VENTITREESIMO QUADERNO

Critica letteraria

1977

Ritorno al De Sanctis. Cosa significa e cosa può e dovrebbe significare la parola d‘ordine di Giovanni Gentile: "Torniamo al De Sanctis!"? (cfr tra l‘altro il 1° numero del settimanale "Il Quadrivio"). Significa "tornare" meccanicamente ai concetti che il De Sanctis svolse intorno all‘arte e alla letteratura, o significa assumere verso l‘arte e la vita un atteggiamento simile a quello assunto dal De Sanctis ai suoi tempi? Posto questo atteggiamento come "esemplare", è da vedere: 1) in che sia consistita tale esemplarità; 2) quale atteggiamento sia oggi corrispondente, cioè quali interessi intellettuali e morali corrispondano oggi a quelli che dominarono l‘attività  del De Sanctis e le impressero una determinata direzione. Nè si può dire che la biografia del De Sanctis, pur essendo essenzialmente coerente, sia stata "rettilinea", come volgarmente s‘intende. Il De Sanctis, nell‘ultima fase della sua vita e della sua attività , rivolse la sua attenzione al romanzo "naturalista" o "verista" e questa forma di romanzo, nell‘Europa occidentale, fu l‘espressione "intellettualistica" del movimento più generale di "andare al popolo", di un populismo di alcuni gruppi intellettuali sullo scorcio del secolo scorso, dopo il tramonto della democrazia quarantottesca e l‘avvento di grandi masse operaie per lo sviluppo della grande industria urbana.

Del De Sanctis è da ricordare il saggio Scienza e Vita, il suo passaggio alla sinistra parlamentare, il suo timore di tentativi forcaioli velati da forme pompose ecc. Un giudizio del De Sanctis: "Manca la fibra perchè manca la fede. E manca la fede perchè manca la cultura". Ma cosa significa "cultura" in questo caso? Significa indubbiamente una coerente, unitaria e di diffusione nazionale "concezione della vita e dell‘uomo", una "religione laica", una filosofia che sia diventata appunto "cultura", cioè abbia generato un‘etica, un modo di vivere, una condotta civile e individuale. Ciò domandava innanzi tutto l‘unificazione della "classe colta", e in tal senso lavorò il De Sanctis con la fondazione del "Circolo filologico" che avrebbe dovuto determinare "l‘unione di tutti gli uomini colti e intelligenti" di Napoli, ma domandava specialmente un nuovo atteggiamento verso le classi popolari, un nuovo concetto di ciò che è "nazionale", diverso da quello della destra storica, più ampio, meno esclusivista, meno "poliziesco" per così dire. E‘ questo lato dell‘attività  del De Sanctis che occorrerebbe lumeggiare, questo elemento della sua attività  che d‘altronde non era nuovo ma rappresentava lo sviluppo di germi già  esistenti in tutta la sua carriera di letterato e di uomo politico.

1978

Una nota giovanile di Luigi Pirandello. Pubblicata dalla "Nuova Antologia" del 1° gennaio 1934 e scritta dal pirandello negli anni 1889-90, quando era studente a Bonn: "Noi lamentiamo che alla nostra letteratura manchi il dramma -- e sul riguardo si dicono tante cose e tante altre se ne propongono conforti, esortazioni, additamenti, progetti -- opera vana: il vero marcio non si vede e non si vuol vedere. Manca la concezione della vita e dell‘uomo. E pure noi abbiamo campo da dare all‘epica e al dramma. Arido stupido alessandrinismo, il nostro". Forse però questa nota del Pirandello non fa che riecheggiare discussioni di studenti tedeschi sulla necessità  generica di una Weltanschauung ed è più superficiale di quanto non paia. In ogni modo il Pirandello si è fatta una concezione della vita e dell‘uomo, ma essa è "individuale", incapace di diffusione nazionale-popolare, che però ha avuto una grande importanza "critica", di corrosione di un vecchio costume teatrale.

1979

Arte e lotta per una nuova civiltà. Il rapporto artistico mostra, specialmente nella filosofia della prassi, la fatua ingenuità  dei pappagalli che credono di possedere in poche formulette stereotipate, la chiave per aprire tutte le porte (queste chiavi si chiamano propriamente "grimaldelli"). Due scrittori possono rappresentare (esprimere) lo stesso momento storico-sociale, ma uno può essere artista e l‘altro un semplice untorello. Esaurire la quistione limitandosi a descrivere ciò che i due rappresentano o esprimono socialmente, cioè riassumendo, più o meno bene, le caratteristiche di un determinato momento storico-sociale, significa non sfiorare neppure il problema artistico. Tutto ciò può essere utile e necessario, anzi lo è certamente, ma in un altro campo: in quello della critica politica, della critica del costume, nella lotta per distruggere e superare certe correnti di sentimenti e credenze, certi atteggiamenti verso la vita e il mondo; non è critica e storia dell‘arte, e non può essere presentato come tale, pena il confusionismo e l‘arretramento o la stagnazione dei concetti scientifici, cioè appunto il non conseguimento dei fini inerenti alla lotta culturale. Un determinato momento storico-sociale non è mai omogeneo, anzi è ricco di contraddizioni. Esso acquista "personalità", è un "momento" dello svolgimento, per il fatto che una certa attività  fondamentale della vita vi predomina sulle altre,rappresenta una "punta" storica:ma ciò presuppone una gerarchia, un contrasto, una lotta. Dovrebbe rappresentare il momento dato, chi rappresenta questa attività  predominante, questa "punta" storica; ma come giudicare chi rappresenta le altre attività, gli altri elementi? Non sono "rappresentativi" anche questi? E non è "rappresentativo" del "momento" anche chi ne esprime gli elementi "reazionari" e anacronistici? Oppure sarà  da ritenersi rappresentativo chi esprimerà tutte le forze e gli elementi in contrasto e in lotta, cioè chi rappresenta le contraddizioni dell‘insieme storico-sociale? Si può anche pensare che una critica della civiltà  letteraria, una lotta per creare una nuova cultura, sia artistica nel senso che dalla nuova cultura nascerà  una nuova arte, ma ciò appare un sofisma. In ogni modo è forse partendo da tali presupposti che si può intendere meglio il rapporto De Sanctis-Croce e le polemiche sul contenuto e la forma.

La critica del De Sanctis è militante, non "frigidamente" estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della "struttura" delle opere; cioè della coerenza logica e storico-attuale delle masse di sentimenti rappresentati artisticamente sono legate a questa lotta culturale: proprio in ciò pare consista la profonda umanità e l‘umanesimo del De Sanctis, che rendono tanto simpatico anche oggi il critico. Piace sentire in lui il fervore appassionato dell‘uomo di parte che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde e non tenta neanche di nasconderli. Il Croce riesce a distinguere questi aspetti diversi del critico che nel De Sanctis erano organicamente uniti e fusi. Nel Croce vivono gli stessi motivi culturali che nel De Sanctis, ma nel periodo della loro espansione e del loro trionfo; continua la lotta, ma per un raffinamento della cultura (di una certa cultura) non per il suo diritto di vivere: la passione e il fervore romantico si sono composti nella serenità  superiore e nell‘indulgenza piena di bonomia. Ma anche nel Croce questa posizione non è permanente: subentra una fase in cui la serenità  e l‘indulgenza s‘incrinano e affiora l‘acrimonia e la collera a stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida e pertanto non confrontabile con quella del De Sanctis. Insomma, il tipo di critica letteraria propria della filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis, non dal Croce o da chiunque altro (meno che mai dal Carducci): in essa devono fondersi la lotta per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo con la critica estetica o puramente artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo. In un tempo recente alla fase De Sanctis ha corrisposto, su un piano subalterno, la fase della "Voce".

Il De Sanctis lottò per la creazione ex novo in Italia di un‘alta cultura nazionale, in opposizione ai vecchiumi tradizionali, la retorica e il gesuitismo (Guerrazzi e il padre Bresciani): la "Voce" lottò solo per la divulgazione, in uno strato intermedio, di quella stessa cultura, contro il provincialismo ecc. ecc.: la "Voce" fu un aspetto del crocismo militante, perchè volle democratizzare ciò che necessariamente era stato "aristocratico" nel De Sanctis e si era mantenuto "aristocratico" nel Croce. Il De Sanctis doveva formare uno Stato Maggiore culturale, la "Voce" volle estendere agli ufficiali subalterni lo stesso tono di civiltà  e perciò ebbe una funzione, lavorò nella sostanza e suscitò correnti artistiche, nel senso che aiutò molti a ritrovare se stessi, suscitò un maggior bisogno di interiorità  e di espressione sincera di essa, anche se dal movimento non fu espresso nessun grande artista.(Scritto da Raffaello Ramat nell‘"Italia Letteraria" del 4 febbraio 1934: "E‘ stato detto che per la storia della cultura a volte può maggiormente servire lo studio di uno scrittore minore che quello d‘un sommo; e in parte è pur vero: perchè se in questo -- nel sommo -- stravince l‘individuo, che finisce col non esser più di alcun tempo, e potrebbe darsi il caso -- come s‘è dato -- di attribuire al secolo qualità  proprie dell‘uomo; in quello, nel minore, pur che sia uno spirito attento e autocritico, è dato scorgere i momenti della dialettica di quella particolare cultura con chiarezza maggiore, in quanto non riescono, come nel sommo, a unificarsi"). Il problema qui accennato trova un riscontro per assurdo nell‘articolo di Alfredo Gargiulo Dalla cultura alla letteratura, nell‘"Italia Letteraria" del 6 aprile 1930 (sesto capitolo di uno studio panoramico intitolato 1900-1930 che sarà  probabilmente raccolto in volume e che occorrerà  tener presente per "I nipotini del padre Bresciani"). In questa serie di articoli il Gargiulo mostra il più completo esaurimento intellettuale (uno dei tanti giovani senza "maturità"): egli si è completamente incanagliato nella banda dell‘"Italia Letteraria" e nel capitolo citato assume come proprio questo giudizio espresso da G. B. Angioletti nella prefazione all‘antologia Scrittori Nuovi compilata da Enrico Falqui ed Elio Vittorini: "Gli scrittori di questa Antologia sono dunque nuovi non perchè abbiano trovato nuove forme o cantato nuovi soggetti, tutt‘altro; lo sono perchè hanno dell‘arte un‘idea diversa da quella degli scrittori che li precedettero. O, per venir subito all‘essenziale, perchè credono all‘arte, mentre quelli credevano a molte altre cose che con l‘arte nulla avevano a che vedere.

Tale novità , perciò, può consentire la forma tradizionale e il contenuto antico; ma non può consentire deviamenti dall‘idea essenziale dell‘arte. Quale possa essere questa idea, non è qui il luogo di ripetere. Ma mi sia consentito ricordare che gli scrittori nuovi, compiendo una rivoluzione (!) che per essere stata silenziosa (!) non sarà  meno memorabile (!), intendono di essere saprattutto artisti, laddove i loro predecessori si compiacevano di essere moralisti, predicatori, estetizzanti, psicologisti, edonisti, ecc.". Il discorso non è molto chiaro e ordinato: se qualcosa di concreto se ne può estrarre è la tendenza a un secentismo programmatico, niente altro. Questa concezione dell‘artista è un nuovo "guardarsi la lingua" nel parlare, è un nuovo modo di costruire "concettini". E puri costruttori di concettini, non di immagini, sono i più dei poeti esaltati dalla "banda", con a capo Giuseppe Ungaretti (che tra l‘altro scrive una lingua sufficientemente infranciosata e impropria). Il movimento della "Voce" non poteva creare artisti, ut sic, è evidente; ma lottando per una nuova cultura, per un nuovo modo di vivere, indirettamente promuoveva anche la formazione di temperamenti artistici originali, poichè nella vita c‘è anche l‘arte. La "rivoluzione silenziosa" di cui parla l‘Angioletti è stata solo una serie di confabulazioni da caffè e di mediocri articoli di giornale standardizzato e di rivistucole provinciali. La macchietta del "sacerdote dell‘arte" non è una grande novità  anche se muta il rituale.

1980

Una massima di Rivarol. "Per lodare un libro non è affatto necessario di aprirlo; ma, se si è deciso di criticarlo, è sempre prudente leggerlo.Almeno finchè l‘autore e vivo...".

1981

Alcuni criteri di giudizio "letterario". Un lavoro può essere pregevole: 1) Perchè espone una nuova scoperta che fa progredire una determinata attività  scientifica. Ma non solo l‘"originalità " assoluta è un pregio. Può infatti avvenire: 2) che fatti ed argomenti già  noti siano stati scelti e disposti secondo un ordine, una connessione, un criterio più adeguato e probante di quelli precedenti. La struttura (l‘economia, l‘ordine) di un lavoro scientifico può essere "originale" essa stessa. 3) I fatti e gli argomenti già  noti possono aver dato luogo a considerazioni "nuove", subordinate, ma tuttavia importanti.Il giudizio "letterario" deve, evidentemente, tener conto dei fini che un lavoro si è proposto: di creazione e riorganizzazione scientifica, di divulgazione dei fatti ed argomenti noti in un determinato gruppo culturale, di un determinato livello intellettuale e culturale ecc. Esiste perciò una tecnica della divulgazione che occorre adattare volta per volta e rielaborare: la divulgazione è un atto eminentemente pratico, in cui occorre esaminare la conformità  dei mezzi al fine, cioè appunto la tecnica adoperata. Ma anche l‘esame e il giudizio del fatto e dell‘argomentazione "originale", ossia dell‘"originalità " dei fatti (concetti-nessi di pensiero) e degli argomenti sono molto difficili e complessi e richiedono le più ampie cognizioni storiche.

E‘ da vedere nel capitolo dal Croce dedicato al Loria questo criterio: "Altro è metter fuori una osservazione incidentale, che si lascia poi cadere senza svolgerla, ed altro stabilire un principio di cui si sono scorte le feconde conseguenze; altro enunciare un pensiero generico ed astratto ed altro pensarlo realmente e in concreto; altro, finalmente, inventare, ed altro ripetere di seconda o di terza mano". Si presentano i casi estremi: di chi trova che non c‘è mai stato nulla di nuovo sotto il sole e che tutto il mondo è paese, anche nella sfera delle idee e di chi invece trova "originalità" a tutto spiano e pretende sia originale ogni rimasticatura per via della nuova saliva. Il fondamento di ogni attività  critica pertanto deve basarsi sulla capacità di scoprire la distinzione e le differenze al di sotto di ogni superficiale e apparente uniformità  e somiglianza, e l‘unità  essenziale al disotto di ogni apparente contrasto e differenziazione alla superficie. (Che occorra, nel giudicare un lavoro, tener conto del fine che l‘autore si propone esplicitamente, non significa certo perciò che debba essere sottaciuto o misconosciuto o svalutato un qualsiasi apporto reale dell‘autore, anche se in opposizione al fine proposto. Che Cristoforo Colombo si proponesse di andare "a la busca del Gran Khan", non sminuisce il valore del suo viaggio reale e delle sue reali scoperte per la civiltà  europea).

1982

Arte e cultura. Che si debba parlare, per essere esatti, di lotta per una "nuova cultura" e non per una "nuova arte" (in senso immediato) pare evidente. Forse non si può neanche dire, per essere esatti, che si lotta per un nuovo contenuto dell‘arte, perchè questo non può essere pensato astrattamente, separato dalla forma.Lottare per una nuova arte significherebbe lottare per creare nuovi artisti individuali, ciò che è assurdo, poichè non si possono creare artificiosamente gli artisti. Si deve parlare di lotta per una nuova cultura, cioè per una nuova vita morale che non può non essere intimamente legata a una nuova intuizione della vita, fino a che essa diventi un nuovo modo di sentire e di vedere la realtà  e quindi mondo intimamente connaturato con gli "artisti possibili" e con le "opere d‘arte possibili".

Che non si possa artificiosamente creare degli artisti individuali non significa quindi che il nuovo mondo culturale, per cui si lotta, suscitando passioni e calore di umanità, non susciti necessariamente "nuovi artisti"; non si può, cioè, dire che Tizio e Caio diventeranno artisti, ma si può affermare che dal movimento nasceranno nuovi artisti. Un nuovo gruppo sociale che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sè che prima non aveva, non può non suscitare dal suo intimo personalità  che prima non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente in un certo senso. Così non si può dire che si formerà  una nuova "aura poetica", secondo una frase che è stata di moda qualche anno fa. L‘"aura poetica" è solo una metafora per esprimere l‘insieme degli artisti già  formatisi e rivelatisi o almeno il processo iniziato e già  consolidato di formazione e rivelazione.

1983

Neolalismo. Il neolalismo come manifestazione patologica del linguaggio (vocabolario) individuale. Ma non si può impiegare il termine in senso più generale, per indicare tutta una serie di manifestazioni culturali, artistiche, intellettuali? Cosa sono tutte le scuole e scolette artistiche e letterarie se non manifestazioni di neolalismo culturale? Nei periodi di crisi si hanno le manifestazioni più estese e molteplici di neolalismo. La lingua e i linguaggi. Ogni espressione culturale ha una sua lingua storicamente determinata, ogni attività  morale e intellettuale: questa lingua è ciò che si chiama anche "tecnica" e anche "struttura". Se un letterato si mettesse a scrivere in un linguaggio personalmente arbitrario (cioè diventasse un "neolalico" nel senso patologico della parola) e fosse imitato da altri (ognuno con linguaggio arbitrario) si parlerebbe di Babele. La stessa impressione non si prova per il linguaggio (tecnica) musicale, pittorico, plastico ecc. (Questo punto è da meditare e approfondire). Dal punto di vista della storia della cultura, e quindi anche della "creazione" culturale (da non confondersi con la creazione artistica, ma da avvicinare invece alle attività  politiche, e infatti in questo senso si può parlare di una "politica culturale") tra l‘arte letteraria e le altre forme di espressione artistica (figurative, musicali, orchestriche ecc.) esiste una differenza che bisognerebbe definire e precisare in modo teoricamente giustificato e comprensibile. L‘espressione "verbale" ha un carattere strettamente nazionale-popolare-culturale: una poesia di Goethe, nell‘originale, può essere capita e rivissuta compiutamente solo da un tedesco (o da chi si è "intedescato").

Dante può essere capito e rivissuto solo da un italiano colto ecc. Una statua di Michelangelo, un brano musicale di Verdi, un balletto russo, un quadro di Raffaello ecc., possono invece essere capiti quasi immediatamente da qualsiasi cittadino del mondo, anche di spiriti non cosmopolitici, anche se non ha superato l‘angusta cerchia di una provincia del suo paese. Tuttavia la cosa non è così semplice come potrebbe credersi tenendosi alla buccia. L‘emozione artistica che un giapponese o un lappone prova dinanzi a una statua di Michelangelo o ascoltando una melodia di Verdi è certo un‘emozione artistica (lo stesso giapponese o lappone resterebbe insensibile e sordo se ascoltasse la declamazione di una poesia di Dante, di Goethe, di Shelley o ammirerebbe l‘arte del declamatore come tale); tuttavia l‘emozione artistica del giapponese o del lappone non sarà  della stessa intensità  e colore dell‘emozione di un italiano medio e tanto meno di un italiano colto. Ciò che significa che accanto o meglio al di sotto dell‘espressione di carattere cosmopolitico del linguaggio musicale, pittorico ecc., c‘è una più profonda sostanza culturale, più ristretta, più "nazionale-popolare".Non basta: i gradi di questo linguaggio sono diversi; c‘è un grado nazionale-popolare (e spesso prima di questo un grado provinciale-dialettale-folcloristico), poi il grado di una determinata "civiltà ", che può determinarsi empiricamente dalla tradizione religiosa (per esempio cristiana, ma distinta in cattolica, protestante, ortodossa ecc.) e anche, nel mondo moderno, di una determinata "corrente culturale-politica".

Durante la guerra, per esempio, un oratore inglese, francese, russo, poteva parlare a un pubblico italiano, nella sua lingua incompresa, delle devastazioni compiute dai tedeschi nel Belgio; se il pubblico simpatizzava con l‘oratore, il pubblico ascoltava attentamente e "seguiva" l‘oratore, si può dire che lo "comprendeva". E‘ vero che nell‘oratoria non è solo elemento la "parola": c‘è il gesto, il tono della voce ecc., cioè un elemento musicale che comunica il leitmotiv del sentimento predominante, della passione principale e l‘elemento orchestrico: il gesto in senso largo che scandisce e articola l‘onda sentimentale e passionale. Per stabilire una politica di cultura queste osservazioni sono indispensabili; per una politica di cultura delle masse popolari esse sono fondamentali. Ecco la ragione del "successo" internazionale del cinematografo modernamente e, prima, del melodramma e della musica in generale.

1984

Ricerca delle tendenze e degli interessi morali e intellettuali prevalenti tra i letterati. Per quali forme di attività  hanno "simpatia" i letterati italiani? Perchè l‘attività  economica, il lavoro come produzione individuale e di gruppo non li interessa? Se nelle opere d‘arte si tratta di argomento economico, e il momento della "direzione", del "dominio", del "comando" di un "eroe" sui produttori che interessa. Oppure interessa la generica produzione, il generico lavoro in quanto generico elemento della vita e della potenza nazionale, e quindi morivo di volate oratorie. La vita dei contadini occupa un maggior spazio nella letteratura, ma anche qui non come lavoro e fatica, ma dei contadini come "folclore", come pittoreschi rappresentanti di costumi e sentimenti curiosi e bizzarri: perciò la "contadina" ha ancora più spazio, coi suoi problemi sessuali nel loro aspetto più esterno e romantico e perchè la donna con la sua bellezza può facilmente salire ai ceti sociali superiori. Il lavoro dell‘impiegato è fonte inesausta di comicità: in ogni impiegato si vede l‘Oronzo E. Marginati del vecchio "Travaso". Il lavoro dell‘intellettuale occupa poco spazio, o è presentato nella sua espressione di "eroismo" e di "superumanismo", con l‘effetto comico che gli scrittori mediocri rappresentano "genii" della loro propria taglia e, si sa, se un uomo intelligente può fingersi sciocco, uno sciocco non può fingersi intelligente. Non si può certo imporre a una o a più generazioni di scrittori di aver "simpatia" per uno o altro aspetto della vita, ma che una o più generazioni di scrittori abbiano certi interessi intellettuali e morali e non altri ha pure un significato, indica che un certo indirizzo culturale predomina fra gli intellettuali. Anche il verismo italiano si distingue dalle correnti realistiche degli altri paesi, in quanto o si limita a descrivere la "bestialità " della così detta natura umana (un verismo in senso gretto) oppure rivolge la sua attenzione alla vita provinciale e regionale, a ciò che era l‘Italia reale in contrasto con l‘Italia "moderna" ufficiale: non offre apprezzabili rappresentazioni del lavoro e della fatica per gli intellettuali della tendenza verista la preoccupazione assillante non fu (come in Francia) di stabilire un contatto con le masse popolari già  "nazionalizzate" in senso unitario, ma di dare gli elementi da cui appariva che l‘Italia reale non era ancora unificata: del resto c‘è differenza tra il verismo degli scrittori settentrionali e di quelli meridionali (per esempio Verga, nel quale il sentimento unitario era molto forte, come appare dall‘atteggiamento assunto nel 1920 verso il movimento autonomista di "Sicilia Nuova").

Ma non basta che gli scrittori non ritengano degna di epos l‘attività  produttiva che pure rappresenta tutta la vita degli elementi attivi della popolazione: quando se ne occupano, il loro atteggiamento è quello del Padre Bresciani.(Sono da vedere gli scritti di Luigi Russo sul Verga e su G.C. Abba). G. C. Abba può essere citato come esempio italiano di scrittore "nazionale-popolare", pur non essendo "popolaresco" e non facendo parte di nessuna corrente che critichi per ragioni di partito o settarie la posizione della classe dirigente. Sono da analizzare non solo gli scritti dell‘Abba che hanno valore poetico, ma anche gli altri, come quello rivolto ai soldati, che fu premiato dalle autorità  governative e militari e per qualche tempo fu diffuso nell‘esercito. Nella stessa direzione è da ricordare il saggio del Papini pubblicato in "Lacerba" dopo gli avvenimenti del giugno 1914. La posizione di Alfredo Oriani è anche da rilevare, ma essa è troppo astratta e oratoria, e deturpata dal suo titanismo di genio incompreso. Qualcosa è notevole nell‘opera di Piero Jahier (ricordare le simpatie dello Jahier per il Proudhon), anche di carattere popolare-militare, mal condita però dallo stile biblico e claudelliano dello scrittore, che spesso lo rende meno efficace e indisponente, perchè maschera una forma snobistica di retorica. (Tutta la letteratura di Strapaese dovrebbe essere "nazionale-popolare" come programma, ma lo è appunto per programma, ciò che la ha resa una manifestazione deteriore della cultura: il Longanesi deve anche aver scritto un libriccino per le reclute, ciò che dimostra come le scarse tendenze nazionali-popolari nascano forse più che altro da preoccupazioni militari). La preoccupazione nazionale-popolare nell‘impostazione del problema critico-estetico e morale-culturale appare rilevante in Luigi Russo (del quale è da vedere il volumetto su i Narratori) come risultato di un "ritorno" alle esperienze del De Sanctis dopo il punto d‘arrivo del crocianesimo.E‘ da osservare che il brescianesimo in fondo è individualismo antistatale e antinazionale anche quando e quantunque si veli di nazionalismo e statalismo frenetico.

"Stato" significa specialmente direzione consapevole delle grandi moltitudini nazionali; è quindi necessario un "contatto" sentimentale e ideologico con tali moltitudini e, in una certa misura, simpatia e comprensione dei loro bisogni e delle loro esigenze. Ora, l‘assenza di una letteratura nazionale-popolare, dovuta all‘assenza di preoccupazioni e di interesse per questi bisogni ed esigenze, ha lasciato il "mercato" letterario aperto all‘influsso di gruppi intellettuali di altri paesi, che "popolari-nazionali" in patria, lo diventano in Italia perchè le esigenze e i bisogni che cercano soddisfare sono simili anche in Italia. Così il popolo italiano si è appassionato, attraverso il romanzo storico-popolare francese (e continua ad appassionarsi, come dimostrano anche i più recenti bollettini librari), alle tradizioni francesi, monarchiche e rivoluzionarie e conosce la figura popolaresca di Enrico IV più che quella di Garibaldi, la Rivoluzione del 1789 più che il Risorgimento, le invettive di Victor Hugo contro Napoleone III più che le invettive dei patrioti italiani contro Metternich; si appassiona per un passato non suo, si serve nel suo linguaggio e nel suo pensiero di metafore e di riferimenti culturali francesi ecc., è culturalmente più francese che italiano.Per l‘indirizzo nazionale-popolare dato dal De Sanctis alla sua attività  critica, è da vedere l‘opera di Luigi Russo: Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, 1860-1885, Ed. La Nuova Italia, 1928 e il saggio del De Sanctis La Scienza e la Vita. Si può forse dire che il De Sanctis abbia fortemente sentito il contrasto "Riforma- Rinascimento", cioè appunto il contrasto tra Vita e Scienza che era nella tradizione italiana come una debolezza della struttura nazionale-statale e abbia cercato di reagire contro di esso. Ecco perchè ad un certo punto si stacca dall‘idealismo speculativo e si avvicina al positivismo e al verismo (simpatie per Zola, come il Russo per Verga e Di Giacomo).

Come pare osservi il Russo nel suo libro (cfr la recensione di G. Marzot, nella "Nuova Italia" del maggio 1932) "il segreto dell‘efficacia di De Sanctis è tutto da cercare nella sua spiritualità  democratica, la quale lo fa sospettoso e nemico di ogni movimento o pensiero che assuma carattere assolutistico e privilegiato ...; e nella tendenza e nel bisogno di concepire lo studio come momento di un‘attività più vasta, sia spirituale che pratica, racchiusa nella formula di un suo famoso discorso La Scienza e la Vita". L‘antidemocrazia negli scrittori brescianeschi non ha nessun significato politicamente rilevante e coerente; è la forma di opposizione a ogni forma di movimento nazionale-popolare, determinato dallo spirito economico-corporativo di casta, di origine medioevale e feudale.

1985

I nipotini di padre Bresciani. Esame di una parte cospicua della letteratura narrativa italiana, specialmente degli ultimi decenni. La preistoria del brescianesimo moderno (del dopoguerra) può essere identificata in una serie di scrittori come: Antonio Beltramelli, con libri del tipo Gli Uomini Rossi, Il Cavalier Mostardo ecc.; Polifilo (Luca Beltrami), con le diverse rappresentazioni dei "popolari di Casate Olona"; ecc. La letteratura abbastanza folta e diffusa in certi ambienti e che ha un carattere più tecnicamente "sagrestano"; essa è poco conosciuta nell‘ambiente laico di cultura e per niente studiata. Il suo carattere tendenzioso e propagandistico è apertamente confessato: si tratta della "buona stampa". Tra la letteratura di sagrestia e il brescianesimo laico sta una corrente letteraria che negli ultimi anni si è molto sviluppata (gruppo cattolico fiorentino guidato da Giovanni Papini, ecc.): un esempio tipico di essa sono i romanzi di Giuseppe Molteni. Uno di questi, L‘Ateo, riflette il mostruoso scandalo Don Riva - suor Fumagalli in un modo ancor più mostruosamente aberrante: il Molteni giunge ad affermare che appunto per la sua qualità  di prete obbligato al celibato e alla castità  bisogna compatire Don Riva (che violentò e contagiò una trentina di fanciullette di pochi anni, offertegli dalla Fumagalli per tenerselo "fedele") e crede che a tale massacro possa essere contrapposto, come moralmente equivalente, il volgare adulterio di un avvocato ateo. Il Molteni era molto noto nel mondo letterario cattolico: è stato critico letterario e articolista di tutta una serie di quotidiani e periodici clericali, fra i quali l‘"Italia" e "Vita e Pensiero".

Il brescianesimo assume una certa importanza nel "laicato" letterario del dopoguerra e va sempre più diventano la "scuola" narrativa preminente e ufficiosa.Ugo Ojetti e il romanzo Mio figlio ferroviere.Caratteristiche generali della letteratura dell‘Ojetti e diversi atteggiamenti "ideologici" dell‘uomo. Scritti sull‘Ojetti di Giovanni Ansaldo che d‘altronde rassomiglia all‘Ojetti molto più di quanto potesse parere una volta. La manifestazione più caratteristica di Ugo Ojetti è la sua lettera aperta al padre Enrico Rosa, pubblicata nel "Pègaso" e riprodotta nella "Civiltà  Cattolica" con commento del Rosa. L‘Ojetti dopo l‘annunzio della avvenuta conciliazione tra Stato e Chiesa non solo era persuaso che ormai tutte le manifestazioni intellettuali italiane sarebbero state controllate secondo uno stretto conformismo cattolico e clericale, ma si era già  adattato a questa idea e si rivolse al padre Rosa con uno stile untuosamente adulatorio delle benemerenze culturali della Compagnia di Gesù per impetrare una "giusta" libertà  artistica. Non si può dire, alla luce degli avvenimenti posteriori (discorso alla Camera del Capo del Governo) se sia stata più abbietta la prostrazione dell‘Ojetti o più comica la sicura baldanza del padre Rosa che, in ogni caso, diede una lezione di carattere all‘Ojetti, s‘intende al modo dei gesuiti. L‘Ojetti è rappresentativo da più punti di vista: ma la codardia intellettuale dell‘uomo supera ogni misura normale.Alfredo Panzini: già  nella preistoria con qualche brano, per esempio, della Lanterna di Diogene (l‘episodio del "livido acciaro" vale un poema di comicità ), poi Il padrone sono me, Il mondo è rotondo e quasi tutti i suoi libri dalla guerra in poi. Nella Vita di Cavour è contenuto un accenno proprio al padre Bresciani, veramente strabiliante se non fosse sintomatico. Tutta la letteratura pseudo-storica del Panzini è da riesaminare dal punto di vista del brescianesimo laico. L‘episodio Croce-Panzini, riferito nella "Critica" è un caso di gesuitismo personale, oltre che letterario. Di Salvatore Gotta si può dire ciò che il Carducci scrisse del Rapisardi: "Oremus sull‘altare, e fatulenze in sacrestia"; tutta la sua produzione letteraria è brescianesca. Margherita Sarfatti e il suo romanzo Il Palazzone.

Nella recensione di Goffredo Bellonci pubblicata dall‘"Italia Letteraria" del 23 giugno 1929, si legge: "verissima quella timidezza della vergine che si ferma pudica innanzi al letto matrimoniale mentre pur sente che "esso è benigno e accogliente per le future giostre" ". Questa vergine pudica che sente con le espressioni tecniche dei novellieri licenziosi è impagabile: la vergine Fiorella avrà  presentito 0 anche le future "molte miglia" e il suo "pelliccione" ben scosso. Sul punto delle giostre ci sarebbe da fare qualche amena divagazione: si potrebbe ricordare l‘episodio leggendario su Dante e la meretricula, riportato nella raccolta Papini (Carabba) per dire che di "giostre" può parlar l‘uomo, non la donna; sarebbe anche da ricordare l‘espressione del cattolico Chesterton nella Nuova Gerusalemme sulla chiave e la serratura a proposito della lotta dei sessi, per dire che il punto di vista della chiave non può essere quello della serratura. (E‘ da rilevare come Goffredo Bellonci, che civetta volentieri con l‘erudizione "preziosa" -- a buon mercato -- per fare spicco nel giornalistume romano, trovi "vero" che una vergine pensi alle giostre).Mario Sobrero e il romanzo Pietro e Paolo può rientrare nel quadro generale del brescianesimo per il chiaroscuro.Francesco Perri e il romanzo Gli emigranti. Questo Perri non è poi Paolo Albatrelli dei Conquistatori? In ogni modo è da tener conto anche dei Conquistatori. Negli Emigranti il tratto più caratteristico è la rozzezza, ma non la rozzezza del principiante ingenuo che in tal caso potrebbe essere il grezzo non elaborato ma che lo può diventare: una rozzezza opaca, materiale, non da primitivo ma da rimbambito pretenzioso. Secondo il Perri il suo romanzo sarebbe "verista" ed egli sarebbe l‘iniziatore di una specie di neorealismo; ma può oggi esistere un verismo non storicistico? Il verismo stesso del secolo XIX è stato in fondo una continuazione del vecchio romanzo storico nell‘ambiente dello storicismo moderno.

Negli Emigranti manca ogni accenno cronologico e si capisce. Vi sono due riferimenti generici: uno al fenomeno dell‘emigrazione meridionale, che ha avuto un certo decorso storico e uno ai tentativi di invasione delle terre signorili "usurpate" al popolo che anche essi possono essere ricondotti a epoche ben determinate. Il fenomeno migratorio ha creato una ideologia (il mito dell‘America) che ha contrastato la vecchia ideologia alla quale erano legati i tentativi sporadici ma endemici di invasione delle terre, prima della guerra. Tutt‘altro è il movimento del 19-20 che è simultaneo e generalizzato ed ha una organizzazione implicita nel combattentismo meridionale. Negli Emigranti tutte queste distinzioni storiche, che sono essenziali per comprendere e rappresentare la vita del contadino, sono annullate e l‘insieme confuso si riflette in modo rozzo, brutale, senza elaborazione artistica. E‘ evidente che il Perri conosce l‘ambiente popolare calabrese non immediatamente, per esperienza propria sentimentale e psicologica, ma per il tramite di vecchi schemi regionalistici (se egli è l‘Albatrelli occorre tener conto delle sue origini politiche, mascherate da pseudonimi per non perdere, nel 1924, l‘impiego al Comune o alla Provincia di Milano). L‘occupazione (il tentativo di) a Pandure nasce da "intellettuali", su una base giuridica (nientemeno che le leggi eversive di G. Murat) e termina nel nulla, come se il fatto (che pure è verbalmente presentato come un‘emigrazione di popolo in massa) non avesse sfiorato neppure le abitudini di un villaggio patriarcale puro meccanismo di frasi. Così l‘emigrazione. Questo villaggio di Pandure, con la famiglia di Rocco Blèfari, è (per dirla con la parola di un altro calabrese dal carattere temprato come l‘acciaio, Leonida Rèpaci) un parafulmine di tutti i guai. Insistenza sugli errori di parola dei contadini, che è tipica del brescianesimo, se non dell‘imbecillità  letteraria in generale. Le "macchiette" (Il Galeoto ecc.), compassionevoli, senza arguzia e umorismo. L‘assenza di storicità  è "voluta" per poter mettere in un sacco alla rinfusa tutti i motivi folcloristici generici, che in realtà  sono molto ben distinti nel tempo e nello spazio. Leonida Rèpaci: nell‘Ultimo Cireneo è da smontare il congegno combinato in modo rivoltante; da vedere I fratelli Rupe che sarebbero i fratelli Rèpaci che pare siano stati da qualcuno paragonati ai Cairoli. Umberto Fracchia: da vedere specialmente: Angela Maria. (Nel quadro generale occupano il primo posto Ojetti-Beltramelli-Panzini; in essi il carattere gesuitesco- retorico è più appariscente, e più importante è il posto loro assegnato nelle valutazioni letterarie più correnti).

1986

Due generazioni. La vecchia generazione degli intellettuali è fallita, ma ha avuto una giovinezza (Papini, Prezzolini, Soffici, ecc.). La generazione attuale non ha neanche questa età delle brillanti promesse (Titta Rosa, Angioletti, Malaparte ecc.). Asini brutti anche da piccoletti.

1987

G. Papini. E‘ diventato il "pio autore" della "Civiltà  Cattolica".

1988

A. Panzini. Nell‘"Italia che scrive" del giugno 1929, Fernando Palazzi, recensendo I giorni del sole e del grano del Panzini, nota: "...soprattutto si occupa e si preoccupa della vita campestre come può occuparsene un padrone che vuol essere tranquillo sulle doti lavorative delle bestie da lavoro che possiede, sia di quelle quadrupedi, sia di quelle bipedi e che a veder un campo coltivato, pensa subito se il raccolto sarà quale spera". Panzini negriero, in una parola.

1989

Leonida Rèpaci. Nella sua novella "autobiografica", Crepuscolo ("Fiera Letteraria", 3 marzo 1929) scrive: "A quell‘epoca io già  schieravo dentro di me, fortificandole ogni giorno sulle ime radici dell‘istinto, quelle belle qualità  che più tardi, negli anni a venire, avrebbero fatto di me una centrale di guai: l‘amore dei vinti, degli offesi, degli umili, lo sprezzo del pericolo per la giusta causa, l‘indipendenza del carattere che palesa la rettitudine, l‘orgoglio matto che braveggia persino sulle rovine, ecc. ecc.". Quante belle qualità  ha poi perduto Leonida Rèpaci! Pare invece che fino dalla più tenera infanzia, per ottenere una lode letteraria del "Corriere della Sera", il Rèpaci sarebbe passato sul corpo di sua madre.

1990

Curzio Malaparte. Il suo vero nome è Kurt Erich Suckert, 3 italianizzato verso il 1924 in Malaparte per un bisticcio con i Buonaparte (cfr collezione della rivista "La Conquista dello Stato"). Nel primo dopoguerra sfoggiò il nome straniero. Appartenne all‘organizzazione di Guglielmo Lucidi che arieggiava al gruppo francese di "Clartè" di H. Barbusse e al gruppo inglese del "Controllo democratico"; nella collezione della rivista del Lucidi intitolata "Rassegna (o Rivista) Internazionale" pubblicò un libro di guerra La rivolta dei santi maledetti, una esaltazione del presunto atteggiamento disfattista dei soldati italiani a Caporetto, brescianescamente corretta in senso contrario nella edizione successiva e quindi ritirata dal commercio. Il carattere prevalente del Suckert è uno sfrenato arrivismo, una smisurata vanità  e uno snobismo camaleontesco: per aver successo il Suckert era capace di ogni scelleraggine. Suoi libri sull‘Italia barbara e sua esaltazione della "Controriforma"; niente di serio e di meno che superficiale. A proposito dell‘esibizione del nome straniero (che a un certo punto cozzava con gli accenni a un razzismo e popolarismo di princisbecco e fu perciò sostituito dallo pseudonimo, in cui Kurt -- Corrado --- viene latinizzato in Curzio) è da notare una corrente abbastanza diffusa in certi intellettuali italiani del tipo "moralisti" o moralizzatori: essi erano portati a ritenere che all‘estero si era più onesti, più capaci, più intelligenti che in Italia.

Questa "esteromania" assumeva forme tediose e talvolta repugnanti in tipi invertebrati come il Graziadei, ma era più diffusa che non si creda e dava luogo a pose snobistiche rivoltanti; è da ricordare il breve colloquio con Giuseppe Prezzolini a Roma nel 1924 e la sua esclamazione sconsolata: "Avrei dovuto procurare a tempo ai miei figli la nazionalità  inglese" o qualcosa di simile. Tale stato d‘animo pare non sia stato caratteristico solo di alcuni gruppi intellettuali italiani, ma si sia verificato, in certe epoche di avvilimento morale, anche in altri paesi. In ogni modo è un segno rilevante di assenza di spirito nazionale-popolare oltre che di stupidaggine. Si confonde tutto un popolo con alcuni strati corrotti di esso, specialmente della piccola borghesia (in realtà  poi questi signori, essi stessi, appartengono essenzialmente a questi strati) che nei paesi essenzialmente agricoli, arretrati civilmente e poveri, è molto diffusa e può paragonarsi al Lumpen-proletariat delle città  industriali; la camorra e la maffia non è altro che una simile forma di malavita che vive parassitariamente sui grandi proprietari e sul contadiname. I moralizzatori cadono nel pessimismo più scempio perchè le loro prediche lasciano il tempo che trovano; i tipi come Prezzolini, invece di concludere alla propria inettitudine organica, trovano più comodo giungere alla conclusione della inferiorità  di un intero popolo, per cui non rimane altro che accomodarsi: "Viva Franza, viva Lamagna, purchè se magna!" Questi uomini, anche se talvolta mostrano un nazionalismo dei più spinti, dovrebbero essere segnati dalla polizia tra gli elementi capaci di far la spia contro il proprio paese.

1991

Ugo Ojetti. Ricercare il giudizio brusco e tagliente datone dal Carducci.

1992

G. Papini. G. Papini, quando voleva far venire i vermi ai filistei italiani, nel 1912-13, scrisse in "Lacerba", l‘articolo Gesù Peccatore, sofistica raccolta di aneddoti e di sforzate congetture tratte dagli Evangeli apocrifi. per questo articolo pareva dovesse subire un‘azione giudiziaria, con grande suo spavento. Aveva sostenuto come plausibile e probabile l‘ipotesi di rapporti omosessuali tra Gesù e Giovanni. Nel suo articolo su Cristo romano, nel volume Gli operai della vigna, con gli stessi procedimenti critici e lo stesso "vigore" intellettuale, sostiene che Cesare è un precursore di Cristo, fatto nascere a Roma dalla Provvidenza per preparare il terreno al cristianesimo. In un terzo periodo è probabile che il Papini, impiegando le geniali illuminazioni critiche che caratterizzano A. Loria, giunga a concludere della necessità  di rapporti tra il cristianesimo e l‘inversione.

1993

Filippo Crispolti. In un articolo pubblicato nel "Momento" del giugno 1928 (prima quindicina, pare, perchè riportato in estratto dalla "Fiera Letteraria" dopo questo periodo) Filippo Crispolti ha raccontato come qualmente, quando nel 1906 si pensò in Isvezia di dare il premio Nobel a Giosuè Carducci, nacque il dubbio che un simile attestato di ammirazione al cantore di Satana potesse suscitare scandalo tra i cattolici: furono chieste pertanto informazioni al Crispolti che le dette per lettera e in un colloquio col ministro svedese a Roma, De Bildt. Le informazioni del Crispolti furono favorevoli. Così, il premio Nobel al Carducci sarebbe stato dato da nessun altro che da Filippo Crispolti.

1994

"Arte Cattolica". Edoardo Fenu, in un articolo Domande su un‘arte cattolica pubblicato nell‘"Avvenire d‘Italia" e riassunto nella "Fiera Letteraria" del 15 gennaio 1928, rimprovera a "quasi tutti gli scrittori cattolici" il tono apologetico. "Ora la difesa (!) della fede deve scaturire dai fatti, dal processo critico (!) e naturale del racconto, deve cioè essere, manzonianamente, il "sugo" dell‘arte stessa. E‘ evidente (!) che uno scrittore cattolico Per davvero (!), non andrà  mai a battere la fronte contro le pareti opache (!) dell‘eresia, morale o religiosa. Un cattolico, per il solo fatto (!) di essere tale, è già  investito (! dal di fuori?) di quello spirito semplice e profondo che, trasfondendosi nelle pagine ai un racconto o di una poesia, farà  della sua (!) un‘arte schietta, serena, nient‘affatto pedante. E‘ dunque (!) perfettamente inutile intrattenersi a ogni svolto di pagina a farci capire che lo scrittore ha una strada da farci percorrere, ha una luce per illuminarci. L‘arte cattolica dovrà  (!) mettersi in grado di essere essa medesima quella strada e quella luce, senza smarrirsi nella fungaia (solo le lumache si possono smarrire nelle fungaie) degli inutili predicozzi e degli oziosi avvertimenti". (In letteratura) "... se ne togli pochi nomi, Papini, Giuliotti, e in certo senso anche Manacorda, il bilancio è pressochè fallimentare. Scuole?... ne verbum quidem. Scrittori? Sì; a voler essere di manica larga si potrebbe tirar fuori qualche nome, ma quanto fiato per trarlo cogli argani! A meno che non si voglia patentare per cattolico il Gotta, o dar la qualifica di romanziere al Gennari, o battere un applauso a quella caterva innumere di profumati e agghindati scrittori e scrittrici per "signorine"".

Molte contraddizioni, improprietà  e ingenuità  melense nell‘articolo del Fenu. Ma la conclusione implicita è giusta: il cattolicismo è sterile per l‘arte, cioè non esistono e non possono esistere "anime semplici e sincere" che siano scrittori colti e artisti raffinati e disciplinati. Il cattolicismo è diventato, per gli intellettuali, una cosa molto difficile, che non può fare a meno, anche nel proprio intimo, di una apologetica minuziosa e pedantesca. Il fatto è già  antico: risale al Concilio di Trento e alla Controriforma. "Scrivere", d‘allora in poi, è diventato pericoloso, specialmente di cose e sentimenti religiosi. Da allora la chiesa ha adoperato un doppio metro, per misurare l‘ortodossia: essere "cattolici" è diventato cosa facilissima e difficilissima nello stesso tempo. E‘ cosa facilissima per il popolo, al quale non si domanda che di "credere" genericamente e di avere ossequio per le pratiche del culto: nessuna lotta effettiva ed efficace contro la superstizione, contro le deviazioni intellettuali e morali, purchè non siano "teorizzate". In realtà  un contadino cattolico intellettualmente può essere inconscio protestante, ortodosso, idolatra: basta che dica di essere "cattolico". Anche agli intellettuali non si domanda molto, se si limitano alle esteriori pratiche del culto; non si domanda neanche di credere, ma solo di non dare cattivo esempio, trascurando i "sacramenti" specialmente quelli più visibili e sui quali cade il controllo popolare: il battesimo, il matrimonio, i funerali (il viatico ecc.). E‘ invece difficilissimo essere intellettuale attivo "cattolico" e artista "cattolico" (romanziere specialmente e anche poeta), perchè si domanda un tale corredo di nozioni su encicliche, controencicliche, brevi, lettere apostoliche ecc., e le deviazioni dall‘indirizzo ortodosso chiesastico sono state nella storia tante e così sottili che cadere nell‘eresia o nella mezza eresia o in un quarto di eresia è cosa facilissima.

Il sentimento religioso schietto è stato disseccato: occorre essere dottrinari per scrivere "ortodossamente". Perciò nell‘arte la religione non è più un sentimento nativo, è un motivo, uno spunto. E la letteratura cattolica può avere dei padri Bresciani e degli Ugo Mioni, non può avere più un S. Francesco, un Passavanti, un Tommaso da Kempis; può essere "milizia", propaganda, agitazione, non più ingenua effusione di fede che non è incontrastata, ma polemizzata, anche nell‘intimo di quelli che sono sinceramente cattolici. L‘esempio del Manzoni può essere portato a prova: quanti articoli sul Manzoni ha pubblicato la "Civiltà  Cattolica" nel suoi 84 anni di vita e quanti su Dante? In realtà  i cattolici più ortodossi diffidano del Manzoni e ne parlano il meno che possono: certo non lo analizzano come fanno per Dante e qualche altro.

1995

Tommaso Gallarati Scotti. Nella sua raccolta di novelle Storie dell‘Amor Sacro e dell‘Amor Profano è da ricordare il racconto in cui si parla del corpo di una prostituta saracena portato nell‘Italia Meridionale da un barone crociato e che la popolazione adora come la reliquia di una santa: sono sbalorditive le considerazioni del Gallarati Scotti, che pure è stato un "modernista" antigesuita. Tutto ciò dopo la novella boccaccesca di frate Cipolla e il romanzo del portoghese Eça de Queiroz La Reliquia, tradotto da L. Siciliani (ed.Rocco Carabba, Lanciano) e che è una derivazione del Cipolla boccaccesco. I Bollandisti sono rispettabili, perchè almeno hanno contribuito a estirpare qualche radice di superstizione (sebbene le loro ricerche rimangano chiuse in una cerchia molto ristretta e servano più che altro per far credere agli intellettuali che la chiesa combatte le falsificazioni storiche, l‘estetismo gesuitico-folcloristico del Gallarati Scotti è rivoltante.

E‘ da ricordare il dialogo riferito nelle Memorie di W. Steed tra un giovane protestante e un Cardinale a proposito di S. Gennaro e la noticina di B. Croce a una lettera di G. Sorel a proposito di una sua conversazione con un prete napoletano sul sangue di S. Gennaro (a Napoli esistono, pare, altri tre o quattro sangui che bollono "miracolosamente" ma che non sono "sfruttati" per non screditare quello popolarissimo di S. Gennaro). La figura letteraria del Gallarati Scotti entra di scorcio fra i nipotini di padre Bresciani.

1996

Adelchi Baratono. Ha scritto nel II fascicolo della rivista "Glossa perenne" (che era diretta da Raffa Garzia e iniziò a pubblicarsi nel 1928 o 29) un articolo sul Novecentismo che deve essere ricchissimo di spunti "sfottendi". Tra l‘altro: "L‘arte e la letteratura di un tempo non può e non dev‘essere (!) che quella corrispondente alla vita (!) e al gusto del tempo, e tutte le deplorazioni, come non servirebbero a mutarne l‘ispirazione e la forma, così sarebbero anche contrarie a ogni criterio (!) storico (!) e quindi giusto (?) di giudicare". Ma la vita e il gusto di un tempo sono qualcosa di monolitico o non sono invece pieni di contraddizioni? E allora come si verifica la "corrispondenza"? Il periodo del Risorgimento era "corrisposto" dal Berchet o dal padre Bresciani? La deplorazione lamentosa e moralistica sarebbe certo scema, ma si può fare la critica e giudicare senza piangere. Il De Sanctis era un fautore deciso della rivoluzione nazionale, tuttavia seppe giudicare brillantemente il Guerrazzi e non solo il Bresciani. L‘agnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile. Se fosse vero che un giudizio di merito sui contemporanei è impossibile per difetto di obbiettività e universalità, la critica dovrebbe chiudere bottega; ma Baratono teorizza solo la propria impotenza estetica e filosofica e la propria coniglieria.

1997

Maddalena Santoro: L‘amore ai forti, Romanzo, Bemporad, 1908 (ultrabrescianesco).

1998

Curzio Malaparte. Vedi nell‘"Italia Letteraria" del 3 gennaio 1932 l‘articolo di Malaparte: Analisi cinica dell‘Europa. Negli ultimi giorni del 1931 nei locali dell‘"Ecole de la Paix" a Parigi, l‘ex Presidente Herriot tenne un discorso sui mezzi migliori per organizzare la pace europea. Dopo Herriot parlò il Malaparte in contradditorio: "Siccome anche voi, sotto certi aspetti (sic), siete un rivoluzionario, dissi tra l‘altro a Herriot (scrive Malaparte nel suo articolo), penso che siate in grado di capire che il problema della pace dovrebbe essere considerato non solo dal punto di vista del pacifismo accademico, ma anche da un punto di vista rivoluzionario. Soltanto lo spirito patriottico e lo spirito rivoluzionario (se è vero, come è vero, ad esempio, nel fascismo, che l‘uno non esclude l‘altro) possono suggerire i mezzi di assicurare la pace europea. -- Io non sono un rivoluzionario, mi rispose Herriot; sono semplicemente un cartesiano. Ma voi, caro Malaparte, non siete che un patriota". Così, per Malaparte, anche Herriot è un rivoluzionario, almeno per certi aspetti, e allora diventa ancor più difficile comprendere cosa significa "rivoluzionario" e per Malaparte e in generale. Se nel linguaggio comune di certi gruppi politici, rivoluzionario stava assumendo sempre più il significato di "attivista", di "interventista", di "volontarista", di "dinamico" è difficile dire come Herriot possa esserne qualificato e perciò Herriot con spirito ha risposto di essere un "cartesiano". Per Malaparte pare possa intendersi che "rivoluzionario" è diventato un complimento, come una volta "gentiluomo" o "grande galantuomo" o "vero galantuomo" ecc. Anche questo è brescianesimo: dopo il 48 i gesuiti chiamavano se stessi "veri liberali" e i liberali, libertini e demagoghi.

1999

Giovanni Ansaldo. In un posticino a parte, nella rubrica dei "Nipotini del padre Bresciani" deve essere inserito anche Giovanni Ansaldo. E‘ da ricordare il suo dilettantismo politico-letterario, che gli fece sostenere, in un certo periodo, la necessità  di "essere in pochi", di costituire un‘"aristocrazia": il suo atteggiamento era banalmente snobistico più che espressione di un fermo convincimento etico-politico, un modo di fare della letteratura "distinta", da salotto equivoco. Così l‘Ansaldo è divenuto la "Stelletta nera" del "Lavoro", stelletta con cinque punte, da non confondersi con quella che nei "Problemi del Lavoro" serve a indicare Franz Weiss e che ha sei punte (che l‘Ansaldo ci tenga alle sue cinque punte appare dall‘Almanacco delle Muse del 1931, rubrica genovese; l‘Almanacco delle Muse fu pubblicato dall‘Alleanza del Libro. Per l‘Ansaldo tutto diventa eleganza culturale e letteraria: l‘erudizione, la precisione, l‘olio di ricino, il bastone, il pugnale; la morale non è serietà  morale ma eleganza, fiore all‘occhiello. Anche questo atteggiamento è gesuitico, è una forma di culto del proprio particulare nell‘ordine dell‘intelligenza, una esteriorità  da sepolcro imbiancato. Del resto, come dimenticare che appunto i gesuiti sono sempre stati maestri di "eleganza" (gesuitica) di stile e di lingua?

2000

Giuseppe Prezzolini. Articolo di Prezzolini: Monti, Pellico, Manzoni, Foscolo veduti da viaggiatori americani, pubblicato nel "Pègaso" (di Ojetti) del maggio 1932. Prezzolini riferisce un brano del critico d‘arte americano H. Y. Tuckermann (The Italian Sketch- Book, 1848, p. 123): "Alcuni dei giovani elementi liberali, in Italia, si dimostrano assai disillusi perchè uno, il quale stava per diventare un martire della loro causa, si sia voltato invece alla devozione, e si mostrano spiacenti che egli abbia ad impiegar la sua penna per scrivere inni cattolici e odi religiose; e commenta: "Il dispetto che i più accesi provavano per non aver trovato in Pellico uno strumento di piccola polemica politica, è dipinto in queste "osservazioni"". Perchè si dovesse trattare di meschino "dispetto" e perchè, prima del 48, la polemica contro le persecuzioni austriache e clericali dovesse esser "piccola" è appunto un mistero "profano" della mentalità brescianesca.

2001

Letteratura di guerra. Quali riflessi ha avuto la tendenza "brescianistica" nella letteratura di guerra? La guerra ha costretto i diversi strati sociali ad avvicinarsi, a conoscersi, ad apprezzarsi reciprocamente nella comune sofferenza e nella comune resistenza in forme di vita eccezionali che determinavano una maggiore sincerità  e un più approssimato avvicinarsi all‘umanità "biologicamente" intesa. Cosa hanno imparato dalla guerra i letterati? E in generale cosa hanno imparato dalla guerra quei ceti da cui normalmente sorgono in maggior numero gli scrittori e gli intellettuali? Sono da seguire due linee di ricerca:

1) Quella riguardante lo strato sociale, ed essa è già  stata esplorata per molti aspetti dal prof. Adolfo Omodeo nella serie di capitoli Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti, usciti nella "Critica" e poi raccolti in volume . La raccolta dell‘Omodeo presenta un materiale già  selezionato, secondo una tendenza che si può anche chiamare nazionale-popolare, perchè l‘Omodeo implicitamente si propone di dimostrare come già  nel 1915 esistesse robusta una coscienza nazionale-popolare, che ebbe modo di manifestarsi nel tormento della guerra, coscienza formata dalla tradizione liberale democratica; e quindi mostrare assurda ogni pretesa dei palingenesi in questo senso nel dopo guerra. Che l‘Omodeo riesca ad assolvere il suo compito di critico è altra quistione; intanto l‘Omodeo ha una concezione di ciò che è nazionale-popolare troppo angusta e meschina, le cui origini culturali sono facili da rintracciare; egli è un epigono della tradizione moderata, con in più un certo tono democratico o meglio popolaresco che non sa liberarsi da forti striature "borbonizzanti". In realtà  la quistione di una coscienza nazionale-popolare non si pone per l‘Omodeo come quistione di un intimo legame di solidarietà  democratica tra intellettuali-dirigenti e masse popolari, ma come quistione di intimità  delle singole coscienze individuali che hanno raggiunto un certo livello di nobile disinteresse nazionale e di spirito di sacrifizio. Siamo così ancora al punto dell‘esaltazione del "volontarismo" morale, e della concezione di èlites che si esauriscono in se stesse e non si pongono il problema di essere organicamente legate alle grandi masse nazionali.

2) La letteratura di guerra propriamente detta, cioè dovuta a scrittori "professionali" che scrivevano per essere pubblicati, ha avuto in Italia varia fortuna. Subito dopo l‘armistizio è stata molto scarsa e di poco valore: ha cercato la sua fonte d‘ispirazione nel Feu di Barbusse.E‘ molto interessante da studiare Il diario di guerra di B. Mussolini per trovarvi le tracce dell‘ordine di pensieri politici, veramente nazionali-popolari, che avevano formato, anni prima, la sostanza ideale del movimento che ebbe come manifestazioni culminanti il processo per l‘eccidio di Roccagorga e gli avvenimenti del giugno 1914. Si è poi avuta una seconda ondata di letteratura di guerra, che ha coinciso con un movimento europeo in questo senso, prodottosi dopo il successo internazionale del libro del Remarque e col proposito prevalente di arginare la mentalità  pacifista alla Remarque. Questa letteratura è generalmente mediocre, sia come arte, sia come livello culturale, cioè come creazione pratica di "masse di sentimenti e di emozioni" da imporre al popolo. Molta di questa letteratura rientra perfettamente nel tipo "brescianesco". Esempio caratteristico il libro di C. Malaparte La rivolta dei santi maledetti a cui si è già  accennato. E‘ da vedere l‘apporto a questa letteratura del gruppo di scrittori che sogliono essere chiamati "vociani" e che già  prima del 1914 lavoravano con concordia discorde per elaborare una coscienza nazionale-popolare moderna. Dai "minori" di questo gruppo sono stati scritti i libri migliori, per esempio quelli di Giani Stuparich. I libri di Ardengo Soffici sono intimamente repugnanti, per una nuova forma di rettoricume peggiore di quella tradizionale. Una rassegna della letteratura di guerra sotto la rubrica del brescianesimo è necessaria.

2002

Leonida Rèpaci. E‘ uscito il primo volume di un romanzo così detto "ciclico" di Leonida Rèpaci I fratelli Rupe (Milano, Ceschina, 1932, L.15) che, nel suo complesso dovrebbe rappresentare lo sviluppo della vita italiana, nel primo trentennio del secolo, visto dalla Calabria (nella prefazione il Rèpaci presenta il piano dell‘opera). A parte la gagliofferia morale del titolo, è da domandarsi se la Calabria abbia avuto in questo tempo una funzione nazionale rappresentativa e in generale se in Italia la provincia abbia avuto una funzione progressiva o qualunque altra funzione, nel dirigere un qualsiasi movimento nel paese, nel selezionare i dirigenti, nel rinfrescare l‘ambiente chiuso, rarefatto o corrotto dei grandi centri urbani della vita nazionale. In realtà  la provincia (e specialmente nel Mezzogiorno) era, come dirigenti, molto più corrotta del centro (nel Mezzogiorno le masse popolari domandavano dirigenti del Settentrione per i loro istituti economici) e i provinciali inurbati, troppo spesso, apportavano una nuova corruzione, sotto forma di pagliettismo meschino e di mania di bassi intrighi. Un esempio caratteristico di ciò sono stati proprio i fratelli Rèpaci, emigrati da Palmi a Torino e a Milano. I fratelli Rupe, si capisce, sono i fratelli Rèpaci; ma, se si eccettua Mariano, dov‘è il carattere rupestre degli altri, di Ciccio e di Leonida? Il carattere "ricotta e fango" prevale, con la gagliofferia morale di pretendersi "rupe", niente di meno.

E‘ da osservare che il "Rèpaci Leonida" manca di ogni fantasia inventiva, per non parlare di quella creatrice; ha solo una certa mediocre disposizione ad ampliare meccanicamente (per aggregazione, per inflazione, per "sincretismo") la serie di fatterelli "drammatici" in tono minore, che caratterizzano la storia aneddotica della maggioranza delle famiglie piccolo-borghesi italiane (specialmente meridionali) in questo inizio di secolo, e che hanno caratterizzato anche la famiglia Rèpaci, assunta da Leonida a sostanza mitologica della propria "scritturazione". Questo processo di gonfiamento meccanico può essere dimostrato analiticamente. Ed è poi una strana mitologia quella del Rèpaci, priva di umanità  seria e pudica di se stessa, priva di dignità , di decoro, per non parlare della grandezza etica; l‘impudicizia da puttanella di infimo ordine, è la caratteristica di Leonida nei riguardi dei suoi famigliari. L‘Ultimo Cireneo, con le disgustose scene del dibattersi osceno di suo fratello Ciccio, divenuto impotente non per invalidità  di guerra, ma per cause fisiologiche forse di origine luetica (Ciccio non arrivò al fronte e le sue prodezze militari sono quelle di Leonida che fu uomo coraggioso e ardito prima di impoltronirsi nella vanità  letteraria) mostra di quale tempera sia l‘umanità  di Leonida (anche nei Fratelli Rupe c‘è un impotente), il quale, si direbbe, è capace di attristarsi che nella sua famiglia non ci sia stato un incesto per poter scrivere un romanzo e dire che i "Rupe" hanno conosciuto tutte le tragedie, anche quella di Fedra e di Edipo.

2003

Arnaldo Frateili. E‘ il critico letterario della "Tribuna" e appartiene alla schiera intellettuale dei Forges che isterilisce la terra ove pone piede. Ha scritto un romanzo Capogiro (Milano, Bompiani, 1932). Frateili: si presenta alla fantasia come appare in una caricatura-ritratto pubblicata dall‘"Italia Letteraria": una faccia da fesso pretenzioso con la goccetta al naso. Prende tabacco il Frateili? Ha il cimurro il Frateili? Perchè quella goccetta? Si tratta di un errore "zincografico"? di un colpo di matita fuori programma? E perchè allora il disegnatore non ha cancellato la goccetta? Problemi angosciosi: i soli che si pongono a proposito del Frateili.

2004

Letteratura di guerra. Vedere il cap. IX: "Guerre et Littèrature" del volume di B. Cremieux sulla Littèrature Italienne (ed. Kra, 1928, pp. 243 sgg.). Per il Cremieux la letteratura italiana di guerra segna una scoperta del popolo da parte dei letterati. Ma il Cremieux esagera! Tuttavia il capitolo è interessante e da rileggere. D‘altronde anche l‘America è stata scoperta dall‘italiano Colombo e colonizzata da Spagnoli e Anglosassoni.

2005

Novecentismo di Bontempelli. Il manifesto scritto da Bontempelli per la rivista "900" non è altro che l‘articolo di G. Prezzolini Viva l‘artificio! pubblicato nel 1915 e ristampato a pagina 51 e sgg. della raccolta Mi pare... (Fiume, Edizioni Delta, 192 5). Il Bontempelli non ha fatto che svolgere e illanguidire, meccanizzandoli, una serie di spunti contenuti nell‘articolo del Prezzolini. La commedia Nostra Dea del 1925 è una meccanica estensione delle parole del Prezzolini stampate a p. 56 di Mi pare... E‘ da rilevare che l‘articolo del Prezzolini è molto goffo e pedantesco: risente dello sforzo fatto dall‘autore, dopo l‘esperienza di "Lacerba" per diventare più "leggero e brioso": ciò che potrebbe essere espresso in un epigramma viene masticato e insalivato con molte smorfie tediose. Bontempelli imita la goffaggine, moltiplicandola. Un epigramma diventa in Prezzolini un articolo e in Bontempelli un volume.

2006

Novecentisti e strapaesani. Il Barocco e l‘Arcadia adattati ai tempi moderni. (Il solito Malaparte che fu redattore capo del "900" di Bontempelli, divenne poco dopo il "caposcuola" degli strapaesani e il calabrone punzecchiatore di Bontempelli).

2007

Prezzolini. Il Codice della Vita italiana (Editrice la S. A. "La Voce", Firenze, 1921 ) conchiude il periodo originario e originale dell‘attività  del Prezzolini, dello scrittore moralista sempre in campagna per rinnovare e ammodernare la cultura italiana. Subito dopo, Prezzolini "entra in crisi", con alti 6 e bassi curiosissimi, fino a imbrancarsi nella corrente tradizionale e a lodare ciò che aveva vituperato. Un momento della crisi è rappresentato dalla lettera scritta nel 1923 a P. Gobetti, Per una società  degli Apoti, ristampata nel volumetto Mi pare... Il Prezzolini sente che la sua posizione di "spettatore" è "un po‘, un pochino (!), vigliacca". "Non sarebbe nostro dovere di prender parte? Non c‘è qualche cosa di uggioso (!), di antipatico (!), di mesto (!), nello spettacolo di questi giovani ... che stanno (quasi tutti) fuori della lotta, guardando i combattenti e domandandosi soltanto come si danno i colpi e perchè e per come?" Trova una soluzione, molto comoda: "Il nostro compito, la nostra utilità , per il momento presente ed anche ... per le contese stesse che ora dividono e operano, per il travaglio stesso nel quale si prepara il mondo di domani, non può essere che quello al quale ci siamo messi e cioè di chiarire delle idee, di far risaltare dei valori, di salvare, sopra le lotte, un patrimonio ideale, perchè possa tornare a dare frutti nei tempi futuri". Il modo di vedere la situazione è strabiliante: "Il momento che si traversa è talmente credulo (!), fanatico, partigiano, che un fermento di critica, un elemento di pensiero (!), un nucleo di gente che guardi sopra agli interessi, non può che fare del bene.

Non vediamo tanti dei migliori accecati? Oggi tutto è accettato dalle folle (! e al tempo della guerra libica non era lo stesso? eppure allora Prezzolini non si limitò a proporre una Società  di Apoti!): il documento falso, la leggenda grossolana, la superstizione primitiva vengono ricevute senza esame, a occhi chiusi, e proposte come rimedio materiale e spirituale. E quanti dei capi hanno per aperto programma la schiavitù dello spirito come rimedio agli stanchi, come rifugio ai disperati, come sanatutto ai politici, come calmante agli esasperati. Noi potremmo chiamarci la Congregazione degli Apoti, di "coloro che non le bevono", tanto non solo l‘abitudine ma la generale volontà  di berle è evidente e manifesta ovunque". Un‘affermazione di un gesuitismo sofistico singolare: "Ci vuole che una minoranza, adatta a ciò, si sacrifichi se occorre e rinunzi a molti successi esterni, sacrifichi anche il desiderio di sacrifizio e di eroismo (!), non dirò per andare proprio contro corrente, ma stabilendo un punto solido, dal quale il movimento in avanti riprenderà ", ecc.ecc. Differenza tra il Prezzolini e Gobetti; vedere se la lettera ha avuto risposta e quale.

2008

Alfredo Panzini. La Vita di Cavour del Panzini è stata pubblicata a puntate nell‘"Italia Letteraria" nei numeri dal 9 giugno al 13 ottobre 1929 ed è stata ristampata (riveduta e corretta? sarebbe interessante un esame minuzioso, se ne valesse la pena) dall‘editore Mondadori, in un volume delle "Scie" con notevole ritardo. Nell‘"Italia Letteraria" del 30 giugno, col titolo Chiarimento è pubblicata una lettera inviata dal Panzini, con la data del 27 giugno 1929, al direttore del "Resto del Carlino": il Panzini, con stile seccato e intimamente allarmato, si lamenta per un piccante commento, pubblicato dal giornale bolognese alle due prime puntate del suo scritto che era giudicato "piacevole giocherello" e "cosa leggera". Il Panzini risponde in stile da telegramma: "Nessuna intenzione scrivere una biografia alla maniera romanzesca francese. Mia intenzione scrivere in stile piacevole e drammatico, tutto però documentato (Carteggio Nigra-Cavour)". (Come se la sola documentazione per la vita del Cavour fosse questo- Carteggio!) Il Panzini cerca poi di difendersi, assai male, dall‘aver accennato a una forma di dittatura propria del Cavour, "umana", che ellitticamente poteva sembrare un giudizio critico su altre forme di dittatura: figurarsi la tremarella del Panzini nel procedere per questi "ignes". L‘episodio ha un certo significato, perchè mostra come molti si siano cominciati ad accorgere che queste scritture pseudo-nazionali e patriottiche del Panzini sono stucchevoli, insincere e mostrano la trama. L‘imbecillità  e l‘inettitudine del Panzini di fronte alla storia sono incommensurabili: il suo scrivere è un puro e infantile gioco di parole, ammantato di una specie di melensa ironia che dovrebbe far credere all‘esistenza di chissà  mai quali profondità, come quelle che certi contadini esprimono nel loro ingenuo modo di parlare. Bertoldo storico! In realtà  è una forma di stenterellismo che si dà  l‘aria del Machiavelli in maniche di camicia e non in abito curiale. Un‘altra puntata contro il Panzini si può leggere nella "Nuova Italia" di quel torno di tempo: si dice che la Vita di Cavour è scritta come se il Cavour fosse Pinocchio!

Nè si può dire che lo stile del Panzini, nelle sue scritture di storia, sia "piacevole e drammatico": egli è piuttosto farsesco e la storia è rappresentata come una "piacevolezza" da commesso viaggiatore o da farmacista di provincia: il farmacista è Panzini e i clienti sono altrettanti Panzini che si beano della propria fatua stupidaggine.Tuttavia la Vita di Cavour ha una sua utilità : è una raccolta stupefacente di luoghi comuni sul Risorgimento e un documento di primo ordine del gesuitismo letterario del Panzini. Esemplificazione: "Uno scrittore inglese ha chiamato la storia dell‘unità  d‘Italia la più romanzesca storia dei tempi moderni". (Il Panzini, oltre a creare luoghi comuni per gli argomenti che tratta, si dà molto daffare per raccogliere tutti i luoghi comuni che sullo stesso argomento sono stati messi in circolazione da altri scrittori, specialmente stranieri, senza accorgersi che in molti casi, come in questo, è implicito un giudizio "diffamatorio" del popolo italiano: il Panzini deve essersi fatto uno schedario speciale di luoghi comuni, per condire opportunamente i propri scritti). "Re Vittorio era nato con la spada e senza paura: due terribili baffi, un gran pizzo. Gli piacevano le belle donne e la musica del cannone. Un gran Re". Questo luogo comune, questa oleografia da bettola di Vittorio Emanuele è da unire all‘altro sulla "tradizione" militare del Piemonte e della sua aristocrazia. In realtà  in Piemonte è proprio mancata una "tradizione" militare nel senso non burocratico della parola, cioè è mancata una "continuità" di personale militare di prim‘ordine, e ciò è proprio apparso nelle guerre del Risorgimento, in cui non si è rivelata nessuna personalità  (eccetto che nel campo garibaldino), ma invece sono affiorate molte deficienze interne gravissime. In Piemonte esisteva una tradizione militare "popolare"; dalla sua popolazione era sempre possibile trarre un buon esercito; apparvero di tanto in tanto capacità  militari di primo ordine, come Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele ecc., ma mancò appunto una tradizione, una continuità nell‘aristocrazia, nell‘ufficialità  superiore. La situazione fu aggravata dalla restaurazione e la prova se ne ebbe nel 48 quando non si sapeva dove metter le mani per dare un capo all‘esercito e dopo aver domandato invano un generale alla Francia, si finì con l‘assumere un minchione qualsiasi di polacco. Le qualità guerriere di Vittorio Emanuele II consistevano solo in un certo coraggio personale, che si dovrebbe pensare essere stato molto raro in Italia se tanto si insiste per farlo rimarcare: lo stesso si dica per il "galantomismo"; si dovrebbe pensare che in Italia la stragrande maggioranza fosse di bricconi, se l‘essere galantuomini viene elevato a titolo di distinzione.

A proposito di Vittorio Emanuele II è da ricordare l‘aneddoto riferito da F. Martini nel suo libro postumo di memorie (ed. Treves); racconta il Martini che dopo la presa di Roma Vittorio Emanuele abbia detto che gli dispiaceva non ci fosse più nulla da "piè" (pigliare) e ciò a chi raccontava l‘aneddoto (credo Q. Sella) pareva dimostrare che non ci fosse stato nella storia un re più conquistatore di Vittorio Emanuele. Dell‘aneddoto si potrebbe dare forse altra spiegazione più terra terra, legata alla concezione dello stato patrimoniale e alla varia misura della lista civile. E da ricordare poi l‘epistolario di Massimo D‘Azeglio pubblicato dal Bollea nel "Bollettino Storico Subalpino" e il conflitto tra Vittorio Emanuele e Quintino Sella su quistioni economiche. Ciò che poi stupisce molto è che si insista tanto sugli episodi "galanti" della vita di Vittorio Emanuele come se essi fossero tali da rendere più popolare la figura del re: si narra di alti funzionari e di ufficiali che andavano nelle famiglie di contadini per convincerle a mandare delle ragazze a letto col re per quattrini. A pensarci bene è stupefacente che tali cose siano raccontate credendo di rafforzare l‘ammirazione popolare."... il Piemonte... ha una tradizione guerriera, ha una nobiltà  guerriera". Si potrebbe osservare che Napoleone III, data la "tradizione" guerriera della sua famiglia, si occupò di scienza militare e scrisse libri che pare non fossero troppo malvagi per i suoi tempi."Le donne? Già, le donne. Su tale argomento egli (Cavour) andava molto d‘accordo col suo re, benchè anche in questo ci fosse qualche differenza. Re Vittorio era di molta buona bocca come avrebbe potuto attestare la bella Rosina, che fu poi contessa di Mirafiori", e via di questo tono fino a ricordare che i propositi galanti (!) del re alla corte delle Tuglierì (sic) furono così audaci "che tutte le dame ne rimasero amabilmente (!) atterrite. Quel forte, magnifico Re montanaro!" (Il Panzini si riferisce agli aneddoti raccontati dal Paleologue, ma che differenza di tòcco. Il Paleologue, pur data la materia scabrosa, mantiene il tono del gentiluomo cortigiano: il Panzini non sa evitare il linguaggio del lenone da trivio, del commerciante in tratta delle bianche). "Cavour era assai più raffinato.Cavallereschi però tutti e due, e oserei (!) dire, romantici (!)". "Massimo D‘Azeglio... da quel gentiluomo delicato che era..." L‘accenno del Panzini, di cui si parla a p. 37 e che gli attirò i fulmini... confinari del "Resto del Carlino" è contenuto nella seconda puntata della Vita di Cavour edizione "Italia Letteraria" (numero del 16 giugno) ed è bene riportarlo perchè sara stato cassato o modificato nell‘ed. Mondadori: "Non ha bisogno di assumere atteggiamenti specifici. Ma in certi momenti doveva apparire meraviglioso e terribile. L‘aspetto della grandezza umana è tale da indurre negli altri ubbidienza e terrore, e questa è dittatura più forte che non quella di assumere molti portafogli nei ministeri". Pare incredibile che una tale frase sia potuta sfuggire al pavido Panzini ed è naturale che il "Resto del Carlino" l‘abbia beccato. Dalla risposta del Panzini si può spiegare l‘infortunio: "Quanto a certe puntate contro la dittatura, forse fu errore fidarmi nella conoscenza storica del lettore. Cavour, nel 1859, domandò (?!) i poteri dittatori assumendo diversi portafogli, fra i quali quello della guerra, con molto (!?) scandalo della allora quasi vergine costituzionalità. Non questa materiale forma di dittatura indusse ad obbedienza, ma la dittatura dell‘umana grandezza di Cavour".

Pare evidente che l‘intento del Panzini fosse adulatorio, ma la sua innocenza politica e quindi storica gli diede lo sgambetto e trasformò l‘adulazione servile in una smorfia equivoca. Non si può parlare di dittatura per il Cavour, tanto meno nel 1859 e anzi questa fu una debolezza nello svolgimento della guerra e nella posizione dei piemontesi in seno all‘alleanza con Napoleone. Sono note le opinioni del Cavour sulla dittatura e sulla funzione del Parlamento, opinioni di cui il Panzini pavidamente tace, sebbene il parlarne non sarebbe stato certo pericoloso. Ciò che è curioso è che più oltre il Panzini stesso mostra come il Cavour fosse stato tagliato fuori dallo svolgimento della guerra e sebbene ministro della guerra, non ricevesse neppure i bollettini dell‘esercito. Per un dittatore non c‘è male. Il Cavour non riuscì neppure a far valere le sue prerogative costituzionali di capo del Governo, che del resto non erano contemplate nello Statuto, e quindi il suo conflitto col re dopo l‘armistizio di Villafranca. In realtà  non la politica di Cavour fu continuata dalla guerra del 59, ma un miscuglio delle velleità  politiche di Napoleone e delle tendenze assolutiste piemontesi impersonate dal re e da un gruppo di generali. Si ripetè la situazione del 1848-49, e se non ci fu disastro militare, ciò fu dovuto alla presenza dell‘esercito francese: ma il risultato della situazione politica anormale fu grave lo stesso, perchè nell‘alleanza Napoleone ebbe l‘egemonia illimitata, e il Piemonte un posto troppo subordinato."...la guerra d‘Oriente, una cosa piuttosto complicata, che per chiarezza di discorso si omette". (Affermazione impagabile per uno storico: si afferma che Cavour è stato un genio politico ecc., ma l‘affermazione non diventa mai dimostrazione e rappresentazione concreta. Il significato della partecipazione piemontese alla guerra di Crimea e della capacità  politica di Cavour nell‘averla voluta, è "omesso" per "chiarezza". Il profilo di Napoleone III è sguaiatamente triviale: non si cerca di spiegare perchè Napoleone abbia collaborato con Cavour (le citazioni d‘appoggio dovrebbero essere troppe: occorrerà  rivedere il libro o l‘annata dell‘"Italia Letteraria"). "Al Museo napoleonico in Roma c‘è un prezioso pugnale con una lama che può passare il cuore (non è un pugnale dei soliti, a quanto pare!)". "Può questo pugnale servire di documento? Di pugnali io non ho esperienza (!), ma sentii dire quello essere il pugnale carbonaro che si affidava a chi entrava nella setta tenebrosa ecc.". (Il Panzini deve sempre essere stato ossessionato dai pugnali: ricordare la "livida lama" della Lanterna di Diogene. Forse si è trovato per caso presente a qualche torbido in Romagna e deve aver visto qualche paio d‘occhi guatarlo biecamente: onde le "livide lame" che passano il cuore ecc.)."E chi volesse vedere come la setta carbonara assumesse l‘aspetto di Belzebù, legga il romanzo L‘Ebreo di Verona di Antonio Bresciani e si divertirà  (sic) un mondo, anche perchè, a dispetto di quel che ne dicono i moderni (ma il De Sanctis era contemporaneo del Bresciani), quel padre gesuita fu un potente narratore". (Questo brano si potrebbe porre come epigrafe al saggio sui "Nipotini del padre Bresciani": esso si trova nella puntata terza della Vita di Cavour, edizione dell‘"Italia Letteraria", n. del 23 giugno 1929).Tutta questa Vita di Cavour è una beffa della storia. Se le vite romanzate sono la forma attuale della letteratura storica amena tipo Alessandro Dumas, A. Panzini è il Ponson du Terrail del quadro.

Il Panzini vuole così ostentatamente mostrare di "saperla lunga" sull‘animo e sulla natura degli uomini, di essere un così furbissimo furbo, un realista così disincantato dalla tenebrosa nequizia dell‘uman genere e specialmente dei politici, che, dopo averlo letto, viene voglia di rifugiarsi in Condorcet e in Bernardin de Saint-Pierre, che almeno non furono così trivialmente filistei.Nessun nesso storico è ricostruito nel fuoco di una personalità : la storia ti diventa una sequela di storielle poco divertenti perchè insalivate dal Panzini, senza nesso nè di individualità  eroiche, nè di altre forze sociali; quella del Panzini è veramente una nuova forma di gesuitismo, molto più accentuata di quanto si pensava leggendo la Vita a puntate. Al luogo comune della "nobiltà  guerriera e non da anticamera" si possono contrapporre i giudizi che il Panzini volta per volta dà  dei singoli generali come il La Marmora e il Della Rocca, spesso con espressioni di scherno trivialmente spiritoso: "Della Rocca è un guerriero. A Custoza, 1866, non brillerà  per troppo valore, ma è un ostinato guerriero e perciò tien duro coi bollettini". (E‘ proprio una frase da "demagogo". Il Della Rocca non voleva più mandare i bollettini dello Stato Maggiore a Cavour, che ne aveva notato la cattiva compilazione letteraria, alla quale collaborava il re). Altre allusioni del genere per il La Marmora e per il Cialdini (anche se Cialdini non fu piemontese) e mai è riferito il nome di un generale piemontese che abbia in qualche modo brillato: altro accenno al Persano.

2009

Riccardo Bacchelli. Il diavolo al Pontelungo (ed. Ceschina, Milano). Questo romanzo del Bacchelli è stato tradotto in inglese da Orlo Williams e la "Fiera Letteraria" del 27 gennaio 1929 riporta l‘introduzione del Williams alla sua traduzione. Il Williams nota che il Diavolo al Pontelungo è "uno dei pochi romanzi veri, nel senso che noi diciamo romanzo in Inghilterra", ma non pone in rilievo (sebbene parli dell‘altro libro di Bacchelli Lo sa il tonno) che il Bacchelli è uno dei pochi scrittori italiani che si possono chiamare "moralisti" nel senso inglese e francese (ricordare che il Bacchelli è stato collaboratore della "Voce" e anzi per qualche tempo ne ha avuto la direzione in assenza di Prezzolini); lo chiama invece raisonneur, poeta dotto: raisonneur nel senso che troppo spesso interrompe l‘azione del dramma con commenti intorno ai moventi delle azioni umane in generale. (Lo sa il tonno è il libro tipico di Bacchelli "morale" e non pare molto ben riuscito). In una lettera al Williams, riportata nell‘introduzione, Bacchelli dà  queste informazioni sul Diavolo: "Nelle linee generali (!) il materiale è storico strettamente (!) tanto nella prima che nella seconda parte. Sono storici (!) i protagonisti, come Bakunin, Cafiero, Costa.

Nell‘intendere l‘epoca, le idee e i fatti, ho cercato d‘essere storico in senso stretto: rivoluzionarismo cosmopolita, primordi della vita politica del Regno d‘Italia, qualità  del socialismo italiano agli inizi, psicologia politica del popolo italiano e suo ironico buon senso, suo istintivo e realistico machiavellismo (sarebbe piuttosto da dire guicciardinismo nel senso dell‘uomo del Guicciardini di cui parla il De Sanctis) ecc. Le mie fonti sono l‘esperienza della vita politica fatte a Bologna, che è la città  politicamente più suscettibile e sottile d‘Italia (mio padre era uomo politico, deputato liberale conservatore) (il giudizio che il Bacchelli dà  di Bologna politica è essenzialmente giusto, ma non per il popolo, per le classi possidenti e intellettuali collegate contro la campagna irrequieta e violenta in modo elementare; a Bologna vivono in uno stato permanente di panico sociale, con la paura di una jacquerie e il timore aguzza l‘orecchio politico), i ricordi di alcuni fra gli ultimi sopravvissuti dei tempi e dell‘Internazionale anarchica (ho conosciuto uno che fu compagno e complice di Bakunin nei fatti di Bologna del 74) e, per i libri, sopra tutto il capitolo del professor Ettore Zoccoli nel suo libro sull‘anarchia e i quaderni di Bakunin che lo storiografo austriaco dell‘anarchia, Nettlau, ha ristampato nella sua rarissima biografia stampata in pochi esemplari.

Il francese (era invece svizzero) James Guillaume tratta anch‘egli di Bakunin e Cafiero nell‘opera sull‘Internazionale, che non conosco, ma dalla quale credo di discostarmi in vari punti importanti. Quest‘opera fece parte (!) di una polemica posteriore sulla Baronata di Locarno, della quale non mi sono curato (! tuttavia questa polemica illuminò il carattere di Bakunin e quindi i suoi rapporti col Cafiero). Tratta di cose meschine e di quistioni di danaro (puah!). Credo che Herzen, nelle sue memorie, abbia scritto le parole più giuste e più umane intorno alla personalità variabile, inquieta e confusa di Bakunin. Marx, come non di rado, fu soltanto caustico e ingiurioso. In conclusione credo di poterle dire che il libro si fonda sopra una base di concetto sostanzialmente storico. Come e con quale sentimento artistico io abbia saputo svolgere questo materiale europeo (!) e rappresentativo, questo è argomento sul quale il giudicare non spetta a me". "Il diavolo al Pontelungo è da porre insieme a Pietro e Paolo del Sobrero per il chiaroscuro nel saggio sui "nipotini del padre Bresciani": del resto nel Bacchelli c‘è molto brescianesimo, non solo politico-sociale, ma anche letterario: la "Ronda" fu una manifestazione di gesuitismo artistico.

2010

Jahier, Raimondi e Proudhon. Articolo di Giuseppe Raimondi Rione Bolognina nella "Fiera Letteraria" del 17 giugno 1928; ha in epigrafe questo motto di Proudhon: "La pauvretè est bonne, et nous devons la considèrer comme le principe de notre allègresse".L‘articolo è una specie di manifesto "ideologico- autobiografico" e culmina in queste frasi: "Come ogni operaio e ogni figlio di operaio, io ho sempre avuto chiaro il senso della divisione delle classi sociali. Io resterò, purtroppo (sic), fra quelli che lavorano. Dall‘altra parte, ci sono quelli che io posso rispettare, per i quali posso anche provare della sincera gratitudine (!); ma qualcosa mi impedisce di piangere (!) con loro, e non mi riesce di abbracciarli con spontaneità  (!). O mi mettono soggezione (!) o li disprezzo". (Un bel modo di presentare una superiore forma di dignità  operaia!) "E‘ nei sobborghi che si sono sempre fatte le rivoluzioni, e il popolo non è da nessuna parte così giovane, sradicato da ogni tradizione, disposto a seguire un improvviso moto di passione collettivo, come nei sobborghi, che non sono più città  e non sono ancora campagna. ... Di qui finirà  per nascere una civiltà  nuova, e una storia che avrà  quel senso di rivolta e di riabilitazione secolare proprio dei popoli che solo la morale dell‘età  moderna ha fatto riconoscere degni. Se ne parlerà  come oggi si parla del Risorgimento italiano e dell‘Indipendenza americana. L‘operaio è di gusti semplici: si istruisce con le dispense settimanali delle Scoperte della Scienza e della Storia delle Crociate: la sua mentalità  resterà  sempre quella un poco atea e garibaldina dei circoli suburbani e delle Università  Popolari. ... Lasciategli i suoi difetti, risparmiategli le vostre ironie. Il popolo non sa scherzare. La sua modestia è vera, come la sua fiducia nell‘avvenire". (Molto oleografico, ma abbastanza alla moda del Proudhon deteriore, anche nel tono assiomatico e perentorio).

Nell‘"Italia Letteraria" del 21 luglio 1929 lo stesso Raimondi parla della sua deferente amicizia per Piero Jahier, e delle loro conversazioni: "... mi parla di Proudhon, della sua grandezza e della sua modestia, dell‘influenza che le sue idee hanno esercitato nel mondo moderno, dell‘importanza che queste idee hanno assunto in un mondo retto dal lavoro socialmente organizzato, in un mondo dove la coscienza degli uomini si va sempre più evolvendo e perfezionando in nome del lavoro e dei suoi interessi.Proudhon ha fatto un mito, umano e vivente, di questi poveri (!) interessi. In me l‘ammirazione per Proudhon è piuttosto sentimentale, d‘istinto, come un affetto e un rispetto, che io ho ereditato, che mi sono stati trasmessi nascendo. In Jahier è tutta di intelletto, derivata dallo studio, perciò (!) profondissima. Questo signor Giuseppe Raimondi era un discreto poseur con la sua "ammirazione ereditata"; aveva trovato uno dei cento modi di distinguersi nella gioventù letterata odierna; ma da qualche anno non se ne sente più parlare. (Bolognese: collabora con L. Longanesi nell‘"Italiano", poi viene violentemente e sprezzantemente diffidato dal Longanesi, "rondista").

2011

Scrittori "tecnicamente" cattolici. E‘ notevole la scarsità  degli scrittori cattolici in Italia, scarsità  che ha una sua ragione d‘essere, nel fatto che la religione è staccata dalla vita militante in tutte le sue manifestazioni. S‘intende "scrittori" che abbiano una qualche dignità  intellettuale e che producano opere d‘arte, dramma, poesia, romanzo. Già accennato al Gallarati Scotti per un tratto caratteristico delle Storie dell‘Amor Sacro e dell‘Amor Profano, che ha una sua dignità  artistica ma che puzza di modernismo. Paolo Arcari (più noto come scrittore di saggi letterari e politici, del resto già  direttore della rivista liberale "L‘azione liberale" di Milano, ma che ha scritto qualche romanzo). Luciano Gennari (che scrive in lingua francese). Non è possibile un confronto tra l‘attività  artistica dei cattolici francesi (e la statura letteraria) e quella degli italiani. Crispolti ha scritto un romanzo di propaganda Il Duello. In realtà , il cattolicismo italiano è sterile nel campo letterario come negli altri campi della cultura (cfr Missiroli, Date a Cesare...). Maria di Borio (ricordare l‘episodio tipico della Di Borio durante la conferenza della indù Arcandamaia sul valore delle religioni ecc.). Gruppo fiorentino del "Frontespizio", guidato dal Papini, svolge una attività  letterario-cattolica estremista, ciò che è una riprova dell‘indifferentismo dello strato intellettuale per la concezione religiosa.

2012

Criteri metodici. Sarebbe assurdo pretendere che ogni anno o anche ogni dieci anni, la letteratura di un paese produca un Promessi Sposi o un Sepolcri ecc. Appunto perciò l‘attività  critica normale non può non avere prevalentemente carattere "culturale" ed essere una critica di "tendenze" a meno di diventare un continuo massacro.E in questo caso, come scegliere l‘opera da massacrare, lo scrittore da dimostrare estraneo all‘arte? Pare questo un problema trascurabile e invece, a rifletterci dal punto di vista dell‘organizzazione moderna della vita culturale, è fondamentale. Una attività  critica che fosse permanentemente negativa, fatta di stroncature, di dimostrazioni che si tratta di "non poesia" e non di "poesia", diventerebbe stucchevole e rivoltante: la "scelta" sembrerebbe una caccia all‘uomo, oppure potrebbe essere ritenuta "casuale" e quindi irrilevante. Pare certo che l‘attività  critica debba sempre avere un aspetto positivo, nel senso che debba mettere in rilievo, nell‘opera presa in esame, un valore positivo, che se non può essere artistico, può essere culturale e allora non tanto varrà  il singolo libro -- salvo casi eccezionali -- quanto i gruppi di lavori messi in serie per tendenza culturale. Sulla scelta: il criterio più semplice, oltre l‘intuizione del critico e l‘esame sistematico di tutta la letteratura, lavoro colossale e quasi impossibile da farsi individualmente, pare quello della "fortuna libraria", intesa in due sensi: "fortuna di lettori" e "fortuna presso gli editori" che in certi paesi dove la vita intellettuale è controllata da organi governativi, ha pure il suo significato perchè indica quale indirizzo lo Stato vorrebbe dare alla cultura nazionale. Partendo dai criteri della estetica crociana, si presentano gli stessi problemi: poichè "frammenti" di poesia possono trovarsi da per tutto, nell‘"Amore Illustrato" come nell‘opera di scienza strettamente specializzata, il critico dovrebbe conoscere "tutto" per essere in grado di rilevare la "perla" nel brago. In realtà ogni singolo critico sente di appartenere a una organizzazione di cultura che opera come insieme; ciò che sfugge a uno viene "scoperto" e segnalato da un altro ecc. Anche il dilagare dei "premi letterari" non è che una manifestazione, più o meno bene organizzata, con maggiori o minori elementi di frode, di questo servizio di "segnalazione" collettiva della critica letteraria militante.

E‘ da notare che in certi periodi storici l‘attività  pratica può assorbire le maggiori intelligenze creative di una nazione: in un certo senso, in tali periodi, tutte le migliori forze umane vengono concentrate nel lavoro strutturale e non ancora si può parlare di superstrutture: secondo ciò che scrive il Cambon nella prefazione all‘edizione francese dell‘autobiografia di Henri Ford, in America si è costruita una teoria sociologica su questa base, per giustificare l‘assenza, negli Stati Uniti, di una fioritura culturale umanistica e artistica. In ogni caso questa teoria, per avere almeno un‘apparenza di giustificazione, deve essere in grado di mostrare una vasta attività  creatrice nel campo pratico, sebbene rimanga senza risposta la quistione: se questa attività  "poetico-creativa" esiste ed è vitale, esaltando tutte le forze vitali, le energie, le volontà , gli entusiasmi dell‘uomo, come non esalta l‘energia letteraria e non crea un‘epica? Se ciò non avviene, nasce il legittimo dubbio che si tratti di energie "burocratiche", di forze non espansive universalmente, ma repressive e brutali: si può pensare che i costruttori delle Piramidi, schiavi trattati con la frusta, concepissero liricamente il loro lavoro? Ciò che è da rilevare è che le forze che dirigono questa grandiosa attività  pratica, non sono repressive solo nei confronti del lavoro strumentale, ciò che può capirsi, ma sono repressive universalmente, ciò che appunto è tipico e fa sì che una certa energia letteraria, come in America, si manifesti nei refrattari all‘organizzazione dell‘attività  pratica che si vorrebbe gabellare come "epica" in se stessa. Tuttavia la situazione è peggiore dove alla nullità  artistica non corrisponde neanche un‘attività  pratico-strutturale di una certa grandiosità  e si giustifica la nullità  artistica con un‘attività  pratica che si "verificherà " e a sua volta produrrà un‘attività  artistica. In realtà ogni forza innovatrice è repressiva nei confronti dei propri avversari, ma [in quanto] scatena forze latenti, le potenzia, le esalta, è espansiva e l‘espansività  è di gran lunga il suo carattere distintivo.

Le restaurazioni, con qualsiasi nome si presentino, e in special modo le restaurazioni che avvengono nell‘epoca attuale, sono universalmente repressive: il "padre Bresciani", la letteratura brescianesca diventa predominante. La psicologia che ha preceduto una tale manifestazione intellettuale è quella creata dal panico, da una paura cosmica di forze demoniache che non si comprendono e non si possono quindi controllare altro che con una universale costruzione repressiva. Il ricordo di questo panico (della sua fase acuta) perdura a lungo e dirige la volontà  e i sentimenti: la libertà e la spontaneità  creatrice spariscono e rimane l‘astio, lo spirito di vendetta, l‘accecamento balordo ammantati dalla mellifluità gesuitica. Tutto diventa pratico (nel senso deteriore), tutto è propaganda, polemica, negazione implicita, in forma meschina, angusta, spesso ignobile e rivoltante come nell‘Ebreo di Verona. Quistione della gioventù letteraria di una generazione. Certo, nel giudicare uno scrittore, di cui si esamina il primo libro, occorrerà  tener conto dell‘"età", perchè il giudizio sarà  sempre anche di cultura: un frutto acerbo di un giovane può essere apprezzato come una promessa e ottenere un incoraggiamento. Ma i bozzacchioni non sono promesse, anche se paiono aver lo stesso gusto dei frutti acerbi.

2013

Papini. E‘ da notare come gli scrittori della "Civiltà  Cattolica" se lo tengono diletto, lo vezzeggiano, lo coccolano e lo difendono da ogni accusa di poca ortodossia. Frasi di Papini contenute nel libro su S. Agostino e che mostrano la tendenza al secentismo (i gesuiti furono spiccati rappresentanti del secentismo): "quando si dibatteva per uscire dalle cantine dell‘orgoglio a respirare l‘aria divina dell‘assoluto", "salire dal letamaio alle stelle" ecc. Papini si è convertito non al cristianesimo, ma propriamente al gesuitismo (si può dire, del resto, che il gesuitismo, col suo culto del papa e l‘organizzazione di un impero assoluto spirituale, è la fase più recente del cristianesimo cattolico).

2014

Mario Puccini. Cola o Ritratto dell‘Italiano, Casa Editrice Vecchioni, Aquila, 1927. Cola è un contadino toscano, territoriale durante la guerra, nel quale il Puccini vorrebbe rappresentare il "vecchio italiano" ecc.: "... il carattere di Cola, ... senza reazioni ma senza entusiasmi, capace di fare il proprio dovere e anche di compiere qualche atto di valore ma per obbedienza e per necessità  e con un tenero rispetto per la propria pelle, persuaso sì e no della necessità  della guerra ma senza nessun sospetto di valori eroici ... il tipo di una coscienza, se non completamente sorda, certo passiva alle esigenze ideali, tra la bacchettona e pigra, resistente a guardare oltre gli "ordini del governo" e oltre le modeste funzioni della vita individuale, contento in una parola dell‘esistenza di pianura senza ambizione delle alte cime". (Dalla recensione pubblicata nella "Nuova Antologia" del 16 marzo 1928, p. 270).

2015

Luigi Capuana. Estratto da un articolo di Luigi Tonelli, Il carattere e l‘opera di Luigi Capuana ("Nuova Antologia", 1° maggio 1928): "Re Bracalone (romanzo fiabesco: il secolo XX è creato, per forza d‘incanto, nello spazio di brevi giorni, nei tempi di "c‘era una volta" ; ma dopo averne fatta l‘amara esperienza, il re lo distrugge, preferendo ritornare ai tempi primitivi) c‘interessa anche sotto il riguardo ideologico; chè, in un periodo d‘infatuazione (!) internazionalista socialistoide, ebbe il coraggio (!) di bollare a fuoco (!) "le sciocche sentimentalità  della pace universale, del disarmo e le non meno sciocche sentimentalità  dell‘uguaglianza economica e della comunità  dei beni", ed esprimere l‘urgenza di "tagliar corto alle agitazioni che han già  creato uno Stato dentro lo Stato, un governo irresponsabile", ed affermare la necessità  di una coscienza nazionale: "Ci fa difetto la dignità  nazionale; bisogna creare il nobile orgoglio di essa, spingerlo fino all‘eccesso. E‘ l‘unico caso in cui l‘eccesso non guasta. Il Tonelli è sciocco, ma il Capuana non scherza anche lui col suo frasario da giornaletto crispino di provincia: bisognerebbe poi vedere cosa valeva allora la sua ideologia del "C‘era una volta", che esaltava un paternalismo anacronistico e tutt‘altro che nazionale, nell‘Italia di allora. Del Capuana occorrerà  ricordare il teatro dialettale e le opinioni sulla lingua nel teatro, a proposito della quistione della lingua nella letteratura italiana. Alcune commedie del Capuana (come Giacinta, Malia, Il cavalier Pedagna) furono scritte originariamente in italiano e poi voltate in dialetto: solo in dialetto ebbero successo. Il Tonelli, che non capisce nulla, scrive che il Capuana fu indotto alla forma dialettale nel teatro "non soltanto dalla convinzione che "bisogna passare pei teatri dialettali, se si vuole davvero arrivare al teatro nazionale italiano"..., ma anche e soprattutto dal carattere particolare delle sue creazioni drammatiche: le quali sono squisitamente (!) dialettali, e nel dialetto trovano la loro più naturale e schietta espressione. Ma cosa poi significa "creazioni squisitamente dialettali"? Il fatto è spiegato col fatto stesso, cioè non è spiegato (è da ricordare ancora che il Capuana scriveva in dialetto la sua corrispondenza con una sua "mantenuta", donna del popolo, cioè comprendeva che l‘italiano non gli avrebbe permesso di essere capito con esattezza e "simpaticamente" dagli elementi del popolo, la cui cultura non era nazionale, ma regionale, o nazionale-siciliana; come, in tali condizioni, si potesse passare dal teatro dialettale a quello nazionale è una affermazione per enigmi e dimostra solo scarsa comprensione dei problemi culturali nazionali).

E‘ da vedere, nel teatro di Pirandello, perchè certe commedie sono scritte in italiano e altre in dialetto: nel Pirandello l‘esame è ancor più interessante, poichè Pirandello ha, in un altro momento, acquistato una fisionomia culturale cosmopolitica, cioè è diventato italiano e nazionale in quanto si è completamente sprovincializzato ed europeizzato. La lingua non ha ancora acquistato una "storicità " di massa, non è ancora diventata un fatto nazionale. Liolà  di Pirandello, in italiano letterario vale ben poco, sebbene il Fu Mattia Pascal, da cui è tratta, possa ancora leggersi con piacere. Nel testo italiano l‘autore non riesce a mettersi all‘unisono col pubblico, non ha la prospettiva della storicità  della lingua quando i personaggi vogliono essere concretamente italiani dinanzi a un pubblico italiano. In realtà  in Italia esistono molte lingue "popolari" e sono i dialetti regionali che vengono solitamente parlati nella conversazione intima, in cui si esprimono i sentimenti e gli affetti più comuni e diffusi; la lingua letteraria è ancora, per molta parte, una lingua cosmopolita, una specie di "esperanto", cioè limitata all‘espressione di sentimenti e nozioni parziali ecc. Quando si dice che la lingua letteraria ha una grande ricchezza di mezzi espressivi, si afferma una cosa equivoca ed ambigua; si confonde la ricchezza espressiva "possibile" registrata nel vocabolario o contenuta inerte negli "autori", con la ricchezza individuale, che si può spendere individualmente; ma è quest‘ultima la sola ricchezza reale e concreta ed è su di essa che si può misurare il grado di unità  linguistica nazionale che è data dalla vivente parlata del popolo, dal grado di nazionalizzazione del patrimonio linguistico.

Nel dialogo teatrale è evidente l‘importanza di tale elemento; dal palcoscenico il dialogo deve suscitare immagini viventi, con tutta la loro concretezza storica di espressione; invece suggerisce, troppo spesso, immagini libresche, sentimenti mutilati dall‘incomprensione della lingua e delle sue sfumature. Le parole della parlata famigliare si riproducono nell‘ascoltatore come ricordo di parole lette nei libri e nei giornali o ricercate nel vocabolario, come sarebbe il sentire in teatro parlar francese da chi il francese ha imparato nei libri senza maestro: la parola è ossificata, senza articolazione di sfumature, senza la comprensione del suo significato esatto che è dato da tutto il periodo ecc. Si ha l‘impressione di essere goffi, o che goffi siano gli altri. Si osservi nell‘italiano parlato quanti errori di pronunzia fa l‘uomo del popolo; profùgo, rosèo ecc. ciò che significa che tali parole sono state lette e non sentite, non sentite ripetutamente, cioè collocate in prospettive diverse (periodi diversi), ognuna delle quali abbia fatto brillare un lato di quel poliedro che è ogni parola (errori di sintassi ancor più significativi).

2016

Bellonci e Crèmieux. La "Fiera Letteraria" del 15 gennaio 1928 riassume un articolo, abbastanza scemo e spropositante, pubblicato da G. Bellonci nel "Giornale d‘Italia". Il Crèmieux nel suo Panorama scrive che in Italia manca una lingua moderna, ciò che è giusto in un senso molto precisi: 1) che non esiste una concentrazione della classe colta unitaria, i cui componenti scrivano e parlino "sempre" una lingua "viva" unitaria, cioè diffusa ugualmente in tutti gli strati sociali e gruppi regionali del paese; 2) che pertanto tra la classe colta e il popolo c‘è un distacco marcato: la lingua del popolo è ancora il dialetto, col sussidio di un gergo italianizzante che in gran parte è il dialetto tradotto meccanicamente. Esiste inoltre un forte influsso dei vari dialetti nella lingua scritta, perchè anche la così detta classe colta parla la lingua nazionale in certi momenti e i dialetti nella parlata famigliare, cioè in quella più viva e aderente alla realtà  immediata; d‘altra parte, però, la reazione ai dialetti, fa sì che, nello stesso tempo, la lingua nazionale rimanga un po‘ fossilizzata e paludata e quando vuol essere famigliare si frange in tanti riflessi dialettali. Oltre il tono del discorso (il cursus e la musica del periodo) che caratterizza le regioni, sono influenzati il lessico, la morfologia e specialmente la sintassi.

Il Manzoni sciacquò in Arno il suo lessico personale lombardizzante, meno la morfologia e quasi affatto la sintassi, che è più connaturata allo stile, alla forma personale artistica e all‘essenza nazionale della lingua. Anche in Francia qualcosa di simile si verifica come contrasto tra Parigi e la Provenza, ma in misura molto minore, quasi trascurabile; in un confronto tra A. Daudet e Zola è stato trovato che Daudet non conosce quasi più il passato remoto etimologico, che è sostituito dall‘imperfetto, ciò che in Zola si verifica solo casualmente. Il Bellonci scrive contro l‘affermazione del Crèmieux: "Sino al cinquecento le forme linguistiche scendono dall‘alto, dal seicento in poi salgono dal basso". Sproposito madornale, per superficialità  e per assenza di critica e di capacità  di distinguere. Poichè proprio fino al Cinquecento Firenze esercita un‘egemonia culturale, connessa alla sua egemonia commerciale e finanziaria (papa Bonifazio VIII diceva che i fiorentini erano il quinto elemento del mondo) e c‘è uno sviluppo linguistico unitario dal basso, dal popolo alle persone colte, sviluppo rinforzato dai grandi scrittori fiorentini e toscani.

Dopo la decadenza di Firenze, l‘italiano diventa sempre più la lingua di una casta chiusa, senza contatto vivo con una parlata storica. Non è questa forse la quistione posta dal Manzoni, di ritornare a un‘egemonia fiorentina con mezzi statali, ribattuta dall‘Ascoli, che, più storicista, non crede alle egemonie [culturali] Per decreto, non sorrette cioè da una funzione nazionale più profonda e necessaria? La domanda del Bellonci: "Negherebbe forse, il Crèmieux, che esista (che sia esistita, avrà  voluto dire) una lingua greca perchè vi hanno da essa varietà  doriche, joniche, eoliche?", è solo comica; mostra che egli non ha capito il Crèmieux e non capisce nulla in queste questioni, ma ragiona per categorie libresche, come lingua, dialetto, "varietà ", ecc.

2017

La Fiera del Libro. Poichè il popolo non va al libro (a un certo tipo di libro, quello dei letterati professionali) il libro andrà  al popolo.L‘iniziativa fu lanciata dalla "Fiera Letteraria" e dal suo direttore d‘allora Umberto Fracchia, nel 1927 a Milano. L‘iniziativa in sè non era cattiva e ha dato qualche piccolo risultato: ma la quistione non fu affrontata nel senso che il libro deve diventare intimamente nazionale-popolare per andare al popolo e non solo "materialmente", con le bancarelle, gli strilloni ecc. In realtà, un‘organizzazione per portare il libro al popolo esisteva ed esiste, ed è rappresentata dai "pontremolesi", ma il libro così diffuso è quello della più bassa letteratura popolare, dal Segretario degli amanti al Guerino ecc. Questa organizzazione potrebbe essere "imitata", ampliata, controllata e fornita di libri meno scemi e con maggiore varietà di scelta.

2018

Luca Beltrami (Polifilo). Per rintracciare gli scritti brescianeschi del Beltrami (I popolari di Casate Olona) è da vedere la Bibliografia degli scritti di Luca Beltrami, dal marzo 1881 al marzo 1930, curata da Fortunato Pintor, bibliotecario onorario del Senato, con prefazione di Guido Mazzoni. Da un cenno pubblicato nel "Marzocco" dell‘11 maggio 1930 appare che gli scritti del Beltrami sull‘ipotetico "Casate Olona" sono stati ben trentacinque. Il Beltrami ha postillato questa sua Bibliografia. A proposito di "Casate Olona" il "Marzocco" scrive:"... la bibliografia dei trentacinque scritti sull‘ipotetico "Casate Olona" gli suggerisce l‘idea di ricomporre in unità  quelle sue dichiarazioni proposte e polemiche d‘indole politico-sociale che, male intonate a un regime democratico parlamentare, sotto un certo aspetto devono considerarsi un‘anticipazione di cui altri -- non il Beltrami -- avrebbe potuto menar vanto di antiveggente precursore (! ?)". Il Beltrami era un conservatore moderato e non è certo che il suo "precorrimento" sia accettato con entusiasmo. I suoi scritti, d‘altronde, sono di una volgarità  intellettuale sconcertante.

2019

Giovanni Cena. Sull‘attività  svolta dal Cena per le scuole dei contadini dell‘Agro Romano sono da vedere le pubblicazioni di Alessandro Marcucci. (Il Cena intendeva proprio "andare al popolo"; è interessante vedere come praticamente cercò di attuare il suo proposito, perchè ciò mostra cosa poteva intendere un intellettuale italiano, d‘altronde pieno di buone intenzioni, per "amore per il popolo").

2020

Gino Saviotti. Sul carattere antipopolare o almeno apopolare-nazionale della letteratura italiana hanno scritto e continuano a scrivere molti letterati. Ma in queste scritture l‘argomento non è posto nei suoi termini reali e le conclusioni concrete sono spesso stupefacenti. Per esempio di Gino Saviotti, che volentieri scrive contro la letteratura dei letterati, si trova citato nell‘"Italia Letteraria" del 24 agosto 1930 questo brano riportato da un articolo pubblicato nell‘"Ambrosiano" del 15 agosto: "Buon Parini, si capisce perchè avete sollevato la poesia italiana, ai vostri tempi. Le avete dato la serietà  che le mancava, avete trasfuso nelle sue aride vene il vostro buon sangue popolano. Vi sieno rese grazie anche in questo giorno dopo centotrentun‘anni dalla vostra morte.

Ci vorrebbe un altro uomo come voi, oggi, nella nostra così detta poesia!". Nel 1934 è stato dato al Saviotti un premio letterario (una parte del premio Viareggio) per un romanzo in cui si rappresenta lo sforzo di un popolano per diventare "artista" (cioè per diventare "artista professionale", non essere più "popolano", ma innalzarsi al rango degli intellettuali di professione): argomento essenzialmente "antipopolare" ed esaltazione della casta, come modello di vita "superiore": ciò che di più vecchio e stantìo può trovarsi nella tradizione italiana.

2021

La "scoperta" di Italo Svevo.Italo Svevo fu rivelato al pubblico dei letterati italiani da James Joyce, che lo aveva conosciuto personalmente a Trieste (tuttavia è da ricordare che Italo Svevo aveva scritto qualche volta nella "Critica Sociale" intorno al 1900). Commemorando lo Svevo, la "Fiera Letteraria" sostenne che prima di questa rivelazione c‘era stata la "scoperta" italiana: "In questi giorni parte della stampa italiana ha ripetuto l‘errore della "scoperta francese" (cioè dovuta al Crèmieux, al quale però dello Svevo aveva parlato il Joyce, quindi la "Fiera Letteraria" gioca sull‘equivoco); anche i maggiori giornali par che ignorino ciò che pure è stato detto e ripetuto a tempo debito. E‘ dunque necessario scrivere ancora una volta che gli italiani colti furono per i primi informati dell‘opera dello Svevo; e che per merito di Eugenio Montale, il quale ne scrisse sulle riviste l‘"Esame" e il "Quindicinale", lo scrittore triestino ebbe in Italia il primo e legittimo riconoscimento. Con ciò non si vuol togliere agli stranieri nulla di quanto spetta loro; soltanto, ci par giusto che nessuna ombra offuschi la sincerità  e, diciamo pure, la fierezza (! !) del nostro omaggio all‘amico scomparso". ("Fiera Letteraria" del 23 settembre 1928 -- lo Svevo era morto il 13 settembre -- in un editoriale introduttivo a un articolo del Montale Ultimo addio, e a uno di Giovanni Comisso, Colloquio).

Ma questa prosetta untuosa e gesuitesca è in contraddizione con ciò che afferma Carlo Linati, nella "Nuova Antologia" del 1° febbraio 1928 (Italo Svevo, romanziere): "Due anni fa, trovandomi a prender parte alla serata di un club intellettuale milanese, ricordo che ad un certo punto entrò un giovane scrittore tornato allora allora da Parigi, il quale dopo aver discorso a lungo con noi di un pranzo del Pen Club offerto a Pirandello dai letterati parigini, aggiunse che alla fine di esso il celebre romanziere irlandese James Joyce, chiacchierando con lui della letteratura italiana moderna, gli aveva detto: Ma voialtri italiani avete un grande prosatore e forse neanche lo sapete -- Quale? -- Italo Svevo, triestino". Il Linati dice che nessuno conosceva quel nome, come non lo conosceva il giovane letterato che aveva parlato col Joyce. Il Montale riuscì finalmente a "scoprire" una copia di Senilità  e ne scrisse sull‘"Esame". Ecco come i letterati italiani hanno "scoperto" Svevo "fieramente". Si tratta di un puro caso? Non pare. Per la "Fiera Letteraria" sono da ricordare almeno altri due "casi", quello degli Indifferenti di Moravia e quello del Malagigi di Nino Savarese, di cui parlò solo dopo che fu indicato da un concorso a premio letterario. In realtà  questa gente si infischia della letteratura e della poesia, della cultura e dell‘arte: esercita la professione di sacrestano letterario e nulla più.

2022

Occorre ricordare onorevolmente, nel campo della letteratura per i ragazzi, "Il Giornalino della Domenica" diretto da Vamba, con tutte le sue iniziative e le sue organizzazioni. Per la collaborazione di padre Pistelli (esempio raro di un grande filologo che lavora genialmente per i ragazzi) cfr l‘articolo di Lea Nissim Omero Redi e le "Pistole" nella "Nuova Antologia" del 1° febbraio 1928.

2023

Criteri. Essere un‘epoca. Nella "Nuova Antologia" del 6 ottobre 1928 Arturo Calza scrive: "Bisogna cioè riconoscere che -- dal 1914 in qua -- la letteratura ha perduto non solo il pubblico che le forniva gli alimenti (!), ma anche quello che le forniva gli argomenti. Voglio dire che in questa nostra società europea, la quale traversa ora uno di quei momenti più acuti e più turbinosi di crisi morale e spirituale che preparano (!) le grandi rinnovazioni, il filosofo, e dunque anche, necessariamente, il poeta, il romanziere e il drammaturgo -- vedono intorno a sè piuttosto una società  "in divenire" che una società  assestata e assodata in uno schema definitivo (!) di vita morale e intellettuale; piuttosto vaghe e sempre mutevoli parvenze di costumi e di vita che non vita e costumi saldamente stabiliti e organizzati; piuttosto semi e germogli, che non fiori sbocciati e frutti maturati. Ond‘è che -- come scriveva in questi giorni egregiamente il Direttore della "Tribuna" (Roberto Forges Davanzati), e hanno ripetuto poi e anzi "intensificato" altri giornali -- "noi viviamo nella maggiore assurdità  artistica fra tutti gli stili e tutti i tentativi, senza più capacità  di essere un‘epoca"".

Quante parole inutili tra il Calza e il Forges Davanzati. Forse che solo oggi c‘è stata una crisi storica? E non è anzi vero che proprio nei periodi di crisi storica, le passioni e gli interessi e i sentimenti si arroventano e si ha in letteratura il "romanticismo"? Gli argomenti dei due scrittori zoppicano e si rivoltano contro gli argomentatori: come mai il Forges Davanzati non si accorge che il non aver capacità  di essere un‘epoca non può limitarsi all‘arte ma investe tutta la vita? L‘assenza di un ordine artistico (nel senso in cui può intendersi l‘espressione) è coordinata all‘assenza di ordine morale e intellettuale, cioè all‘assenza di sviluppo storico organico. La società  gira su se stessa, come un cane che vuol prendersi la coda, ma questa parvenza di movimento non è svolgimento.

2024

Antonio Fradeletto. Già  radicale massone, convertito poi al cattolicismo. Era un pubblicista retorico sentimentale, oratore delle grandi occasioni, rappresentava un tipo della vecchia cultura italiana che pare tenda a sparire in quella forma primitiva, perchè il tipo si è universalizzato e stemperato. Scrittori di argomenti artistici, letterari e "patriottici". In ciò appunto consisteva il tipo: che il patriottismo non era un sentimento diffuso e radicato, lo stato d‘animo di uno strato nazionale, un dato di fatto, ma una "specialità oratoria" di una serie di "personaggi" (cfr Cian, per esempio), una qualifica professionale per così dire. (Non confondere con i nazionalisti, sebbene Corradini sia appartenuto a questo tipo e si differenziasse in ciò dal Coppola e anche dal Federzoni. Neanche D‘Annunzio è mai rientrato perfettamente in questa categoria. Ciò che è notevole è che sarebbe molto difficile spiegare a uno straniero, specialmente a un francese, in che consisteva questo tipo, che è legato allo sviluppo particolare della cultura e della formazione nazionale italiana. Nessun confronto possibile, per esempio col Barrès o con Peguy).

2025

Scrittori tecnicamente brescianeschi. Per questi scrittori è da confrontare Monsignor Giovanni Casati, Scrittori Cattolici Italiani viventi. Dizionario bio-bibliografico ed indice analitico delle opere, con prefazione di F. Meda, pp. VII-112, in-8°, nelle varie edizioni. E‘ da rilevare il fatto che da qualche anno gli scrittori cattolici in senso stretto cercano di organizzarsi a sè, di formare una corporazione solidale e che si controlla e si esalta attraverso tutta una serie di pubblicazioni e di iniziative. Ragione di questo atteggiamento militante e spesso aggressivo, che è connesso alla nuova situazione che legalmente e ufficialmente il cattolicismo è venuto conquistando nel paese.

2026

Panzini. In altra nota è stato già  rilevato come F. Palazzi, nella sua recensione del libro del Panzini I giorni del sole e del grano osservi come l‘atteggiamento del Panzini verso il contadino sia piuttosto quello del negriero che non quello del disinteressato e candido georgico; ma questa osservazione si può estendere ad altri, oltre che al 5 Panzini, che è solo il tipo o la maschera di un‘epoca. Ma altre osservazioni fa il Palazzi che sono strettamente legate al Panzini (e collegate a certe ossessioni del Panzini, alle sue pavide ossessioni, come quella, per esempio della "livida lama"). Scrive il Palazzi (ICS del giugno 1929): "Quando (il Panzini) vi fa l‘elogio, a mezza bocca, del frugale pasto consumato sulle zolle, a guardarlo bene vi accorgete che la sua bocca fa le smorfie di disgusto e nell‘intimo pensa come mai si possa vivere di cipolle e di brodo nero spartano, quando Dio ha messo sotto la terra il tartufo e in fondo al mare le ostriche. ...."Una volta -- egli confesserà  -- mi è venuto anche da piangere" .

Ma quel pianto non sgorga dai suoi occhi, come da quelli di Leone Tolstoi, per le miserie che sono sotto i suoi occhi, per la bellezza intravista di certi umili atteggiamenti, per la simpatia viva verso gli umili e gli afflitti che pur non mancano tra i coltivatori rudi dei campi. Oh, no! egli piange perchè a sentir ricordati certi dimenticati nomi di masserizie, si ricorda di quando sua madre li chiamava pure così, e si rivede bambino e ripensa alla brevità  ineluttabile della vita, alla rapidità  della morte che ci è sopra. "Signor arciprete, mi raccomando: poca terra sopra la bara". Il Panzini insomma piange perchè si fa pena. Piange di sè e della morte e non per gli altri. Egli passa accanto all‘anima del contadino senza vederla.Vede le apparenze esteriori, ode quel che esce appena dalla sua bocca e si domanda se pel contadino la proprietà  non sia per caso sinonimo di "rubare" ".

2027

"Popolarità " del Tolstoi e del Manzoni. Nel "Marzocco" dell‘11 novembre 1928 è pubblicato un articolo di Adolfo Faggi, Fede e dramma, nel quale sono contenuti alcuni elementi per istituire un confronto tra la concezione del mondo del Tolstoi e quella del Manzoni, sebbene il Faggi affermi arbitrariamente che i "Promessi Sposi corrispondono perfettamente al suo (del Tolstoi) concetto dell‘arte religiosa", esposto nello studio critico sullo Shakespeare: "L‘arte in generale e in particolare l‘arte drammatica fu sempre religiosa, ebbe cioè sempre per iscopo di chiarire agli uomini i loro rapporti con Dio, secondo la comprensione che di questi rapporti s‘erano fatta in ogni età  gli uomini più eminenti e destinati perciò a guidare gli altri... Ci fu poi una deviazione nell‘arte che l‘asservì al passatempo e al divertimento; deviazione che ha avuto luogo anche nell‘arte cristiana". Nota il Faggi che in Guerra e Pace i due personaggi che hanno la maggior importanza religiosa sono Platone Karatajev e Pietro Biezuchov: il primo è uomo del popolo, e il suo pensiero ingenuo ed istintivo ha molta efficacia sulla concezione della vita di P. Biezuchov. Nel Tolstoi è caratteristico appunto che la saggezza ingenua ed istintiva del popolo, enunciata anche con una parola casuale, faccia la luce e determini una crisi nell‘uomo colto. Ciò appunto è il tratto più rilevante della religione del Tolstoi che intende l‘Evangelo "democraticamente", cioè secondo il suo spirito originario e originale. Il Manzoni invece ha subito la Controriforma: il suo cristianesimo ondeggia tra un aristocraticismo giansenistico e un paternalismo popolaresco gesuitico. Il rilievo del Faggi che "nei Promessi Sposi sono gli spiriti superiori come il padre Cristoforo e il cardinale Borromeo che agiscono sugli inferiori e sanno sempre trovare per loro la parola che illumina e guida" non ha connessione sostanziale con la formulazione di ciò che è l‘arte religiosa di Tolstoi, che si riferisce alla concezione generale e non ai particolari modi di estrinsecazione: le concezioni del mondo non possono non essere elaborate da spiriti eminenti, ma la "realtà " è espressa dagli umili, dai semplici di spirito.Bisogna inoltre notare che nei Promessi Sposi non c‘è popolano che non sia "preso in giro" e canzonato: da don Abbondio a fra Galdino, al sarto, a Gervasio, ad Agnese, a Perpetua, a Renzo, alla stessa Lucia: essi sono rappresentati come gente meschina, angusta, senza vita interiore. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l‘Innominato, lo stesso don Rodrigo. Perpetua, secondo don Abbondio, aveva detto presso a poco ciò che disse poi il Borromeo, ma intanto si tratta di quistioni pratiche e poi è notevole come lo spunto sia oggetto di comicità.

Così il fatto che il parere di Renzo sul valore del voto di verginità  di Lucia coincide esteriormente col parere di padre Cristoforo. L‘importanza che ha la frase di Lucia nel turbare la coscienza dell‘Innominato e nel secondarne la crisi morale è di carattere non illuminante e folgorante come ha l‘apporto del popolo, sorgente di vita morale e religiosa, nel Tolstoi, ma meccanico e di carattere "sillogistico". In realtà  anche nel Manzoni si possono trovare notevoli tracce di brescianesimo.(E‘ da notare che prima del Parini, furono i gesuiti a "valorizzare" "paternalisticamente" il popolo: cfr La giovinezza del Parini, Verri e Beccaria di C. A. Vianello (Milano, 1933), dove si accenna al padre gesuita pozzi "che tanto prima del Parini insorse a difendere ed esaltare -- innanzi al consesso del migliore patriziato milanese -- "il plebeo" o proletario, come ora si direbbe" (vedi "Civiltà  Cattolica" del 4 agosto 1934, p. 272). In un secondo articolo pubblicato nel "Marzocco" del 9 settembre 1928, il Faggi (Tolstoi e Shakespeare) 8 esamina l‘opuscolo di Tolstoi su Shakespeare, al quale aveva accennato nell‘articolo precedente: Leo N. Tolstoi: Shakespeare, eine kritische Studie, Hannover, 1906. Il volumetto contiene anche un articolo di Ernest Crosby su L‘atteggiamento dello Shakespeare davanti alle classi lavoratrici e una breve lettera di Bernardo Shaw sulla filosofia dello Shakespeare. Tolstoi vuole demolire lo Shakespeare partendo dal punto di vista della propria ideologia cristiana; la sua critica non è artistica, ma morale e religiosa. L‘articolo del Crosby, da cui prese le mosse, mostra, contrariamente all‘opinione di molti illustri inglesi, che non c‘è in tutta l‘opera dello Shakespeare quasi alcuna parola di simpatia per il popolo e le masse lavoratrici.

Lo Shakespeare, conforme alle tendenze del suo tempo, parteggia manifestamente per le classi elevate della società : il suo dramma è essenzialmente aristocratico. Quasi tutte le volte che egli introduce sulla scena dei borghesi o dei popolani, li presenta in maniera sprezzante o repugnante, e li fa materia o argomento di riso (cfr ciò che già  detto del Manzoni, la cui tendenza è analoga, sebbene le manifestazioni ne siano attenuate). La lettera dello Shaw è rivolta contro Shakespeare "pensatore", non contro Shakespeare "artista". Secondo lo Shaw nella letteratura si deve dare il primo posto a quegli autori che hanno superato la morale del loro tempo e intraveduto le nuove esigenze dell‘avvenire: Shakespeare non fu "moralmente" superiore al suo tempo ecc. In queste note occorre evitare ogni tendenziosità  moralistica tipo Tolstoi e anche ogni tendenziosità  del "senno di poi" tipo Shaw. Si tratta di una ricerca di storia della cultura, non di critica artistica in senso stretto: si vuole dimostrare che sono gli autori esaminati che introducono un contenuto morale estrinseco, cioè fanno della propaganda e non dell‘arte, e che la concezione del mondo implicita nelle loro opere è angusta e meschina, non nazionale-popolare ma di casta chiusa. La ricerca sulla bellezza di un‘opera è subordinata alla ricerca del perchè essa è "letta", è "popolare", è "ricercata" o, all‘opposto, del perchè non tocca il popolo e non l‘interessa, mettendo in evidenza la assenza di unità  nella vita culturale nazionale.

2028

Bruno Cicognani e l‘autentica fondamentale umanità. Su Bruno Cicognani scrive Alfredo Gargiulo nell‘"Italia Letteraria" del 24 agosto 1930 (cap.XIX di 1900-1930): "L‘uomo e l‘artista fanno nel Cicognani una cosa sola: nondimeno si sente il bisogno di dichiarar subito, quasi in separata sede (!), la simpatia che ispira l‘uomo. L‘umanissimo Cicognani! Qualche sconfinamento, lieve del resto, nell‘umanitarismo di tipo romantico o slavo: che importa? Ognuno sarà  disposto a perdonarglielo, in omaggio a quell‘autentica (!) fondamentale umanità". Dal seguito non si capisce bene ciò che il Gargiulo intende dire: è forse "mostruoso" criticamente che l‘uomo e l‘artista si identifichino? O la attività  artistica non è l‘umanità  dell‘artista? E cosa significa quell‘aggettivo "autentica" e l‘altro "fondamentale"? Sono sinonimi dell‘aggettivo "vero" che ormai è screditato per la sua vacuità. (Occorrerà , per questa rubrica, rileggere tutta l‘esposizione del Gargiulo). Umanità "autentica, fondamentale" può significare concretamente, nel campo artistico, una cosa sola: "storicità", cioè carattere "nazionale-popolare" dello scrittore, sia pure nel senso largo di "socialità ", anche in senso aristocratico, purchè il gruppo sociale che si esprime sia vivo storicamente e il "collegamento" sociale non sia di carattere "pratico-politico" immediato, cioè predicatorio-moralistico, ma storico o etico-politico.

2029

Direttive e deviazioni. Tentativi francesi di letteratura popolare. E‘ stata pubblicata un‘antologia di scrittori operai americani (Poèmes d‘ouvriers amèricains, traduits par N. Guterman et P.Morhange dalle edizioni "Les Revues", 1930, 9 franchi, Parigi) che ha avuto molto successo nella critica francese come si vede dagli estratti pubblicati nel prospetto editoriale. Nel 1925 alle "Editions Aujourd‘hui" è stata pubblicata una Anthologie des ècrivains ouvriers raccolta da Gaston Depresle con prefazione di Barbusse (scritti, tra l‘altro, di Marguerite Andoux, Pierre Hamp ecc.). La Libreria Valois ha pubblicato nel 1930: Henri Poulaille, Nouvel âge littéraire nel cui prospetto editoriale sono elencati i nomi di C. L. Philippe, Carlo Pèguy, G. Sorel, L.e M. Bonneff, Marcel Martinet, Carlo Vildrac ecc. (non appare se si tratta di un‘antologia o di una raccolta di articoli critici del Poulaille). Da vedere i tentativi di Enrico Rocca nel "Lavoro Fascista" per sollecitare una collaborazione letteraria di operai. Critica di questi tentativi.

2030

Giulio Bechi. Morto il 28 agosto 1917 al fronte (cfr giornali e riviste del tempo: ne scrisse Guido Biagi nel "Marzocco"; cfr i Profili e caratteri di Ermenegildo Pistelli). Mario Puccioni (Militarismo e italianità  negli scritti di Giulio Bechi, nel "Marzocco" del 13 luglio 1930), scrive: "La mentalità  dei parlamentari sardi volle vedere in Caccia grossa solo un attacco spietato contro usi e persone e riuscì a fargli passare un guaio -- così Giulio diceva con frase partenopea -- di due mesi di arresto nella fortezza di Belvedere"; ciò che non è esatto perfettamente (pare che il Bechi sia stato sfidato a duello per aver "parlato male delle donne sarde" e quindi punito dall‘autorità  militare per essersi messo in condizioni di essere sfidato). Il Bechi andò in Sardegna col 67° fanteria. La quistione del contegno del Bechi nella repressione del così detto brigantaggio nuorese, con misure da stato d‘assedio, illegali, e l‘aver trattato la popolazione come negri, arrestando in massa vecchi e bambini, risulta dal tono generale del libro e dallo stesso titolo di esso ed è più complessa di quanto paia al Puccioni, il quale cerca di mettere in rilievo come il Bechi protestasse per l‘abbandono in cui era lasciata la Sardegna e come esaltasse le virtù native dei sardi. Il libro mostra invece come il Bechi abbia colto l‘occasione di fare della mediocre letteratura su avvenimenti gravi e tristi per la storia nazionale.

2031

Oscar Maria Graf. E‘ stato tradotto in francese un romanzo di Oscar Maria Graf: Nous sommes prisonniers... (ed. Gallimard, 1930) che pare sia interessante e significativo come tentativo letterario di un operaio (panettiere?) tedesco.

2032

Lina Pietravalle. Dalla recensione scritta da Giulio Marzot del romanzo della Pietravalle Le Catene (Mondadori, 1930, pp. 320, L. 12): "A chi domanda con quale sentimento partecipa alla vita dei contadini, Felicia risponde: "Li amo come la terra, ma non mischierò la terra col mio pane". C‘è dunque la coscienza di un distacco: si ammette che anche (!) il contadino possa avere la sua dignità  umana, ma lo si costringe entro i limiti della sua condizione sociale". Il Marzot ha scritto un saggio su Giovanni Verga ed è un critico talvolta intelligente.Sarebbe da studiare questo punto: se il naturalismo francese, nelle sue pretese di obbiettività  scientifica e sperimentale, non contenesse già , in genere, la posizione ideologica che ebbe poi grande sviluppo nel naturalismo o realismo provinciale italiano e specialmente nel Verga: il popolo della campagna è visto con "distacco", come "natura" estrinseca sentimentalmente allo scrittore, come spettacolo ecc. E‘ la posizione di Io e le belve di Hagenbeck. In Italia, la pretesa "naturalistica" dell‘obbiettività  sperimentale degli scrittori francesi, che aveva un‘origine polemica contro gli scrittori aristocratici, si innestò in una posizione ideologica preesistente, come appare dai Promessi Sposi, in cui esiste lo stesso "distacco" dagli elementi popolari, distacco appena velato da un benevolo sorriso ironico e caricaturale. In ciò Manzoni si distingue dal Grossi che nel Marco Visconti non canzona i popolani e persino dal D‘Azeglio delle Memorie, almeno per ciò che riguarda le note sulla popolazione dei castelli romani.

2033

La cultura nazionale italiana. Nella Lettera a Umberto Fracchia sulla critica ("Pègaso", agosto 1930) Ugo Ojetti fa due osservazioni notevoli.

1) Ricorda che il Thibaudet divide la critica in tre classi: quella dei critici di professione, quella degli stessi autori e quella "des honnàªtes gens ", cioè del pubblico "illuminato", che alla fine è la vera Borsa dei valori letterari, visto che in Francia esiste un pubblico largo ed attento a seguire tutte le vicende della letteratura. In Italia mancherebbe la critica del pubblico (cioè mancherebbe o sarebbe troppo scarso un pubblico medio illuminato come esiste in Francia), "manca la persuasione o, se si vuole, l‘illusione che questi (lo scrittore) compia opera d‘importanza nazionale, anzi, i migliori, storica, perchè, come ella (il Fracchia) dice "ogni anno e ogni giorno che passa ha ugualmente la sua letteratura, e così è sempre stato, e così sarà  sempre, ed è assurdo aspettare o pronosticare o invocare per domani ciò che oggi è. Ogni secolo, ogni porzione di secolo, ha sempre esaltato le proprie opere; è anzi stato portato se mai ad esagerarne l‘importanza, la grandezza, il valore e la durata". Giusto, ma non in Italia ecc.". (L‘Ojetti prende lo spunto dalla lettera aperta di Umberto Fracchia a S. E. Gioacchino Volpe, pubblicata nell‘"Italia Letteraria" del 22 giugno 1930 e che si riferisce al discorso del Volpe tenuto nella seduta dell‘Accademia in cui furono distribuiti dei premi. Il Volpe aveva detto, fra l‘altro: "Non si vedono spuntare grandi opere pittoriche, grandi opere storiche, grandi romanzi. Ma chi guarda attentamente, vede nella presente letteratura forze latenti, aneliti all‘ascesa, alcune buone e promettenti realizzazioni").

2) L‘altra osservazione dell‘Ojetti è questa: "La scarsa popolarità  della nostra letteratura passata, cioè dei nostri classici. E‘ vero: nella critica inglese e francese si leggono spesso paragoni tra gli autori viventi e i classici ecc. ecc.". Questa osservazione è fondamentale per un giudizio storico sulla presente cultura italiana: il passato non vive nel presente, non è elemento essenziale del presente, cioè nella storia della cultura nazionale non c‘è continuità e unità. L‘affermazione di una continuità  ed unità  è solo un‘affermazione retorica o ha valore di mera propaganda suggestiva, è un atto pratico, che tende a creare artificialmente ciò che non esiste, non è una realtà  in atto. (Una certa continuità  e unità  parve esistere dal Risorgimento fino al Carducci e al Pascoli, per i quali era possibile un richiamo fino alla letteratura latina; furono spezzate col D‘Annunzio e successori).

Il passato, compresa la letteratura, non è elemento di vita, ma solo di cultura libresca e scolastica; ciò che poi significa che il sentimento nazionale è recente, se addirittura non conviene dire che esso è solo ancora in via di formazione, riaffermando che in Italia la letteratura non è mai stata un fatto nazionale, ma di carattere "cosmopolitico". Dalla lettera aperta di Umberto Fracchia a S. E. G. Volpe si possono estrarre altri brani tipici: "Solo un po‘ più di coraggio, di abbandono (!), di fede (!) basterebbero per trasformare l‘elogio a denti stretti che Ella ha fatto della presente letteratura in un elogio aperto ed esplicito; per dire che la presente letteratura italiana ha forze non solo latenti, ma anche scoperte, visibili (!) le quali non aspettano (!) che di essere vedute (!) e riconosciute da quanti le ignorano, ecc. ecc.". Il Volpe aveva un po‘ "sul serio" parafrasato i versi giocosi del Giusti: "Eroi, eroi, che fate voi? -- Ponziamo il poi! ", e il Fracchia si lamenta miserevolmente che non siano riconosciute ed apprezzate le ponzature come ponzature. Il Fracchia parecchie volte ha minacciato gli editori che stampano troppe traduzioni di misure legislative-corporative che proteggano gli scrittori italiani (è da ricordare l‘ordinanza del sottosegretario agli Interni on. Bianchi, poi "interpretata" e di fatto revocata, e che era connessa a una campagna giornalistica del Fracchia). Il ragionamento del Fracchia già  citato: ogni secolo, ogni frazione di secolo ha la sua letteratura, non solo, ma la esalta; tanto che le storie letterarie hanno dovuto mettere a posto molte opere esaltatissime e che oggi si riconosce non valgono nulla. All‘ingrosso il fatto è giusto, ma se ne deve dedurre che l‘attuale periodo letterario non sa interpretare il suo tempo è staccato dalla vita nazionale effettiva, sicchè neanche per "ragioni pratiche" vengono esaltate opere che poi magari potrebbero essere riconosciute artisticamente nulle perchè la loro "praticità " sarà  stata superata. Ma è vero che non ci siano libri molto letti? ci sono, ma sono stranieri e ce ne sarebbero di più se fossero tradotti, come i libri di Remarque, ecc. Realmente il tempo presente non ha una letteratura aderente ai suoi bisogni più profondi ed elementari, perchè la letteratura esistente, salvo rare eccezioni, non è legata alla vita popolare-nazionale, ma a gruppi ristretti che della vita nazionale sono le mosche cocchiere. Il Fracchia si lamenta della critica, che si pone solo dal punto di vista dei grandi capolavori, che si è rarefatta nella perfezione delle teorie estetiche ecc.

Ma se i libri fossero esaminati da un punto di vista di storia della cultura, si lamenterebbe lo stesso e peggio, perchè il contenuto ideologico e culturale dell‘attuale letteratura è quasi zero, ed è, per di più, contraddittorio e discretamente gesuitico. Non è neanche vero (come ha scritto l‘Ojetti nella lettera al Fracchia) che in Italia non esista una "critica del pubblico"; esiste, ma a suo modo, perchè il pubblico legge molto e quindi sceglie tra ciò che esiste a sua disposizione. Perchè questo pubblico preferisce ancora Alessandro Dumas e Carolina Invernizio e si getta avidamente sui romanzi gialli? D‘altronde questa critica del pubblico italiano ha una sua organizzazione, che è rappresentata dagli editori, dai direttori di quotidiani e periodici popolari; si manifesta nella scelta delle appendici; si manifesta nella traduzione di libri stranieri e non solo attuali, ma vecchi, molto vecchi; si manifesta nei repertori delle compagnie teatrali ecc. Nè si tratta di esotismo al cento per cento, perchè in musica lo stesso pubblico vuole Verdi, Puccini, Mascagni, che non hanno i corrispondenti nella letteratura, evidentemente. Non solo; ma all‘estero Verdi, Puccini, Mascagni sono preferiti spesso dai pubblici stranieri ai loro stessi musicisti nazionali e attuali. Questo fatto è la riprova più perentoria che in Italia c‘è distacco tra pubblico e scrittori e il pubblico cerca la "sua" letteratura all‘estero, perchè la sente più "sua" di quella così detta nazionale. In questo fatto è posto un problema di vita nazionale essenziale. Se è vero che ogni secolo o frazione di secolo ha la sua letteratura, non è sempre vero che questa letteratura sia prodotta nella stessa comunità  nazionale. Ogni popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo, cioè il popolo in parola può essere subordinato all‘egemonia intellettuale e morale di altri popoli. E‘ questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di egemonie straniere; così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà  si è oggetto di altri imperialismi ecc. D‘altronde non si sa se il centro politico dirigente non capisca benissimo la situazione di fatto e non cerchi di superarla: è certo però che i letterati, in questo caso, non aiutano il centro dirigente politico in questi sforzi e i loro cervelli vuoti si accaniscono nell‘esaltazione nazionalistica per non sentire il peso dell‘egemonia da cui si dipende e si è oppressi.

2034

Il sentimento "attivo" nazionale degli scrittori.6 Estratto dalla Lettera a Piero Parini sugli scrittori sedentari di Ugo Ojetti (nel "Pègaso" del settembre 1930): "Come mai noi italiani che abbiamo portato su tutta la terra il nostro lavoro e non soltanto il lavoro manuale, e che da Melbourne a Rio, da S. Francisco a Marsiglia, da Lima a Tunisi abbiamo dense colonie nostre, siamo i soli a non avere romanzi in cui i nostri costumi e la nostra coscienza siano rivelati in contrasto con la coscienza e i costumi di quelli stranieri fra i quali siamo capitati a vivere, a lottare, a soffrire, e talvolta anche a vincere? D‘Italiani, in basso e in alto, manovali o banchieri, minatori o medici, camerieri o ingegneri, muratori o mercanti, se ne trovano in ogni angolo del mondo. La letteratissima letteratura nostra li ignora, anzi li ha sempre ignorati. Se non v‘è romanzo o dramma senza un progrediente contrasto d‘anime, quale contrasto più profondo e concreto di questo tra due razze, e la più antica delle due, la più ricca cioè d‘usi e riti immemorabili, spatriata e ridotta a vivere senza altro soccorso che quello della propria energia e resistenza?".

Molte osservazioni o aggiunte da fare. In Italia è sempre esistita una notevole massa di pubblicazioni sull‘emigrazione, come fenomeno economico-sociale. Non corrisponde una letteratura artistica: ma ogni emigrante racchiude in sè un dramma, già  prima di partire dall‘Italia. Che i letterati non si occupino dell‘emigrato all‘estero dovrebbe far meno meraviglia del fatto che non si occupano di lui prima che emigri, delle condizioni che lo costringono a emigrare ecc.; che non si occupino cioè delle lacrime e del sangue che in Italia, prima che all‘estero, ha voluto dire l‘emigrazione in massa. D‘altronde occorre dire che se è scarsa (e per lo più retorica) la letteratura sugli italiani all‘estero, è scarsa anche la letteratura sui paesi stranieri. Perchè fosse possibile, come scrive l‘Ojetti, rappresentare il contrasto tra italiani immigrati e le popolazioni dei paesi d‘immigrazione, occorrerebbe conoscere e questi paesi e... gli italiani.

2035

Leonida Rèpaci. Una sua lettera alla direzione dell‘"Italia Letteraria" (7 luglio 1934) per protestare molto comicamente contro una stroncatura di Roberto Fracassi del romanzo Potenza dei fratelli Rupe, contiene, riferite a se stesso, queste parole: "...un uomo, un uomo vero, di quelli che la vita se la guadagnano giorno per giorno con fatica e qualche volta con disperazione".