Lettura freudiane

Lettura IV

Il sistema freudiano e il suo superamento
Indice
Psicopatologia della vita quotidiana
Il primo modello topografico dell’apparato psichico
La scoperta del Super-io
Il secondo modello strutturale
Jung vs Freud
La psicoanalisi contemporanea
L’Io antitetico
Tre casi clinici

Il maggiore psicopatologo è stato Freud: come un eroe mitologico, egli è disceso agli «inferi», e si è trovato di fronte a terrori agghiaccianti; ma portava con sé la sua teoria, come una testa di Medusa, e con essa li ha trasformati in pietra. Noi, suoi seguaci, abbiamo il vantaggio della conoscenza che egli riportò indietro con sé e ci consegnò. Freud sopravvisse. Tocca a noi vedere se riusciamo a sopravvivere senza far ricorso ad una teoria che è, in qualche misura, uno strumento di difesa.

                                                                           R. D. Laing (L’io diviso)

Psicopatologia della vita quotidiana

Abbiamo visto, nelle conferenze precedenti, che le teorie di Freud, nonostante egli insista di continuo a rivendicarne il carattere empirico, sono in realtà inquinate da un’ideologia negativa e pessimistica sulla natura umana.

Per assumere un valore pieno, le scoperte e le intuizioni geniali di Freud vanno inserite in una nuova cornice di riferimento, che liberi le loro potenzialità rivoluzionarie dalla pietrificazione ideologica cui sono andate in corso. L'affrancamento del pensiero freudiano dai suoi presupposti ideologici non implica necessariamente, però, come sostiene Laing, la rinuncia a qualsivoglia teoria. Per sormontare il sistema freudiano, occorre capire quali tra le scoperte e le intuizioni di Freud sono incompatibili con l'ideologia con cui egli li imbriglia.

Partiamo da lontano.

Con L’Interpretazione dei sogni, Freud raggiunge la convinzione che l’inconscio come dimensione psichica altra e diversa nelle sue logiche rispetto alla coscienza esiste realmente ed è perpetuamente attivo, e che le sue teorie (la natura primitiva e selvaggia delle pulsioni, il conflitto tra il principio del piacere e il principio di realtà, il complesso di Edipo, il ruolo della rimozione e dei meccanismi di difesa, ecc.) sono in grado di spiegare il suo singolare funzionamento soprattutto in rapporto ai fenomeni psicopatologici.

Il legittimo entusiasmo di Freud per avere scoperto l’interpretabilità dei sogni (che oggi sappiamo non estensibile a tutti i sogni e tanto meno a tutti i loro dettagli) è evidente in un saggio (Il sogno) pubblicato nel 1901, nel quale egli ribadisce le ipotesi avanzate nell’opera dell’anno precedente, approfondendo ulteriormente il meccanismo dello spostamento, che gli appare più importante della condensazione.

Non c’è nulla di nuovo in questa opera, che ha il chiaro intento di divulgare quella precedente. Estrapolo da essa una citazione che ritengo, però, estremamente significativa:

“La nostra ipotesi è che nell'apparato psichico ci siano due agenti di creazione del pensiero, di cui il secondo gode il privilegio di fare accedere liberamente alla coscienza i suoi prodotti, mentre l'attività del primo è in sé inconscia e può raggiungere la coscienza solo attraverso il secondo. Al limite fra i due agenti, dove il primo passa nel secondo, c'è una censura che lascia passare solo ciò che le piace e respinge tutte le altre cose. Secondo la nostra definizione, quindi, ciò che viene respinto dalla censura si trova in uno stato di rimozione. In determinate condizioni, tra cui lo stato di sonno, il rapporto tra le forze dei due agenti viene modificato in modo tale che ciò che è rimosso non può essere più trattenuto. Nello stato di sonno questo probabilmente accade a causa del rilassamento della censura; in tal caso è possibile che ciò che fino allora era stato rimosso arrivi alla coscienza. Tuttavia, poiché la censura non viene mai completamente eliminata, ma semplicemente ridotta, il materiale rimosso si deve sottomettere a determinate modifiche, perché ne vengano mitigate le caratteristiche sgradevoli. In tali casi ciò che diviene cosciente è un compromesso tra le intenzioni di un agente e le esigenze dell'altro.”

All'epoca, Freud è ancora convinto che la vita psichica si riduca ad una continua pressione delle spinte pulsionali che vanno di continuo censurate - filtrate, rimosse e represse - al fine di assicurare al'Io cosciente un'immagine unitaria di sè, in qualche misura adeguata alle richieset della società.

Il riferimento a due agenti è però importante. Esso, infatti, fa pensare che Freud abbia intuito che l'attività mentale implica un dialogo, sia pure conflittuale, tra più soggettività.

Questa intuizione, di fatto, sottende Psicopatologia della vita quotidiana (1901), l'opera forse in assoluto più originale di Freud, scritta senz'altro per divulgare l'analisi, ma il cui fine teorico è di dimostrare che il controllo comportamentale dell'Io cosciente può essere interferito in qualunque momento da un'altra soggettività che, entrando in azione, spinge l'individuo a dire, a fare o a non fare il contrario di ciò che si propone.

Si tratta, dunque, di un’analisi sottile e suggestiva di una Controvolontà che produce dimenticanze (di nomi, frasi, impegni, propositi), lapsus (di lingua, di lettura, di scrittura), sbadataggini, azioni sintomatiche, errori, ecc. Freud non usa, però, questo termine che in una sola occasione. Il perché è abbastanza semplice da capire. Negli Studi sull'isteria, Freud ha identificato con esso la tendenza delle pulsioni ad esprimersi vanificando il controllo della coscienza e inducendo spesso uno stato di coscienza dissociato, delirante e inesorabilmente negativo. Ne L'interpretazione dei sogni, che sono di fatto deliri, egli ha confermato il carattere pulsionale dell'inconscio riconducendo l'attività onirica alla soddisfazione di un desiderio che, sul piano di realtà, sarebbe disdicevole e passibile di riprovazione sociale.

I lapsus sono essi stessi "microdeliri" nel senso che l'Io cosciente si trova a dire, a dimenticare, a fare o a non fare cose che sfuggono del tutto al suo controllo e di cui si rende conto solo quando si "risveglia". Essi, però, possono essere ricondotti alla teoria delle pulsioni solo raramente. Due esempi sono i seguenti:

“Un giovanotto dice ad una signora incontrata per la strada: «Se permette, signorina, la vorrei begleitdigen»; ha commesso un lapsus per contrazione, fondendo il termine begleiten [accompagnare] con beleidigen [offendere, mancare di rispetto].

Evidentemente egli desiderava accompagnarla, ma temeva che la sua proposta la offendesse. Il fatto che queste due opposte tendenze abbiano trovato espressione in una sola parola, cioè in questo lapsus, dimostra che le intenzioni del giovanotto erano abbastanza ambigue e che anche lui doveva considerare la proposta offensiva per la donna. Ma proprio mentre egli cercava di nasconderle il reale significato della proposta, il suo inconscio gli ha giocato il brutto tiro di far trapelare le sue reali intenzioni, il che gli ha procurato questa risposta da parte della donna:  «Ma per chi mi prende,  per offendermi in questo modo?»”

“Un signore dell'esempio precedente sta chiacchierando con quella stessa signora durante una serata in casa di amici comuni e la conversazione cade sui preparativi che fervono a Berlino in vista delle feste pasquali. Egli chiede: «Ha visto l'esposizione di Wartheim? E' assai ben scollata». Fin dall'inizio della serata egli aveva ammirato la scollatura della bella signora, ma senza osare esprimerle la propria ammirazione, ed ecco che l'idea repressa si è fatta strada, facendogli dire che un negozio è assai ben scollato [dekolletiert] anziché decorato [dekoriert]. È chiaro che in questo lapsus il termine mostra esprime un doppio senso inconscio.”

Più spesso, la Controvolontà che si esprime attraverso i lapsus sembra riconducibile ad una soggettività che agisce al di sotto della coscienza, e tende sostanzialmente a demistificarla, vale a dire a liberarla dal suo voler essere quello che non è e dal dover essere imposto dalla cultura.

Anche gli esempi citati, che Freud interpreta come espressivi dell'onnipresenza della libido, possono essere interpretati come espressivi di una repressione culturale. Oggi un giovane che incontra una donna attraente non ha grandi difficoltà a dire ad essa o a farle capire il suo desiderio di intrattenere un rapporto intimo, e un uomo attratto da una vertiginosa scollatura ad esprimere esplicitamente l'effetto che essa esercita su di lui.

Di fatto, i lapsus sessuali analizzati nella Psicopatologia della vita quotidina sono singolarmente rari e appaiono nel complesso espressivi della moralità vittoriana e perbenistica dell'epoca, come riesce chiaro dagli esempi che seguono:

“[Una paziente] vuole riprodurre un lontano ricordo d'infanzia, ma è improvvisamente colta da amnesia, le è impossibile ricordare la parte del corpo su cui si è allungata la mano prepotente e desiderosa di un tale. Poco dopo, si trova in visita da un'amica e parla con lei delle vacanze. Interrogata sulla posizione del suo villino a M., risponde: sul fianco della montagna [Berglende], anziché: sul versante della montagna [Berglehne].”

“Un giorno sulle Dolomiti incontro due donne in abbigliamento da escursioniste. Facciamo un pezzo di strada assieme e parliamo dei vantaggi e degli svantaggi della vita di turista. Una delle donne ammette che ci sono anche aspetti sgradevoli. «Certo, non è assolutamente piacevole, quando si è camminato un'intera giornata al sole e blusa e camicia sono impregnate di sudore...». Un attimo di esitazione, poi riprende: «Ma quando poi si arriva a casa...»; ma invece di Hause [casa] dice Hose [mutande]. Non mi sembra necessaria una lunga analisi per trovare la spiegazione di questo lapsus. Mentre pronunciava la prima frase, la donna aveva evidentemente l'intenzione di fare un'enumerazione completa: blusa, camicia, mutande. Poi ritenne più opportuno astenersi dal citare quest'ultimo capo di abbigliamento; ma nella frase seguente, del tutto indipendente, quanto al contenuto, dalla prima, la parola Hose, repressa, si è tradita nella deformazione della parola simile Hause.”

In un certo senso, Psicopatologia della vita quotidiana è addirittura più importante de L’interpretazione dei sogni, perché essa rivela al tempo stesso l’esistenza di una soggettività demistificante e quella di una soggettività colpevolizzante e rimovente.

A questo riguardo, i lapsus personali di Freud sono di grande interesse. Ne riporto due:

“Sul mio tavolo di lavoro sono ordinati sempre allo stesso modo, ormai da anni, l'uno accanto all'altro, un martelletto per i riflessi e un diapason. Un giorno dovevo prendere un treno suburbano, immediatamente dopo aver terminato una visita; nella gran fretta di uscire per non perdere il treno, infilai nella tasca del cappotto il diapason, al posto del martello che volevo portare. Insospettito dal peso mi accorsi immediatamente dell'errore.

Chi non ha l'abitudine di riflettere su piccoli incidenti del genere, dirà senza dubbio che la fretta con la quale mi preparavo spiega e giustifica il mio errore. Invece io ho creduto di vedere nella confusione fra i due oggetti un problema che mi sono impegnato a risolvere. La fretta di quel momento avrebbe potuto essere un motivo sufficiente a non commettere errori e risparmiare con ciò del tempo.

In quale occasione mi ero servito per l'ultima volta del diapason? Questa fu la prima domanda che mi posi. Ero stato qualche giorno prima da un bimbo idiota, di cui esaminavo le facoltà di attenzione alle impressioni sensorie e che fu talmente attratto dal diapason che con difficoltà potei strapparglielo di mano. Se ne dovrebbe forse dedurre che anch'io sono un idiota? Sembrerebbe, poiché la prima idea che mi venne in mente a proposito di «martello» [Hammer] è Chartier (in ebraico «asino»).

Ma che senso ha questo insulto? Prendiamo un attimo in esame la situazione. Avevo fretta di andare a visitare un malato, che abitava nel sobborgo ovest, il quale, stando a ciò che mi era stato comunicato per lettera, era caduto dal balcone qualche mese fa e da allora non riusciva più a camminare. Il medico che mi aveva richiesto il consulto mi scriveva di essere incerto per la diagnosi fra una lesione del midollo spinale e una nevrosi traumatica (isteria). Ero dunque chiamato a definire la questione, era bene che mi ricordassi che bisogna essere estremamente circospetti in casi di diagnosi differenziale. Per di più i medici sono propensi a credere che si diagnostichi troppo facilmente l'isteria anche dove si ha a che fare con casi ben più seri, tuttavia l'insulto non era ancora giustificato! Ora, si dava il caso che la stazioncina in cui dovevo scendere fosse la stessa in cui ero sceso qualche anno prima, per andare a fare una visita ad un giovane il quale, in seguito ad un'emozione, aveva accusato alcuni disturbi alla deambulazione. Avevo diagnosticato l'isteria e sottoposto il malato ad un trattamento psichico, ma non tardai molto ad avvedermi che la mia diagnosi, se non poteva dirsi completamente sbagliata, non era tuttavia rigorosamente esatta. Una quantità di sintomi presentati dal malato erano di natura isterica e non occorse molto ad eliminarli con il trattamento. Ma oltre questi sintomi se ne rivelarono altri, refrattari a1 mio trattamento e che non potevano essere attribuiti che ad una sclerosi multipla. Coloro che visitarono il paziente dopo di me non ebbero alcuna difficoltà a riconoscere l'affezione organica. Sapevo che sarebbe stato quasi impossibile per me regolarmi diversamente, tuttavia ne riportai l'impressione di aver commesso un grosso errore; va da sé che la promessa di guarigione che avevo creduto di poter fare al malato non potè essere mantenuta. La sbadataggine che mi ha fatto infilare in tasca il diapason al posto del martelletto potrebbe dunque essere così tradotta: «Imbecille, asino che sei, stai ben attento questa volta e non diagnosticare l'isteria dove esiste di fatto una malattia incurabile, come ti è capitato qualche anno fa per quel poveruomo che abitava nelle vicinanze». E felicemente per la mia piccola analisi, ma disgraziatamente per il mio umore, quello stesso uomo, affetto da grave paralisi spastica, era venuto a farsi visitare qualche giorno prima del bambino idiota e anche il giorno dopo.

E’ evidente che questa volta la voce dell'autocritica si era espressa attraverso la sbadataggine che d'altra parte si presta particolarmente bene a quest'uso.”

“Mi capita raramente di rompere qualcosa. Non ch'io sia particolarmente abile, ma data l'integrità del mio apparato neuromuscolare, non c'è evidentemente motivo ch'io compia movimenti maldestri con effetti indesiderati. Non ricordo dunque di aver rotto o scheggiato qualche oggetto a casa mia. Per l'angustia del mio studio sono spesso costretto ad assumere le posizioni più scomode per maneggiare gli oggetti in pietra e il vasellame antico di cui posseggo una piccola collezione, e coloro che mi vedono destreggiarmi hanno più di una volta espresso il timore di vedermi scivolare di mano uno degli oggetti e rompersi. Ma non mi è mai accaduto. Perché allora un giorno mi è successo di lasciar cadere e rompere il coperchio di marmo del mio modesto calamaio? Questo calamaio è formato da una lastra di marmo incavata in modo da incorporare un contenitore di vetro sormontato da un coperchio a bottone dello stesso marmo. Dietro questo calamaio sono disposte a semicerchio alcune statuette di bronzo e figurine di terracotta. Un giorno, mentre ero seduto davanti alla scrivania, feci con la mano con cui tenevo la penna, un movimento estremamente maldestro e ampio provocando la caduta del coperchio che avevo posato accanto al calamaio. Non è difficile trovarne la spiegazione. Qualche ora prima mia sorella era entrata nello studio per vedere alcuni nuovi acquisti che avevo fatti. Li aveva trovati di ottimo gusto e aveva detto: «Ora il tuo studio è proprio ben arredato. Solo il calamaio non si accorda con il resto. Te ne occorre uno più bello». Uscii con mia sorella per accompagnarla e rientrai solo qualche ora dopo. Fu allora, credo, ch'io giustiziai il calamaio condannato. Avevo forse dedotto dalle sue parole che mia sorella aveva intenzione di regalarmi, alla prima occasione, un nuovo calamaio e, per costringerla a mettere in pratica l'intenzione che le avevo attribuita, mi ero adoperato a metterla davanti al fatto compiuto, rompendo il vecchio calamaio che aveva trovato brutto? Se è così, il mio movimento brusco era maldestro solo in apparenza; in realtà era molto abile, e ben indirizzato al suo fine; aveva infatti risparmiato tutti gli altri oggetti che si trovavano lì intorno.”

L’inconscio di Freud, evidentemente, batte sempre dove il dente duole: sulle preoccupazioni riferite alla sua coscienziosità professionale e sul desiderio di integrarsi nella società alto-borghese, alla quale si attribuisce tradizionalmente un certo gusto estetico.

Ciò che affiora dall’opera, e viene confermato anche dall’originalissimo saggio Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905), è che le esigenze espressive dell’inconscio non sono vincolate alle pulsioni, ma ad una varietà indefinita di motivazioni umane che vengono represse in quanto poco o punto compatibili con la cultura corrente e con le esigenze di normalizzazione della coscienza individuale.

Nonostante le logiche che caratterizzano il suo funzionamento (condensazione, spostamento, simbolizzazione, trasformazione in immagini di contenuti di pensiero, ecc.), sembra che l’inconscio, a differenza di quanto pensa Freud sul suo carattere sostanzialmente primitivo e selvaggio, miri (spesso, se non sempre) a rendere l’io cosciente più autentico sia sul registro interiore, della conoscenza di sé, che su quello sociale, affrancandolo dalla banalità del senso comune.

Di fatto, sia ne La psicopatologia della vita quotidiana che ne Il motto di spirito la sottigliezza e la creatività dell’inconscio - dimensioni che Freud ha tentato di negare ne L’interpretazione dei sogni - vengono in luce con un’evidenza inconfutabile. Freud però non può valorizzare questo aspetto perché il suo intento, dal 1900 al 1915, è di formulare una teoria dell’apparato psichico che tenga conto della scoperta dell'inconscio: di fondare, insomma, una nuova psicologia che subordini l'attività mentale cosciente al gioco continui dei processi inconsci che la sottendono.

Lo sforzo di Freud in questa direzione si realizza in due momenti successivi, il secondo dei quali rappresenta una svolta estremamente importante. Ad esso dedicherò una grande attenzione dopo una rapida illustrazione del primo modello.

Il primo modello topografico dell’apparato psichico

Il primo modello freudiano dell’apparato psichico è esposto in Metapsicologia (1915), ed è eminentemente spaziale e topografico. Esso riconosce tre “province” psichiche - l’Inconscio, il Preconscio e la Coscienza -, che possono essere rappresentate con il seguente grafico:

La descrizione freudiana di queste province è la seguente:

“Il nucleo dell' Inc è costituito da rappresentanze pulsionali che aspirano a scaricare il proprio investimento, dunque da moti di desiderio… Nell'Inc ci sono solo contenuti forniti di un investimento più o meno forte...”

“La vita di ogni pulsione si può scindere in singole ondate, cronologicamente separate e omogenee all'interno di un'unità di tempo qualsivoglia, che si comportano le une rispetto alle altre all'incirca come successive eruzioni di lava.”

Tali ondate, riconducibili al principio del piacere, vengono ad urtare contro la censura che si esercita a livello del Preconscio.

Il sistema preconscio è collocato tra il sistema inconscio e la coscienza ed è separato dal primo mediante la censura che cerca di interdire ai contenuti inconsci la via verso il preconscio e la coscienza.

“L’Inconscio viene respinto dalla censura al confine del Preconscio; sue propaggini possono eludere questa censura, organizzarsi considerevolmente, svilupparsi fino a raggiungere nel Preconscio un determinata intensità di investimento; ma poi se superano questo limite e vogliono imporsi alla coscienza, sono riconosciute nella loro qualità di derivati dell’inconscio e ancora una volta rimosse dalla nuova censura che si trova al confine tra Preconscio e Inconscio.”

In questa ottica, la Coscienza è impegnata costantemente, a livello consapevole e soprattutto preconscio, a difendersi dagli investimenti pulsionali, e l'inconscio, sede di quegli investimenti e dei contenuti rimossi dalla censura, è quasi solo un fattore di disturbo: più precisamente è "il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall'interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea.”

Ma quali e quante sono le pulsioni? Freud scrive:

“Ho proposto di distinguere due gruppi di tali pulsioni originarie, quello delle pulsioni dell'Io o di autoconservazione e quello delle pulsioni sessuali. A tale enunciazione non va tuttavia attribuito il significato di un postulato necessario, qual è ad esempio l'ipotesi dell'intenzionalità biologica dell'apparato psichico; si tratta di una pura congettura che deve essere mantenuta soltanto finché si dimostra utile, e la cui sostituzione con una congettura diversa non modificherà gran che gli esiti del nostro lavoro descrittivo e classificatorio...

Non è comunque da escludere che uno studio approfondito delle altre affezioni nevrotiche (soprattutto delle psiconevrosi narcisistiche o schizofrenie) possa rendere necessaria una modificazione di questa formula, e con ciò un diverso raggruppamento delle pulsioni originarie. Tuttavia per il momento non conosciamo quest'altra formula.”

L'altra formula, come vedremo, sopravverrà dopo qualche anno. All'epoca i dubbi di Freud non concernono l'esistenza delle pulsioni, ma i contenuti inconsci. Per qualche tempo, in seguito all'analisi dei soggetti isterici, egli li ha ricondotti in toto agli effetti della rimozione.

Si rende, però,rapidamente e dolorosamente conto che le cose non stanno così. Egli scrive:

“Constatiamo che l'Inc non coincide col rimosso; rimane esatto asserire che ogni rimosso è Inc, ma non che ogni Inc è rimosso. Anche una porzione dell'Io, una porzione Dio sa quanto importante dell'Io, può essere, e anzi è certamente Inc. E questo Inc dell'Io non è latente nel senso del Prec, giacché se così fosse non dovrebbe poter diventare attivo senza farsi, né il suo farsi tale dovrebbe dar luogo a difficoltà così grandi. Costretti quindi a istituire una terza specie di Inc non rimosso, dobbiamo riconoscere che il carattere dell'essere inconscio viene a perdere per noi in significato. Si riduce a una qualità plurivoca che non consente di trarre quelle ampie e rigorose conclusioni per le quali avremmo voluto utilizzarlo.”

Occorre riflettere su queste affermazioni. Se l’inconscio, come Freud si augurava, contenesse solo contenuti rimossi disdicevoli e incompatibili con la civiltà, la teoria delle pulsioni sarebbe confermata. Se esso, invece, riconosce contenuti non rimossi, vale a dire autonomi, le cose si complicano parecchio.

Freud aggiunge:

“La ricerca in campo patologico ha fatto sì che il nostro interesse si rivolgesse in modo troppo esclusivo al rimosso. Ora che sappiamo che anche l'Io può essere inconscio nel vero senso della parola, vorremmo conoscerlo meglio.”

Ho fatto già presente che l’intuizione freudiana di un Io inconscio è una tra le più rilevanti che egli ha avuto. Essa, infatti, trasforma il riferimento consueto all’Io come persona nel riferimento all’Io come istanza centrale della personalità, una struttura, in breve, che a livello inconscio funziona come sottostruttura.

Neppure il riferimento all’Io inconscio, però, basta a corroborare un modello troppo semplice e traballante, che comporta, tra l'altro, un nodo apparentemente insolubile.

Ne L’interpretazione dei sogni, come si ricorderà, Freud si è confrontato con il problema dei sogni angosciosi e ha tentato di ricondurli, un po’ forzatamente, al principio dell'appagamento del desiderio. Nella pratica clinica, egli si imbatte nel problema dei sensi di colpa, che sottendono inesorabilmente ogni esperienza di disagio psichico, e in particolare nel problema del masochismo morale, vale a dire nella tendenza dei soggetti nevrotici ad agire comportamenti che attestano un bisogno inconscio di punizione, e vanno dagli autorimproveri a scelte di vita sacrificali o nocive, a comportamenti autolesivi e, a limite, al suicidio. Tali comportamenti, inoltre, non sono occasionali. All’interno delle singole esperienze di disagio, essi tendono a ripetersi con un’inquietante frequenza, spingendo Freud a coniare il termine di coazione a ripetere.

In rapporto a circostanze del genere, che appaiono oltremodo diffuse laddove si dà un disagio psicologico, l’ipotesi di un Io inconscio che agisce contro o a danno dell’Io cosciente sembra poco sostenibile. L’io inconscio può censurare i contenuti inconsci, ma è impossibile attribuire ad esso una capacità di colpevolizzazione e di punizione che, in casi estremi (per esempio nelle gravi depressioni), può indurre il soggetto a realizzare una condanna a morte.

E’ la coazione a ripetere che costringe Freud ad elaborare un secondo modello di funzionamento dell’apparato psichico. Tale modello comporta una scoperta di fondamentale importanza: la scoperta del Super-io.

La scoperta e la teoria del Super-io

La scoperta del Super-io avviene in conseguenza dell’analisi dei sensi di colpa. Nei sogni e nei sintomi i contenuti censurati si associano ad un giudizio critico spesso molto severo. Chi fornisce tale giudizio?

La prima risposta affiora nell’Introduzione al narcisismo, che è del 1914

«I moti pulsionali libidici incorrono nel destino di una rimozione patogena quando vengono in conflitto con le rappresentazioni della civiltà e dell'etica proprie del soggetto... Abbiamo detto che la rimozione procede dall'Io. Potremmo essere più precisi e sostenere che procede dalla considerazione che l'Io ha di sé... Possiamo dire che un individuo ha costruito in sé un ideale rispetto al quale misura il proprio Io attuale... La formazione di un ideale sarebbe da parte dell'Io la condizione della rimozione.»

L’intuizione, dunque, verte sul fatto che l’Io ha un’immagine ideale di sé che funziona come metro di autovalutazione. Ciò che a livello inconscio è incompatibile con l’Ideale dell’io dà luogo alla rimozione.

Poco più oltre, però, Freud aggiunge:

«Non ci sarebbe niente di strano se riuscissimo ad identificare una speciale istanza psichica che assolva il compito di vigilare affinché a mezzo dell'ideale dell'Io sia assicurato il soddisfacimento narcisistico, e a tal fine osserva costantemente l'Io attuale commisurandolo a questo ideale. Se tale istanza esiste, non è possibile che ci accada di scoprirla: possiamo solo riconoscerla come tale e ci è lecito dichiarare che ciò che chiamiamo la nostra "coscienza morale" ha questa prerogativa. Riconoscere l'esistenza di tale istanza ci rende intellegibile il cosiddetto "delirio di essere notati" o, più precisamente, di essere "osservati", delirio che si manifesta con tanta evidenza nella sintomatologia delle affezioni paranoidi... I malati di questo tipo si lamentano del fatto che tutti i loro pensieri sono conosciuti, e le loro azioni sono osservate e inquisite; sono informati dell'opera di questa istanza da voci che hanno la peculiarità di rivolgersi ad essi usando la terza persona... Tale lamentela è giustificata poiché corrisponde al vero. Una forza di questo genere che osserva, scopre e critica tutte le nostre intenzioni esiste davvero, e precisamente nella vita normale di ciascuno di noi. Nel delirio di essere osservati essa compare in forma regressiva, rivelando in tal modo la sua genesi e la ragione per cui la persona ammalata vi si ribella. Infatti, l'esigenza di formare un ideale dell'Io, su cui la coscienza morale è incaricata di vigilare, è scaturita nell'individuo per opera delle critiche che i suoi genitori gli hanno rivolto a voce, alle quali, nel corso del tempo, si sono associati gli educatori, i maestri e l'incalcolabile e indefinita schiera di tutte le altre persone del suo ambiente (il suo prossimo e la pubblica opinione).»

«Sia le voci, sia la moltitudine di persone la cui identità è lasciata nel vago sono... riportate in primo piano dalla malattia; e con ciò viene riprodotta regressivamente la storia evolutiva della coscienza morale. Ma la ribellione contro questa "istanza censoria" dipende dall'intenzione del soggetto... di liberarsi da tutti gli influssi che sono seguiti a quelli dei genitori...

La sua coscienza morale gli si fa dunque contro in forma repressiva, assumendo le sembianze di qualcosa di ostile che agisce all'esterno.»

La citazione dà molto da riflettere. Freud non ha mai avuto in cura pazienti affetti da malattie mentali gravi. Egli estrapola dall’analisi delle nevrosi un meccanismo - la proiezione - che può essere applicato anche alle psicosi, ed è una conseguenza dei sensi di colpa inconsci. In conseguenza di questi, il soggetto si sente esposto al giudizio negativo degli altri che, nel delirio, si realizza sotto forma di voci accusatorie, rimproveranti o minacciose.

Da ciò a pensare che nell’inconscio esista un’istanza o una funzione psichica che rappresenta il mondo sociale nella sua totalità il passo è breve. L’analogia con la coscienza morale ammessa da una lunga tradizione è evidente. Ma, intanto, si tratta di una funzione attiva soprattutto a livello inconscio. In secondo luogo, nelle psicosi essa si realizza sotto forma allucinatoria. In terzo luogo, essa coinvolge spesso tutto il mondo. Infine, ed è la cosa più importante, essa, nei soggetti affetti da un disagio psichico, riguarda spesso non azioni, bensì emozioni, pensieri e fantasie che vengono drammaticamente colpevolizzate e terribilmente punite.

L'ideale dell'Io non basta a spiegare questa crudeltà. La teoria libidica stessa sembra insufficiente. Anche interpretando, come fa Freud, i sensi di colpa come indizio della persistente influenza genitoriale originaria che viene ad urtare contro il desiderio del soggetto di liberarsi, sotto la spinta delle pulsioni, dalle norme e dai valori civilizzanti, che desideri e fantasie infantili possano destinare persone adulte a un tormento perpetuo sembra poco credibile.

Ci deve essere dell'altro nelle pieghe dell'inconscio capace di spiegare questo mistero.

Freud riprende in esame questo problema in Lutto e melanconia, che conclude la Metapsicologia.

Non è casuale che tale opera sia scritta contemporaneamente alle Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, che gettano un’ombra sul legame tra Civiltà e valori culturali elevati cui Freud ha dato credito sino allora. Egli scrive:

«Il privato cittadino ha modo durante questa guerra di persuadersi con terrore di un fatto che occasionalmente già in tempo di pace lo ha colpito: e cioè che lo Stato ha interdetto al singolo l'uso dell'ingiustizia, non perché intende sopprimerla, ma solo perché vuole monopolizzarla... Lo Stato in guerra ritiene per sé lecite ingiustizie e violenze che disonorerebbero l'individuo singolo... Lo Stato richiede ai suoi cittadini la massima obbedienza e il massimo sacrificio di sé, ma li tratta poi da minorenni... Lo Stato scioglie ogni convenzione e trattato stipulato con gli altri stati e non teme di confessare la propria rapacità e volontà di potenza.» (op. cit., vol. 8, p. 127)

Espressione massima di un patto sociale in conseguenza del quale i singoli soggetti hanno accettato di subordinare la loro libertà al diritto dei molti sull’individuo, e dunque ai doveri sociali, lo Stato, deputato a difendere la civiltà e il bene comune dalle pulsioni individuali, ha manifestato, in occasione della guerra, la sua "immoralità", affrancandosi da ogni vincolo giuridico e esibendo senza alcun freno una distruttiva volontà di potenza. E’ proprio il potere statale, infatti, che, con l'ipnotica fascinazione dei valori di cui si ammanta — la patria, la nazione, il bene comune —, mantiene i cittadini in una condizione di totale assoggettamento, ad avere promosso un figlicidio e un fratricidio universale.

La riflessione sulla guerra, insomma, mette in crisi l'ingenua fiducia freudiana nella Civiltà.

Nonché di valori elevati, la funzione censoria, che mantiene, all’interno della soggettività, il primato dei molti sull’individuo, non potrebbe veicolare e rendere coercitivi, in nome dell'appartenenza sociale, anche valori culturali semplicemente convalidati dalla tradizione e dall’Autorità, per quanto oggettivamente immorali? Non potrebbe esso semplicemente piegare la coscienza individuale ad obbedire alla volontà del gruppo di appartenenza e di chi lo rappresenta soffocando, per effetto dell'angoscia sociale, ogni valutazione critica in merito all’elevatezza del valore cui fa riferimento quella volontà?

Se Freud avesse portato alle estreme conseguenze la crisi prodotta dall’immane tragedia della Grande Guerra, sarebbe giunto ad intuire che ogni cultura ha un’intrinseca ambiguità e una potenziale ambivalenza: essa, infatti, offre alla natura umana possibilità illimitate di integrazione ma può anche imporre ad essa valori alienanti, se non addirittura perversi. A una conclusione del genere, come vedremo, egli arriverà ne Il disagio della civiltà, ma solo dopo aver sancito la sostanziale anarchia della natura umana e la necessità della repressione.

Nell’immediato, la sua esigenza è di risolvere la dissonanza cognitiva prodotta dagli eventi storici. La soluzione è affidata, appunto, a Lutto e melanconia. L'accostamento tra queste due dimensioni - fisiologica l’una, patologica l’altra - è giustificato dalle cause occasionali ambientali, entrambe le condizioni rappresentando «la reazione alla perdita di una persona amata o di un'astrazione che ne ha preso il posto, la patria, ad esempio, o la libertà o un ideale e così via.” A differenza del lutto, la melanconia è uno stato patologico caratterizzato “da un profondo e doloroso scoramento, da un venire meno dell’interesse per il mondo eterno, dalla perdita della capacità di amare, dall’inibizione di fronte a qualunque attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell'attesa delirante di una punizione.» L'analogia con il lutto porta a pensare che il malinconico ha subito una perdita che riguarda l'oggetto; ma, sul piano psicologico, egli attacca e denigra se stesso, giudicandosi indegno di vivere, fino al punto di essere spinto ad attentare alla propria vita. Ecco, dunque, ancora una volta prendere corpo un’istanza autonoma rispetto all’Io che assume una funzione persecutoria:

«Nel malinconico vediamo che una parte dell'Io si contrappone all'altra parte, la valuta criticamente e la assume, per così dire, quale suo oggetto. Il nostro sospetto che l'istanza critica, prodottasi in questo caso per scissione dell'Io, possa dimostrare la sua autonomia anche in altre circostanze sarà confermato da tutte le osservazioni ulteriori. Troveremo davvero che esistono validi motivi per separare questa istanza dal resto dell'Io. Ciò che in questo caso impariamo a conoscere è l'istanza comunemente definita istanza morale.»

Rimane da capire come possa un'istanza morale incrudelire a tal punto da indurre una sofferenza così grave e, al limite, una condanna a morte che il soggetto stesso esegue. Nell’affanno di trovare una risposta Freud è costretto letteralmente ad arrampicarsi sugli specchi.

In realtà, ciò che egli ha veramente scoperto, senza riuscire a rendersene pienamente conto, è un’istanza psichica, in gran parte inconscia, che sacralizza l’altro o al limite la società tutta con le sue regole, norme e valori, squalificando, sanzionando e punendo qualunque ribellione, indipendentemente dalle sue ragioni, in misura direttamente proporzionale alla sensibilità sociale soggettiva.

Freud però non può giungere a questa conclusione, perché essa invaliderebbe la teoria pulsionale. Per corroborare questa, occorre un’altra ipotesi che giustifichi il bisogno di autopunizione e consenta di spiegare la severità, che talora arriva alla crudeltà, del Super-io.

Due passaggi intermedi vanno considerati per giungere a questa nuova ipotesi.

Il primo concerne l’autonomia, almeno relativa, del Super-Io rispetto all’Io. Se il Super-Io osserva, giudica, condanna e perseguita l’Io quando il suo comportamento non è conforme al quadro di valori interiorizzato, è evidente che esso funziona come un’altra identità soggettiva all’interno della personalità.

Non è per caso che in questo periodo Freud abbandona ogni riserva e comincia ad utilizzare, per definire il Super-Io, termini antropomorfici, parlando di Censore e di Giudice.

L'antropomorfismo superegoico rappresenterà, per Freud stesso e per il movimento psicoanalitico un nodo gordiano di insolubile difficoltà. Di fatto, l'ipotesi di una doppia identità psichica è perturbante, tanto più se si tiene conto che l'istanza superegoica, in quanto espressione della tradizione culturale, veicolata dai genitori, dagli educatori e dalla società nel suo complesso, dovrebbe avere l'effetto di integrare socialmente la personalità, di "familiarizzarla" con il mondo. Ciò che invece risulta chiaro a Freud è che quell'istanza rende familiare il mondo — interno ed esterno — solo se ad essa l'individuo si assoggetta, accettandone passivamente gli ideali che veicola; se l'individuo si ribella, l'istanza superegoica da protettiva diventa persecutoria e mortificante.

L'antropomorfismo superegoico è confermato da Freud in un saggio, Il perturbante (1919), a torto ritenuto minore. Esso è percorso da un'inquietudine che sarebbe ingenuo attribuire all'argomento, che, in apparenza, concerne l'estetica. Freud intende dimostrare che una delle forme più inquietanti di angoscia, quella significata dal termine tedesco unheimlich è dovuta al riaffiorare, dopo una lunga rimozione, di ciò che un giorno fu heimlich (patrio), familiare, e che, in seguito alla rimozione, diventa perturbante, lugubre, sinistro. Uno dei temi sui quali Freud sofferma l'attenzione è «il motivo del sosia in tutte le sue gradazioni e configurazioni, ossia la comparsa di personaggi che, presentandosi con il medesimo aspetto, debbono venire considerati identici; l'accentuazione di questo rapporto mediante la trasmissione immediata di processi psichici dall'una all'altra di queste persone... così che l'una è compartecipe delle conoscenze, dei sentimenti e dell'esperienza dell'altra; l'identificazione del soggetto con un'altra persona sì che egli dubita del proprio Io e lo sostituisce con quello delle persone estranee; un raddoppiamento dell'Io, quindi una suddivisione dell'Io, una permuta dell'Io; un motivo del genere è infine il perpetuo ritorno dell'uguale, la ripetizione degli stessi tratti del volto, degli stessi caratteri, degli stessi destini, delle stesse imprese delittuose, e persino degli stessi nomi attraverso più generazioni che si susseguono.»

Questo motivo suggerisce a Freud la definizione dell'istanza superegoica:

«La rappresentazione del sosia... può acquisire un nuovo contenuto traendolo dalle fasi di sviluppo successivo dell'Io. Nell'Io prende forma lentamente un'istanza particolare, capace di opporsi al resto dell'Io, un'istanza che serve all'autosservazione e all'autocritica, che effettua il lavoro della censura psichica e che ci diventa nota come coscienza morale. Nel caso patologico del delirio di essere osservati questa istanza si isola, si scinde dall'Io, diventa osservabile da parte del medico. Il fatto che esista un'istanza del genere, che può trattare il resto dell'Io come un oggetto, il fatto cioè che l'uomo sia capace di autosservazione, consente di conferire un nuovo contenuto alle vecchie rappresentazioni del sosia...»

In nota, Freud aggiunge: «Io credo che quando i poeti lamentano che il petto dell'uomo ospita due anime, e quando gli psicologi popolari parlano della scissione dell'Io nell'uomo, essi intravvedono questo dissidio che fa parte della psicologia dell'Io, tra l'istanza critica e il resto dell'Io.»

Alla luce di questi testi è insensato sostenere che l'antropomorfismo superegoico rappresenti una svista freudiana o un cedimento della riflessione scientifica a residui animistici. Si tratta, invece, di un'intuizione prodigiosa perché omologa ogni struttura di personalità ad un sosia, attribuendo ad essa normalmente una doppia identità che la psicopatologia rivela, consentendone dunque l'oggettivazione.

Purtroppo, proprio questa intuizione promuoverà molte critiche nel corso dello sviluppo del pensiero psicoanalitico, perché essa sembra alludere ad un homuculus presente nello spazio della soggettività umana. In realtà non si tratta di un homunculus ma dell’Altro generalizzato rappresentato interiormente.

Il secondo passaggio, che si realizza in Al di là del principio del piacere (1920), consiste in una revisione della teoria pulsionale rimasta ancorata alla distinzione tra pulsioni autoconservative e pulsioni sessuali. La revisione è resa necessaria dalla crescente evidenza che assume agli occhi di Freud il masochismo morale, vale a dire il bisogno inconscio di soffrire che affligge molti pazienti. Sarebbe semplice interpretare tale bisogno come espressione del carattere ciecamente omologante dell’istanza morale, che tormenta le persone allorché il loro comportamento e soprattutto la loro vita interiore non si conforma ai valori culturali interiorizzati. Ma questo significherebbe mettere in dubbio l’elevatezza di tali valori e il ruolo sostanzialmente civilizzante del Super-Io. Non potendo né volendo fare questo, Freud è costretto a formulare l’ipotesi della pulsione di morte, pulsione primaria che tende alla riduzione completa delle tensioni, cioè a ricondurre l’essere vivente allo stato inorganico. Rivolta dapprima verso l’interno e tendente all’autodistruzione, la pulsione di morte verrebbe successivamente diretta verso l’esterno, manifestandosi sotto forma di aggressività o di distruttività.

Questa ipotesi implica l’esistenza di un masochismo primario, i cui effetti autolesivi sono scongiurati solo dalla sua trasformazione in sadismo.

Con l’ipotesi della pulsione di morte i conti tornano nell’ottica di Freud. La severità e la crudeltà del Super-Io si possono spiegare leggendo in esse l'estremo rimedio contro una natura umana animata da una primaria e «cieca ostilità contro tutti e contro tutto», che, se non fosse duramente repressa, voterebbe la civiltà alla catastrofe.

La crisi in cui è incorso Freud in seguito alla Prima Guerra Mondiale si è risolta, dunque, a favore della civiltà, e del Super-io che la rappresenta, contro la natura umana considerata priva di qualunque afflato sociale e morale.

Ancora una volta, Freud lambisce la verità intravedendo la matrice strutturale del disagio nel conflitto tra normalizzazione e individuazione. Il persistente pregiudizio nei confronti della natura umana, alla quale egli rifiuta di attribuire qualunque valenza sociale, gli impedisce però di mettere in discussione la civiltà e il Super-io che la rappresenta. Egli ammette che la società può esagerare nell’imporre all’uomo un carico eccessivo di frustrazioni, ma non si chiede perché e in nome di che essa diviene nevrotizzante.

Nella cornice della pulsione di morte, che caratterizza la fase matura della teorizzazione freudiana, il Super-Io non è più solo l’erede dell’Edipo: esso è il rappresentante della cultura tout-court della società con cui il soggetto interagisce.

Questo arricchimento concettuale è evidente nella Introduzione alla psicoanalisi. Nuova serie di lezioni (1932), ove è scritto che "nel corso dello sviluppo il Super-Io accoglie anche gli influssi di quelle persone che sono subentrate al posto dei genitori, cioè educatori, insegnanti e modelli ideali. Normalmente esso si allontana sempre più dalle individualità originarie dei genitori, diventa per così dire più impersonale."

Ma che cosa infine viene di fatto interiorizzato? A riguardo Freud fa una notazione di straordinario interesse: "Di solito i genitori e le autorità analoghe seguono, nell'educazione del bambino, i precetti del proprio Super-Io… Così, in realtà. Il Super-Io del bambino non viene costruito secondo il modello dei genitori, ma su quello del loro Super-Io; si riempie dello stesso contenuto, diventa il veicolo della tradizione, di tutti i giudizi di valore imperituri che per questa via si sono trasmessi di generazione in generazione… L'umanità non vive interamente nel presente: il passato, la tradizione della razza e quella del popolo, che solo lentamente cedono alle influenze del presente, a nuovi cambiamenti, sopravvivono nelle ideologie del Super-Io e, finché agiscono per mezzo di esso, hanno nella vita umana una parte possente."

Se si riflette su questa frase, riesce chiaro che Freud ha scoperto una funzione che, attraverso la mediazione della famiglia, produce la replicazione della cultura attraverso le generazioni e si avvale di meccanismi di trasmissione prevalentemente inconsci. Attraverso il Super-io, insomma, ogni soggetto viene ad essere influenzato dalla storia sociale del gruppo cui appartiene.

L’intuizione è sublime, in quanto crea un nesso immediato tra due dimensioni che sembrano del tutto distanti tra di loro: la soggettività individuale, che evolve per lungo tempo entro spazi privati, e la storia sociale. Freud, però, non ne può tenere conto perché non intende rinunciare alla teoria delle pulsioni e alle conseguenze che essa comporta, secondo le quali la storia sociale umana si avvia con il passaggio dalla natura alla cultura legata al tabù dell’incesto, che si ripete all’interno di ogni singola esperienza soggettiva.

Il secondo modello strutturale

Per capire questo aspetto basta analizzare la rappresentazione grafica che Freud fornisce del secondo modello nel quale al riferimento spaziale o topico si aggiunge il peso dinamico accordato a tre istanze o strutture: l’Es, L’io e il Super-io.

Freud rimane convinto che l’Es è l’unica e vera realtà psichica. Esso costituisce il polo pulsionale della personalità, i cui contenuti sono in parte innati ed ereditari e in parte acquisiti attraverso la rimozione. L’Es è depositario della pulsione sessuale e della pulsione di morte.

Per quanto riguarda l’Io, esso “è quella parte dell'Es che ha subito una modificazione per la diretta azione del mondo esterno grazie all'intervento del sistema Percezione-Coscienza: in certo qual modo è una propaggine della differenziazione superficiale. L'Io si sforza altresì di far valere l'influenza del mondo esterno sull'Es e sulle sue intenzioni tentando di sostituire il principio di realtà al principio di piacere, che nell'Es esercita un dominio incontrastato.”

Il Super-io, infine, si origina sulla base di “due fattori biologici: la lunga durata che ha nell'uomo l'inermità e la dipendenza infantile, nonché il complesso edipico.” E’ dal superamento di tale complesso, che fa prevalere il principio di realtà, che discende l’interiorizzazione delle norme, delle regole e dei valori le quali consentono all’individuo di agire comportamenti conformi alle esigenze sociali.

“La differenziazione del Super-io dall'Io non è qualche cosa di casuale. Essa reca testimonianza delle più importanti caratteristiche evolutive e dell'individuo e della specie; infatti dando espressione durevole alla influenza dei genitori, perpetua l'esistenza di quegli stessi fattori a cui deve la propria origine.”

Freud giunge anche a distinguere dal Super-Io l’Ideale dell’io da cui ha preso originariamente spunto la sua riflessione sulla funzione censoria:

L’ideale dell’Io è “il rappresentante del nostro rapporto con i genitori. Da bambini piccoli abbiamo conosciuto, ammirato e temuto questi esseri superiori, e più tardi li abbiamo assunti dentro di noi."

Le conclusioni cui Freud perviene ponendo a punto il secondo modello sono le seguenti:

“Ciò che la biologia e le vicissitudini della specie umana hanno creato e depositato nell'Es, viene, attraverso la formazione dell'ideale, assunto dall'Io e riesperito individualmente in relazione ad esso. L'ideale dell'Io, per le vicende che hanno condotto alla sua formazione, si riallaccia per molteplici aspetti alle acquisizioni filogenetiche, e cioè all'eredità arcaica dell'individuo singolo. Quanto ha appartenuto alla realtà più profonda della vita psichica individuale, si trasforma, attraverso la formazione dell'ideale, in quelli che noi riteniamo i valori più alti dello spirito umano.”

“L'Es è assolutamente amorale, l'Io si sforza di essere morale, il Super-io può diventare ipermorale, e quindi crudele quanto solo l'Es può esserlo.”

“Noi vediamo questo stesso Io come un povero essere che soggiace a un triplice servaggio, e che quindi pena sotto le minacce di un triplice pericolo: il pericolo che incombe dal mondo esterno, dalla libido dell'Es e dal rigore del Super-io.”

Negli ultimi anni della sua vita Freud difende a spada tratta il modello strutturale. Il Compendio di psicoanalisi, scritto nel 1938, un anno prima della morte, è una descrizione articolata di tale modello.

L’onestà intellettuale di Freud, però, gli consente di identificare due problemi legati alla pratica psicoterapeutica che gettono un’ombra su di esso. Scrive:

“Più proseguiamo nel nostro lavoro, più la nostra visione della vita psichica del nevrotico si approfondisce e più chiaramente si impone la conoscenza di due nuovi fattori che richiedono la massima attenzione quali fonti della resistenza. Entrambi sono completamente sconosciuti al malato... Essi neppure provengono dall'Io del paziente. Si possono riassumere con il termine generico di "bisogno di malattia" o "bisogno di sofferenza", ma, pur essendo simili, hanno origini diverse.

Il primo di tali due fattori è il senso di colpa o la coscienza di colpa, come viene chiamato senza tener conto del fatto che il malato non lo avverte e non lo riconosce. Esso è chiaramente il contributo alla resistenza portato da un Super-io divenuto particolarmente duro e spietato. L'individuo non deve guarire, ma restare malato, poiché non merita nulla di meglio. Tale resistenza non disturba in realtà il nostro lavoro intellettuale, ma lo rende inefficace, essa ci rende spesso possibile annullare una forma di sofferenza nevrotica, ma è subito pronta a sostituirla con un'altra, eventualmente con una malattia somatica. Questa coscienza di colpa spiega anche le guarigioni o i miglioramenti di gravi nevrosi osservati in occasione di reali disgrazie; quel che conta è soffrire, non importa in che modo. La rassegnazione completa con cui tali persone sopportano spesso il loro crudele destino è molto singolare, ma è anche rivelatrice. Nella difesa contro questa resistenza dobbiamo limitarci a renderla cosciente e a tentare una lenta decostruzione del Super-io ostile.

Meno semplice da provare è l'esistenza di un'altra resistenza, affrontando la quale ci troviamo particolarmente inadeguati. Vi sono tra i nevrotici persone per le quali, a giudicare da tutte le loro reazioni, la pulsione di autoconservazione ha subito un'inversione. Tali persone non sembrano mirare ad altro che all'autolesionismo e all'autodistruzione. Forse appartengono a questo gruppo anche le persone che alla fine giungono realmente al suicidio. Supponiamo che in esse abbiano avuto luogo ampie scomposizioni pulsionali, in conseguenza delle quali sono state liberate quantità straordinariamente grandi della pulsione distruttiva rivolta all'interno. Tali pazienti non possono tollerare la guarigione mediante il nostro trattamento, le si oppongono con tutti i mezzi. Ma ammettiamo che questo è un caso che non siamo ancora riusciti a chiarire del tutto.”

Freud ha scoperto un continente mentale che è stato sempre attivo, da quando è comparsa la specie umana, e ha influenzato potentemente la cultura - sia quella con la c minuscola (organizzazione sociale, tradizioni, usi, costumi, superstizioni, ecc.) che quella con la C maiuscola (religione, filosofia, letteratura, arte, ecc.) -, ma è rimasto sostanzialmente sconosciuto.

Se omologhiamo la scoperta freudiana a quella dell’America, veniamo a disporre di una metafora suggestiva. La scoperta di un nuovo continente comporta l’esplorazione di una spazio geografico naturale utilizzato culturalmente dall’uomo per sopravvivere e organizzare la vita di società. Gli esploratori dell’America hanno fornito abbastanza rapidamente mappe geografiche che, successivamente, sono risultate abbastanza attendibili. Per quanto concerne la cultura degli indigeni, invece, essi l’hanno interpretata alla luce della loro cultura, vedendo in essa quasi solo aspetti primitivi e selvaggi attestanti un certo grado di inciviltà. Agli esploratori sono succeduti, a partire dai primi dell‘800, gli antropologi culturali che hanno preteso di fornire una descrizione scientifica delle culture indigene. Nonostante la sostanziale pertinenza dei dati da essi raccolti, le loro interpretazioni a posteriori sono risultate etnocentriche, vale a dire potentemente influenzate dall’applicazione ad altre culture del modello europeo assunto come espressione di una civiltà avanzata. Solo lentamente l’antropologia culturale si è affrancata dall’etnocentrismo sormontando il pregiudizio del pensiero selvaggio e del primitivismo.

A Freud è accaduto qualcosa del genere. Dedicandosi alle nevrosi con l’intento di dare senso ai sintomi, egli ha scoperto l’inconscio come spazio mentale depositario di indefinite memorie. L’esplorazione dell’inconscio lo ha poi convinto che esso è ricco di contenuti psichici (pensieri, emozioni, fantasie, ecc.). Si è chiesto poi perché questi contenuti non avevano accesso alla coscienza e ha identificato la censura, vale a dire un meccanismo (o meglio un insieme di meccanismi) deputati a salvaguardare la coscienza da tutto ciò che contrasta con l’immagine che l’Io intende mantenere di sé in nome del suo bisogno di sentirsi normale e di essere riconosciuto come tale dalla società.

A questo punto si è chiesto se la rimozione aveva un significato necessario o contingente: se essa fosse funzionale ad arginare impulsi di ogni genere incompatibili con la civiltà e se essa reprimesse culturalmente desideri, fantasie, pensieri umanamente comprensibili.

La risposta, non priva di contraddizioni, ha fatto affiorare la teoria delle pulsioni, vale a dire un sottofondo di spinte desideranti e motivazionali primitive e selvagge, di fatto incompatibili con l’organizzazione di qualsivoglia società. In conseguenza di questa risposta, chiaramente influenzata da una preesistente ideologia negativa della natura umana, si è posto alla ricerca dell’incompatibilità assoluta tra natura umana e cultura e l’ha identificata nell’Edipo, vale a dire nella necessità di frustrare la soddisfazione anarchica del desiderio in nome dell’accesso al principio di realtà.

L’Edipo già contiene un impasto tra un desiderio erotico, rivolto verso il genitore del sesso opposto, e un desiderio ostile, di morte, verso il genitore del proprio sesso. Su questa base, che egli sia giunto, con il secondo modello che abbiamo analizzato, ad ipotizzare l’esistenza di una pulsione di morte appare uno sviluppo del suo pensiero intrinsecamente necessario.

La teoria delle pulsioni è l’anello debole del sistema freudiano. Non è un caso che essa ha prodotto una scissione all’interno del movimento psicoanalitico. Le defezioni originarie sono legate, come noto ad A. Adler e C. G. Jung. Prenderemo in considerazione prima il pensiero di Jung e poi sarà necessario approfondire gli sviluppi più recenti della psicoanalisi.

Jung vs Freud

Il dissidio tra Freud e Jung è fin troppo noto perché ci si soffermi su di esso. Basterà dire che il loro incontro avviene nel 1907 e avvia un rapporto intenso di collaborazione che fa di Jung il più acuto paladino della teoria freudiana, spingendo Freud a riconoscere in lui il suo legittimo erede. Freud però richiede ai suoi allievi l’accettazione in toto delle sue teorie, che Jung non condivide del tutto. nel giro di pochi anni matura una crisi che raggiunge il suo acme tra il 1912 e il 1913, traducendosi in una rottura definitiva in seguito alla quale Jung abbandona il movimento psicoanalitico e fonda una sua scuola di Psicologia analitica. I due non si incontreranno più, ma continueranno a scambiarsi direttamente e indirettamente, attraverso i loro allievi, accuse piuttosto pesanti.

E’ evidente che il conflitto ha mobilitato, oltre che divergenze teoriche, anche aspetti caratteriali. In Tipi psicologici c’è la seguente descrizione dell’introverso logico:

"Nella costruzione del mondo delle sue idee, mentre egli non si tira dietro davanti a nessuna azione audace, né dinanzi ad alcuna idea sotto il pretesto che potrebbe essere pericolosa, sovversiva, eretica e pungente, egli si vende in preda ad una grande ansietà giacché la sua audacia sembra dover divenire realtà. Ciò è per lui molto sgradevole. Anche quando egli lancia le sue idee nel mondo, non lo fa affatto alla maniera di una madre preoccupata per i propri figlioli: egli le espone e tutt'al più si stizzisce quando esse non progrediscono da sole.

La sua mancanza spesso totale di senso pratico, la sua ripugnanza per ogni forma di pubblicità, vengono in suo aiuto. Se ciò ch'egli ha prodotto gli sembra soggettivamente vero e giusto, è perché esso le è realmente e gli altri non debbono fare altro che piegarsi a questa verità. A mala pena egli consentirà di guadagnarsi le simpatie di qualcuno, soprattutto di una persona influente. E se egli lo fa, dimostra molto spesso una tale mancanza di destrezza che raggiunge lo scopo opposto a quello desiderato. Con i suoi colleghi in genere fa delle esperienze spiacevoli; non sa mai accattivarsi il loro favore; dà anche ad intendere che essi non hanno di fronte ai suoi occhi alcuna importanza. Nel perseguimento delle proprie idee, egli è particolarmente ostinato e non si lascia influenzare da nessuno…

Siccome egli pensa ai suoi problemi fino alla fine, nella misura del possibile, egli li complica e s'impelaga senza tregua in ogni sorta di scrupoli. Egli vede chiaramente l'intima struttura delle proprie idee, ma non sa mai molto bene dove collocarle, né come introdurle nel mondo reale. Con molta sofferenza, con preoccupazione, ammette che ciò che è chiaro per lui non lo è per tutto il resto del mondo. Il suo stile si appesantisce, generalmente, di aggiunte, di restrizioni, di precauzioni, di dubbi sollevati dai suoi scrupoli…

Il suo lavoro avanza faticosamente. Egli è taciturno, o capita in mezzo a persone che non lo comprendono: colleziona, così, delle prove della incommensurabile bestialità umana…

Agli estranei egli appare inavvicinabile, arcigno e orgoglioso, spesso anche inasprito dai suoi pregiudizi poco favorevoli alla società. Come professore, egli ha scarsa influenza personale suoi suoi alunni dato che ignora la loro mentalità. D'altronde, in fondo, l'insegnamento non lo interessa del tutto, salvo che ci veda un problema teorico. Egli è un cattivo insegnante perché, insegnando, pensa alla materia insegnata anziché limitarsi ad esporla…

Nella misura in cui il suo tipo si rinforza, le sue convinzioni si fanno più rigide e inflessibili… Egli non farà alcuno sforzo per costringere qualcuno ad aderire alle sue convinzioni, ma pieno di rabbia si volgerà contro ogni critica, anche giusta. Egli si isola così, poco alla volta, da tutti i punti di vista. Le sue idee, un tempo feconde, diventano distruttrici, perché imprigionate da un'amarezza interiore. Con l'isolamento verso l'esterno, cresce anche la lotta contro l'influenza inconscia che lo paralizza a poco a poco.

Un'accentuata tendenza alla solitudine deve proteggerlo dalle influenze dell'inconscio; ma questo in genere lo sprofonda di più nel conflitto che lo corrode interiormente. Il pensiero del tipo introverso è positivo e sintetico per quanto riguarda lo sviluppo delle idee che sempre più si avvicinano alle immagini primordiali valide in eterno. Ma, appena i legami con l'esperienza oggettiva si allentano, queste idee prendono la forma mitologica, sono dunque false per la situazione del momento. Perciò questo pensiero ha valore nella misura in cui esso può mantenere con i fatti conosciuti relazioni evidenti e comprensibili. Divenuto mitologico, la sua importanza svanisce ed esso si perde in se stesso".

Questa descrizione viene spesso riferita a Nietzsche, un autore che peraltro Jung conosceva ed apprezzava. Ho sempre pensato che, scrivendola, Jung avesse in mente piuttosto Freud, che d’altro canto gli ha restituito la pariglia accusandolo di aver tentato di sublimare il materialismo dell’inconscio pulsionale e di avere impropriamente attribuito ad esso una equivoca tendenza verso la trascendenza intellettuale e spirituale.

Al di là delle diatribe caratteriali, a noi qui interessa, ai fini di portare avanti il discorso sulla struttura dell’inconscio, la divergenza teorica.

Questa verte sui seguenti punti:

1) la critica radicale della teoria pulsionale

l’assunzione dell’inconscio come depositario di archetipi (immagini primordiali che fanno parte dell’inconscio collettivo) e come produttore di simboli

l’esistenza di due tipi caratteriali fondamentali: l’introverso e l’estroverso

la teoria del compenso, in virtù della quale l’inconscio lavora per correggere la tendenza della coscienza ad un’organizzazione unilaterale, che rimuove aspetti importanti del mondo interiore

l’attribuzione all’inconscio di un principio di individuazione funzionale a promuovere un processo di differenziazione

l’ipotesi che la predisposizione alla nevrosi sia da ricondurre ad un potenziale d’individuazione elevato, che impedisce l’adattamento normativo.

Il pensiero di Jung meriterebbe una lunga analisi, anche perché esso è articolato in maniera tale da mascherare le sue valenze ideologiche. Riguardo all’inconscio, per esempio, più volte Jung sottolinea il suo potenziale creativo

Non è il caso di affrontare l’analisi in toto del pensiero junghiano. Al di là della distinzione dei tipi psicologici, il punto che qui c’interessa riguarda il principio di individuazione, che Jung descrive nei seguenti termini:

“Il concetto di individuazione è particolarmente importante nella psicologia analitica. Generalmente parlando, è il processo di formazione e di particolarizzazione dell'individuo, in particolare dell'individuo psicologico come essere distinto dall'insieme, dalla psicologia collettiva. L'individuazione è dunque un processo di differenziazione che ha per scopo lo sviluppo della personalità individuale ed è una necessità naturale; ostacolarla con regolamentazioni rigide o esclusive, secondo le norme collettive, pregiudicherebbe molto l'attività vitale dell'individuo. Ora, l'individualità è già data fisicamente e fisiologicamente: ne deriva la sua corrispondente espressione psicologica, ed ostacolare il suo sviluppo equivale a deformare artificialmente il soggetto. Un gruppo sociale composto di unità deformate non potrebbe essere un'istituzione né sana né vitale: solo la società che può conservare contemporaneamente la sua coesione intima e i suoi valori collettivi, ed accordare all'individualità la maggiore libertà possibile, può sperare in una durevole vitalità; l'individuo non è soltanto unità, la sua esistenza stessa presuppone rapporti collettivi, così che il suo processo di individuazione non porta all'isolamento, ma ad una coesione collettiva più intensa ed universale.

Il processo psicologico d'individuazione è strettamente legato alla funzione detta trascendente che determina le linee individuali di sviluppo che non si potrebbero raggiungere solo attraverso le norme collettive.

L'individuazione non può mai costituire l'unico scopo dell'educazione psicologica; l'educazione, prima di avere come scopo l'individuazione, deve averne raggiunto un altro: l'adattamento al minimo di regole collettive necessario all'esistenza. Perché una pianta sia messa in condizione di sviluppare il più possibile la sua originalità, bisogna che possa crescere nella terra in cui è stata piantata. L'individuazione è sempre più o meno in opposizione con la norma collettiva, perché è separazione e differenziazione dall'insieme, formazione dell'originalità, non di una originalità ricercata, ma di quella che è data a priori nella disposizione del soggetto. Però la sua opposizione alla norma collettiva è solo apparente: a ben guardare si nota che il punto di vista individuale non è opposto alla norma collettiva, ma ha semplicemente un altro orientamento.

D'altronde una via individuale non può mai opporsi alla norma collettiva, giacché vi si può opporre solo un'altra norma. Ma una via individuale non è mai una norma, giacché quest'ultima è sempre il risultato d'un insieme di vie individuali. Infatti essa è giustificata e preziosa per la vita, se esistono delle vie individuali che, di tanto in tanto, si orientino verso di essa. Ma quando le si attribuisce un valore assoluto, essa non serve più a niente. Un conflitto reale con le norme collettive esplode solo quando si prende per norma la via individuale; come vorrebbe fare il più acceso individualista. Questa, evidentemente, è un'intenzione patologica completamente contrapposta alla vita. Essa non ha niente in comune con l'individuazione, la quale, prendendo una direzione individuale, non può egualmente trascurare la norma, sia di fronte alla società, sia per stabilire quel rapporto collettivo che è indispensabile all'individuo sociale. L'individuazione, dunque, porta ad un apprezzamento naturale delle norme collettive, mentre queste norme divengono inutili in un orientamento esclusivamente collettivo; da ciò deriva la rovina della moralità, poiché più è forte la norma sociale, più è grande l'immoralità individuale. L'individuazione coincide con il processo di sviluppo della coscienza dall'originario stato d'identità (v. Identità). L'individuazione, dunque, è un allargamento della sfera della coscienza e della vita psichica cosciente.”

La definizione è densa di suggestione, ma estremamente ambigua e carente sotto il profilo scientifico.

Non è vero che l’individualità umana è già data nella costituzione fisiologica. Il corredo genetico è unico e irripetibile, ma, ciò nondimeno, esso non promuove in gran parte della popolazione un processo di differenziazione se non in termini generici.

La necessità dell’adattamento al minimo di regole collettive necessarie all’esistenza è dato come un fatto scontato, ma Jung non chiarisce come esso si realizza.

Ugualmente oscuro è il modo in cui il principio di individuazione si realizza.

La verità è che la concezione dell’incoscio junghiana è senza dubbio di più ampio respiro rispetto a quella freudiana, ma, nel tentativo di differenziarsi da Freud, Jung mette del tutto da parte l’aspetto di vista strutturale. Implicitamente lo ammette perché, a più riprese, va riferimento al meccanismo della compensazione, che viene così definito:

“Agli psicologi piace paragonare la coscienza all'occhio; si parla d'un "campo visivo", d'un "centro ottico" della coscienza, espressioni che caratterizzano perfettamente la natura delle funzioni coscienti. Troppo pochi contenuti possono arrivare simultaneamente al livello superiore del cosciente; un numero limitato di essi può solo mantenersi nello stesso tempo nel suo campo. L'attività della coscienza è dunque essenzialmente selettiva; ora la selezione richiede sempre una direzione determinata, che, da parte sua, esige l'esclusione di tutto ciò che non conviene. Da ciò una certa unilateralità dell'orientamento della coscienza. I contenuti esclusi dalla direzione prescelta o inibiti cadono nell'inconscio; ma per la loro stessa esistenza essi fanno da contrappeso all'orientamento cosciente che si accresce con l'aumento dell'unilateralità della coscienza e finisce per suscitare una tensione sempre più percettibile. Questa tensione apporterà una certa molestia all'attività cosciente, molestia che può ancora tuttavia essere superata grazie a uno sforzo cosciente aumentato. A lungo andare, frattanto, questa tensione aumenta fino al punto che i contenuti inconsci inibiti si introducono nella coscienza sotto forma di sogni e di immagini spontanei. Più è grande l'unilateralità dell'atteggiamento cosciente più i contenuti scaturiti dall'inconscio si indirizzano contro di essa, in modo che si può parlare di un vero conflitto tra il conscio e l'inconscio. In questo caso, la compensazione si manifesta sotto forma di funzione contrastante. E' un caso estremo: in genere, la compensazione per l'inconscio non rappresenta un contrasto. Essa controbilancia l'orientamento cosciente, o lo completa. L'inconscio libera, per esempio in un sogno, tutti i contenuti costellati dalla situazione cosciente ma inibiti dalla scelta cosciente e la cui conoscenza sarebbe indispensabile alla coscienza per giungere ad un adattamento vitale.

Nello stato normale, la compensazione è inconscia; in altre parole essa regolarizza inconsciamente l' attività cosciente. Nella nevrosi, il conflitto tra l'inconscio e il conscio è così violento che la compensazione ne è turbata. Perciò la terapia analitica cerca di rendere consci i contenuti inconsci per ristabilire così la compensazione.”

Il discorso è interessante, ma, non facendo riferimento a polarità strutturali in conflitto tra di loro, che vanno mediate dialetticamente, per giungere ad un livello di integrazione della personalità, esso rimane astratto e si riconduce ad una misteriosa tensione verso un equilibrio psicologico che non si sa bene da dove possa provenire.

Prima di cercare una risposta a questo problema, occorre analizzare brevemente gli sviluppi del pensiero psicoanalitico successivo a Freud.

La psicoanalisi contemporanea

L’analisi più obiettiva e critica dell’analisi contemporanea è stata fornita da Morris N. Eagle. Il libro - La psicoanalisi contemporanea - è del 1981, ma successivamente non c’è stata alcuno sviluppo particolarmente significativo se si eccettua la tendenza dell’analisi a incorporare alcuni concetti del cognitivismo. La recente confluenza tra psicoanalisi e neuroscienze sarà considerata nella prossima conferenza.

Eagle muove dal presupposto per cui “gran parte del lavoro psicoanalitico, anche se non sempre è presentato in questa luce, costituisce in realtà per certi aspetti importanti una revisione radicale della teoria psicanalitica tradizionale “.

Eagle rileva che gli studi etologici e quelli sulle prime fasi di sviluppo neonatale invalidano la teoria delle pulsioni. Gli studi di Harlow sulle scimmie, infatti, hanno posto in luce l’importanza di un bisogno di contatto che non è riducibile all’istinto alimentare. Essi suggeriscono “che il neonato è geneticamente predisposto ad attaccarsi a un’entità con determinate caratteristiche, la principale delle quali è la capacità di fornire “benessere da contatto”. E’ probabile che questo bisogno precoce di benessere da contatto e questa predisposizione ad attaccarsi a chi è in grado di fornirlo costituisca la base, e sia precorritore di un successivo contatto e di un bisogno di relazioni oggettuali che divengono di natura sempre più psicologica… In breve, esiste una base genetica autonoma dello sviluppo dell’attaccamento e delle relazioni oggettuali”. Che questo bisogno di contatto, relativamente indipendente dalle pulsioni della fame, del sesso e dell’aggressività, esista anche nel neonato umano, è comprovato da una serie di studi e di ricerche culminate nell’opera monumentale di Bowlby sull’attaccamento e sulla separazione dalla madre. Al di là del bisogno di contatto, è inoltre ormai comunemente accettato che “il neonato è un organismo alla ricerca di stimoli, e che la sua preferenza selettiva per talune configurazioni di stimoli è una tendenza autonoma, innata, naturale, che compare alla nascita o subito dopo la nascita”.

L’opposizione tra teoria pulsionale e teoria oggettuale è dunque netta. La psicoanalisi contemporanea, nella ricostruzione che ne dà Eagle, si sviluppa a partire da questo problema, secondo uno spettro che va dal tentativo di conservare la teoria tradizionale integrandola con il riconoscimento dell’importanza delle relazioni oggettuali all’estremo di costruire una psicologia psicoanalitica dell’Io del tutto affrancata dal riferimento alle pulsioni.

Per illustrare questo spettro, Eagle analizza criticamente il pensiero di numerosi autori (Margaret Mahler, Modell, Kohut, Fairbairn G. S. Klein, ecc.). Non è possibile qui ripercorrere le tracce di queste analisi, che pongono in luce contraddizioni, incertezze, formulazioni teoriche poco o punto verificabili. Ciò che importa è tenere conto di due conclusioni cui giunge Eagle, che ci danno la chiave per capire le grandi difficoltà che la psicoanalisi ha nel raggiungere uno statuto che si possa ritenere scientifico.

La prima concerne la crescente importanza che hanno assunto nell’analisi contemporanea i temi dell’individuazione e dell’autodifferenziazione: “Un tema saliente che emerge chiaramente nell’opera della Mahler, di Kohut e di Fairbairn è che la dimensione centrale dello sviluppo psicologico è il passaggio da uno stato di completa dipendenza e di relativa mancanza di differenziazione tra sé e l’altro a una sempre maggiore definizione del Sé e a una sempre maggiore autonomia”. In effetti, “nell’essere umano lo sviluppo psicologico non sarebbe completo senza lo sviluppo del senso della propria identità e senza lo sviluppo della capacità di generare programmi, intenzioni, obiettivi e progetti che abbiano inizio nel Sé… In breve, il passaggio dalla dipendenza simbiotica all’individuazione e all’autonomia è, al di sopra di un certo livello filogenetico, un fattore universale” (p. 204). Ora, “se lo sviluppo dell’individuazione, dell’autonomia e del senso del Sé è un elemento universale, è legittimo interrogarsi sulle ragioni di quella che appare un’accresciuta patologia in questo campo generale”. Il problema è che se la crescita della patologia del Sé sembra implicare l’esistenza di fattori socioculturali, “le spiegazioni psicoanalitiche tendono invece a ridurre il socio-culturale a livello delle pratiche e dell’influenza dell’educazione del bambino” (p. 204).

La seconda concerne le motivazioni che sottendono il comportamento umano. Posto che le pulsioni (sessuale e aggressiva) non possono più essere assunte come motivazioni univoche e neppure prevalenti, il rischio legato alle teorie delle relazioni oggettuali è che l’integrità e l’unità del Sé giungano a configurarsi come una motivazione di ordine superiore onnicomprensiva, ovvero come una nuova versione rispetto a quella freudiana della realtà motivazionale di base soggiacente a una vasta gamma di comportamenti. Scrive Eagle: “Una cosa è asserire che alla base di tutte le nostre esperienze e motivazioni diverse vi sono alcuni processi di base causali (o quasi-causali), altra cosa è sostenere che alla base di tutte le nostre esperienze e motivazioni diverse vi è una motivazione di ordine superiore, verso la coesività o la realizzazione del Sé o qualsiasi altra cosa. La prima posizione lascia intatte le diverse esperienze e motivazioni. La seconda, dato che la motivazione di ordine superiore è ritenuta essere allo stesso livello di discorso delle esperienze e motivazioni concrete, sostituisce l’una alle altre, e pertanto fa violenza a – e comporta una trasformazione di – ciò che in realtà esperiamo e desideriamo” (p. 219).

Alle critiche di Eagle ne aggiungerei altre.

La teoria delle relazioni oggettuali non ha prodotto alcuna metapsicologia, alcuna teoria dello sviluppo della personalità, alcun modello psicopatologico che si possano ritenere anche minimamente attendibili. La psicologia e la patologia del Sé sono mere costruzioni concettuali, nelle quali si riflette un abbaglio: quello per cui l’individuo contemporaneo occidentale, scosso in tutte le sue certezze, si rifugia nel narcisismo (normale e patologico) per tentare di restaurare l’unità che proprio la psicoanalisi freudiana ha compromesso. Il Sé coesivo, nel quale essi vedono l’obiettivo motivazionale di ogni soggetto umano,che, se raggiunto, definisce la normalità e, se fallito, definisce la patologia, è e non può essere che un falso Sé. Un Io maturo e adulto non si dà che in nome della consapevolezza piena di essere fatto di parti diverse, in una qualche misura in contraddizione tra loro.

Certo, lo spostamento dell’attenzione dalle vicissitudini pulsionali al processo di differenziazione e individuazione, e il cogliere in questo l’aspetto centrale dello sviluppo della personalità, si può ritenere un progresso. Ma tale progresso può essere riferito solo alla storia della psicoanalisi, vale a dire al misconoscimento da parte di Freud di una qualunque motivazione autonoma sottostante il processo stesso.

Nonostante la scoperta dell’inconscio, una delle più prodigiose nella storia della cultura, la psicoanalisi nel suo complesso, compresi i suoi sviluppi più recenti, è una ben misera scienza o, per dire meglio, non ha assunto uno statuto minimamente scientifico.

I motivi di questa miseria epistemologica, metodologica e teorica sono molteplici. Il più rilevante in assoluto, ben documentato nel libro di Eagle, e persistente nonostante il cambiamento paradigmatico, è l’ostinata volontà degli psicoanalisti di insistere sul significato fondamentale, ai fini dello sviluppo normale o patologico della personalità, dei primissimi anni di vita e della relazione madre-bambino. Tale tendenza si è addirittura incrementata con l’entrata in campo dei teorici delle relazioni oggettuali. Si tratta di un vicolo cieco epistemologico, che Eagle onestamente rileva: “Il fatto è che disponiamo di un numero estremamente scarso di prove affidabili sugli effetti generali delle prime esperienze sullo sviluppo successivo, o che indichino che le prime esperienze hanno un ruolo determinante o irreversibile nella formazione della personalità; ancora più scarse sono le prove sugli effetti di fattori specifici come la mancanza di rispecchiamento empatico. E’ perlomeno possibile che la convinzione che le prime esperienze abbiano un ruolo particolare sia parzialmente errata. Siccome si tratta di una convinzione fortemente radicata… è probabile che i dati clinici rispecchino questa credenza, piuttosto che fornirle una conferma significativa. Quando si esaminano in modo sistematico i dati, traendoli da studi ben progettati, non si riscontrano molte prove nette a sostegno di questa convinzione”.

Non meno importante è l’abbandono, sempre più evidente, del punto di vista strutturale freudiano.

Solo una lettura superficiale di Freud può indurre a pensare che il Super-io, in quanto ipotizzato come struttura che si edifica in seguito al superamento del complesso edipico, intrinsecamente vincolata alla pulsione di morte, perda senso in conseguenza dello scarso o nullo credito che si può accordare al complesso edipico e alla pulsione di morte. Attribuire la replicazione culturale che esso realizza all’interazione interpersonale (con i genitori, gli insegnanti, ecc.) è francamente ridicolo dato che esso fa riferimento a valori culturali non trasmessi verbalmente che gli educatori spesso non sanno neppure di albergare.

Solo una lettura superficiale può indurre a non valorizzare la straordinaria scoperta dell’Io come struttura rappresentata a livello inconscio, che può andare incontro, come Freud ha intuito già all’epoca degli Studi sull’isteria, ad una dissociazione dinamica tale per cui l’orientamento dell’Io cosciente e quello dell’Io inconscio possono risultare antitetici. Per definire tale antitesi, com’è ormai noto, Freud ha utilizzato il temine controvolontà, che poi ha abbandonato alle ortiche nel 1901.

Tenere conto di questi aspetti e restaurare il punto di vista strutturale non è però affatto semplice. Freud, infatti, nonostante la sua concezione dinamica dell’apparato psichico, lo ha utilizzato in una forma meramente meccanicistica, identificando in ogni sintomo, vissuto o comportamento psicopatologico il conflitto tra Super-io e Es.

Il recupero del punto di vista strutturale richiede, oltre alla revisione concettuale del Super-io, la riformulazione dell’istanza che Freud ha originariamente definito Controvolontà, abbandonandola poi alle ortiche. Tale riformulazione fa capo alla funzione che io ho definito Io antitetico.

L’Io antitetico

Negli Studi sull’isteria, Freud ha parlato di Controvolontà in riferimento a spinte pulsionali del tutto contrastanti con la volontà cosciente del soggetto. A posteriori, riesce evidente, come abbiamo avuto occasione di vedere, che, nei soggetti isterici che egli ha analizzato, non si trattava di una spinta pulsionale ma di una ribellione inconscia contro la cultura maschilista e l’attribuzione alla donna di un ruolo subordinato e servile.

Una ribellione sostanzialmente giusta che, in conseguenza della cultura, non può affiorare che sotto forma di malattia e sembra attestare l’esistenza, a livello inconscio di una soggettività che fa riferimento al senso di dignità e di giustizia e ai diritti individuali.

Per definire questa funzione ho adottato il termine di Io antitetico. Cerco brevemente di illustrare il modo in cui sono arrivato a teorizzare questa funzione, definendola, al pari del Super-io, una substruttura dell’Io.

Allorché avviai le mie prime esperienze terapeutiche, peraltro impegnative concernendo due adolescenti affetti da gravi disturbi ossessivi e un giovane psicotico, mi sembrò estremamente pertinente il concetto freudiano di Super-io. In tutti i casi infatti l'incidenza di sensi di colpa imponenti era trasparente. Dato che la mia formazione comportava già all'epoca il riferimento al fatto che la soggettività ha e non può avere una dimensione storica e culturale, cercai di approfondire la tematica dei sensi di colpa.

Si trattava, con tutta evidenza, di vissuti soggettivi. Nessuno dei pazienti, tranne lo psicotico che in alcune circostanze maltrattava la madre, aveva mai fatto male ad alcuno. Essi sembravano, compreso lo psicotico, inermi. Le loro storie interiori comportavano numerosi riferimenti ad aggressioni o prepotenze di vario genere subite senza reagire.

Da ciò sarebbe stato facile giungere alla conclusione, in accordo con la teoria analitica tradizionale, che il Super-io confonde le fantasie e le emozioni con le azioni, sulla base del principio dell'onnipotenza del pensiero che sarebbe costitutiva degli strati primordiali della mente umana.

In effetti tutti i soggetti erano pieni di emozioni negative (rabbie, odi, rancori, fantasie di vendetta, invidia, disprezzo, ecc.). Agli occhi di Freud essi sarebbero apparsi come testimoni probanti dell'intensità del loro bagaglio pulsionale. Tale bagaglio, sulla base dell'angoscia legata alla rappresaglia sociale, avrebbe attivato l'inibizione dell'aggressività, ritorcendola contro il soggetto.

C'era un punto però che non quadrava. Per quanto drammaticamente intense, le emozioni negative dei soggetti apparivano giustificate dalla loro difficoltà di interagire con gli altri su di un registro conflittuale. Essi tendevano univocamente ad accondiscendere o a subire la volontà altrui. Anche lo psicotico che, ogni tanto, maltrattava la madre, diventava aggressivo a scoppio ritardato, ogniqualvolta scopriva di aver ceduto alla volontà materna (cosa che avveniva regolarmente).

Mi chiesi se l'intensità e la drammaticità delle emozioni negative, anziché ad una dotazione pulsionale originaria, non fosse più facilmente interpretabile facendo riferimento all'inibizione di un bisogno: quello di sentire di essere dotati di una volontà propria capace di interagire con la volontà altrui sia sul piano del consenso che del dissenso, o al limite del conflitto. Di quale bisogno però si trattava, e perché se esso era tanto intenso,non riusciva ad esprimersi nel modo di essere e di porsi dei soggetti in rapporto al mondo?

Non sarei probabilmente giunto ad alcuna conclusione nell'immediato se non mi fossi imbattuto in un libro di psicologia evolutiva nel quale si descrivevano le crisi di opposizione infantili, a partire dalla grande crisi dei tre anni. Nel corso di esse, si realizza qualcosa di assolutamente sorprendente. Per quanto piccolo e totalmente dipendente dai suoi, il bambino in fase oppositiva manifesta in genere una capacità di tenere testa alla loro volontà assolutamente sorprendente. Dice "no" alle loro richieste, o semplicemente si oppone strenuamente ad esse, rimanendo attestato sulla sua posizione come se repentinamente si fosse liberato da ogni soggezione. Alcuni bambini, addirittura, non cedono alla volontà genitoriale neppure se vengono picchiati.

Approfondendo questo problema, mi riuscì chiaro che le fasi oppositive, che punteggiano periodicamente l'evoluzione della personalità sino alla grande crisi adolescenziale, rappresentano momenti critici nel corso dei quali l'affermazione della volontà propria avviene sul registro significativo per quanto apparentemente irrazionale dell'antitesi alla volontà altrui. La loro insorgenza periodica e il cambiamento comportamentale radicale che esse determinano mi convinsero che esse corrispondessero ad una programmazione neurobiologica il cui fine ultimo è la definizione di un'identità personale dotata di una volontà autonoma rispetto agli altri.

Riflettendo sulle esperienze dei soggetti che avevo in terapia, venne fuori infatti che, ad eccezione di uno di essi che aveva avuto una violenta crisi di opposizione in rapporto all'inserimento asilare, poi abortita, nessuno di essi aveva mai sperimentato fasi oppositive nel corso dell’evoluzione della personalità.

La conclusione risultò ovvia. Occorreva ammettere l'esistenza, nel programma che sottende l'evoluzione della personalità, di un bisogno di opposizione che in tutti i soggetti in questione era rimasto represso. Le cause della repressione erano ovvie considerando il fatto che in tutti i soggetti che avevo in analisi, il bisogno in questione era venuto ad urtare contro una strutturazione superegoica estremamente rigida. Freud era pienamente consapevole di questo ma attribuiva la rigidità del Super-Io alla necessità di arginare una pressione pulsionale anarchica, asociale e antisociale di ordine costituzionale.

Se il bisogno in questione, configurando l'opposizione alla volontà altrui (degli altri ma anche della cultura che rappresenta una volontà collettiva) come premessa indispensabile per pervenire a disporre di una volontà propria, capace di consentire e di dissentire rispetto a quella altrui, corrispondeva ad una programmazione necessaria al fine di promuovere la definizione di un'identità personale, vale a dire l'individuazione, l'interpretazione freudiana risultava infondata. Veniva piuttosto da pensare che la strutturazione del Super-Io ne avesse promosso e ne mantenesse la repressione.

All'epoca, lo studio delle opere di Freud mi aveva già portato alla conclusione che la sua scoperta del Super-Io, che ritenevo straordinaria, era stata mortificata nel suo valore epistemologico dalla concezione pulsionale della natura umana cui egli faceva riferimento. In conseguenza di questo postulato ideologico, Freud riconduceva il Super-Io all'interiorizzazione dei valori culturali trasmessi attraverso le generazioni e alla paura dell'individuo di dare libero sfogo alle sue pulsioni associata alla consapevolezza di andare incontro ad una rappresaglia sociale. In questa ottica, il Super-Io diventava il rappresentante dell'ordine sociale e della civiltà contro il disordine selvaggio delle pulsioni. A me sembrava chiaro viceversa che l'esistenza e l'universalità del Super-Io fosse la prova incontrovertibile di un bisogno primario di appartenenza/integrazione sociale, e che la sua strutturazione, vale a dire i valori interiorizzati di cui, come Giudice, si faceva garante, producendo sensi di colpa per segnalare vissuti o comportamenti non conformi ad essi, avevano un significato storico-culturale: erano insomma semplicemente valori normativi prodotti dalla tradizione, non necessariamente universali.

Certo, anche la strutturazione del Super-Io è riconducibile ad una programmazione psicobiologica, vale a dire ad un bisogno di socialità che non può prescindere dalla condivisione di un quadro di valori culturali comuni al gruppo o alla società di appartenenza. Il Super-Io è necessario al fine di assicurare ad ogni società umana un certo grado di coesione culturale. Il suo limite però consiste nel sovrapporre la Norma alla diversità individuale nel tentativo di uniformare i comportamenti umani all'interno di un gruppo e nell'assolutizzare valori culturali che, in quanto prodotti storici, possono anche risultare repressivi della libertà individuale e lesivi della dignità umana o poco o punto congeniali con la vocazione personale ad essere.

Mi era chiaro dunque che se il bisogno di appartenenza/integrazione sociale, su cui si erigeva il Super-Io, non fosse stato contrastato e compensato da un altro bisogno - quello, appunto di opposizione/individuazione -, l'individuo semplicemente non sarebbe mai potuto pervenire all'autonomia e alla definizione di un'identità personale differenziata agli altri, capace di consentire ma anche di dissentire con i valori culturali dominanti.

In quest'ottica, il bisogno di appartenenza/integrazione sociale assicurava la stabilità e la coesione della società e dei valori di riferimento in cui essa si riconosceva, mentre il bisogno di opposizione/individuazione assicurava la differenziazione individuale e, in conseguenza di questo, l'evoluzione culturale.

Si trattava solo dunque di trovare un termine adeguato per caratterizzare la funzione psichica che si edificava sul bisogno di opposizione/individuazione. Dopo parecchi dubbi, decisi infine di utilizzare il termine Io antitetico per sottolineare: primo, che esso era integrato con l'Io individuale in opposizione al Noi, che riconosceva nell'individuo semplicemente la parte di un Tutto; secondo, che esso comportava l'opposizione alla logica sistemica del Noi in nome delle potenzialità di differenziazione e dei diritti del singolo individuo.

Per amore di verità, devo aggiungere che la definizione dei due bisogni e del loro carattere geneticamente determinato di programmi, delle funzioni - il Super-io e l'Io antitetico - che si edificano a partire da essi e della tensione intrinseca alla diversa logica che le sottende è giunta a compimento solo nel 1983, a distanza di una decina d'anni dall'avvio della ricerca. Le diverse tappe attraverso cui questa è passata sono almeno in parte testimoniate dai Seminari.

Il vantaggio teorico del concetto di Io antitetico è tanto elevato che riesce difficile esporlo in maniera compiuta. Il vantaggio maggiore è che esso consente di dare finalmente una definizione strutturale compiuta delle polarità di qualunque conflitto psicopatologico. Come noto, Freud ipotizzò che tali polarità fossero riconducibili al Super-Io, rappresentante dei valori morali e culturali essenziali per assicurare un minimo di convivenza tra esseri umani, e all'Es, rappresentante delle pulsioni asociale a morali. La fedeltà degli analisti ortodossi a questa ipotesi sostanzialmente rozza è sorprendente. Anche coloro, però, che la contestano, da Sullivan a Fromm, non hanno fornito alcun'altra ipotesi scientificamente attendibile.

Affermare che il conflitto psicopatologico, in tutte le sue varianti, riconosce come polarità il Super-Io e l'Io antitetico significa, né più né meno, riconoscere che la sua matrice implica una scissione tra il bisogno di appartenenza/integrazione sociale e il bisogno di opposizione/individuazione, vale a dire tra i "doveri" sociali e i "diritti" individuali. Tale scissione si realizza nel corso delle fasi evolutive della personalità, in conseguenza dell'interazione con l'ambiente. Per quanto i due bisogni possano essere rappresentati, infatti, in un corredo genetico individuale in una combinazione poco equilibrata, è impossibile ammettere che questa comporti una predisposizione alla scissione. Qualunque combinazione non può infatti escludere una mediazione tra i bisogni, una configurazione potenziale di equilibrio, sia pure essa spostata dalla parte dei doveri sociali o dei diritti individuali.

Il conflitto psicopatologico, in quest'ottica, si articola dunque su di una tematica universale che ogni cultura in qualche modo affronta e che fa capo alla doppia natura dell'uomo, essere radicalmente sociale per un verso e per un altro dotato di una consapevolezza della sua identità individuale.

Una conseguenza immediata di questa concezione è che la ricostruzione della vita interiore del soggetto, necessaria ad identificare le cause e la genesi del conflitto psicopatologico, giunge ad avvalersi di un riferimento prezioso. Si tratta infatti di volta in volta di capire quali circostanze di interazione con l'ambiente, mediate dai vissuti soggettivi, possano avere determinato la scissione.

Un'altra conseguenza, non meno importante, consiste nello spiegare le conseguenze della scissione. In sé e per sé, in virtù delle diverse logiche che li sottendono, i bisogni intrinseci al corredo genetico sono in tensione tra di loro. La tensione non esclude però, per opera dell'Io, la possibilità di una mediazione tra doveri sociali e diritti individuali secondo formule comportamentali che possono essere diverse in rapporto alle diverse circostanze di vita. In alcune, per esempio, il soggetto può essere motivato a privilegiare i diritti, i bisogni o le aspettative degli altri rispetto alle sue, in altre, viceversa, a privilegiare le proprie esigenze individuali.

La scissione tra i bisogni determina invece una contrapposizione frontale tra la logica del Noi e la logica dell'Io, vale a dire un conflitto irriducibile tra Super-Io e Io antitetico, che si irrigidiscono progressivamente e si autoalimentano. In conseguenza di questo i vissuti e il comportamento del soggetto tendono o a cristallizzarsi rigidamente su di una modalità sociocentrica o egocentrica o a fluttuare dall'una all'altra senza alcuna mediazione.

La contrapposizione tra Super-Io e Io antitetico ha anche un'altra conseguenza. La quota di bisogni che, per effetto del conflitto non riesce a dispiegarsi o rimane repressa e/o rimossa, va incontro ad un processo di ridondanza. In altri termini, un bisogno frustrato si infinitizza. L'infinitizzazione corrisponde alla pressione che esso esercita per sormontare la rimozione o la repressione. Un bisogno infinitizzato però si traduce in emozioni, fantasie e pensieri consci e inconsci che non possono essere riconosciuti dal soggetto nel loro autentico significato. Un bisogno frustrato di appartenenza/integrazione sociale, per esempio, può tradursi in un'angoscia di colpa di estrema intensità, in un vissuto soggettivo di cattiveria, asocialità, antisocialità, ecc. Un bisogno frustrato di opposizione/individuazione può, viceversa, tradursi sotto forma di spinte motivazionali, fantasie e pensieri anarchici e trasgressivi di ogni genere.

Ignorando il principio di ridondanza, Freud è caduto nell'abbaglio di scambiare come pulsioni il carattere compulsivo dei bisogni frustrati e, in conseguenza di questo, ridondanti.

L'ipotesi dell'esistenza a livello inconscio di un io antitetico non ha finora avuto alcuna risonanza al di fuori della cerchia ristretta della mia "scuola", che peraltro non conta più di una decina di allievi.

Da coloro che, estranei alla scuola, hanno dedicato un po' di tempo alla lettura dei miei saggi, sono venute fondamentalmente due critiche. La prima fa capo al fatto che riproporre la teoria del Super-Io come se non fossero accaduti straordinari cambiamenti culturali rispetto all'epoca di Freud non avrebbe senso. Il Super-Io, secondo loro, sarebbe tramontato con la cultura repressiva e gerarchica che lo ha prodotto, e di esso non si darebbe alcuna traccia nelle esperienze psicopatologiche giovanili contemporanee.

Ho discusso questa critica nell'articolo sul Super-io e negli articoli dedicati all'adolescenza di oggi. Non mi affanno a ripeterle se non per sottolineare che essa confonde il Super-Io in quanto funzione strutturale dell'assetto mentale umano, che assicura, di generazione in generazione, la replicazione della cultura, con i contenuti che esso veicola, vale a dire i valori culturali che sono determinati storicamente.

L'altra critica è appena un poco più credibile. Essa contesta che la straordinaria varietà dei vissuti, dei sintomi e dei comportamenti psicopatologici possa essere ricondotta a due soli fattori dinamici. A livello mentale - si sostiene - si danno molteplici se non indefinite motivazioni che possono entrare in confitto tra loro. L'ipotesi monistica per cui ogni conflitto interverrebbe tra Super-Io e Io antitetico, da questo punto di vista, sembra schematica. Non si esclude che essa possa essere valida in alcuni casi, ma sicuramente non in tutti.

La risposta a questa critica è complessa. Occorre considerare anzitutto che è vero che nella mente umana si agitano di continuo motivazioni diverse in competizione tra di loro per influenzare e determinare il comportamento. Ma quale di queste motivazioni può prescindere dal fatto che l'esperienza umana si intrattiene sul registro della relazione tra Io e Altro? Se questo è vero, ogni motivazione può essere ricondotta ad una logica sociocentrica o egocentrica e, in conseguenza di questo, al Super-Io e all'Io antitetico.

E' ancora più importante considerare il fatto che il preteso schematismo della teoria struttural-dialettica viene meno se si tiene conto che il Super-io e l'Io antitetico sono due funzioni variabili, tra le quali si danno infinite combinazioni. E' la varietà del conflitto che da ciò discende a permettere di comprendere la varietà dei vissuti, dei sintomi e dei comportamenti psicopatologici.

Nessuno dei miei critici ha rilevato, invece, un'evidente lacuna della teoria struttural-dialettica. Varie volte ho avuto occasione di scrivere che il Super-Io e l'Io antitetico sono substrutture dell'Io, la cui attività dinamica si svolge con assoluta prevalenza a livello inconscio. Ciò significa che esse forniscono all'io spinte motivazionale, rispettivamente sociocentriche e egocentriche, che egli deve impegnarsi a mediare. In quest'ottica, la difficoltà dell'io può derivare solo dal fatto che esso, investito da spinte motivazionali, radicalmente opposte può fallire nella sua funzione di mediazione. E' vero, ma non è tutta la verità.

Una delle scoperte più profonde di Freud, che basterebbe da sola ad invalidare il cognitivismo coscienzialista, verte sul fatto che anche l'Io è rappresentato a livello inconscio. Tenendo conto di questo, riesce immediatamente evidente che, in conseguenza di una scissione tra i bisogni intrinseci e di una contrapposizione tra Super-Io e Io antitetico, l'Io stesso si scinde: una parte di esso si allea con il Super-Io, un'altra con l'io antitetico. Tale scissione ha anch’essa modalità che variano da un'esperienza all'altra: la parte alleata con il Super-io può essere più o meno rilevante, come pure complementarmente quella alleata con l'Io antitetico.

E' la somma di tutte queste variabili che consente di definire una teoria del conflitto psicopatologico che è, nello stesso tempo, semplice, epistemologicamente elegante e flessibile quanto basta a comprendere la varietà dei sintomi, dei vissuti e dei comportamenti psicopatologici.

E' impossibile illustrare lo spettro espressivo dell'attività dell'Io antitetico in conseguenza di un conflitto. Occorre leggere Star Male di Testa per avere un quadro sufficientemente chiaro per quanto approssimativo di tale spettro.

Qui penso sia opportuno insistere sul fatto che la cultura contemporanea, con la sua perpetua insistenza sull'individualismo e sull'autorealizzazione (narcisistica), ha prodotto in effetti dei cambiamenti a livello di psicopatologia giovanile. Si danno ancora molti casi di crisi giovanili all'interno delle quali, in conseguenza spesso di un'educazione e di una pratica religiosa, l'attività di un Super-io rigido e colpevolizzante è del tutto evidente. E' vero però che sempre più spesso l'adolescenza determina la rimozione o la repressione del Super-Io e il definirsi di un orientamento di personalità irretita dall'Io antitetico. Si definiscono, in conseguenza di questo spesso esperienze caratterizzate da una rivendicazione di libertà totale dal controllo parentale e sociale, che assumono anche precocemente una configurazione trasgressiva; esperienze narcisistiche contrassegnate dall'esigenza di dominare gli altri con cui si è in rapporto e dalla pretesa di essere confermati nel proprio valore a qualunque costo; esperienze di falsificazione dell'io sul registro dell'indurimento, del cinismo e dell'aggressività; ecc

E' evidente in tutti questi casi che il bisogno d'individuazione, se si attiva solo sotto la spinta dell'Io antitetico, realizza una crisi adolescenziale che può perpetuarsi, cronicizzare e non evolvere mai in una direzione dialettica.

Sono tali esperienze, al di sotto delle quali si danno vissuti di colpa e d'inadeguatezza di ogni genere, che comprovano la teoria dell'Io antitetico. Se questa fosse riconosciuta nel suo valore epistemologico, i trattamenti terapeutici otterrebbero migliori risultati di quelli attuali.

Al di là della psicopatologia, una concezione dinamica dell’inconscio fondata sull’interazione perpetua di due substrutture dell’Io dotate di “logiche” diverse può fornire un codice di grande interesse per le scienze umane e sociali.

Tale codice trova però un’applicazione elettiva nell’ambito psicopatologico, laddove esso può essere agevolmente verificato e colto nella sua complessità dinamica. I casi che seguono sono, da questo punto di vista, estremamente suggestivi.

Tre casi clinici

Paola

Il primo è quello di una ragazza che vive fino a 17 anni tra casa, Chiesa e scuola mantenendo un atteggiamento da madonnina. In verità, già a scuola le è capitato di guardare più di una volta con interesse il ragazzo di una sua amica e di sentirsi profondamente in colpa, fino al punto da avere un’allucinazione acustica (“ladra di uomini”).

Un giorno, uscendo dalla chiesa dopo la messa domenicale, passa accanto ad una macchina in sosta. Il suo sguardo incontra quello del ragazzo al volante e, avverte una vampata di seduzione. Nei giorni successivi si rende conto che il ragazzo, in virtù di quello sguardo maliardo, ha perduto la testa per lei. Ovunque essa vada, la segue in macchina con la muta devozione di un cagnolino. A qualunque ora del giorno, se guarda in strada dalla finestra di casa, lo vede in attesa. Esaltata dalla seduzione, nonostante il cuore già le rimorda, Paola sta al gioco, facendo finta però di essere indifferente per rinfocolare la passione del ragazzo.

Dopo alcuni mesi, nel corso dei quali si è sentita gratificata dall’assiduo corteggiamento, Paola intuisce repentinamente di non ricambiare i sentimenti del ragazzo. Seducendolo e rinfocolando la sua passione, lo ha dunque preso in giro. Sentendosi in colpa, decide di affrontarlo per dirgli la verità e risolvere la questione. E’ a questo punto che essa scopre, con sgomento, di non riuscire ad identificarlo. Quando il ragazzo in macchina è ad una certa distanza, ne identifica infallibilmente il "tipo" — la sagoma un po' massiccia, i capelli neri e ricci, e, soprattutto, lo sguardo da innamorato; quando gli si avvicina, l'identificazione diventa incerta e problematica. Paola teme di sbagliare, di salire sulla macchina di un altro ragazzo e di essere violentata, come merita una donna che abborda uno sconosciuto.

Scoperta l'imprevista difficoltà di identificazione, Paola comincia a lanciare dei messaggi al ragazzo per fargli capire che deve essere lui a prendere l'iniziativa. Ma questi, evidentemente, ferito nell'orgoglio dall'atteggiamento altezzoso avuto sino allora nei suoi confronti e, probabilmente, incredulo, continua a seguirla con la costanza consueta ma mantiene un atteggiamento passivo, aspettando che sia essa a piegarsi. Il problema si configura, dunque come insolubile.

A questo punto entrano in scena i parenti e gli amici del ragazzo, sdegnati per la lunga presa in giro. Dapprima con velate allusioni poi con messaggi inequivocabili, lasciano intendere a Paola che non credono alle sue difficoltà di identificazione, e le concedono una sola possibilità di farla franca: recedere dalla sua orgogliosa ostinazione e riparare la colpa con il matrimonio. Per sollecitarla alla resa, cominciano a sottoporla quotidianamente, persino quando è in casa, ad un fuoco di fila di giudizi sprezzanti e di accuse sempre più pesanti. Per porre fine alla persecuzione, che, ormai, le impedisce di vivere, Paola sarebbe disposta a tutto: non a gettarsi però tra le braccia di uno sconosciuto. Per dignità, ma, ancor più perché sa che sia il ragazzo sia i parenti hanno una mentalità estremamente tradizionale, sì che una leggerezza del genere non le verrebbe mai perdonata. Sarebbe, comunque, costretta a sposare il ragazzo, e a subire il disprezzo perenne di tutti i parenti.

La disperazione di Paola è totale. Può fornire la prova della sua onestà solo chiudendosi in casa; ma la persecuzione continua, perché ci si attende da lei un gesto di resa. Tutta la città, ormai, è alleata del ragazzo. Passano gli anni in una situazione di stallo angosciosa. Paola decide, infine, nell'attesa che la sua buona fede sia riconosciuta, di dedicarsi allo studio, unico conforto di una vita claustrale. Tenta di portare a compimento gli studi magistrali, che ha interrotto, con l'intenzione di iscriversi, successivamente, all'università. Scopre, in questa fase, il sadismo della persecuzione.

I parenti e gli amici del ragazzo si scatenano, poiché, non avendo egli un titolo di studio, interpretano la decisione di Paola come l'espressione di un progetto ambizioso, mirante a sancire la sua inferiorità e a orientarla verso altre scelte sentimentali. Dopo poco tempo, lo studio viene interferito e reso impossibile da un perpetuo frastuono di voci, che accusano Paola di volersi liberare del ragazzo. Per questa ingiustizia, che chiude l'ultima via di scampo dalla disperazione, Paola si disamora, giunge a nutrire rabbia e odio contro il ragazzo e tutti coloro che lo difendono. Si vota ad una resistenza passiva: rinuncia a studiare, ma si propone di non cedere mai ad un odioso ricatto. Soffrirà, dunque, ma non si sposerà.

Questa conclusione, alla quale Paola giunge dopo dieci anni di delirio, è, in realtà, la premessa inconscia da cui esso nasce. Cosa pretende la tradizione che, per Paola, parla in nome di tutto il mondo, e che in realtà da voce al suo Super-Io? Che essa accetti di calarsi nel ruolo proprio della donna secondo la tradizione: ruolo che impone di giungere vergine al matrimonio; di essere per sempre di un solo uomo, il primo, lo si ami o no; di subordinarsi al suo potere, dedicandosi esclusivamente a lui, alla casa e ai figli; di non avere alcun interesse né sociale né culturale, poiché tutto ciò che non è funzionale all’adempimento dei doveri domestici può fuorviare la mente.

Alla luce di questa mentalità, che impone alla donna di essere umile schiava dell'uomo che ad essa tocca in sorte, ogni desiderio di libertà, di autonomia, di individuazione di configura, tout-court, come espressione di anarchia, di disordine e, da ultimo, di immoralità.

Non appare opportuno, né necessario, ricostruire qui la biografia interiore di Paola. Basterà dire che la sua cultura ha origini contadine; che la nonna, allevata dalle suore in un collegio, pur avendo spiccate attitudini per lo studio, è stata costretta dal padre a sposarsi precocemente in virtù di un matrimonio combinato; che la madre, donna piuttosto affascinante, immigrata da sola a Roma in giovane età per sottrarsi al regime patriarcale, si è protetta dalle infinite insidie della città sposando il primo uomo buono e onesto che ha conosciuto, pure senza amarlo né provare attrazione per lui. E che costui, pur di carattere sostanzialmente mite, e inferiore ad essa culturalmente, si è sempre rivolto a lei con un tono di comando.

Paola è stata educata in casa, dalle suore, in parrocchia nel rispetto assoluto della tradizione, ed esteriormente si è conformata ad essa, apparendo una ragazza docile, giudiziosa, irreprensibile moralmente. Ma ha, da sempre, avvertito dentro di sé, mascherandola a tutti, una strana inquietudine sotto forma di avversione "viscerale" nei confronti del padre, inetto ma autoritario, di incessanti dubbi religiosi, di rabbia nei confronti del ruolo servile cui la tradizione e la religione destinano le donne.

Per quanto abbia interiorizzato valori culturali rigidamente conservatori, essa nutre un senso di giustizia e di libertà spiccato, sottesi dall’aspirazione a dare alla sua esistenza un valore che non si riduca all’adempimento dei doveri domestici. In questa aspirazione, è difficile identificare l’espressione di desideri trasgressivi, dato che la passione più spiccata di Paola è la letteratura, e il suo progetto di vita comporta il bisogno di studiare, di conseguire una laurea, di svolgere un lavoro significativo e di rendersi autonoma economicamente.

Com’è possibile che, nel contesto di una cultura liberalizzata, un bisogno del genere, del tutto legittimo, determini una catastrofe psicopatologica? Che cosa impedisce al bisogno di opposizione/ individuazione di Paola di tradursi in una pratica di vita orientata al superamento della tradizione che essa ha interiorizzato in famiglia e a scuola?

Benché oppositiva al livello del sentire, Paola purtroppo è rimasta coscientemente vittima della tradizione e della religione: crede autenticamente nei valori morali veicolati dall'una e dall'altra, e non riesce a comprendere che quei valori, che possono essere autentici in sé e per sé, sono immorali nella misura in cui essi sono utilizzati per promuovere non la liberazione bensì la subordinazione cieca e passiva della donna al suo “destino”. Nonostante uno spiccato bisogno d’individuazione, il suo Io cosciente rimane connivente con la Tradizione. In conseguenza di questo, la Controvolontà, che non trova modo di dispiegare le sue potenzialità, assume a livello inconscio una configurazione trasgressiva.

Dissacrando il suo ruolo consueto di “madonnina”, lo sguardo di seduzione che Paola saetta è un acting out denso di significato. Esso inaugura il delirio perché crea un partner immaginario, ma rivela anche la logica del bisogno d’individuazione lungamente represso. Se non è possibile affrancarsi dalla tradizione, è possibile però ribaltarla: schiavizzare seduttivamente un uomo e trattarlo come un cagnolino. Questa ribellione incorre in un drammatico processo di colpevolizzazione, che decide il destino di Paola.

Avendo sfidato la Tradizione, essa ne rimarrà vittima per sempre. Al tempo stesso, isolandosi, essa la subisce ma non si piega. Tra Tradizione e Controvolontà si instaura un equilibrio permanente.

Francesco

E’ il quarto ed ultimo figlio di una famiglia sarda immigrata a Roma negli anni '60. Quando nasce, la madre soffre già da alcuni anni di una psicosi delirante in via di cronicizzazione. Francesco viene allevato dalla zia e dalla sorella. Di carattere buono e docile, non dà mai problemi. Frequenta un asilo di suore e le scuole statali fino alla terza media, senza manifestare interesse alcuno per lo studio. Dopo l'abbandono della scuola, si lascia un po' andare. Dorme fino ad ora di pranzo, e trascorre il pomeriggio con gli amici del quartiere. Dopo circa un anno, il padre, che gestisce una stazione di servizio, gli impone di lavorare con lui per guadagnarsi da vivere. Francesco accetta per dovere, ma di malavoglia. Per via del suo atteggiamento di “lavativo”, affiora qualche contrasto con il padre di lieve entità.

Intorno ai sedici anni, Francesco comincia a frequentare un giro di amici accomunati da un orientamento ideologico di destra. Non ha interesse alcuno per la politica, ma è suggestionato dai discorsi che circolano nel gruppo sul mito del superuomo. Lentamente, e senza rotture, il suo stile di vita cambia. Francesco comincia a sentirsi radicalmente diverso rispetto al contesto familiare e al livello di vita piccolo-borghese faticosamente raggiunto. Nel suo intimo, diventa sprezzante nei confronti di tutti coloro che conducono un'esistenza routinaria, grigia e senza orizzonti. Continua a lavorare di giorno alla stazione di servizio, ma vive questo ruolo come un necessario compromesso. Nutre aspettative di un grande cambiamento fondate non su di un progetto personale, bensì sullo stato d'animo del gruppo che frequenta, vagamente esaltato dal rilancio della destra in Germania. Quando, a 17 anni, si rade a zero i capelli, esibendo la sua appartenenza al gruppo, lo scontro con il padre è inevitabile. Per via della docilità di carattere di entrambi, lo scontro non è violento.

Il padre, la cui cultura è rimasta incentrata sulla rispettabilità e sull'onore, lo richiama ad una condotta di vita più responsabile, facendogli presente che già da qualche tempo dei conoscenti lo hanno messo sull'avviso riguardo alle compagnie frequentate dal figlio, e gli hanno consigliato di intervenire per scongiurare che egli, influenzato dalle teste calde, possa compromettersi. C'è, in effetti, nel quartiere, un'atmosfera che sembra gravitare verso scontri tra gruppi giovanili di destra e di sinistra. Francesco, in nome del rispetto dei grandi in cui è stato educato, lascia parlare il padre, ma, nel suo intimo, sente di essere ormai superiore a lui nel capire la vita, e di dover andare avanti per la sua via. Se ne assume la piena responsabilità e aspetta con ansia il compimento della maggiore età per rivendicare la sua libertà personale.

Compie diciotto anni un mese prima delle votazioni politiche, si sente affrancato da un peso e vagamente esaltato senza ragione apparente. Vota MSI d'accordo con il gruppo cui appartiene, che si augura di vedere il partito virare più decisamente a destra per effetto della spinta giovanile. Per festeggiare il risultato elettorale, si concede una notte brava con gli amici nel corso della quale fuma qualche spinello. L'esaltazione legata alla maggiore età lo induce a sentirsi finalmente padrone di sé. Al padre, che lo richiama all'ordine, risponde che ormai non deve rendere conto a nessuno di quello che fa e che intende quanto prima andare via di casa.

Dopo alcune settimane, comincia ad avvertire delle “voci”. Sono dapprima voci un po' confuse che commentano criticamente i suoi comportamenti. Nel giro di qualche mese, le voci diventano nitide. Francesco le avverte sia fuori che in casa, benché un po' più distanti. I commenti si traducono, poco alla volta, in suggerimenti, consigli e, infine, in comandi.

Francesco non riesce a spiegarsi ciò che sta accadendo, ma gli riesce chiaro che, perseguitandolo, le persone tentano d’influenzarlo, di sottomettere la sua volontà, di trasformarlo in un automa o in un burattino. Si ribella, ma l'intensificarsi delle voci in rapporto alle sue ribellioni non gli concede scampo: deve piegarsi, anche se animato da una esasperazione rabbiosa crescente. Comincia a chiedersi quale sia il significato della persecuzione. Non gli è immediatamente chiaro, poiché i comandi concernono pressoché tutti i comportamenti della vita quotidiana. Francesco si rende conto addirittura che i suoi sogni sono programmati. E' evidente, però, che i “comandi” mirano a farlo tornare a vivere nel ruolo di bravo ragazzo, rispettoso e mediocre, che è stato suo fino a sedici anni.

Per tacitare le voci, Francesco decide di assecondarle tatticamente, nell’attesa di andare via da casa. Si fa ricrescere i capelli, mantenendoli comunque corti, rinuncia ad alcuni capi di abbigliamento e ad alcune ingenue pose da superuomo, abbandona la palestra ove ha cominciato a fare del culturismo. Ad ognuno di questi compromessi, corrisponde un allentamento della persecuzione che, però, dopo qualche tempo si ripresenta con maggiore intensità. Un giorno, per strada, Francesco perde il controllo e attacca fisicamente un uomo che lo sta prendendo in giro. Per fortuna, l'episodio non ha conseguenze di rilievo, tranne per il fatto che l'uomo gli dà del matto.

Per non correre ulteriori rischi, Francesco si chiude in casa. La carcerazione domestica, che allenta ma non risolve la persecuzione, produce un'esasperazione totale, e l'affiorare di vaghi propositi di farla finita.

Il suo livello di coscienza è totalmente ingombro dalla rabbia di essere perennemente disturbato dagli altri e impedito di vivere liberamente. La spiegazione che egli dà del delirio è significativa. La persecuzione è stata organizzata dal padre, che si è reso conto di aver perduto ogni potere su di lui coinvolgendo la gente del quartiere, per controllarlo e farlo rigare dritto. La prova è che i persecutori sanno tutto della sua vita, anche i pensieri più intimi e gli impongono di vivere come il padre desidera: per esempio di abbassare lo stereo quando quegli è in casa e riposa. Francesco si piega alle imposizioni perché altrimenti sono guai: le voci rimbombano finché non si decide a fare il suo dovere. Quando non impartiscono ordini, le voci lo accusano. Accuse strampalate: dicono ladro! ladro! e accennano a tre milioni. L'accusa manda in bestia Francesco perché rievoca quello che a scuola si diceva dei sardi. La sua famiglia è stata sempre onesta e non ha colpa se qualche conterraneo è una pecora nera. Qualche soldo lo ha preso dal portafoglio del padre, ma per necessità. Il padre non ha mai considerato i suoi bisogni, e lo mandava in giro anche quando era divenuto grandicello, senza una lira in tasca. Perciò, dai dodici ai sedici anni, ogni settimana, Francesco rubava la paghetta, qualche decina di migliaia di lire. I conti non li ha mai fatti ma tornano: più o meno di tre milioni si tratta.

Via via che ricostruisce le sue colpe - i furti, l'esaltazione politica alimentata dal fumo che lo ha reso aggressivo in casa, la sua rivendicazione di essere mantenuto - la rabbia di Francesco si placa. Egli riconosce le ragioni e le preoccupazioni del padre, anche se non gli perdona un atteggiamento maltrattante. Riordina la sua vita, torna a lavorare regolarmente, elimina il fumo, si tiene a distanza dai fascisti. Le voci degli 'amici' del padre si rarefanno e si dissolvono. Ma ne insorgono altre, ancora più irritanti.

Sono quelle dei suoi amici che lo prendono in giro perché si è fatto mettere sotto dai grandi ed è diventato un pulcino, un “cacasotto”. Francesco cerca di lasciare correre, ma le voci si incrementano. Per dimostrare di non essere assoggettato, riprende ad uscire, a fare tardi la sera, a fumare. Lo scontro con il padre è inevitabile e piuttosto aspro. Francesco reagisce negativisticamente, abbandona il lavoro e si blocca in casa. Ma la decisione è sbagliata su due fronti. Le voci riprendono a tormentarlo e si sommano: le une lo rimproverano del suo essere un figlio sciagurato, le altre d’essere un codardo che non ha più il coraggio di uscire la sera. Dopo essersi proposto più volte di scendere in strada e di ammazzare qualcuno dei suoi persecutori, Francesco si getta dalla finestra. Sopravvive ma rimane ingessato per un anno, dopo di che accetta passivamente le cure farmacologiche prescritte da un Centro di Salute Mentale, e si cala rapidamente nel ruolo di psicotico cronico.

La struttura del conflitto è drammaticamente chiara. Il Super-io di Francesco ha interiorizzato la cultura sarda, incentrata sul rispetto delle gerarchie familiari e sociali e su un'etica del lavoro resa necessaria dall'inurbamento e dal dovere scampare al pregiudizio sociale nei confronti dei sardi. E' questa interiorizzazione che lo ha fatto crescere come un bambino educato e tranquillo. L'interazione adolescenziale con i coetanei, ragazzi di periferia la cui cultura è incentrata sulla sfida all'autorità, ha mobilitato dentro di lui una Controvolontà che, per caso, si è orientato a destra, nella direzione del disprezzo della mediocrità e dell'ugualitarismo, anziché a sinistra. Il conflitto tra il Super-io gerarchico e comunitaristico e l'Io antitetico sprezzante, sfidante e individualista non poteva essere che lacerante. Francesco è oscillato dall'uno all'altro, sentendosi comunque giudicato negativamente. Alla fine si è ritrovato investito dai giudizi provenienti dall'una e dall'altra funzione, senza scampo.

Da questa triste esperienza si può trarre un indizio importante sulle funzioni in conflitto. Il carattere giudicante del Super-io, che può, al limite, giungere a parlare in nome di tutto il mondo, è riconosciuto da sempre. Al bisogno d’individuazione, quando esso è contrastato dal richiamo all’appartenenza e ai doveri sociali, si attribuisce invece, solitamente, un potere sui comportamenti del soggetto, che si esprime nell'opposizionismo, nel negativismo e nella trasgressione. L’esperienza di Francesco, oltre a mettere in luce l’esistenza della Controvolontà, serve a capire che anche questa funzione può giungere a parlare in nome della società e, in riferimento ad un sistema di valori opposti a quelli superegoici, assumere una funzione giudicante critica e severa.

Mario

Mario nasce con una spiccata valenza oppositiva. Primo figlio di una giovane coppia, egli si imbatte immediatamente in aspettative genitoriali perfezionistiche alle quali risponde negativamente andando male a scuola, essendo indisciplinato, ecc. Anche l’interazione con i coetanei non funziona. Mario tenta precocemente di assumere qualche atteggiamento da “bulletto”, ma ben presto recede perché sente di avere una paura profonda dell’aggressività fisica. Lentamente viene prevaricato dai più “forti”, nei cui confronti sviluppa rabbia e invidia.

Con il passaggio alle medie, la situazione peggiora. Il rendimento scolastico di Mario declina. Egli avverte una sorta di ostilità da parte di alcuni insegnanti alla quale reagisce con un atteggiamento strafottente. In famiglia le liti si succedono e raggiungono vertici di asprezza particolari. Mario si sente debole e impaurito in rapporto ai coetanei.

In terza media, per farsi forza, comincia a fumare gli spinelli. Rapidamente l’uso si trasforma in abuso. L’effetto del “fumo” è di sentirsi più forte e padrone di sé, ma soprattutto anestetizzato, senza più paura. Fumare diventa un’ossessione, l’unica cosa che dà senso alla sua vita.

Decide di lasciare la scuola e di darsi alla bella vita. Alla compulsione del fumo si aggiunge la compulsione degli acquisti. Mario pretende che i suoi gli diano i soldi di cui ha bisogno. Se non glieli danno, li ruba. La sua inattività e le sue pretese arroganti inaspriscono gli scontri familiari. In più di un’occasione Mario si accapiglia con il padre e giunge a mettergli le mani al collo, rimproverandolo di averlo picchiato quando era bambino.

Frequenta solo amici che fumano e con essi coltiva l’ideologia di una vita fatta di “sballo”. Sente però che l’effetto del fumo declina, e decide di cominciare ad usare la cocaina.

Prima che dia realizzazione al progetto, interviene un terrificante attacco di panico che lo blocca in casa e lo rende infantilmente dipendente dai suoi. Nonostante la dipendenza, però, egli continua ad avere nei loro confronti un comportamento aggressivo e tirannico.

Vive nel terrore del panico per due anni consecutivi: il tempo necessario per capire, attraverso un tragitto terapeutico, che il panico è l’espressione di profondi sensi di colpa dovuti al tentativo che ha fatto di cambiare pelle, di anestetizzarsi e di incattivirsi. Impiega altri due anni a rientrare nella sua pelle, a scoprire la sua sensibilità introversa e la sua intelligenza. Riprende a studiare raggiungendo risultati eccellenti, che gli restituiscono fiducia nei suoi mezzi.

Riconosce, malvolentieri, che l’attacco di panico lo ha salvato da una carriera sciagurata di tossicodipendente e di deviante.

In questo caso tipico di adolescenza “maligna” il Super-io interviene pesantemente a stroncare un tragitto di individuazione alienato, rivolto più contro i suoi e contro la società che non rivolto verso l’autorealizzazione. L’Io antitetico, che viene nei suoi aspetti più trasgressivi, inattivato dal panico è impregnato di fatto di valenze distruttive e autodistruttive.

Tenendo conto dei tre casi clinici, è evidente che le strutture identificate da Freud nel corso del tempo possono configurare tra loro intrecci dinamici della più varia specie.

Il Super-io può svolgere una funzione repressiva in rapporto al bisogno di individuazione, può richiamare il soggetto a riconoscere i suoi doveri minimali di appartenenza, e, al limite, può intervenire salvificamente, impedendogli di agire comportamenti autodistruttivi. L’io può promuovere un bisogno autentico di differenziazione rispetto alle tradizioni culturali, ma può anche rivolgersi verso obiettivi non autentici e, al limite, può spingere il soggetto su di una via del tutto errata.

Questa concezione dinamica e dialettica delle sottostrutture dell’io è molto più fedele alla realtà clinica rispetto al meccanicismo freudiano.

Dobbiamo ora vedere come inserirla in una cornice di discorso più ampio che può farne l’asse portante di una Panantropologia, vale a dire di un nuovo sapere integrato sull’uomo e sui fatti umani. Emendato dalle valenze ideologiche che lo caratterizzano, in questa nuova cornice, le scoperte freudiane non sono conservano il loro valore straordinario, ma vengono valorizzate.