di due componenti ideali, e, più generalmente, di due ispirazioni (l'una illuministica, l'altra romantica) non solo diverse ma incomponibili. Del resto, ciò è confermato anche dalla storia del marxismo, dove quella duplice ispirazione ha prodotto 'filiazioni ' di segno opposto: forme di marxismo ' scientistico ' e ' positivistico (caso tipico: Kautsky), e forme di marxismo antiscientistico e antipositivistico o dialettico (caso tipico: Lukàcs).

La Scuola di Francoforte si inscrive interamente nel secondo filone, e lo radicalizza in forma estrema. La sua critica è sempre rivolta alla razionalità scientifica, alle sue applicazioni tecniche, all'industria e all'organizzazione industriale del mondo moderno. Non c'è dubbio che tale critica altera, per così dire, l'equilibrio del marxismo, in quanto ne fa propria una sola componente, e la estremizza fino a farne la chiave di volta di un rifiuto totale della società industriale (di qui la sua confluenza obiettiva con critici della civiltà' come Jaspers o Huizinga) . Ma è altrettanto certo che essa mostra un saldo legame con il marxismo proprio attraverso la sua componente antilluministica e romantica.

3.

In questo quadro, anche l'utilizzazione della psicoanalisi da parte della Scuola di Francoforte non poteva essere diversa da quella che è stata: in realtà, uno stravolgimento completo della psicoanalisi, che la priva di tutta la sua forza e di tutta la sua originalità.

Come abbiamo visto, infatti, i ' francofortesi ' rifiutano uno dei cardini del pensiero freudiano: la presenza nell'uomo di pulsioni aggressive; inoltre, essi respingono l'idea della civiltà come fatale processo di repressione degli istinti; vedono nell'autorità paterna il fondamento e il prodotto del dominio sociale, ecc. Ciò è dovuto al fatto che l'utilizzazione della psicoanalisi da parte della 'teoria critica' avviene nell'ambito di una concezione palingenetica (di indubbia ispirazione marxista), tesa alla liberazione 'totale ' del genere umano da qualunque autorità, da qualunque condizionamento materiale e sociale, da qualunque forma di dominio. Quanto di più lontano, dunque, si possa immaginare dall'ispirazione realistico-pessimistica della psicoanalisi.

A questa impostazione gli esponenti della ' teoria critica ' rimarranno sempre fedeli, anche dopo l'allontanamento di Fromm dall'Istituto per la Ricerca Sociale, avvenuto per dissensi teorici (egli fu criticato, a quanto pare, per il suo eccessivo ' revisionismo ' verso la psicoanalisi) Sotto questo profilo, anche il celebre saggio di Marcuse Eros e civiltà, che pure mostra di tenere in alta considerazione le idee di Freud, fino ad assumerle come punto di partenza per un'ampia disamina della civiltà contemporanea, non aggiunge e non toglie nulla agli scritti precedenti della Scuola: esso, infatti, capovolge letteralmente le tesi freudiane .

E poiché questo lavoro di Marcuse viene citato spesso a riprova dell'ispirazione psicoanalitica della Scuola di Francoforte, e del fecondo influsso esercitato su di essa dalla psicologia del profondo, può essere utile mettere a confronto lo schema analitico proposto da Freud nel Disagio della civiltà con lo schema proposto da Marcuse in Eros e civiltà. Chiediamo scusa al lettore per questa digressione, in quanto, da un punto di vista strettamente cronologico, il libro di Marcuse (pubblicato nel 1955) esorbita dai limiti che ci siamo prefissati. Ma poiché l'autore proclama in esso la propria fedeltà allo spirito e alle idee della Scuola, e poiché in effetti Eros e civiltà costituisce il punto di incontro più interessante e complesso fra ' teoria critica ' e freudismo, dalla sua analisi potremo ricavare utili indicazioni ai fini di una comprensione più piena del rapporto fra la Scuola di Francoforte e la psicoanalisi. Il lettore ci scuserà se nel corso di tale raffronto dovremo fare ampi riferimenti alle tesi freudiane, ma tutto il discorso, se ne perderà in brevità, ne guadagnerà in chiarezza.

4.

Nel Disagio della civiltà l'analisi di Freud mette in forte rilievo il contrasto esistente fra la tendenza dell'uomo al piacere e alla felicità (al punto che, egli dice, il principio del piacere domina l'apparato psichico dell'individuo sin dalla nascita, e ne stabilisce lo scopo della vita) e l'irrealizzabilità di tale potente desiderio. Si potrebbe dire, afferma Freud, che nel piano della Creazione non è incluso l'obiettivo che l'uomo sia 'felice'. Del resto, quel che comunemente chiamiamo felicità scaturisce dal soddisfacimento, per lo più improvviso, di bisogni fortemente compressi, e per sua natura è possibile solo in quanto fenomeno episodico. Infatti ‑ sottolinea il fondatore della psicoanalisi ‑ le nostre possibilità di essere felici risultano limitate in primo luogo dalla nostra stessa costituzione, sicché provare infelicità è assai meno difficile che provare felicità. «La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a perire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l'angoscia; dal mondo esterno che contro di noi può infierire con strapotenti spietate forze distruttive; e, infine, dalle nostre relazioni con altri uomini» 13 Ne discende dunque che, se la vocazione più profonda dell'uomo è alla felicità, la sua situazione di gran lunga prevalente è l'infelicità. Del resto, anche l'amore sessuale, che ci procura il piacere più intenso, e che, proprio per ciò, ci fornisce il modello della felicità, è assai problematico, poiché «mai come quando amiamo prestiamo il fianco alla sofferenza, mai come quando abbiamo perduto l'oggetto amato o il suo amore siamo così disperatamente infelici».

E evidente, in queste proposizioni, che nel sostenere la tesi della sostanziale infelicità della condizione umana, l'accento di Freud cade sul carattere naturale‑finito dell'uomo, sulla sua intrinseca debolezza di fragile creatura esposta agli attacchi della natura esterna e alle pulsioni aggressive degli altri uomini. E tuttavia, in diverse occasioni, Freud non manca di accennare anche alle istituzioni sociali e, più in generale, al processo di edificazione della civiltà, come fonte di grande infelicità per l'uomo. Qui il suo discorso acquista una dimensione più propriamente storico‑sociale. Egli parla infatti delle «tre fonti da cui• proviene la nostra sofferenza: la forza soverchiante della natura, la fragilità del nostro corpo, e l'inadeguatezza delle istituzioni che regolano le reciproche relazioni degli uomini nella famiglia, nello Stato e nella società». Quest'ultimo accenno è particolarmente importante, e viene ulteriormente sviluppato da Freud con la considerazione che le più straordinarie conquiste scientifiche e tecniche dell'uomo ‑ che da debole organismo animale quale comparve dapprima sulla terra lo hanno trasformato quasi in un Dio ‑ sono ben lungi dal renderlo felice. Anzi, «sembra assodato che non ci sentiamo a nostro agio nella civiltà odierna».

E a questo punto che l'indagine freudiana affronta i suoi temi decisivi. Perché, mentre nel caso della forza soverchiante della natura, e della fragilità del nostro corpo, è evidente che si tratta di fonti di sofferenza inevitabili ‑ per il semplice motivo che gli uomini non domineranno mai completamente la natura e il loro organismo rimarrà sempre una struttura debole e transitoria, con limitati poteri di adattamento e di produzione ‑ nel caso, invece, del progresso civile, è difficile comprendere perché le nostre realizzazioni scientifiche e tecniche e le istituzioni sociali da noi edificate non debbano costituire piuttosto una protezione e un beneficio per tutti. In realtà, se si considera che proprio in questo ambito la prevenzione del dolore si è rivelata maggiormente fallace, sorge il sospetto, dice Freud, «che anche qui possa celarsi la natura invincibile, in qualche suo aspetto, cioè nella nostra stessa costituzione psichica». Come è ben noto, questo sospetto diviene presto certezza nel corso dell'indagine freudiana, la quale giunge alla conclusione che «il disagio» è strettamente intrecciato alla civiltà, e che non c'è civiltà senza repressione. degli istinti, e dunque, in qualche misura, senza infelicità e senza nevrosi.

I punti più importanti messi in rilievo da Freud sono i seguenti. In primo luogo, egli dice, la vita umana in comune diviene possibile solo se si afferma una maggioranza più forte di ogni singolo e tale da restare unita contro ogni singolo. Il potere della comunità si oppone allora come ' diritto ' al potere del singolo, che viene condannato come 'forza bruta'. Non può esserci dubbio sul fatto che questa sostituzione del potere della comunità a quello del singolo è il passo decisivo verso la civiltà; ma è altrettanto certo che esso comporta una fortissima restrizione della libertà di cui il singolo godeva prima di entrare in una comunità

Restrizione della libertà primitiva significa naturalmente anche rinuncia pulsionale: una rinuncia che aumenta costantemente, man mano che la civiltà procede innanzi. La civiltà si costituisce infatti attraverso due tappe fondamentali, fra loro strettamente connesse: la formazione della famiglia e la costrizione al lavoro. La famiglia sorge perché l'uomo a un certo momento desidera tenere permanentemente presso di sé l'oggetto sessuale, cioè la femmina, e questa a sua volta desidera di non essere privata della parte da lei separatasi, cioè del figlio. Il costituirsi delle famiglie, e il costante ampliarsi del loro numero, comporta però la necessità di un sempre maggiore dominio sul mondo esterno, di uno sfruttamento sempre più intenso della natura attraverso il lavoro. Eros e Ananke sono dunque i progenitori della civiltà umana

Senonché, non è difficile capire che la famiglia (col suo carattere tendenzialmente monogamico), e il lavoro (con l'assorbimento, che esso richiede, di quantità sempre più elevate di libido) portano a gravi restrizioni della sessualità e a rinunce pulsionali sempre più consistenti. Sicché Freud non esita ad affermare che «la correlazione tra amore e civiltà cessa, nel corso dell'evoluzione, di essere univoca. Da un lato l'amore si oppone agli interessi della civiltà; dall'altro lato la civiltà minaccia l'amore con gravi restrizioni.» D'altro canto, il processo visto finora non produce soltanto, secondo Freud, una restrizione della vita sessuale, cioè una sua modificazione quantitativa, ma anche una sua modificazione qualitativa.

La scelta oggettuale dell'individuo sessualmente maturo ‑ egli dice ‑ viene ristretta al sesso opposto, e la maggior parte dei soddisfacimenti extragenitali sono proibiti come perversioni. La pretesa, evidente in queste proibizioni, di una vita sessuale di egual genere per tutti ignora le differenze nella costituzione sessuale innata e acquisita degli esseri umani e priva un considerevole numero di persone del godimento sessuale, diventando così fonte di grave ingiustizia.

Inoltre, anche dall'amore genitale eterosessuale, circoscritto dalle barriere della legittimità e della monogamia, e sempre più finalizzato alla propagazione della specie, viene bandita ogni idea di piacere fine a se stesso. Il risultato di tutto ciò è che la vita sessuale dell'uomo civile è seriamente danneggiata, al punto che, secondo Freud, «talora dà l'impressione di una funzione in via d'involuzione, simile in ciò ai denti e ai capelli, organi apparentemente anch'essi in via d'involuzione»

Da questo schema proposto da Freud per ricostruire le tappe essenziali (da un punto di vista psicologico‑istintuale) del processo di edificazione della civiltà (schema che abbiamo riassunto solo per sommi capi) risulta con chiarezza che per il fondatore della psicoanalisi non c'è civiltà senza ' disagio ', e che l'infelicità (dovuta alla rinuncia pulsionale) accompagna necessariamente la civiltà a ogni passo. Pretendere di abolire completamente l'infelicità è impossibile (anche se è possibile attenuarla con un atteggiamento più aperto e comprensivo verso le esigenze della sessualità). Perciò, egli dice, dovremo abituarci «all'idea che ci sono difficoltà inerenti all'essenza stessa della civiltà e che non cederanno di fronte ad alcun tentativo di riforma» ‑

D'altro canto, sarebbe sbagliato invocare contro tutto ciò il paradiso perduto dei primi uomini: l'uomo primordiale ignorava sì qualsiasi restrizione pulsionale, ma la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua; la sua libertà era sì assai grande, ma in gran parte priva di valore, perché egli non era in grado di difenderla. Inoltre, nella famiglia primigenia, solo il capo godeva della libertà pulsionale, mentre tutti gli altri vivevano in una condizione di repressione schiavistica.

Se è vero, quindi, che la civiltà si basa sulla rinuncia pulsionale, sul ' disagio ' e sull'infelicità, è vero anche che essa non ha alternative: questo infatti, e non altro, è il cammino, certo doloroso e drammatico, dell'uomo, che tuttavia gli permette di realizzare il proprio progresso culturale‑materiale, cioè di costituirsi in quanto uomo.

5.

Come abbiamo detto, l'ispirazione di Marcuse in Eros e civiltà è toto coelo diversa da quella di Freud. Marcuse prende sì le mosse dalla ricostruzione freudiana del processo di incivilimento, ma solo per sostenere una tesi radicalmente diversa, e per cambiare completamente di segno il discorso di Freud. Infatti, secondo Marcuse, il fondatore della psicoanalisi ha insistito unilateralmente sull'Ananke e sulla penuria (Lebensnot), cioè sul fatto che la lotta per l'esistenza si svolge in un mondo troppo povero e ostile perché i bisogni umani possano essere appagati senza continue limitazioni, rinuncie e differimenti.

Secondo Marcuse, questo argomento, che compare spesso sull'orizzonte della concezione freudiana, è fallace, in quanto attribuisce al fatto bruto della penuria quella che è invece la conseguenza di una specifica organizzazione sociale. Freud non vede che nel corso della civiltà la società è sempre stata organizzata in modo tale da non distribuire mai equamente la penuria, così come la conquista dei beni necessari alla vita non è mai stata organizzata con l'obiettivo di soddisfare nel modo migliore i bisogni degli individui.

Al contrario ‑ dice Marcuse ‑ la distribuzione della penuria come anche lo sforzo di superarla con il lavoro, sono stati imposti agli individui ‑ dapprima con la violenza pura, più tardi con un'utilizzazione più razionale del potere. Ma per quanto utile possa essere stata questa razionalità per il progresso dell'insieme, essa rimase una razionalità del dominio, e la graduale vittoria sulla penuria fu indissolubilmente legata agli interessi degli individui dominanti, e forgiata nei modi scelti da questi ultimi.

In altre parole, Freud, secondo Marcuse, ha scambiato una determinata società con la società, cioè non ha dato sufficiente importanza agli assetti socio‑politici che determinano l'organizzazione del lavoro e la distribuzione della ricchezza prodotta, e quindi non ha distinto fra dominio sociale ed esercizio razionale dell'autorità .

Non avendo visto ciò, Freud non ha visto nemmeno, secondo Marcuse, che i vari modi del dominio portano a forme storiche diverse del principio di realtà, e che, per esempio, una società nella quale tutti i membri lavorano normalmente per il proprio sostentamento rende necessari modi di repressione diversi da quelli di una società nella quale il lavoro rappresenta il settore esclusivo di un unico gruppo sociale. Analogamente, la repressione avrà una portata e un'intensità diverse a seconda che la produzione sia finalizzata al consumo individuale o al profitto, se prevalga la libera concorrenza o l'economia pianificata, se la proprietà sia privata o collettiva , ecc. Queste differenze incidono sul contenuto specifico del principio di realtà, perché ogni forma di tale principio deve essere disciplinata attraverso un sistema di istituzioni e di rapporti, dileggi e di valori che trasmettano e impongano la necessaria ' modificazione degli istinti '. Ecco perché il principio di realtà è diverso nelle diverse forme sociali. E se è vero, dice Marcuse, che ogni forma di tale principio esige sempre in qualche misura un controllo repressivo degli istinti, è vero anche che le istituzioni storiche specifiche e gli specifici interessi del dominio introducono controlli addizionali al di là e al di sopra di quelli indispensabili all'esistenza di una comunità civile. «Questi controlli addizionali ‑ precisa l'autore ‑ che provengono dalle specifiche istituzioni del dominio, costituiscono ciò che noi chiamiamo repressione addizionale»

In breve, Freud ha concepito il lavoro umano come qualcosa di metastorico, a prescindere dalle condizioni sociali e politiche in cui esso si svolge; non ha distinto fra repressione fondamentale o di base (connessa alla modificazione degli istinti e strettamente necessaria per il perpetuarsi della razza umana nella civiltà) e ' repressione addizionale ' (connessa alle restrizioni rese necessarie dal potere o dominio sociale). Perciò Freud non ha capito che sotto il dominio sociale il principio di realtà è diventato principio di prestazione '.

Marcuse dichiara di aver introdotto questo concetto ‑ ' principio di prestazione ' ‑ per dare rilievo al fatto che la società si stratifica secondo le prestazioni economiche dei suoi membri. Nella società contemporanea (industriale avanzata) il principio di prestazione ha assunto una forma particolare che incide profondamente sui caratteri e sull'organizzazione del lavoro:

Per la grande maggioranza della popolazione, la misura e il modo della soddisfazione sono determinati dal loro lavoro; ma questo lavoro è lavoro per un apparato che essi non controllano, che opera come un potere indipendente. A questo potere gli individui, se vogliono vivere, devono sottomettersi, ed esso diventa tanto più estraneo quanto più si specializza la divisione del lavoro. Gli uomini non vivono la loro vita, ma eseguono funzioni prestabilite; mentre lavorano, non soddisfano propri bisogni e proprie facoltà, ma lavorano in uno stato di alienazione 21.

Tale condizione acuisce drammaticamente il conflitto tra sessualità e civiltà, poiché, sotto il dominio del principio di prestazione, anima e corpo vengono ridotti a strumenti di lavoro alienato, e l'organismo umano deve rinunciare a essere quel soggetto‑oggetto libidico che esso originariamente è e desidera essere`. Per dire tutto in poche parole: a differenza di quanto ha creduto Freud, «il conflitto inconciliabile non si svolge tra lavoro (principio della realtà) ed Eros (principio del piacere), ma tra lavoro alienato (principio di prestazione) ed Eros»

Senonché, a veder bene, il lavoro alienato è per Marcuse, né più né meno, il lavoro quale si svolge nella società industriale avanzata. Infatti, quando deve spiegare in che cosa consista l'alienazione, egli non riesce a indicare altro che l'organizzazione industriale e burocraticorazionale del mondo moderno: «La meccanicità della linea di montaggio, la routine dell'ufficio, il rituale degli acquisti e delle vendite, sono staccati da ogni connessione con le potenzialità umane. I rapporti di lavoro sono diventati in ampia misura rapporti tra persone che non sono altro che oggetti intercambiabili di manipolazione scientifica e tecnica del rendimento» 31 Se l'alienazione consiste in ciò, allora si capisce bene come la soppressione dell'alienazione e del principio di prestazione sia possibile solo e soltanto con l'abolizione del lavoro (per lo meno quale lo conosciamo nelle società moderne).

Tale abolizione è però resa possibile, secondo Marcuse, dalla stessa società industriale, la quale, mentre ha edificato uno spaventoso sistema di dominio fondato sul principio di prestazione, ha posto le premesse per il suo superamento (qualora, naturalmente, il potere socio‑politico sia sottratto alle oligarchic e ai gruppi dominanti). Infatti, la civiltà industriale avanzata, con l'aumento vertiginoso della produttività e con la completa automazione dei processi produttivi, ha reso possibile una drastica diminuzione della giornata lavorativa e l'intercambiabilità delle funzioni nelle poche ore necessarie per il lavoro. In queste condizioni il quantitativo di energia istintuale richiesto dall'attività lavorativa può essere così esiguo da far crollare un vasto settore di limitazioni e modificazioni repressive. Di conseguenza, il rapporto antagonistico tra principio del piacere e principio della realtà può essere modificato a favore del primo; l'Eros e gli istinti di vita possono essere lasciati liberi in una misura che non ha precedenti 32•

In questa fase, Eros può celebrare i suoi trionfi, e la civiltà può identificarsi interamente con il piacere. Prometeo ‑ l'eroe della fatica, della produttività e del progresso per mezzo della repressione ‑ non è più il simbolo della società; il suo posto viene preso da Orfeo e Narciso. «Le immagini di Orfeo e di Narciso ‑ dice Marcuse ‑ riconciliano Eros e Thànatos. Esse rievocano l'esperienza di un mondo che non va dominato e controllato, ma liberato ‑ una libertà che scioglierà i freni alle forze di Eros, che ora sono legate nelle forme represse e pietrificate dell'uomo e della natura». Queste forze non produrranno più distruzione ma pace, non più terrore ma bellezza. I poeti ne hanno percepito la vera natura ricorrendo a immagini quali la redenzione del piacere, l'arresto del tempo, l'assorbimento della morte, il silenzio, il sonno, la notte, il paradiso. Baudelaire ha reso perfettamente l'immagine di un mondo siffatto in due splendidi versi: «Là, tout n'est qu'ordre et beauté, / Luxe, calme, et volupté»

L'esperienza orfica e narcisistica del mondo è dunque esattamente l'opposto del principio di prestazione. In essa il contrasto tra soggetto e oggetto viene superato; l'esistenza diventa appagamento che unisce uomo e natura, in modo tale che la realizzazione dell'uomo è al tempo stesso realizzazione, senza violenza, della natura. Marcuse traccia il seguente quadro:

Nel fatto che si parli ad essi, che siano amati e curati, gli alberi e i ruscelli e gli animali appaiono come quello che sono ‑ belli, non solo per coloro che parlano con essi e li guardano, ma in se stessi, 'oggettivamente'. «Le monde tend à la beauté». Nell'Eros orfico e narcisistico, questa tendenza si libera: gli oggetti della natura diventano liberi di essere ciò che sono. Ma per poter essere ciò che sono, devono dipendere dall'atteggiamento erotico: ricevono soltanto in questo il loro telos. Il canto di Orfeo placa il mondo animale, riconcilia il leone con l'agnello e il leone con l'uomo. Il mondo della natura è un mondo di oppressione, crudeltà e dolore, com'è il mondo umano; come quest'ultimo, esso aspetta la sua liberazione. Questa liberazione è l'opera di Eros. Il canto di Orfeo infrange la pietrificazione, fa muovere le foreste e le rocce ‑ ma le muove per farle partecipi della gioia

E' fin troppo evidente che in questa visione marcusiana di tipo idillico‑estetistico, nulla resta della concezione realistico‑pessimistica, e spesso drammatica, di Freud, circa il rapporto uomo‑natura e uomo‑uomo. Come è stato osservato, il valore della prassi umana per l'allargamento del dominio sul mondo e la dignità della ricerca scientifica vengono deliberatamente rifiutati da Marcuse, il quale propone, per un verso, un rapporto con la natura non più attivo ma contemplativo e, per un altro verso, una vita di agiata sensualità nella quale ogni attività è gioco. E forse superfluo rilevare il carattere nebuloso, utopico e improbabile dell'immagine di società proposta da Marcuse. «La nuova civiltà dell'Eros liberato ‑ è stato giustamente notato ‑ si presenta come una società apollinea, ma ciò non basta a specificarla. Col fatto di restituire all'uomo non già il valore dell'operosità, ma la libertà deIl'otium, essa finisce per venir descritta nei termini di un'apoteosi del tempo libero» Cioè finisce per essere solo un sentimento struggente di nostalgia per un (immaginario) paradiso perduto.