Letture freudiane

Lettura I

Freud, il rivoluzionario conservatore

"La psicologia non detiene il segreto dei fatti umani, semplicemente perché questo segreto non è di ordine psicologico."

"Freud è altrettanto astratto nelle sue teorie quanto è concreto nelle sue scoperte."

                                                                                            G. Politzer


Indice
Freud panantropologo?
Il credo positivista freudiano
Freud e il suo tempo
Soggettività e storia sociale
Il disagio della Civiltà
Eros e Civiltà
Il problema dell'aggressività
Al di là dell'ideologia freudiana

Freud panantropologo?

Può apparire tendenzioso avviare le Conferenze su Freud con due citazioni che confutano lo scopo ultimo della sua opera: promuovere una scienza dell’uomo e dei fatti umani, quindi una Panantropologia, sulla base delle scoperte psicoanalitiche, vale a dire dell’importanza dell’attività mentale inconscia nell’esperienza individuale e collettiva. Oltre che tendenzioso, può sembrare anche strano che la critica implicita nel saggio di Politzer da cui esse sono tratte venga adottata e condivisa da chi, come me, crede profondamente nella possibilità di un sapere panantropologico e ritiene che, tra le discipline le quali devono convergere ed integrarsi per portare avanti tale progetto, la psicoanalisi ricopra un ruolo di fondamentale importanza.

La contraddizione è apparente. Tra torme di estimatori e detrattori, Politzer è stato il primo a valorizzare, da filosofo marxista, il carattere rivoluzionario del pensiero freudiano e, al tempo stesso, a suggerire la necessità di andare al di là della teoria freudiana per portare alle estreme conseguenze le sue scoperte. Penso che questo approccio non solo rimanga valido, ma vada approfondito più di quanto abbia potuto fare Politzer, prematuramente scomparso. Per quanto il suo progetto di una psicologia concreta - aggettivo marxiano che implica la necessità di tenere conto della storicità dell'esperienza soggettiva -, sia rimasto incompiuto, Politzer ha colto con precisione il nodo dell'avventura freudiana: la validità delle sue intuizioni sull'apparato mentale umano e la scarsa credibilità delle teorie che egli ha costruito su di esse.

Il confronto critico con Freud, come vedremo, non può prescindere dal tenere conto della gabbia ideologica entro la quale è proceduta la sua teorizzazione. Per evitare che tale confronto evochi un qualsivoglia intento demolitivo, del tutto estraneo al mio modo di leggere i testi freudiani, è opportuno preliminarmente sottolineare il contributo inestimabile di Freud alla cultura umana, riconducibile a tre aspetti.

Il primo è, ovviamente, la scoperta che l’attività mentale umana è indefinitamente più complessa, ricca e ridondante di quanto i singoli individui, la cui esperienza è confinata a livello cosciente, comunemente pensano. Sotto forma intuitiva una concezione del genere è presente nella storia della cultura in molti filosofi, scrittori, poeti, ecc. Abbiamo visto che, tra i precursori di Freud, un ruolo preminente lo ha ricoperto Nietzsche che, pur senza usare il termine rimozione, di fatto ha posto in luce la capacità della coscienza di far scivolare nell’oblio tutto ciò che la disturba. La grandezza di Freud però sta nell’avere dimostrato l’esistenza dell’inconscio attraverso l’analisi dei sogni, dei lapsus e dei sintomi psicopatologici, e, soprattutto, nell’avere aperto la via allo studio dei processi inconsci come processi dotati di senso, anche se governati da “logiche” diverse rispetto alla coscienza.

Il lavoro interpretativo di Freud ha dimostrato che dietro ogni comportamento umano, per quanto assurdo o irrazionale possa apparire, si dà una catena di motivazioni che permettono di comprenderlo e di spiegarlo.

Il secondo aspetto, complementare al primo, è la messa in crisi della coscienza nella sua pretesa di unità, continuità nel tempo, coerenza e potere decisionale. Quando Freud scrive che l’Io non è padrone in casa sua, egli di fatto dissacra un mito su cui si è fondata e costruita la Civiltà occidentale: un mito che, alla sua epoca, ancora influenzata dall’Illuminismo e impregnata dalla trionfante sicurezza della classe borghese di aver raggiunto la tappa ultima della civilizzazione, è del tutto in auge.

Nell’ottica di Freud, la coscienza, come dimensione funzionale della mente umana, è null’altro che la risultante di indefiniti processi che avvengono al di sotto di essa, rispetto ai quali l’Io adotta pressoché costantemente una serie di difese (rimozione, repressione, ecc.) che gli consentono di mantenere una certa immagine di sé e di sentirsi agente e padrone della sua vita. In conseguenza di questo, lo statuto della coscienza è normalmente mistificato, e tale condizione può essere sormontata (sempre in misurarelativa) solo se l’io accetta di fare i conti con l’inconscio, le memorie che in esso sono depositate e le potenti motivazioni che lo attraversano.

In questa ottica, ciò che noi intendiamo e viviamo come coscienza è solo uno dei molteplici stati di coscienza possibili in rapporto al patrimonio di esperienza di un soggetto. La sua prevalenza, di solito, è dovuta meno al fatto di essere lo stato di coscienza più espressivo e integrativo di quel patrimonio che non all’adozione di meccanismi difensivi che consentono all’Io di continuare a pensare di essere ciò che egli immagina, pensa o desidera essere.

Il terzo aspetto, conseguente alla dimostrazione che, nonostante l’assidua attività mistificante e unificante della coscienza, l’inconscio rimane sempre e comunque caratterizzato da contraddizioni e scissioni di ogni genere, è il superamento dell’antitesi tra normalità e anormalità psichica. Anche se Freud, in conseguenza di uno dei tanti cedimenti al senso comune che caratterizzano il suo pensiero, è giunto a definire la normalità come caratterizzata dalla capacità di lavorare e di amare, è fuor di dubbio che egli ha sempre insistito sul fatto che in qualunque soggetto umano si danno, a livello profondo, aspetti conflittuali nevrotici e psicotici.

L’illusione per cui un numero rilevante di soggetti ritengono di essere "normali" è dovuta semplicemente al fatto che essi rimuovono o giustificano, razionalizzandoli, quegli aspetti, nonostante essi si esprimano attraverso il loro comportamento. Basta fare un esempio per capire meglio questo discorso.

Alcuni soggetti, il cui assetto comportamentale consueto è inappuntabile e ipercontrollato, vanno incontro periodicamente a crisi di irascibilità repentina ed esplosiva. Agli occhi degli altri, tali crisi definiscono una discontinuità della coscienza per cui il soggetto diventa letteralmente un altro. Di fatto, l’irascibilità esplosiva sovraccarica l’evento che la attiva di significati impropri, assumendolo come rappresentante di una quantità indefinita di eventi appartenenti alla stessa classe, accomunati cioè dalla stessa qualità emotiva. Si tratta di una logica psicotica nella misura in cui sostituisce al peso reale dell’evento il suo significato soggettivo e, di conseguenza, confonde il mondo interno con quello esterno. L’individuo in questione, però, di solito razionalizza il comportamento irascibile attribuendolo in toto all’evento che lo ha causato.

Nell’ottica di Freud tra normalità e anormalità non si dà uno scarto qualitativo ma quantitativo. E’ l’intensità dei conflitti psicodinamici a determinare uno spettro continuo nelle esperienze umane, in alcune delle quali i conflitti giungono ad esprimersi sotto forma di sintomi, vissuti o comportamenti psicopatologici.

Questi tre aspetti possono giustificare l’orgoglio di Freud per una scoperta che, come egli afferma esplicitamente, ha conseguito l’effetto di portare alle estreme conseguenze il processo culturale che, avviatosi con la rivoluzione copernicana e proseguito con quella darwiniana, si è concluso con la scoperta dell’inconscio individuale, di una dimensione, cioè, che, a suo avviso, sancisce la natura meramente animale dell'uomo e la sua origine evoluzionistica.

Queste rivoluzioni hanno ferito l’orgoglio dell’uomo spodestandolo dal sentire se stesso e la Terra al centro dell’Universo, dal ritenersi un essere vivente del tutto eccezionale in quanto dotato di un’anima o comunque di poteri cognitivi incommensurabili rispetto agli altri animali, e, infine, dalla pretesa di avere, in virtù della coscienza, un potere di controllo e una padronanza sulla propria esperienza di vita.

Con la scoperta dell’inconscio, Freud ritiene giustamente di avere portato a termine un tragitto di secolarizzazione irreversibile della cultura umana. Non è certo un caso che, tra le sue opere, una - L’avvenire di un’illusione - è dedicata per l’appunto alla critica della religione come insieme di credenze che mirano ad alleviare l’angoscia umana dell’impotenza di fronte alla natura, al caso e al destino spingendolo a sentirsi inserito e partecipe di un ordine provvidenziale, di un Disegno Intelligente, il cui fine è la felicità eterna.

Leggere questa opera, che Freud ha scritto a settantuno anni, nel 1927, consente di apprezzare non solo uno stile argomentativo sobrio e nitido, che non rinuncia a confrontarsi con un interlocutore critico estremamente insidioso, ma soprattutto a capire lo schema di fondo che sottende tutto il tragitto intellettuale freudiano.

Tale schema contrappone ad una natura umana, che si esprime in una forma primitiva e barbarica quasi immediata e trasparente nel bambino, una cultura che, se riesce a valorizzare senza mortificarle le pulsioni che giacciono al fondo della mente e sovrappone ad esse il controllo di una ragione illuminata, che rinuncia al narcisismo e all’onnipotenza infantili, può portare ad uno statuto di personalità adulto, civilizzato e disincantato, la cui massima espressione è lo spirito scientifico.

Rivolgendosi al suo immaginario interlocutore, Freud scrive:

“Lei deve difendere con tutte le Sue forze l'illusione religiosa; se viene screditata - ed essa è in realtà minacciata abbastanza - allora il Suo mondo crolla e a Lei non resta altro che disperare di tutto, della civiltà e del futuro dell'umanità. Da questa schiavitù io sono, noi siamo liberi. Dal momento che siamo pronti a rinunciare a buona parte dei nostri desideri infantili, possiamo sopportare che alcune delle nostre aspettative si rivelino illusioni.

L'educazione liberata dalla pressione delle dottrine religiose non cambierà forse di molto il valore psicologico dell'uomo, il nostro dio Λόγος; non è forse così onnipotente, può adempiere solo una piccola parte di quello che i suoi predecessori hanno promesso. Se dovremo riconoscere ciò, lo accetteremo con rassegnazione. Non perderemo per questo interesse al mondo e alla vita, giacché abbiamo in un punto un sicuro sostegno che a Lei manca. Noi crediamo che sia possibile, col lavoro scientifico, apprendere sulla realtà del mondo qualcosa che ci permetterà di accrescere il nostro potere e indirizzare la nostra vita. Se questa credenza è un'illusione, allora siamo nella Sua stessa situazione, ma la scienza ci ha fornito la prova, con numerosi e significativi successi, di non essere un'illusione.”

Il credo positivista freudiano

Scienza vs religione, misticismo, superstizione, senso comune, ignoranza. Il credo positivista di Freud è fuori di dubbio. Non c’è da sorprendersi per questo se si tiene conto che la sua formazione avviene nella seconda metà del XIX secolo, vale a dire nell’epoca del trionfo delle scienze (biologia, chimica, fisica, ecc.), del metodo sperimentale cui esse si ispirano e dell’ideologia positivista che sostiene la possibilità di arrivare alla verità sulla base di tale metodo.

Il problema è che Freud afferma la sua fede nella Ragione proprio in rapporto ad una disciplina - la Psicologia - che Auguste Comte - il fondatore del Positivismo - ha escluso dal novero delle scienze riconducendola alla biologia o alla sociologia, e rimane fermo al credo positivista in pieno Novecento, allorché la fisica quantistica getta su di esso un’ombra inquietante, ponendo in dubbio la possibilità che l’uomo possa arrivare ad una conoscenza oggettiva della realtà.

Dal credo positivista, peraltro, Freud non ricava solo una fiducia illimitata nel metodo scientifico, ma anche l’ingenua concezione del progresso illustrata da Auguste Comte con la legge dei tre stadi (teologico, metafisico, positivo o scientifico), secondo la quale la cultura progredisce da uno stadio originario teologico, che comporta la credenza animistica in spiriti benigni e maligni, ad uno stadio metafisico, che presume un ordine trascendente la realtà e l’esistenza di un Essere superiore, di un Divino architetto, che governa l’evoluzione cosmica, e perviene infine ad uno stadio scientifico, aperto alla ricerca di leggi causali e lineari che permettono di spiegare i fenomeni naturali di qualsiasi genere.

Tra questi fenomeni, si dà l’uomo stesso, la cui realtà biologica s’intreccia con una esperienza psichica complessa, ed è ad esso e alla sua evoluzione individuale che Freud applica la legge dei tre stadi ipotizzando una prima fase di sviluppo infantile egocentrica, superstiziosa e caratterizzata da una dipendenza profonda dalle figure genitoriali idealizzate e divinizzate, una seconda fase, che si inaugura a 5-6 anni e, attraverso il conflitto edipico, che mescola Eros e aggressività verso il genitore dello stesso sesso, promuove la rinuncia alla soddisfazione pulsionale e l’accettazione del principio di realtà, e una terza fase, che va dall’adolescenza in poi, nel corso della quale sopravviene (o dovrebbe sopravvenire) un controllo sempre più efficiente sulle pulsioni che porta (o dovrebbe portare) alla maturità.

Alla luce di questa legge, qualunque esperienza di disagio psichico ha una matrice univoca: lo scacco nell’accettazione del principio di realtà e la “fissazione”, vale a dire il mantenersi a livello inconscio di esigenze pulsionali infantili primitive, anarchiche e selvagge.

Il riferimento alla natura umana in sé e per sé “selvaggia”, cioè del tutto indifferente ai diritti e ai bisogni degli altri, quindi asociale, è costante nell’opera di Freud, e rappresenta, come vedremo, una sorta di zavorra del suo pensiero. Dal 1920 in poi all’attribuzione di asocialità, implicita nella concezione dell’Eros come spinta pulsionale che, in sé e per sé, non rispetta alcun limite, tendendo semplicemente a soddisfare se stessa, si aggiunge addirittura quella di antisocialità, che Freud riconduce all’attività incessante di un istinto di morte orientato a scindere e a sciogliere qualunque relazione sociale in quanto potenzialmente atta a contrastare un presunto orientamento dell’apparato psichico verso una forma di imperturbabile e regressivo equilibrio.

Eros e Thanatos: su queste due pulsioni Freud costruisce la sua teoria psicologica e psicopatologica, ed è a tal punto convinto della sua fondatezza scientifica da estenderla all’analisi di fenomeni del più vario genere: dalla religione all’antropologia culturale, dalla letteratura alla sociologia. Costruisce, insomma, su di esse, una visione del mondo totalizzante, e, come egli stesso riconosce, neppure particolarmente originale, dato che già Empedocle, nel V secolo a. C. ha identificato nell’Amore e nella Discordia le due forze fondamentali che governano il mondo e anche l’esperienza umana.

Alle numerose critiche che gli vengono rivolte, egli risponde sempre allo stesso modo, sostenendo che le conclusioni cui è pervenuto sono suffragate dai dati empirici che egli ha raccolto nel corso delle esperienze psicoanalitiche. Si tratta, dunque, a suo avviso di verità poco o punto confutabili che vengono respinte solo perché gli esseri umani hanno difficoltà a riconoscerle in quanto contrastanti sia con antiche tradizioni spiritualiste sia con tradizioni più recenti che assegnano un elevato valore alla Razionalità.

Con ciò arriviamo ad un primo punto critico del pensiero freudiano (e della psicoanalisi ortodossa sino ad oggi). La scoperta della tendenza della coscienza umana alla mistificazione, come ho accennato, è di straordinario valore, anche se, come sappiamo, essa è stata almeno in parte anticipata da Nietzsche. Freud però la usa spesso in una forma impropria, accusando, esplicitamente e implicitamente, coloro che rifiutano le sue ipotesi di opporre resistenza alla verità. In parte ha ragione, se pensiamo che ancora oggi ci sono persone le quali affermano di non credere nell’esistenza dell’inconscio. Il problema, però, come vedremo è che quella scoperta non la applica mai o quasi mai alle teorie che progressivamente elabora.

Sappiamo che Freud si è dedicato con grande coraggio ad una lunga autoanalisi, della quale si trovano indizi consistenti in molte opere, e in particolare nell’Interpretazione dei sogni. Attraverso l’autoanalisi, si è reso conto che, come tutti gli esseri umani, anch’egli, di fronte a contenuti psichici sgradevoli adottava meccanismi di difesa. Accusarlo dunque di non avere applicato a se stesso una tecnica di demistificazione è sommamente ingiusto.

Il problema, per ricondurci alla citazione da cui siamo partiti, è che egli è assolutamente convinto che l’esperienza interiore umana è di ordine eminentemente psicologico, anzi addirittura intrapsichico, riconducendosi alla necessità dell’Io di fare i conti con le pulsioni che premono nella sfera più profonda dell’apparato psichico.

Tutto il pensiero freudiano si pone come un’interminabile variazione sul tema dell’interazione tra la natura umana pulsionale e selvaggia e la Cultura, che tenta di sovrapporre ad essa un ordine atto ad assicurare la convivenza civile.

Non ci vuole molto a capire che quel tema riconosce come sua matrice una visione del mondo ideologica, nella quale si sommano remote influenze della concezione biblica della natura umana, sostanzialmente pessimistica, e più recenti influenze hobbesiane e nietzschiane (queste ultime male intese). Freud, invece, è convinto che si tratti di una verità ricavata dall’osservatorio analitico e confermata da troppi dati per essere posta in dubbio; una verità di ordine psicologico che egli ritiene possa essere estesa a tutti i fenomeni sociali.

Assumere la società come null’altro che la somma di indefinite soggettività individuali è esso stesso un assunto ideologico, la cui ascendenza borghese è ancor più facilmente identificabile della concezione pulsionale della natura umana.

Nonostante una capacità autoanalitica, che gli ha consentito di prendere atto di non pochi contenuti inconsci di ordine personale sgradevoli, Freud è assolutamente cieco in rapporto ai presupposti ideologici che sottendono la sua ricerca.

Questa cecità non invalida il carattere rivoluzionario della scoperta dell’inconscio, ma invalida parecchie delle conclusioni teoriche cui egli perviene.

Basta fare un esempio per capire meglio questo aspetto. Ho già fatto cenno al fatto che Freud interpreta i fenomeni psicopatologici riconducendoli ad una “fissazione” che impedisce l’acquisizione del principio di realtà. Ciò posto, egli non può sfuggire ad un quesito ulteriore: che cosa determina, in ultima analisi, la “fissazione” delle pulsioni, che sono rappresentate nella loro terribile potenza in tutte le soggettività? La risposta, l’unica che riesce a fornire, consiste nell’ammettere che in alcuni soggetti il bagaglio pulsionale sia costituzionalmente “eccessivo”. La risposta, mediocre e come vedremo facilmente contestabile, scarica sulla natura (oggi diremmo sulla genetica) la responsabilità ultima del prodursi dei disturbi psichici.

Freud è un pensatore rivoluzionario per quanto concerne la sua capacità di esplorare la mente umana senza arretrare di fronte ad alcun aspetto, per quanto sgradevole esso possa essere. Da questo punto di vista, si può affermare che il suo coraggio nello sfidare le tradizioni culturali (a partire dalla dissacrazione del mito dell’innocenza infantile) è analogo a quello di Nietzsche.

Al tempo stesso, però, Freud è un pensatore ideologicamente conservatore poiché, partendo dal presupposto di una natura umana al cui fondo premono incoercibili pulsioni che tenderebbero a realizzarsi senza alcun rispetto per gli altri e le norme di convivenza sociale, ritiene che l’uomo diventa civile nella misura in cui riesce a reprimere e a frustrare il suo bagaglio pulsionale.

Egli, in ultima analisi, accetta la teoria di Hobbes (quella dell’homo hominis lupus) e rifiuta quella di Locke, Hume, Hutcheson, accolta anche da Darwin, secondo la quale della natura umana fa parte un potente istinto sociale.

Più volte ho avuto modo di dire che la costruzione di un modello panantropologico dipende totalmente da una teoria della natura umana, vale a dire dalla valutazione dei fattori genetici nell’evoluzione della personalità e dalla definizione di come essi agiscono nell’interazione con l’ambiente fisico e culturale (espressione quest’ultimo delle potenzialità genetiche stesse). Tra le varie teorie esistenti all’epoca (quella hobbesiana, rousseauiana, lockiana), Freud opera una scelta univoca per Hobbes che avrà un grande peso nell’edificazione della psicoanalisi. Ancora oggi uno stuolo rilevante di nipotini di Freud (psicoanalisti, ma anche sociologi e uomini di cultura) vanno in giro propagandando l’idea secondo la quale la psicoanalisi ha dimostrato che nel loro intimo tutti gli esseri umani sono potenzialmente violenti, assassini, stupratori, ecc. Al di là dell’incidenza che questi messaggi possono avere su coloro che soffrono di impulsioni, vale a dire di pensieri e fantasie coatte di far male agli altri che non si realizzano mai, occorre rilevare che si tratta di un grossolano errore interpretativo, anche se Freud stesso ha contribuito ad alimentarlo con il suo pessimismo antropologico.

In realtà per comprendere a fondo il pensiero freudiano, nelle sue aperture epistemologiche e nelle sue chiusure ideologiche, occorre fare i conti con la complessità e la contraddittorietà del mondo interiore dell’autore.

Non è affatto azzardato identificare nell’opera di Freud l’espressione di una personalità convissuta con una scissione dinamica tra una vocazione alla ricerca, che lo porta su di un terreno nuovo e inesplorato, sul quale egli procede coraggiosamente da solo (per un certo periodo), senza curarsi delle conseguenze sociali delle ipotesi che va formulando, e un bisogno di integrazione sociale, che lo costringe a piegare quelle ipotesi all’ideologia dominante del mondo in cui vive, che dà per scontato che l’uomo sia un essere naturalmente egoista, competitivo e animato da uno smisurato bisogno di piacere.

La vocazione alla ricerca di Freud, nella quale è riconoscibile la spinta motivazionale di un bisogno di individuazione estremamente intenso, smaschera l’ipocrisia della civiltà borghese, che sovrappone valori elevati - perbenistici, moralistici. altruistici, ecc. - ad una concezione sostanzialmente selvaggia della natura umana. Lo smascheramento freudiano, però, non fa altro che sancire la fondatezza di tale concezione, che viene addirittura radicalizzata.

Freud, in ultima analisi, è un critico della società nella misura in cui questa richiede all’uomo un sacrificio eccessivo delle sue esigenze pulsionali, ma non giunge mai a porre in dubbio che la società debba esercitare un controllo repressivo su di esse per non regredire ad uno stato anarchico.

L’intento di queste conferenze è di illuminare il dramma di una mente, dotata come poche altre di capacità psicologiche intuitive, costretta entro una gabbia ideologica che finisce con il mortificare il carattere rivoluzionario delle intuizioni. Tale intento implica ovviamente anche il chiedersi se e come sia possibile recuperare e valorizzare tale carattere.

Per dare concretezza al discorso, occorre, innanzitutto, collocare Freud nel suo contesto storico

Freud e il suo tempo

Le influnze culturali che hanno inciso sulla visione del mondo freudiana sono ben note: la cultura ebraica, il pensiero di Hobbes, ecc. Qui interessa ccorre tenere conto della singolare corrispondenza della teorizzazione freudiana con gli eventi storici.

La storicità del pensiero freudiano può essere oggi ricostruita utilizzando il lasso di tempo che ci separa dalla sua parabola intellettuale. Tale ricostruzione pone in luce, in una maniera inquietante, la cecità di Freud nei confronti dell’influenza dell’ambiente sulla soggettività umana.

La sua parabola esistenziale e intellettuale, infatti, riconosce due fasi: la prima va dalla fine degli anni ’80 del XIX secolo alla Prima Guerra Mondiale, la seconda dal dopoguerra al 1939. Lo sfondo storico è ben noto e particolare.

Il secolo del trionfo della borghesia si conclude in un clima di euforia che si mantiene sino all’epoca dello scoppio della Prima Guerra mondiale. Non per caso si è parlato di Belle Epoque per definire un orientamento edonistico, ovviamente più diffuso tra le classi abbienti.

Liberatasi definitivamente dai vincoli feudali, che ne frenavano l’ascesa, con la Rivoluzione francese, e dall’alleanza con le classi popolari, che hanno posto al suo servizio le loro energie rivoluzionarie, la classe borghese, nella seconda metà dell’Ottocento, intraprende la sua ascesa verso il dominio del mondo. L’arma dell’ascesa è l’intraprendenza lavorativa, assoggettata alla Razionalità capitalistica, ma il fine dell’ascesa, affrancata da ogni orizzonte trascendente, è la ricchezza, intesa come strumento primario per godersi la vita.

La Belle Epoque, per quanto contrassegnata da una vertiginosa esplosione di disturbi psichici, tra i quali il più importante è l’isteria femminile, di fatto è l’età dell’edonismo. Non è dunque un caso che, dedicandosi allo studio dell’isteria, Freud identifica nella sua trama segreta la pressione di una pulsione al piacere peraltro lungamente repressa a livello femminile da una persistente tradizione culturale moralistica.

Un’icona della Belle Epoque è la vicenda del Titanic, che si realizza nel 1912. Il mostro tecnologico viene varato come espressione del trionfo della Civiltà borghese sulle forze della natura. Esso accoglie un’élite privilegiata che intende concedersi un’esaltante crociata di piacere.

Il naufragio del Titanic segnala ed anticipa la fine della Belle Epoque che, di lì a qualche anno, sopravverrà con lo scatenarsi di una tragica Guerra, la più crudele che si sia mai data, che sprofonderà l’Europa in un massacro e porrà fine al mito di un progresso continuo ed illimitato verso il Paradiso sulla Terra.

Pochi anni dopo la fine della Grande Guerra, Freud enuncia la teoria dell’istinto di morte, che lo costringe a rivalutare l’Eros nel quale in precedenza aveva intravisto un pericolo sommo per l’ordinamento della Civiltà.

Il cambiamento teorico, che porta Freud sul terreno di un pessimismo quasi cosmico, è agevolmente riconducibile alle circostanze storiche. Egli però, convinto del carattere empirico della sua teorizzazione, non si rende conto minimamente di questo.

Come è possibile - vien da chiedersi - che un intellettuale così acuto sul piano dell’intuizione psicologica sia sordo e cieco nei confronti dell’influenza dell’ambiente sul suo stato d’animo e sui suo orientamenti interpretativi?

Per spiegare questo aspetto, mi riconduco ad una metafora che mi è cara: quella della macula caeca.

L’occhio è teatro di un curioso “esperimento in natura”. In ciascuna retina, nella parte nasale, esiste una zona del tutto priva di recettori, nella quale gli stimoli non producono alcun effetto. Per ciò si parla di macula caeca.

E’ facile verificarne l’esistenza.

Basta mettere davanti agli occhi un foglio sul quale sono disegnati una croce e un dischetto distanziati tra loro.

Se si fissa intensamente con un occhio il centro del dischetto e si chiude l’altro, avvicinando o allontanando un po’ il foglio, la croce sparisce. Sappiamo che c’è ma la parte della pagina ove è depositato appare del tutto bianca.

Possiamo trascurare l’interpretazione di questo fenomeno percettivo, che peraltro è ancora controversa, e utilizzarlo in senso metaforico. La metafora riesce pregnante se teniamo conto che per definire il modo in cui un soggetto si rapporta alla realtà - il suo punto di vista globale, che può essere più o meno articolato, più o meno consapevole - si parla di visione del mondo.

Se omologhiamo la retina visiva all’intelligenza e teniamo conto che questa interpreta i fatti sulla base dell’organizzazione emozionale e ideologica della personalità a livello inconscio, non ci si sorprende che anche in individui dotati di particolari capacità intellettive si possa realizzare, per qualche aspetto, un fenomeno di cecità intellettuale.

La metafora è stata peraltro suffragata dagli studi psicologici sulla attenzione selettiva, che hanno dimostrato che in situazioni in cui un soggetto riceve un flusso di stimoli può catturarne alcuni ed escludere quelli che lo disturbano.

Anche se gli studi sull’attenzione selettiva sono stati condotti in riferimento alle percezioni, è estremamente probabile che il meccanismo dell’attenzione selettiva possa valere per qualunque informazione proveniente dalla realtà. Ciò significa che, dato un certo modo di vedere le cose, che corrisponde al bisogno della mente umana di evitare il fenomeno della dissonanza cognitiva, le informazioni che corroborano quel modo di vedere vengono selezionate, catturate e quelle che lo mettono in crisi svalutate, rimosse o estinte.

Per quanto concerne Freud, si può pensare che, avendo avviato la sua indagine sull’inconscio sulla base di una preesistente visione del mondo negativa in rapporto alla natura umana (biblica e hobbesiana), egli abbia selezionato tutti i dati soggettivi che potevano essere interpretati in maniera consonante ad e abbia escluso tutti quelli che la ponevano in discussione.

L’acutezza intuitiva psicologica di Freud e la sua sostanziale cecità ideologica saranno i parametri che ci guideranno nel corso di queste conferenze.

Ho considerato finora questi aspetti in rapporto all’ambizione freudiana di assumere la psicoanalisi come sapere totalizzante sull’uomo e sui fatti umani. Ho citato a riguardo L’avvenire di un illusione. Occorre tenere conto che Freud ha tentato di applicare la psicoanalisi anche all’antropologia culturale (Totem e Tabù), alla psicologia collettiva (psicologia collettiva e analisi dell’Io), alla letteratura (Gradiva, Dostoevsky e il problema del parricidio), all’arte (Il Mosè di Michelangelo), e alla civiltà occidentale (Il disagio della civiltà). Gli esiti di tale applicazione, nonostante le straordinarie capacità letterarie di Freud, non sono in genere felici.

Il vero problema, però, è che, catturato da quell’ambizione che lo porta a pensare di avere costruito una teoria che apre tutte le porte, Freud, sul terreno specifico della psicopatologia, rivela clamorosamente i suoi limiti. Egli infatti si dedica all’analisi delle esperienze di singoli individui appartenenti in genere all’alta borghesia viennese senza mai interrogarsi criticamente sulla società in cui vive, sulla sua organizzazione socio-economica e culturale, sulle trasformazioni avvenute in rapporto alla struttura della famiglia, sul ruolo assegnato all’uomo, alla donna, al padre, alla madre, ecc.

La conseguenza di questa cecità è l’estrapolazione a partire dall’esperienza di soggetti appartenenti ad un determinato contesto socio-storico e culturale principi e leggi che Freud ritiene di valore universale. Non penso che questo metodo sia errato in sé e per sé. Nessuno studioso dell’uomo e dei fatti umani potrà mai prescindere, oltre che dalla propria esperienza, da quella di coloro con cui interagisce i quali appartengono al suo stesso tempo (anche se, nel caso dell’antropologia culturale, non necessariamente al suo stesso contesto). Il problema è che mettere tra parentesi l’ambiente per concentrarsi sulle vicissitudini del mondo interiore, senza tener conto che non esiste alcuna sfera della mente umana avulsa dalla storia, porta a conclusioni opinabili.

Mi sembra opportuno, per dare fondamento a questa impostazione, tenere conto del dibattito che è sopravvenuto nel Novecento sulla possibilità che le scienze umane e sociali, caratterizzate dal fatto che il soggetto e l’oggetto dell’indagine coincidono, essendo in gioco l’uomo che studia se stesso, possano pervenire ad una qualche obiettività.

Soggettività e storia sociale

Il positivismo di Freud si riconduce ad un periodo nel corso del quale le scienze naturali cominciavano a mietere eclatanti successi, mentre quelle umane e sociali muovevano i primi passi. Era, dunque, inevitabile che queste ultime assumessero come modello le prime e tentassero - psicologia in primis - di adottare il modello sperimentale.

In realtà, si trattava e si tratta di un vicolo cieco perché la sperimentazione può riguardare solo un ambito ridottissimo dei fenomeni umani e sociali.

Il tentativo di differenziare le scienze della natura da quelle dello “spirito” e di formulare, per queste ultime, una metodologia di ricerca più consona al loro oggetto è di antica data. Posta da W. Dilthey, quella differenziazione è stata ripresa da M. Weber, al quale si deve un saggio di grande interesse: Il metodo delle scienze storico-sociali.

Ai fini del nostro discorso, trascurerò la complessità del dibattito a riguardo, limitandomi a citare un autore a torto ritenuto minore. Si tratta di G. Myrdal.

Economista eclettico, che più volte ha travalicato i confini dell'economia tradizionalmente intesa, Myrdal si è imbattuto infine in un problema centrale per le scienze umane e sociali: quello dell'obiettività. Tema non certo nuovo se si pensa a Weber, ma che, nella temperie degli anni '60 del secolo scorso, tendeva ancora a porsi in termini mimetici rispetto alle scienze naturali in virtù dell'adozione incontrastata del metodo sperimentale. Si riteneva infatti che tale metodo, producendo dati oggettivi, riduceva l'arbitrio delle interpretazioni, costringendo gli studiosi a pervenire a conclusioni oggettive. Myrdal ha avuto il merito di criticare con estrema efficacia questo mito. Considerando gli sviluppi successivi delle scienze umane e sociali (economia, sociologia, psicologia) c'è da rimpiangere il fatto che la sua critica sia stata accantonata. Ancora oggi, a distanza di trent'anni, il suo smilzo libricino (L’obiettività nelle scienze sociali, Einaudi, Torino 1973) vale più dei ponderosi tomi che, in tema di metodologia delle scienze sociali, vengono imposti agli studenti.

Il problema in questione è posto in questi termini: "L'ethos della scienza sociale è la ricerca di verità "oggettiva"… Cos'è innanzitutto l'oggettività? Come può lo studioso raggiungere l'oggettività, nel suo sforzo di reperire i fatti e insieme le relazioni causali tra i fatti? Più specificamente, come può lo studioso di problemi sociali affrancarsi: 1) dalla schiacciante eredità di tutto quanto è stato elaborato in precedenza entro il suo campo d'indagine, denso a sua volta di prescrizioni normative e implicazioni teleologiche ereditate dalle passate generazioni, e fondate sule filosofie morali metafisiche del diritto naturale e dell'utilitarismo, dalle quali si sono poi diramate tutte le nostre teorie economiche e sociali; 2) dai condizionamenti dell'intero contesto culturale, economico, politico della società in cui vive, lavora, si guadagna il pane e si assicura uno status; 3) dall'influenza che promana dalla sua stessa personalità, modellata com'è non solo dalle tradizioni e dall'ambiente, ma anche dal suo carattere, dalle sue inclinazioni, dalla sua biografia individuale?

Ma lo scienziato sociale si trova ad affrontare un ulteriore ordine di problemi: come poter essere entro questi limiti, oggettivo e, al tempo stesso, pratico? Quale rapporto esiste - cioè - tra l'intento di comprendere la società e quella di cambiarla? La ricerca di una vera conoscenza può coesistere con valutazioni politiche e morali? Quale relazione si può stabilire tra verità e ideali?" (pp. 4-5)

Per rispondere a questi interrogativi, Myrdal s'impegna a sormontare l'ingenuo realismo delle coscienze ("Nel nostro tipo di civiltà, la gente in genere, e non solo gli scienziati sociali, pretende di essere razionale e di poter addurre ragioni precise del modo in cui concepisce la realtà circostante e reagisce ad essa" p. 12), introducendo una distinzione apparentemente semplice tra credenze e valutazioni, che il più delle volte si combinano sotto forma di opinioni: "Le credenze esprimono le nostre idee sul reale così com'è, o come era; mentre le valutazioni esprimono le nostre idee su come il reale medesimo dovrebbe essere o avrebbe dovuto essere" (p. 13).

In quanto si pongono sul piano della conoscenza, le credenze personali possono essere giudicate "in base ad un criterio discriminante tra vero e falso e, nella seconda alternativa, misurando l'ampiezza e la direzione in cui esse si discostano dalla verità" (p. 13).
Le valutazioni, viceversa, sono più difficili da giudicare per due motivi. Il primo è che "le valutazioni di ogni persona sono normalmente instabili e contraddittorie. Dietro il comportamento non c'è mai un insieme omogeneo di valutazioni, ma un'intreccio di inclinazioni, ideali, interessi in lotta; alcuni dei quali consci, altri, invece, repressi per lunghi intervalli, ma tutti insieme all'opera nello spingere il comportamento verso questa o quella particolare direzione" (pp. 13 -14).

Il secondo motivo "deriva dal fatto che spesso si cerca di tenerle nascoste in quanto tali… e si tenta di dar loro la veste di credenze o certezze intorno alla realtà. La gente, di solito, pensa di poter contrabbandare le valutazioni, presentando le proprie posizioni come fossero nient'altro che inferenze logiche da ciò che si crede vero a proposito del reale…

Le opinioni della gente divengono così quel che noi chiamiamo razionalizzazioni. Nel corso di questo processo, le valutazioni vengono "oggettivate", presentandole come credenze o semplici inferenze da esse: il che implica il loro occultamento e, al tempo stesso, l'occultamento della loro mancanza di coerenza e concretezza. E' da questo processo che le credenze escono distorte" (p. 15).

Un esempio tipico di questo processo è rappresentato dai pregiudizi popolari: "L'esigenza psicologica di razionalizzazione delle valutazioni operanti al livello più basso dà origine a quelli che ho chiamato "sterotipi" o anche "teorie popolari". Questi sterotipi costituiscono fatti socialmente rilevanti in tutte le società e possono essere oggetto d'indagine empirica. Essi constano di complessi di credenze piegati ad aderire alle valutazioni di più basso livello nei confronti delle quali esercitano una funzione di occultamento o di razionalizzazione… le valutazioni che gli stereotipi e le teorie popolari sono destinati a dissimulare o giustificare forniscono la carica emozionale. Esse sono abitualmente manifestate con la massima convinzione, quasi fossero affermazioni concernenti fatti di straordinaria importanza. Sottoposte ad analisi, queste teorie stereotipate si rivelano veri e propri grovigli di credenze riguardo al reale, grossolanamente false e spesso contraddittorie" (pp. 19-20).

Se gli stereotipi sono indubbiamente più diffusi a livello popolare, è errato pensare che, a livello scientifico, soprattutto quando l'oggetto è l'uomo e i fatti umani, essi siano inesistenti: "Inganniamo noi stessi se ingenuamente crediamo che in quanto scienziati sociali, noi siamo meno "umani" della società che ci circonda; e che non siamo soggetti anche noi a inclinare opportunisticamente verso conclusioni atte a soddisfare pregiudizi segnatamente simili a quelli di qualunque altro membro della nostra società… Tutti noi nelle nostre scienze siamo soggetti all'influenza della tradizione, del clima politico e culturale del nostro ambiente, nonché delle nostre specifiche e personali predisposizioni" (p. 35). In conseguenza di questo "dato che i preconcetti nella ricerca sono determinati da ragioni di opportunismo proprio come quelle distorte credenze popolari su cui di regola si modellano, può anche accadere che la ricerca in tal modo condizionata li confermi, almeno in parte e provvisoriamente" (p. 38).

Il problema dell'oggettività nell'ambito delle scienze umane e sociali non può, peraltro, essere risolto attenendosi ai fatti. Primo, perché le valutazioni latenti possono incidere, oltre che nella definizione dell'oggetto della ricerca, anche sulla metodologia adottata: "Il fatto che il condizionamento sociale svolga un ruolo tanto decisivo nella scelta del campo di ricerca dovrebbe renderci maggiormente consapevoli e sospettosi di un altro tipo di condizionamento: cioè a dire, gli approcci che noi scegliamo nella ricerca, col che intendo i concetti, i modelli, e le teorie da noi usati, e il modo in cui selezioniamo e ordiniamo le nostre osservazioni e presentiamo i risultati della ricerca" (p. 39).

In secondo luogo, perché non esistono dati oggettivi in sé e per sé: "I preconcetti nelle scienze sociali non possono essere cancellati semplicemente "attenendosi ai fatti" e raffinando i metodi di approccio ai dati statistici. Invero, i dati e la loro manipolazione sono spesso più suscettibili di distorsioni tendenziose di quanto lo sia il "pensiero puro". Non basta la mera osservazione a organizzare il caos dei dati disponibili per la ricerca, in un corpo di conoscenza sistematico. Prima deve esserci un punto di vista, bisogna fissare un punto di osservazione, e ciò implica già una valutazione… Se, nei loro tentativi di essere fattuali, gli scienziati non rendono esplicito il loro punto di vista, essi lasciano spazio ai preconcetti.

Né uno scienziato può sfuggire ai preconcetti negandosi a conclusioni di ordine pratico e politico. Non si creda che la ricerca sia meglio protetta contro i preconcetti quando lo scienziato rifiuta di ordinarne i risultati in una forma disponibile ad un uso pratico e operativo. E' altresì evidente che, nonostante le assicurazioni contrarie, quasi infallibilmente vengono tratte conclusioni pratiche e politiche. Tutta la nostra letteratura è permeata da giudizi di valore, nonostante tutte le affermazioni preliminari in contrario. Ma queste conclusioni non sono presentate come deduzioni da esplicite premesse di valore; invece, secondo una moda vecchia di secoli, si sostiene che esse scaturiscono evidenti dalla natura delle cose: vale a dire come parte integrante di ciò che si presenta come dato oggettivo" (pp. 40-41).

Il rimedio al mito dell'obiettività dei fatti è semplice. Posto che "una scienza sociale "disinteressata" non è mai esistita, e logicamente non potrà mai esistere" (p. 44), "l'unico modo in cui è possiamo sforzarci di raggiungere una certa "oggettività" è - a livello di analisi teoretica - quello di portare innanzitutto le valutazioni in piena luce, di renderle consce, esplicite e precise e di lasciare che siano esse a guidare l'impostazione della ricerca" (p. 44).

Rigettare il mito dell'oggettività assoluta, non significa però nel gorgo del relativismo o del nichilismo morale. Infatti, "nessuna scienza sociale e nessun ramo di essa può pretendere di qualificarsi come "amorale" e "apolitica"; "La ricerca è sempre e per sua logica necessità fondata su valutazioni di ordine morale e politico, e il ricercatore sarà sempre tenuto a rendere conto di esse in modo esplicito. Una volta che queste valutazioni siano state portate alla luce, chiunque scopra che un particolare aspetto della ricerca è fondato su ciò che egli può considerare valutazioni errate sarà in grado di sottoporla a critica su quella base… L'argomentare in termini morali e politici potrà invero venire stimolato e in larga misura facilitato non appena la scienza sociale convenzionale si sia spogliata di certe sue false pretese: come quella di potere, senza premesse di valore esplicite, accertare fatti rilevanti e significanti e persino raggiungere conclusioni di ordine pratico" (pp. 60-61).

Il discorso di Myrdal è straordinariamente semplice e lucido. L’obiettività assoluta non esiste nel campo delle scienze umane e sociali (posto che esista nel campo di quelle naturali). Colui che indaga l’uomo e i fatti umani deve essere consapevole dei presupposti impliciti - valutazioni e “pregiudizi” - da cui parte, per limitare la loro incidenza sulla raccolta e sull’interpretazione dei dati.

Il criterio metodologico avanzato da Myrdal è prezioso, ma difficile da adottare. L’esperienza di Freud, da questo punto di vista, è particolarmente significativa. Sottoponendosi ad una lunga e rigorosa autoanalisi, egli di fatto quel criterio lo ha adottato, ma limitandolo all’esplorazione la più sottile possibile dei suoi rapporti originari con la madre, il padre, i fratelli e di gran parte dei rapporti interpersonali successivi, tra cui quelli terapeutici. Ciò non è bastato al metterlo al riparo dal pregiudizio nei confronti della natura umana e dall’insistere nel ritenere che la causa del disagio psicopatologico, pur potendo essere rinforzata dall’ambiente familiare e sociale, fosse da ricondurre alla vicissitudine soggettiva delle pulsioni e, in particolare, ad una dotazione costituzionale particolarmente intensa che impedisce all’individuo di assoggettarle al principio di realtà.

Cosa c’è dietro questo pregiudizio? L’influenza della cultura ebraica e dell’antropologia borghese, s’è detto. Occorre aggiungere anche un terzo fattore: lo psicologismo denunciato da Politzer (e che più di recente R. Castel ha definito psicoanalismo) vale a dire la credenza che la soggettività, nei suoi aspetti consci e inconsci, non richieda, per essere interpretata, di andare al di là della dimensione privata, dei rapporti interattivi che l’individuo intrattiene con il mondo e del modo in cui li vive e li elabora.

In filosofia tradizionalmente per psicologismo si intende qualsiasi indirizzo filosofico che assume come fondamento la coscienza individuale e che in essa ricerca i criteri per l'interpretazione della realtà. E’ evidente che, con la scoperta dell’inconscio, Freud sembra superare d’emblée l’orientamento psicologista. In realtà, egli rimane al suo interno perché considera l’inconscio ancora più avulso dalla realtà storico-sociale rispetto alla coscienza, eccezion fatta per per la pressione repressiva che l’ambiente esercita sull’inconscio al fine di promuovere l’accettazione del principio di realtà.

E’ la sostanziale ignoranza dei rapporti reciproci e interattivi tra soggettività, conscia e inconscia, e storia sociale il limite maggiore del pensiero di Freud, la lacuna che va colmata per giungere a concepire la soggettività come espressione di un’interazione tra Natura e Cultura che si realizza in virtù dell’immersione dell’individuo in un determinato contesto storico-sociale.

Ma - vien da chiedersi - è lecito psicoanalizzare in questa nuova ottica il fondatore della psicoanalisi? Io ritengo che sia lecito nella misura in cui, per apprezzare e valorizzare le sue scoperte, occorre rimediare alla sua “cecità” ideologica.

Tale cecità, come accennato, è riconducibile ad una teoria della Natura umana drammaticamente pessimistica, incentrata sull’attribuzione ad essa di un istinto di morte. In conseguenza di tale teoria, Freud mette da parte uno dei principi essenziali della psicoanalisi, quello per cui le apparenze comportamentali celano motivazioni che possono avere tutt’altro significato rispetto ad esse.

Nessuna opera documenta meglio l'ideologia freudiana dell'analisi che egli dedica, nel 1929, a Il disagio della civiltà. Occorre riflettere sulla data della composizione dell'opera. Il 1929 è l'anno della grande crisi del Capitalismo, che inciderà per molti anni sugli equilibri socio-economici delle democrazie occidentali. La crisi è stata preceduta dall'avvento della rivoluzione comunista in Russia nel 1917. Già da alcuni anni in Italia si è instaurato il Fascismo. In Germania si sta preparando l'avvento del Nazismo. E' un'epoca di convulsioni. Paradossalmente, nel saggio di Freud non c'è alcun accenno a tali convulsioni.

La notazione è importante perché rivela un limite della cultura freudiana. Freud, i cui interessi sono stati sempre molto vasti, non ha alcuna sensibilità storica, non tiene conto cioò delle influenze che l'ambiente socio-culturale ha sulle esperienze umane.

Il Disagio della Civiltà

Tra i quattro Grandi Demistificatori si danno numerose differenze. Una delle più importanti si ricava dal modo in cui è evoluto il loro tragitto di ricerca. Darwin e Marx sono stati letteralmente folgorati in età giovanile da un’intuizione - rispettivamente l’evoluzione per selezione naturale e l’evoluzione storica attraverso il conflitto di classe - che li ha costretti a dedicare più di venti anni alla pubblicazione di un’opera - L’origine delle specie e il Libro primo del Capitale - nella quale quell’intuizione si è trasformata in una teoria scientifica.

Anche Nietzsche e Freud partono da un’intuizione folgorante - rispettivamente la scarsa attendibilità delle tradizioni culturali e il galleggiare della coscienza su di una dimensione psichica molto più ampia rispetto ad essa. A differenza di Darwin e di Freud, però, essi non si dedicano ad una sola opera fondamentale, ma ne producono parecchie in successione e affidano all’insieme delle opere il loro pensiero.

Per quanto riguarda Nietzsche, questo modo di procedere, e lo stile aforistico che adotta dal 1878, è reso immediatamente comprensibile dalla sua avversione nei confronti di qualunque sistema di pensiero. In Crepuscolo degli idoli, egli scrive: “Diffido di tutti i sistematici e li evito. La volontà di sistema è una mancanza di onestà.”

Per quanto concerne Freud, il discorso è più complesso. L’intuizione dell’esistenza di una dimensione mentale inconscia, la cui attività può permettere di spiegare numerosi fenomeni psichici altrimenti incomprensibili, è relativamente precoce, coincidendo con lo studio dell’isteria, che si avvia intorno alla metà degli anni ’80 dell’800 (quando egli ha trent’anni) e si conclude con la pubblicazione nel 1895 della sua prima grande opera: Gli Studi sull’isteria.

L’intento di Freud non è però quello di documentare che l’inconscio esiste e partecipa a pieno titolo a determinare l’esperienza psichica del soggetto. Egli ha l’ambizione di acquisire pienamente la dimensione inconscia nell’ambito della psicologia, vale a dire di studiare le leggi e i principi che la governano, di approfondirne la struttura e di risalire addirittura alle sue matrici neurobiologiche.

Alla realizzazione di questo intento, Freud dedica la sua lunga vita, e alla fine è a tal punto convinto di avere messo a fuoco una teoria esplicativa dei fenomeni psichici umani individuali e collettivi da applicarla alla società in cui vive.

Il Disagio della Civiltà è del 1929 e si può ritenere il testamento intellettuale di Freud. Dopo di esso, l’unica opera rilevante è rappresentata dalla Nuova serie di lezioni che integrano l’Introduzione allo studio della psicoanalisi pubblicata tra il 1915 e il 1917. Si tratta, però, di integrazioni rese necessarie dalla svolta sopravvenuta nel 1920, con la teoria dell’istinto di morte, che rappresenta uno dei temi centrali de Il disagio della Civiltà.

Il tessuto concettuale del saggio è semplice da riassumere.

Freud si domanda “che cosa gli uomini stessi lascino scorgere, attraverso il loro comportamento, come scopo e intento della loro vita, che cosa pretendano dalla vita e vogliano conseguire in essa” e risponde senza remore che essi “vogliono la felicità, vogliono essere felici e rimanerlo. Questa aspirazione ha due facce, un fine positivo e uno negativo, da un lato vuole l'assenza di dolore e malessere, dall'altro la fruizione di forti sentimenti di piacere.” Il principio del piacere, dati i limiti umani, non può essere mai realizzato pienamente, anche se nessuno intende “rinunciare agli sforzi di portarlo in qualche modo più vicino alla realizzazione.”

Sulla base di questi principi, Freud si imbatte in una verità sgradevole, che giustifica la stesura del saggio: “Essa suona: una gran parte di colpa della nostra miseria è da imputare alla nostra cosiddetta civiltà; noi saremmo molto più felici se rinunciassimo ad essa e ritornassimo allo stato primitivo. Io dico che è sorprendente perché - comunque si definisca il concetto di civiltà - resta assodato che tutto ciò con cui cerchiamo di proteggerci contro le minacce derivanti dalle fonti di dolore, fa parte appunto della civiltà stessa. Per quale via mai tanti sono pervenuti a questa posizione di strana ostilità alla civiltà?”

Strana, questa ostilità perché affiorata nel seno di una civiltà che, attraverso lo sviluppo della scienza e della tecnologia, ha migliorato di gran lunga il tenore di vita medio dei cittadini, mettendo a loro disposizione beni di gran lunga maggiori rispetto al passato. Come mai - si chiede Freud - il benessere materiale sembra aver prodotto un malessere sotterraneo, strisciante, ma profondo e diffuso?

Una prima causa è la brama di libertà:

“La libertà individuale non è un bene della civiltà. Era massima prima di ogni civiltà, e però allora era per lo più senza valore, perché l'individuo non era praticamente in grado di difenderla. Con l'evoluzione della civiltà essa subisce limitazioni, e la giustizia esige che queste limitazioni non siano risparmiate a nessuno. Ciò che in una comunità umana si agita come brama di libertà può essere ribellione a un'ingiustizia esistente e diventare così favorevole a un ulteriore sviluppo della civiltà, rimanere compatibile con la civiltà. Ma può derivare anche dal resto della personalità primordiale non domata dalla civiltà e divenire così la base dell'ostilità alla civiltà. La brama di libertà si rivolge quindi contro determinate forme e pretese della civiltà o contro la civiltà in genere.”

La brama di libertà fa capo al tema delle necessarie rinunce pulsionali:

“E’ impossibile non vedere fino a che punto la civiltà sia edificata sulla rinuncia pulsionale, fino a che punto essa abbia come presupposto proprio il non-soddisfacimento (repressione, rimozione o che altro?) di potenti pulsioni. Questa "frustrazione della civiltà" domina il vasto campo dei rapporti sociali degli uomini.”

Essa riguarda anzitutto la sessualità:

“La civiltà attuale dà chiaramente a intendere che vuole permettere i rapporti sessuali soltanto sulla base di un'unione unica e indissolubile tra un uomo e una donna, che non accetta la sessualità come fonte di piacere autonoma e che è disposta a tollerarla soltanto come mezzo, finora insostituibile, per la riproduzione della specie.”…
“La società civile si è vista costretta ad accettare in silenzio molte trasgressioni che, secondo i suoi canoni, avrebbe dovuto punire…
La vita sessuale dell'uomo civile è danneggiata gravemente, qualche volta fa l'impressione di una funzione che si trovi in corso di involuzione.”

Ma c’è un altro pericolo intrinseco alla natura umana per cui la vita di società produce malessere. Da una parte, infatti:

“la civiltà non si accontenta dei legami finora concessile, ma vuole legare tra loro i membri della comunità anche libidicamente, servendosi all'uopo di tutti i mezzi, favorendo ogni modo di stabilire tra loro forti identificazioni, e mettendo in opera la più grande quantità di libido con meta inibita per rafforzare i legami comunitari con rapporti di amicizia.”

Da un’altra parte la civiltà deve fare i conti con l’innata aggressività umana:

“La parte di verità che ... si preferisce negare è che l'uomo non è un essere mite, bisognoso d'amore, che tutt'al più, se aggredito, sa anche difendersi, ma un essere che può annoverare nel suo corredo pulsionale anche una potente aggressività. Conseguentemente il prossimo è per lui non soltanto uno che può aiutarlo o diventare un oggetto sessuale, ma anche una tentazione a sfogare su di lui la sua aggressività, a sfruttare la sua capacità di lavoro senza compensarlo, a usarlo sessualmente senza il suo consenso, a immettersi nel possesso dei suoi averi, a umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo, ucciderlo. Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare questa affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia? Di regola questa crudele aggressività aspetta una provocazione o si mette al servizio di un altro disegno il cui scopo si potrebbe conseguire anche con mezzi più blandi. In circostanze propizie, quando le forze psichiche contrarie che normalmente la inibiscono cessano di operare, essa si manifesta anche spontaneamente, rivelando nell'uomo una bestia selvaggia che non si preoccupa di risparmiare la propria specie.”

“L'esistenza di questa aggressività, che possiamo constatare in noi stessi e a ragione presupporre nell'altro, è il fattore di disturbo dei nostri rapporti col prossimo e costringe la civiltà a un grande dispendio di forze. A causa di questa ostilità primaria degli uomini tra loro la società civile è costantemente minacciata di rovina. L'interesse della comunanza di lavoro non basta a tenerla unita, gli impeti pulsionali sono più forti degli interessi razionali. La civiltà deve mettere in opera ogni mezzo per porre limiti alle pulsioni aggressive degli uomini, per rintuzzarne le manifestazioni con formazioni psichiche reattive. “

Dalla frustrazione della sessualità e dell’aggressività deriva il disagio della Civiltà:

“Se la civiltà impone così grandi sacrifici non solo alla sessualità ma anche all'aggressività dell'uomo, comprendiamo meglio come per l'uomo diventi difficile trovare in essa la sua felicità. In realtà l'uomo primitivo stava meglio quando non conosceva limitazioni delle sue pulsioni.”

Fino a questo punto, si può ritenere il discorso di Freud sostanzialmente banale: il riferimento alla natura selvaggia dell’uomo, l’attribuzione ad essa di due pulsioni - Eros e Thanatos - e la concezione della civilizzazione come addomesticamento sono veri e propri stereotipi dell’antropologia borghese.

La conclusione del saggio, per quanto assuma un timbro profetico, è in linea con tali stereotipi:

“Il problema fondamentale del destino della specie umana mi sembra che sia se e fino a che punto lo sviluppo della sua civiltà riuscirà a dominare le perturbazioni della vita collettiva provocate dalla sua pulsione aggressiva e autodistruttiva. Sotto questo aspetto, proprio il presente merita forse un'attenzione particolare. Gli uomini sono arrivati attualmente a un tal punto di dominio delle forze naturali che sarebbe per loro facile, con l'aiuto di esse, sterminarsi a vicenda fino all'ultimo uomo. Ed essi lo sanno, donde in buona parte la loro attuale inquietudine, la loro infelicità, il loro stato d'animo angosciato. E ora c'è da aspettarsi che l'altra delle due "potenze celesti", l'eterno Eros, faccia uno sforzo per affermarsi nella lotta col suo altrettanto immortale avversario. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l'esito?”

Non è superfluo rilevare che qui Freud attribuisce all’Eros, inteso genericamente come spinta motivazionale a creare relazioni significative tra gli esseri umani, una funzione salvifica che è del tutto diversa da quella che egli ha ad esso attribuito nella prima fase della sua elaborazione teorica, nel corso della quale rappresentava la massima minaccia all’ordine sociale, come pure che questa nuova accezione si avvicina molto al concetto di libido junghiana, che Freud in precedenza ha aspramente criticato.

In tutti i pensatori le contraddizioni abbondano.

E’ più opportuno soffermarsi sul fatto che, qualche paragrafo prima del brano citato, Freud ha avuto un colpo d’ala:

“Se […] guardiamo al rapporto tra il processo di incivilimento dell'umanità e il processo di sviluppo o di educazione dell'uomo singolo, concluderemo senza tanto esitare che i due sono di natura molto simile, se non addirittura lo stesso processo applicato a oggetti di natura diversa…

La caccia alle analogie non deve essere per forza esagerata; ma poiché le finalità sono le stesse - qui l'inserimento di un individuo in una massa umana, lì la trasformazione di molti individui in un'unità di massa - la somiglianza dei mezzi all'uopo impiegati e dei fenomeni che ne conseguono non può stupire.

C'è un tratto che distingue i due processi e che, per la sua straordinaria rilevanza, non si può più tacere. Nel processo di sviluppo dell'uomo singolo, il programma del principio di piacere di trovare soddisfazione e felicità viene mantenuto come fine principale, l'inserimento in, o l'adattamento a, una comunità umana appare invece una condizione quasi inevitabile, che bisogna adempiere nel cammino verso questo fine di felicità. Se si potesse fare a meno di questa condizione, forse le cose andrebbero meglio.
In altri termini: lo sviluppo individuale ci appare come il prodotto dell'interferenza tra due aspirazioni, l'aspirazione alla felicità, che noi sogliamo chiamare "egoistica", e l'aspirazione all'unione con gli altri nella comunità, che chiamiamo "altruistica". Sia l'una sia l'altra definizione non vanno molto al di là della superficie. Nello sviluppo individuale l'accento principale cade per lo più, come si è detto, sull'aspirazione egoistica o aspirazione alla felicità; l'altra, che si può chiamare "civile", si accontenta di regola di esercitare una funzione di restrizione.

Diversamente vanno le cose nel processo della civiltà; qui il fine di stringere gli individui umani in un'unità è la cosa di gran lunga più importante, mentre il fine del raggiungimento della felicità continua a sussistere, ma è relegato sullo sfondo; sembra quasi che la creazione di una grande comunità umana riuscirebbe nel modo migliore se non ci fosse bisogno di preoccuparsi della felicità del singolo.”

[…]

“Se lo sviluppo della civiltà è tanto simile a quello dell'individuo, e se si serve degli stessi mezzi, non si sarebbe autorizzati a diagnosticare che varie civiltà - o epoche di civiltà - e magari l'umanità intera - sono diventate nevrotiche a causa del loro stesso sforzo di incivilimento? Alla dissezione analitica di queste nevrosi potrebbero collegarsi proposte terapeutiche che accampassero la pretesa di un grande interesse pratico. Non potrei dire che un tale tentativo di trasferire la psicoanalisi alla comunità civile sarebbe assurdo o condannato alla sterilità. Ma bisognerebbe usare molta prudenza, non dimenticare che si tratta comunque solo di analogia e che è pericoloso, non soltanto per gli uomini, ma anche per i concetti, trarli fuori dalla sfera in cui sono nati e si sono sviluppati. Inoltre la diagnosi di nevrosi collettive urta contro una difficoltà particolare. Nel caso della nevrosi individuale, un appiglio immediato ci è fornito dal contrasto che distingue il malato dal suo ambiente supposto "normale". Un tale sfondo viene meno nel caso di una massa tutta ugualmente malata, e dovrebbe essere ricercato altrove. E per quanto riguarda l'applicazione terapeutica dell'idea, a che servirebbe l'analisi più acuta della nevrosi sociale, dal momento che nessuno possiede l'autorità di imporre la terapia alla massa? Nonostante tutte queste difficoltà, ci si può aspettare che un giorno qualcuno intraprenderà l'audace impresa di occuparsi di una tale patologia delle comunità civili.”

L’uomo, dunque, secondo Freud, aspira alla felicità, ma deve fare i conti, per un verso, con il carattere asociale e antisociale delle pulsioni che allignano al fondo del suo apparato psichico, e, per un altro, con la pressione civilizzatrice della società che tende ad uniformarlo, ad omologarlo, ad appiattirlo per renderlo funzionale alle sue esigenze. In virtù di questo conflitto tra le esigenze dell’individuo e quelle della società, gli individui ammalano, se non clinicamente, esistenzialmente, ma ammala la stessa società, la cui coesione è assicurata da un eccesso di repressione pulsionale che svuota di senso le esistenze dei suoi membri.

Se si approfondisce l’analisi di queste citazioni si coglie immediatamente il contrasto, cui ho fatto cenno, tra le capacità intuitive di Freud e una capacità di elaborazione teorica piuttosto modesta.

Freud coglie, in contrasto con l’attribuzione alla natura umana di un istinto di morte, la dialettica tra “egoismo” e “altruismo” che sottende lo sviluppo del singolo individuo, come pure la pressione che la Civiltà opera nella direzione di una normalizzazione conformistica che omologa e in una certa misura anonimizza i singoli individui per trasformarli in cittadini. Non riesce però ad andare al di là del conflitto tra egoismo e altruismo, che sono termini sostanzialmente banali, né a capire che la Civiltà di cui parla è una determinata formazione socio-economica e culturale, vale a dire è la Civiltà borghese e capitalistica.

Indubbiamente suggestivo, il suo discorso rimane di conseguenza sospeso in aria. H. Marcuse ha tentato di rimetterlo con i piedi sulla terra.

Eros e civiltà

In Eros e Civiltà, H. Marcuse fornisce una rilettura critica della teoria freudiana inerente la natura umana.

La scelta a tutta prima sembra paradossale. Freud è un pensatore sostanzialmente conservatore, che si è sempre posto dalla parte dell'ordine e della civiltà contro i pericoli legati alle pulsioni umane e ha assunto il principio di realtà, vale a dire la rinuncia al piacere illimitato legato alla soddisfazione pulsionale, come indizio di una personalità matura e socialmente integrata. Marcuse tutto questo lo sa bene:

"Secondo Freud, la storia dell'uomo è la storia della sua repressione." (p. 59)

"Il convincimento che una civiltà non repressiva sia impossibile è una pietra angolare della costruzione teorica freudiana." (p. 64)

Ciò nondimeno, egli ritiene che "la concezione dell'uomo che emerge dalla teoria freudiana, è il più irrefutabile atto di accusa della civiltà occidentale" (p. 59), anche se essa "è, al tempo stesso, la difesa più incrollabile di questa civiltà" (p. 59). Posto infatti che il primato del principio di realtà sul principio del piacere è una razionalizzazione intrinseca alla civiltà occidentale "la teoria di Freud contiene anche elementi che invalidano questa razionalizzazione, che scuotono la tradizione predominante nel pensiero occidentale, che contengono perfino accenni al suo contrario.

La sua opera è caratterizzata dall'insistenza e dalla mancanza di compromessi nello svelare il contenuto repressivo dei valori supremi e delle supreme conquiste della cultura. E ciò facendo, egli nega l'identità di ragione e repressione sulla quale è costruita l'ideologia della cultura." (p. 64) "Svelando la loro ampiezza e la loro profondità, Freud difende le aspirazioni represse dell'umanità: le richieste di una condizione dove libertà e necessità coincidano. Ogni libertà esistente nel regno della coscienza sviluppata e nel mondo che essa ha creato, è soltanto una libertà derivata, frutto di un compromesso, acquistata con la rinuncia alla piena soddisfazione dei bisogni. E poiché la completa soddisfazione dei bisogni è felicità, la libertà che si trova nella civiltà è, nella sua essenza, l'antagonista della felicità… Oppostamente l'inconscio, lo strato più antico e profondo della personalità psichica, è l'impulso verso una soddisfazione integrale, che è assenza di bisogno e repressione. Come tale, in esso necessità e libertà sono immediatamente identiche." (p. 64-65) Dunque, a livello inconscio "il passato continua a far valere le proprie esigenze verso il futuro: e fa nascere il desiderio di un paradiso ri-creato in base alle conquiste della civiltà." (p. 65)

Freud, dunque, secondo Marcuse, è ideologicamente un conservatore, ma il suo pensiero e le sue intuizioni hanno una valenza intrinsecamente rivoluzionaria. Il conservatorismo freudiano consiste nel prendere costantemente posizione a favore della civiltà, che richiede un certo grado di frustrazione delle pulsioni libidiche e aggressive in nome della convivenza sociale e l'acquisizione, da parte di ogni soggetto, del principio di realtà, vale a dire della rinuncia alla loro soddisfazione illimitata. Nella misura in cui però Freud scopre il radicamento e la persistenza delle pulsioni a livello inconscio, laddove esse mantengono una terrificante potenza, e, nel contempo, l'eccesso di repressione che è proprio della civiltà occidentale e genera un diffuso disagio psicologico, egli assume un cauto ma esplicito atteggiamento critico nei confronti della razionalizzazione.

Marcuse si assume il compito di portare alle estreme conseguenze il conflitto tra natura umana e cultura scoperto da Freud, optando per la natura umana, e riconoscendo nell'Eros una potenzialità liberatoria e rivoluzionaria. Questa scelta, che fonda la necessità di una rivoluzione culturale radicale su di un'aspirazione psicobiologica depositata nello strato più profondo della psiche umana, deve però fare i conti con l'ultima teoria pulsionale elaborata da Freud che contrappone gli istinti di vita (Eros) e l'istinto di morte:

"Nella formulazione definitiva della teoria degli istinti… i due istinti fondamentali sono l'Eros e l'istinto di morte. Ma è molto importante ricordare che, introducendo la nuova concezione, Freud è condotto a ricordare in vari punti la natura comune degli istinti, anteriore alla loro differenziazione. Il fatto saliente e terrificante è la scoperta della tendenza fondamentale regressiva o "conservatrice" di tutta la vita istintuale. Freud non può sottrarsi al sospetto di aver toccato in questo modo un "attributo universale degli istinti e forse della vita organica in generale" finora mai notato, e precisamente "una tendenza inerente alla vita organica a restaurare uno stato di cose precedente, che l'entità vivente è stata costretta ad abbandonare sotto la pressione di forze perturbanti esterne." (p. 70)

Il dualismo degli istinti però, secondo Marcuse, è solo apparente. Se entrambi infatti hanno una natura conservatrice comune e gravitano entrambi verso il Nirvana, ne consegue che "l'istinto di morte è distruttività non fine a se stessa, ma presente solo per liberare da una tensione. La discesa verso la morte è una fuga inconscia dal dolore e dal bisogno. E' un'espressione dell'eterna lotta contro la sofferenza e la repressione." (p. 74)

Questa interpretazione dell'istinto di morte, di sicuro originale, è ben poco rispondente al pensiero e agli scritti di Freud. L'istinto di morte freudiano è inequivocabilmente una denuncia del carattere irreversibilmente asociale e antisociale della natura umana. Negli scritti tardivi esso assume addirittura il significato di un istinto univoco che, solo in conseguenza dell'angoscia di annichilimento, genera la tendenza al legame sociale, vale a dire l'Eros, che è dunque un istinto derivato.

Marcuse stravolge il pensiero freudiano. Il motivo di quest'interpretazione forzata è semplice. Quello che a lui interessa, in ultima analisi, è trovare il modo di fondare l'utopia di una radicale trasformazione dell'uomo e del mondo su di una base psicobiologica. Solo questa base infatti può dare ad essa un carattere di necessità. Per questo aspetto, egli tiene fermo l'aspetto più caduco del pensiero di Marx, quello teleologico, ma, avendo preso atto dell'imborghesimento della classe operaia, deve motivarlo in un altro modo. La teoria di Freud è suggestiva perché comporta l'attribuzione alla natura umana di istinti di vita la cui realizzazione piena può portare alla felicità. Essa però va depurata dell'antitesi tra Eros e istinto di morte. Quest'ultimo infatti, assunto nell'accezione freudiana, si pone come ostacolo permanente sulla via di un'utopia che associa alla felicità individuale la felicità di tutti. Riconducendolo ad una protesta contro la sofferenza e la repressione, esso viene sdrammatizzato e negato. La realizzazione di una vita all'insegna dell'Eros, di una vita dunque liberata dalla repressione e aperta alla felicità, nella misura in cui realizza quella protesta, la azzera.

L'utopia della felicità ha dunque, secondo Marcuse, un fondamento psicobiologico nella rivendicazione intrinseca all'inconscio di una vita incentrata sul principio del piacere. Il conflitto tra il principio del piacere e il principio di realtà, che Freud assume come fondamento del passaggio dallo stato di natura a quello di cultura, e che comporta inesorabilmente la frustrazione del desiderio illimitato, è assunto da Marcuse come un conflitto non naturale bensì storico: "un'organizzazione repressiva degli istinti si trova alla base di tutte le forme storiche del principio della realtà nella società civile. Se egli (Freud) spiega l'organizzazione repressiva degli istinti adducendo l'inconciliabilità esistente fra il principio primario del piacere e il principio della realtà, egli esprime il fatto storico che la civiltà è progredita come dominio organizzato." (p. 79)

La componente storico-sociale specifica intrinseca al principio della realtà freudiano è analizzata da Marcuse in nome di due concetti, fondamentali nell'economia logica del libro: la "repressione addizionale: le restrizioni rese necessarie dal potere sociale, o dominio sociale" (p. 79); il "principio di prestazione: la forma storica prevalente del principio della realtà" (p. 80).

La repressione addizionale "si distingue dalla repressione fondamentale, o di base, cioè dalle "modificazioni" agli istinti strettamente necessarie per il perpetuarsi della razza umana nella civiltà" (p. 79). "Mentre ogni forma di principio della realtà esige comunque un grado e una misura notevole di indispensabile controllo repressivo degli istinti, le istituzioni storiche specifiche del principio della realtà e gli specifici interessi del dominio introducono controlli addizionali al di là e al di sopra di quelli indispensabili all'esistenza di una comunità civile." (p. 81)

La repressione addizionale ha una precisa ragion d'essere: "Durante tutta la storia della civiltà che ci è nota, le restrizioni istintuali imposte dalla penuria sono state intensificate dalle restrizioni imposte dalla distribuzione gerarchica della penuria e del lavoro; gli interessi del dominio imposero repressioni addizionali all'organizzazione degli istinti sotto il principio della realtà. Il principio del piacere fu detronizzato non soltanto perché esso militava contro il progresso della civiltà, ma anche perché militava contro una civiltà il cui progresso perpetua la dominazione e la fatica del lavoro." (p. 83)

Il principio della realtà specifico che ha governato le origini e la crescita della civiltà occidentale è il principio di prestazione sotto il cui "dominio la società si stratifica secondo le prestazioni economiche (in regime di concorrenza) dei suoi membri." (p. 87) "Oggi il lavoro è diventato generale, e generali sono diventate le restrizioni imposte alla libido: le ore di lavoro, che costituiscono la parte maggiore delle ore della vita dell'individuo, sono ore penose, poiché la fatica del lavoro alienato significa assenza di soddisfazione, negazione del principio del piacere. La libido è stata deviata per consentire prestazioni socialmente utili, e l'individuo lavora per se stesso soltanto in quanto lavora per l'apparato, impegnato in attività che in massima parte non coincidono con le sue facoltà ed I suoi desideri." (p. 88) "Sotto la legge del principio di prestazione, corpo e anima vengono ridotti a strumenti di lavoro alienato; come tali possono funzionare soltanto se rinunciano alla libertà di quel soggetto-oggetto libidico che originalmente l'organismo umano è e desidera essere. (p.89)

Alla luce di questi due concetti - la repressione addizionale e il principio di prestazione - Marcuse analizza la dialettica propria della civiltà occidentale. Si tratta di una civiltà infelice e malata perché l'inibizione del principio del piacere inesorabilmente mobilita l'istinto di morte: "Una più forte difesa contro l'aggressività è necessaria; ma per potere essere efficace, la difesa contro un'aggressività più forte dovrebbe rafforzare gli istinti sessuali, poiché soltanto un Eros forte può "legare" efficacemente gli istinti distruttivi. E questo è precisamente ciò che la civiltà sviluppata non è in grado di fare, poiché proprio la sua esistenza stessa dipende da irreggimentamenti e controlli più estesi e più intensi." (p. 117) "la cultura esige una sublimazione continua, e con ciò essa indebolisce l'Eros, il costruttore della cultura. E la desessualizzazione, indebolendo l'Eros, "slega" gli impulsi distruttivi. La civiltà è minacciata in questo modo da una de-fusione degli istinti , nella quale l'istinto di morte lotta per conquistare il dominio sugli istinti di vita. Con la sua origine nella rinuncia, e sviluppandosi sotto rinunce progressive, la civiltà tende all'autodistruzione." (p. 119-120) "La discrepanza tra liberazione potenziale e repressione effettiva è giunta al punto di maturità: essa pervade ogni sfera di vita in tutto il mondo. La razionalità del progresso aumenta l'irrazionalità della sua organizzazione e del suo orientamento." (p. 134)

In questo contesto di civiltà, la condizione della coscienza è totalmente alienata: "La coscienza, che porta sempre meno il peso dell'autonomia, tende a ridursi al compito di regolare il coordinamento dell'individuo con l'insieme. L'efficacia di questo coordinamento è tale che l'infelicità generale è diminuita anziché aumentare… la consapevolezza che l'individuo ha delle repressioni vigenti viene attutita da una restrizione manipolata della sua coscienza. Questo processo altera I contenuti della felicità. Il concetto denota una condizione più-che-privata, più-che-soggettiva; la felicità non sta nel sentimento di soddisfazione, ma in una realtà di libertà e soddisfazione. La vera felicità implica conoscenza; essa è la prerogativa dell'animale razionale. Col declino della coscienza, col controllo dell'informazione, coll'assorbimento delle comunicazioni individuali nelle comunicazioni di massa, la conoscenza viene limitata e somministrata. L'individuo non sa più ciò che avviene realmente; la prepotenza della macchina dell'educazione e dei divertimenti lo fonde con tutti gli altri in uno stato di anestesia nel quale si tende ad escludere ogni idea sospetta. E poiché la conoscenza dell'intera verità porta difficilmente alla felicità, questa anestesia generale rende l'individuo felice." (p. 136-137)

Posta questa diagnosi dello stato della civiltà e dell'individuo all'interno di essa, Marcuse si chiede quali siano le possibili soluzioni di uno stato di cose oggettivamente terribile, per quanto soggettivamente vissuto dai più come normale. Le sue risposte riecheggiano, radicalizzandole, alcune intuizioni di Marx. Questi, pur avendo ipotizzato la possibilità di un lavoro disalienato, vissuto come espressione di una comunità incentrata su di un'attività lavorativa intesa come scambio interpersonale e sociale, ha più volte insistito sul fatto che l'autorealizzazione dell'uomo avviene attraverso l'uso creativo del tempo libero. Egli ha identificato nella produzione della ricchezza il presupposto dell'autorealizzazione, dell'affrancamento dal bisogno e della coltivazione di sé e dei rapporti sociali.

Marcuse viceversa ha una concezione univocamente negativa del lavoro: "Per quanto equa e razionale sia l'organizzazione della produzione materiale, essa non potrà mai rappresentare un regno di civiltà e di soddisfazione; ma potrà rendere disponibile tempo ed energia per il libero gioco delle facoltà umane al di fuori del regno del lavoro alienato. Quanto più completa è l'alienazione del lavoro, tanto maggiore è il potenziale di libertà: l'optimum sarebbe un'automazione totale. E' la sfera al di fuori del lavoro che determina la libertà e l'autorealizzazione, ed è la possibilità di determinare l'esistenza umana in base ai valori di questa sfera che costituisce la negazione del principio di prestazione." (p. 181) "il sistema di lavoro andrebbe riorganizzato con l'intento di risparmiare tempo e spazio per lo sviluppo individuale al di là del mondo del lavoro, inevitabilmente repressivo." (p. 213) "Al di là del principio di prestazione, la sua produttività ed anche i suoi valori culturali perdono la loro validità. La lotta per l'esistenza si svolge su di un terreno nuovo e con obbiettivi nuovi; essa si trasforma nella lotta concertata contro ogni restrizione del libero gioco delle facoltà umane, contro la fatica, la malattia, la morte. Inoltre mentre il dominio del principio di prestazione era accompagnato da un corrispondente controllo della dinamica istintuale, il riorientamento della lotta per l'esistenza porterebbe con sé un cambiamento decisivo di questa dinamica… Esso inciderebbe sulla struttura stessa della psiche, altererebbe l'equilibrio tra Eros e Thanatos, riattiverebbe settori di soddisfazione repressi, e placherebbe la tendenza conservatrice degli istinti." (p. 182)

Ma in nome di cosa si realizzerebbe questa rivoluzione epocale, che chiuderebbe la preistoria dell'umanità caratterizzata dalla penuria, dalla fatica, dall'ingiustizia e dall'alienazione? Le facoltà umane che Marcuse assume come fondamentali per l'autorealizzazione sono la fantasia creativa, il gioco e una modificazione sensoriale che porterebbe finalmente l'uomo a sperimentare eroticamente (cioè piacevolmente) il rapporto con se stesso, col suo corpo, con la sua mente e con il mondo. Egli diventerebbe letteralmente preda del bello e del piacevole, e la sua ansia di piacere infinito risulterebbe appagata.

"La realtà che "perde la sua serietà" è la realtà inumana del bisogno e della necessità ed essa perde la sua serietà quando bisogni e necessità possono soddisfarsi senza lavoro alienato. Allora l'uomo è libero di "giocare" con le sue facoltà e potenzialità e con quelle della natura, e soltanto "giocando" con esse egli è libero. Vive in un mondo nel quale egli ha "libero gioco", e l'ordine di questo mondo è un ordine di bellezza." (p. 207)

"Il processo abbozzato or ora non implica soltanto una liberazione ma anche una trasformazione della libido: dalla sessualità che subisce la supremazia genitale a un'erotizzazione dell'intera personalità. Si tratta più di un'espandersi che di un'esplosione della libido - di un espandersi sui rapporti privati e sulla società, che getta un ponte sull'abisso creati tra questi da un principio repressivo della realtà. Questa trasformazione della libido sarebbe il risultato di una società trasformata che non ostacola più il libero gioco dei bisogni e delle facoltà individuali. In virtù di queste condizioni, il libero sviluppo della libido al di là delle istituzioni del principio di prestazione, differisce essenzialmente dalla liberazione della sessualità costretta entro il dominio di queste istituzioni… Il libero sviluppo della libido trasformerebbe entro istituzioni trasformate, erotizzando zone, tempo e rapporti previamente considerati tabù, minimizzerebbe le manifestazioni della sessualità pura, integrandole in un ordine molto più ampio, che comprende anche l'ordine del lavoro." (p. 219)

Nell'ottica di questa utopia della liberazione dei corpi e delle menti, il valore rivoluzionario del principio del piacere freudiano risulta confermato: "Alla luce di un'idea di una sublimazione non-repressiva, la definizione freudiana dell'Eros che lotta per "formare la sostanza viva in unità sempre maggiori, in modo che la vita possa essere prolungata e portata ad un sviluppo più alto" acquista qui un significato più ricco. L'impulso biologico diventa un impulso culturale." (p. 227) In quanto tale, esso ridurrebbe o renderebbe inutile l'aggressività sociale. La razionalità di un mondo erotizzato, un mondo di esseri autorealizzati ha in sé le proprie leggi morali, che rendono insignificante la pressione dell'istinto di morte.

Marcuse ha tentato di recuperare il pensiero di Freud in un’ottica chiaramente marxista. Non per caso, nella storia del pensiero psicoanalitico, egli è stato annoverato, con W. Reich e G. Roheim, tra gli autori della cosiddetta sinistra freudiana.

Il tentativo di Marcuse è senz’altro significativo, ma filologicamente poco corretto. Esso, infatti, estrapola dal pensiero freudiano il principio del piacere e lo elabora nell’ambito di un’antropologia di tutt’altro segno, quella marxiana dell’uomo totale o universale.

Non penso che questa ibridazione sia del tutto priva di significato. Vedremo ulteriormente che la possibilità di integrare le scoperte di Freud in una cornice che prescinde dall’ideologia pulsionale non solo esiste, ma le valorizza. Ciò nondimeno occorre interrogarsi sulla tenace resistenza con cui Freud ha difeso la teoria delle pulsioni anche quando la ipotesi avanzata dell’istinto di morte è stata rifiutata da un numero rilevante di suoi allievi e collaboratori.

Il problema dell’aggressività umana

I comportamenti aggressivi, dal livello individuale a quello collettivo, rappresentano un dato di fatto innegabile. Ricondurli, però, alla pressione di una pulsione distruttiva primaria sembra alquanto banale.

E’ proprio questo che Freud fa, oltre che ne Il disagio della civiltà, in un carteggio con Einstein sulla guerra che risale al 1932. Si tratta di uno scambio di vedute molto breve, che può servire, se ce ne fosse bisogno, a convincerci che la genialità non pone al riparo dalla banalità.

Il punto di vista di Einstein, che pone in gioco il nazionalismo, la sete di potere dei ceti dominanti, la loro capacità di manipolare le coscienze dei cittadini, ha un respiro maggiore rispetto a quello freudiano, anche se se si conclude con questa affermazione: “com'è possibile che la massa si lasci infiammare con i mezzi suddetti fino al furore e all'olocausto di sé? Una sola risposta è possibile. Perché l'uomo alberga in sé il bisogno di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua inclinazione rimane latente, solo in circostanze eccezionali essa viene alla luce: ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva.”

Freud prende la palla al balzo per confermare la sua teoria dell’istinto di morte. Egli scrive:

“Noi presumiamo che le pulsioni dell'uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare e a unire — da noi chiamate sia erotiche (esattamente nel senso in cui Platone usa il termine "Eros" nel Simposio) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di sessualità, — e quelle che tendono a distruggere e a uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva. Come Lei vede, si tratta propriamente soltanto della dilucidazione teorica della contrapposizione tra amore e odio, universalmente nota, e forse originariamente connessa con la polarità di attrazione e repulsione che interviene anche nel Suo campo di studi…

Vorrei indugiare ancora un attimo sulla nostra pulsione distruttiva, meno nota di quanto richiederebbe la sua importanza. Con un po' di speculazione ci siamo in effetti persuasi che essa opera in ogni essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato della materia inanimata. Con tutta serietà le si addice il nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con l'aiuto di determinati organi, si rivolge all'esterno, contro gli oggetti. Per così dire, l'essere vivente in tanto protegge la propria vita in quanto ne distrugge una estranea. Una parte della pulsione di morte, tuttavia, rimane attiva all'interno dell'essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare tutta una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della pulsione distruttiva. Siamo perfino giunti all'eresia di spiegare l'origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell'aggressività verso l'interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è spinto troppo oltre; in tal caso sortisce un effetto immediatamente malsano. Invece, il volgersi di queste forze pulsionali distruttive nel mondo esterno scarica l'essere vivente e non può non sortire un effetto benefico. Ciò serve come scusa biologica a tutti gli impulsi esecrabili e perniciosi contro i quali noi ci battiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quanto lo sia la resistenza con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare una spiegazione.”

Applicata alla Grande Guerra, il punto di vista freudiano, che la assume come espressione inconfutabile del surplus di aggressività che alligna nella natura umana, è del tutto improprio.

Egli in pratica sostiene che decine di milioni di cittadini di Nazioni europee ricche di tradizioni culturali e di tecnologia siano andati verso il massacro sotto la spinta di motivazioni pulsionali individuali.

Il dibattito sulle origini della Grande Guerra - l’evento storico che ha spinto Freud ad avanzare l’ipotesi dell’istinto di morte - non si è ancora concluso tra gli addetti ai lavori. Due sole circostanze sembrano certe. La prima è che al tavolo delle trattative di pace, i rappresentanti di tutti i Paesi belligeranti espressero la convinzione di essere stati costretti ad entrare in guerra per difendersi. Ciascuno dei due schieramenti, in pratica, attribuiva all’altro la responsabilità del conflitto. La seconda è che la Germania subì la sconfitta attribuendola al tradimento delle alte gerarchie militari piuttosto che al campo di battaglia, e che questo, associato alle durissime condizioni di pace imposte dai vincitori, contribuì a preparare il terreno per l’avvento di Hitler, il cui sfrenato militarismo, destinato ad esitare nella Seconda Guerra mondiale, aveva come obiettivo il riscatto della Germania e la vendetta per i torti subiti.

Nell’uno e nell’altro caso, insomma, sembra avere agito la tragica fatalità di congiunture storiche che hanno azzerato la libertà degli agenti, inducendoli a pensare di essere nel giusto.

Attribuendo quella tragica fatalità all’istinto di morte, Freud non sembra tenere in alcun conto il mistero che c’è nei fatti storici.

La confutazione più sottile del pensiero freudiano sull’aggressività è stato fornito da E. Fromm in Anatomia della distruttività umana. In questa opera, nella quale dedica un lungo capitolo all’analisi critica della teoria dell’istinto di morte, Fromm avanza la distinzione ormai divenuta famosa tra aggressività benigna e maligna. La prima è benigna nel senso che dà all’individuo la capacità di difendersi dagli attacchi esterni e di affermare, anche lottando, i suoi diritti. L’aggressività maligna è invece orientata a produrre un danno degli altri per motivi che vanno dall’egoismo al sadismo e alla crudeltà gratuita. Fromm interpreta l’aggressività maligna come indizio di una patologia di carattere.

Avremo occasione di tornare su questo problema ulteriormente. Per ora ciò che appare importante è interrogarsi sul fondamento empirico che Freud porta a sostegno della teoria dell’istinto di morte. Il fondamento empirico è la pratica clinica che, come si è detto, riguarda prevalentemente soggetti affetti da nevrosi. A Freud sembra sfuggire del tutto un dato elementare. La rabbia, conscia o inconscia, è un’emozione sempre intensamente rappresentata nell’esperienza dei soggetti che sperimentano un disagio psichico. In rapporto alla sua intensità, però, le espressioni comportamentali sono singolarmente rare, e comunque meno rilevanti di quanto accade a individui normali. Anche se si estende il discorso ai soggetti psicotici, le cose non cambiano. Prendendo un campione a caso della popolazione di individui affetti da disturbi psichici e di individui normali, i comportamenti aggressivi agiti dai secondi risultano costantemente superiori a quelli agiti dai primi.

Dato che Freud sostiene di avere ricavato la teoria dell’istinto di morte dalla pratica analitica, è sorprendente che egli non si sia interrogato sul paradosso per cui proprio i soggetti dotati, secondo la sua teoria, di una pulsione di morte costituzionalmente intensa sarebbero nel complesso i meno aggressivi.

Per non tirare troppo a lungo il discorso, si può dire che Freud confonde due dimensioni: la rabbia, che è un’emozione di base e assume nell’uomo un significato del tutto particolare, intrecciandosi con la percezione della dignità personale, dei diritti individuali e del senso di giustizia, e l’aggressività, che coincide con i comportamenti agiti a danno degli altri.

Questa confusione ha un enorme significato, che noi oggi siamo in grado di comprendere. Sappiamo infatti che, nonostante il pessimismo di Freud, tutti gli uomini vengono al mondo dotati di un certo grado di empatia che, comportando l’identificazione con l’altro soprattutto se soffre, tende o dovrebbe tendere naturalmente ad inibire l’aggressività. Questo di fatto avviene in genere clamorosamente nei soggetti introversi, nonostante il loro senso di giustizia e la loro reattività rabbiosa in rapporto alle ingiustizie siano spiccatissime.

L’inibizione della rabbia dà luogo ad un effetto costante, riconducibile al principio di ridondanza. In conseguenza di questo, la rabbia raggiunge a livello conscio o inconscio vertici massimali, che si traducono in fantasie terribili di vendetta.

Freud ha dunque letto bene nell’inconscio dei pazienti, ma ha interpretato male ciò che ha letto. Ignorando il principio di ridondanza, egli ha pensato di avere intravisto direttamente l’attività dell’istinto di morte.

Il problema dell’aggressività in senso proprio, come comportamento agito, consapevolmente o inconsapevolmente, a danno degli altri, va ricondotta esso stesso nonché all’istinto di morte alle circostanze oggettive, sociali, culturali, soggettive che comportano una inibizione o una anestetizzazione dell’empatia.

È bene anticipare a questo punto un tema sul quale torneremo. L’attività clinica di Freud, come si rileva dalle sue o dalle sue opere nelle quali abbondano citazioni tratte dall’esperienza analitica, è stata intensissima. Egli ha colto anche alcune caratteristiche singolari, in termini di intelligenza e di vivacità culturale, come tipiche o ricorrenti nei soggetti affetti da disturbi psichici. Nonostante questo, però, egli non ha mai preso in considerazione la possibilità che la predisposizione ad ammalare fosse riconducibile ad una iperdotazione empatica, in pratica all’introversione.

A livello di pratica clinica insomma Freud ha rilevato, nell’inconscio dei pazienti, l’intensità delle emozioni negative (rabbia, odio, fantasie di vendetta) ma, anziché ricondurle al senso di giustizia e interpretare la loro tendenza a ritorcersi contro il soggetto come una conseguenza dell’empatia, le ha assunte come espressioni immediate della pulsione di morte.

In questo senso il titolo della conferenza mi sembra particolarmente pregnante.

Al di là dell'ideologia freudiana

Fare i conti con l’ideologia di Freud, significa prendere atto che la sua pretesa di fondare una scienza totale dell’uomo e dei fatti umani sulla base della psicoanalisi è mal riposta. Tutte le opere che egli dedica all’antropologia culturale, alla sociologia, alla psicologia delle masse attestano che egli è un mediocre filosofo.

Ciò nondimeno ha senso parlare di una rivoluzione freudiana per gli aspetti cui ho fatto cenno all’inizio e per l’impatto che essa avuto sulla psichiatria. In un libro giustamente famoso (Storia della Psichiatria, Newton Compton, Roma 1975), Franz G. Alexander e Sheldon T. Selesnick dividono la storia del confronto degli esseri umani con la malattia mentale in due sole ere: l’era della Psichiatria, dagli albori fino all’età moderna, e l’era freudiana, che influenza tutti gli sviluppi successivi.

Oggi in rapporto all’egemonia crescente della Psichiatria organicistica e l’avvento di altre teorie psicologiche che si contrappongono frontalmente alla psicoanalisi (in particolare il cognitivismo e la psicologia evoluzionistica), quella suddivisione sembra un po’ datata.

E’ del tutto vero, però, che la nascita della Psicoanalisi contrassegna, in rapporto alla storia della Psichiatria, uno spartiacque radicale, che ancora oggi conserva valore.

La rivoluzione freudiana consiste sostanzialmente nell’ipotizzare che non si dà alcun fenomeno mentale, normale o patologico, che non abbia senso, vale a dire che non sia comprensibile in termini di processi mentali inconsci dinamici che lo determinano.

Tale ipotesi non esclude che il cervello possa ammalare, ma, eccezion fatta per le patologie la cui organicità può essere accertata (come per esempio le encefaliti, l’Alzheimer, ecc.), ritiene che la malattia in questione sia di ordine funzionale, che essa cioè derivi da conflitti dinamici che determinano effetti psicosomatici.

Si tratta dunque di una rivoluzione epistemologica di vasta portata, che coinvolge complessi fattori di ordine psicologico, neurobiologico, sociale e culturale.

Se si tiene conto di come stanno oggi le cose, soprattutto per quanto concerne l’egemonia della Psichiatria organicistica, la rivoluzione freudiana sembra essersi esaurita.

Com’è possibile che ciò sia accaduto è un tema marginale ma importante di questi incontri.

Dirò subito che ciò coinvolge una serie di variabili che vanno dall’attaccamento dell’opinione pubblica al concetto di Normalità al ruolo dei Neopsichiatri sponsorizzati dalle case farmaceutiche. Sarebbe ingenuo, però, non riconoscere che si dà anche una responsabilità, se non di Freud stesso, di molti suoi eredi.

Anche Freud comunque ha qualche responsabilità. Ed è di questo che ora occorre parlare.