Parte quarta

Temi comuni

INDIVIDUAZIONE E AUTODIFFERENZIAZIONE

Un tema saliente che emerge chiaramente nell'opera della Mahler, di Kohut e di Fairbairn è che la dimensione centrale dello sviluppo psicologico è il passaggio da uno stato di completa dipendenza e di relativa mancanza di differenziazione tra sé e l'altro a una sempre maggior definizione del Sé e a una sempre maggiore autonomia (o, come preferisce dire Fairbairn, una dipendenza matura). Benché la terminologia sia diversa, e diverse siano le accentuazioni e le elaborazioni, tutti e tre gli autori sembrano parlare della stessa dimensione fondamentale. Per la Mahler è il passaggio dalla simbiosi alla separazione-individuazione; per Kohut è il passaggio dal totale appoggiarsi all'oggetto-Sé per definire il Sé e l'autostima alla coesività del Sé e ai perseguimenti mossi dalle ambizioni, dai valori e dagli ideali della persona; per Fairbairn, infine, è il passaggio dalla dipendenza infantile e dall'identificazione primaria alla differenziazione e alla dipendenza matura.

Tutti e tre gli autori sembrano affermare che, dal punto di vista psicologico, l'importanza principale dell'oggetto risiede non nel fatto che esso fornisce l'occasione di investimenti istintuali e le gratificazioni messi in evidenza da Freud, ma nel ruolo che ha nel rendere possibile lo sviluppo dell'integrità del Sé e l'autonomia. Tutti e tre sembrano anche condividere l'opinione che almeno la psicopatologia più grave e refrattaria al trattamento sia collegata non a conflitti incentrati sui desideri istintuali (cioè a dire conflitti Es-Io), ma all'insuccesso nel negoziare lo sviluppo della separazione-individuazione76. Oppure, per citare Loewald (1979): «I problemi della differenziazione tra sé e l'oggetto, coi suoi temi intrinseci della polarità tra l'individuazione e la fusione, probabilmente non sono meno ma più universali e profondi dei conflitti psicosessuali del nucleo edipico della nevrosi» (p. 161).

Se traduciamo il linguaggio strutturale di Kohut in un linguaggio motivazionale, egli nei suoi scritti afferma implicitamente che il bisogno di coesività del Sé e il bisogno di autostima sono così cruciali e importanti che quando sono disturbati o in qualche modo non soddisfatti, i prepotenti obiettivi motivazionali del comportamento, ivi compreso il comportamento compensatorio e difensivo, divengono sempre più diretti su questi temi. Così per Kohut l'aggressività distruttiva, i bersagli sessuali infantili e gli svariati tipi di relazioni oggettuali infantili e patologiche — per esempio il desiderio di fusione con un oggetto-Sé onnipotente — sono tutte reazioni agli insuccessi di un «Sé indebolito e tendente alla frammentazione» (p. 79) nel raggiungere una coesività e un'autostima affidabile, e derivano da questi insuccessi. In realtà, quel che Kohut propone è una gerarchia di obiettivi motivazionali per la quale è impossibile perseguire obiettivi di autoaffermazione e sessuali (caratteristici del periodo edipico), più avanzati dal punto di vista dello sviluppo, sino a che non siano state soddisfatte in misura ragionevole le esigenze elementari di coesività del Sé e di autostima. Se queste esigenze fondamentali non sono state sufficientemente esaudite, gli obiettivi sessuali e aggressivi divengono ad esse subordinati.

Si può considerare lo sviluppo della coesività del Sé o, secondo la Mahler, della separazione-individuazione, come un derivato naturale e una linea di sviluppo del sistema istintuale di attaccamento. Nello sviluppo animale e umano si dà per scontato che il giovane della specie divenga sempre più autonomo dalla madre, dapprima dandosi al gioco e all'esplorazione e, successivamente, partecipando a tutte le attività adulte del gruppo. Mentre negli animali questo sviluppo può essere visto prevalentemente in termini di crescita fisica e mentale, di acquisizione di repertori comportamentali, di capacità diverse, e di definizione del proprio posto nella gerarchia sociale, lo sviluppo psicologico umano deve comprendere anche lo sviluppo di un senso del Sé distinto.

Come ha notato Fromm (Munroe, 1955, p. 365), il senso del Sé è il prodotto di una tendenza evolutiva verso una sempre maggiore individuazione. Il senso dell'identità e del Sé non è presente ai livelli filogenetici più bassi, e fa una sua rudimentale comparsa solo nei primati (per esempio Gallup, 1977, 1979). Data la «selezione» evolutiva di questa caratteristica, vi sono buone ragioni per credere che essa assolva a importanti lunzioni adattive. Si può immaginare che il perseguimento degli obiettivi di ordine superiore dell'autostima e dell'integrità del Sé sia un mezzo gerarchico efficiente nel «garantire» il perseguimento di altri bisogni e obiettivi necessari alla sopravvivenza. In altre parole, nell'essere umano lo sviluppo psicologico non sarebbe completo senza lo sviluppo del senso della propria identità, e senza lo sviluppo della capacità di generare programmi, intenzioni, obiettivi e progetti che abbiano inizio nel Sé e che, sebbene messi in atto attraverso l'esercizio delle proprie capacità e dei propri talenti in via di sviluppo, sono relativamente privi di significato in mancanza della prima capacità. È chiaro che la Mahler et al. hanno in mente fenomeni quali il senso di un Sé distinto e la capacità di avviare e perseguire obiettivi e programmi. In breve, il passaggio dalla dipendenza simbiotica all'individuazione e all'autonomia è, al di sopra di un certo livello filogenetico, un fattore universale. La maggior parte degli animali sono geneticamente programmati a seguire questa linea di sviluppo, e la sopravvivenza di specie particolari dipende da questo. Negli esseri umani questo fattore universale assume una caratterizzazione speciale, nel senso che il passaggio dall'attaccamento all'individuazione comporta anche lo sviluppo del senso del Sé e di tutto ciò che esso implica. Si tratta di un aspetto costante e onnipresente dello sviluppo umano, certo altrettanto universale e altrettanto biologicamente fondato degli impulsi e del comportamento sessuale e aggressivo.

Se lo sviluppo dell'individuazione, dell'autonomia e del senso del Sé è un elemento universale, è legittimo interrogarsi sulle ragioni di quella che appare un'accresciuta patologia in questo campo generale, e di quella che sembra essere una recente sensibilità particolare sia a questi temi sia al tema ad essi collegato del narcisismo. Ora, va sottolineato che la generale sensibilità a queste tematiche non è affatto recente. Già nel 1945 Fenichel scriveva: «La nostra società attuale sembra essere caratterizzata da conflitti tra ideali di autonomia individuale [...] e aspirazioni regressive alla dipendenza passiva» (p. 464). Anche l'interesse per i temi relativi al Sé negli scritti di Sullivan (per esempio, 1953, e per l'importanza del bisogno di dipendenza nell'opera della Horney [1945]) venne considerato superficiale ed eccessivamente «culturale» dal momento che essi non erano visti nel contesto della teoria delle pulsioni e dello sviluppo psicosessuale.

Ad ogni modo, anche se l'interesse per questi temi non è affatto recente, essi sono nondimeno peculiarmente moderni, come suggerisce Fenichel quando parla della «nostra società attuale». Senza contare che questo interesse è divenuto più ampio e sistematico. Che i temi dell'individuazione e della differenziazione del Sé e quelli ad essi collegati della passività e della dipendenza infantile siano temi transculturali è chiaramente suggerito nell'interessante studio L'anatomia della dipendenza nella cultura giapponese, di uno psichiatra giapponese di orientamento psicodinamico (Doi, 1973). Egli afferma che il sostantivo giapponese amae indica grossomodo l'emozione avvertita dal neonato al seno e il comportamento infantile basato sull'assunto che non si verrà puniti. Egli nota anche che «la mentalità amae potrebbe essere definita come il tentativo di negare il dato di realtà della separazione» e che «la psicologia amae opera nel senso di promuovere la sensazione di essere un tutt'uno madre-figlio» (p. 75). Interessante è che ciò che controlla o tiene a bada ì'amae è lo jibun, che può essere approssimativamente tradotto con Io o Sé. Doi scrive che una persona dotata di jibun può controllare e affrontare l'amae, mentre una persona priva di jibun è alla mercé dell'amae. Inoltre, chi non ha affrontato adeguatamente l'amae o chi soffre di frustrazioni dell'amae (un paziente si lamenta di voler provare amae per gli altri, ma «nessuno me lo permette») è ipersensibile alla separazione e all'angoscia di fronte all'estraneo (hitomishiri) — in breve, ciò che si osserva è un rapporto tra l'adeguatezza della gratificazione simbiotica e la sicurezza dell'attaccamento da una parte, e la capacità di provare sicurezza e piacere nella separazione e nel funzionare autonomamente dall'altra. Estremamente interessante, nelle riflessioni di Doi, è il fatto che l'accresciuta patologia dell'amai è funzione di un passaggio nella società giapponese e nei rapporti sociali che può essere descritto in senso lato come un passaggio dalla Gemeinschaft alla Gesellschaft, il che aumenta, a sua volta, la probabilità e l'incidenza di frustrazioni dell'amae. In altre parole, il passaggio da una società nella quale la comunità, i legami ravvicinati, un senso di appartenenza (Gemeinschaft) sono la regola, a una società caratterizzata da legami più distanti e formali, quali per esempio quelli che si stabiliscono nei rapporti d'affari (Gesellschaft), ha come esito una maggiore frustrazione e una più diffusa patologia dell'amae.

Un aspetto particolarmente interessante nelle spiegazioni di Doi è la sua opposizione ai tentativi psicoanalitici di spiegare gli apparenti slittamenti nella natura della patologia e nel paziente medio odierno, nonché forse, in forma meno estrema, nella personalità media d'oggigiorno. Se le formulazioni di Doi lasciano spazio all'influenza di fattori socio-culturali, le spiegazioni psicoanalitiche tendono invece a ridurre il socio-culturale a livello delle pratiche e delle influenze dell'educazione del bambino. Così Bader e Philipson (1980) sostengono che, poiché le donne d'oggi tendono ad allevare i propri figli nell'isolamento, e sono tagliate fuori da rapporti adulti estesi e da attività professionali gratificanti, cercano la gratificazione dei propri bisogni psicologici nei figli, il che, a sua volta, porta a conseguenze non volute di angoscia materna riguardo alla separazione- individuazione e alla convinzione emozionale del bambino che il suo movimento in direzione dell'autonomia sia causa di frustrazione e infelicità nella madre. Anche Kohut (1977) avanza l'ipotesi che «la sottostimolazione dovuta alla distanza dei genitori, che è un fattore patogeno nei disturbi del Sé, è una manifestazione di un disturbo del Sé nel genitore» (p. 239). Kohut sembra non rendersi conto che questa «spiegazione» non fa altro che sospingere la domanda un passo e una generazione più indietro. Perché improvvisamente siamo testimoni di un accrescimento dei disturbi del Sé nei genitori? Ho forti dubbi sul fatto che i mutamenti nella formazione del carattere e nel tipo caratteriale, ivi comprese le loro manifestazioni patologiche (se presenti), possano essere adeguatamente spiegati se si rimane interamente al livello dell'educazione del bambino.

Per concludere, vorrei sottolineare che anche se è vero che i disturbi patologici nell'area della separazione-individuazione e dell'integrità del Sé sono un fenomeno peculiarmente moderno, cionondimeno è vero che la separazione-individuazione e i parametri ad essa collegati sono universali, e che la loro importanza per lo sviluppo non è limitata a una particolare epoca storica.

RICERCA DELL'OGGETTO E RELAZIONI OGGETTUALI

Accanto a temi fondamentali comuni, come quelli relativi alla differenziazione del Sé appena esaminati, esistono tuttavia divergenze significative, perlomeno tra Fairbairn e Kohut. Per Fairbairn la ricerca dell'oggetto è una tendenza di base e il bisogno di oggetti e relazioni oggettuali dura tutta la vita. Se questa esigenza non è soddisfatta mediante rapporti con oggetti esterni reali, questi ultimi vengono sostituiti da relazioni con oggetti interiorizzati. All'opposto, nei suoi scritti Kohut sembra spesso esprimere la convinzione che se gli oggetti sono necessari dal punto di vista dello sviluppo per la formazione di un Sé coesivo, una volta raggiunto il «sano narcisismo», in-vestimenti e piaceri istintuali sull'oggetto costituiscono, per così dire, un «lusso» che la persona può permettersi, giacché essa può vivere una vita ricca e significativa anche senza di essi. Per Kohut ciò che rende la vita degna di essere vissuta sono il perseguimento delle ambizioni, dei valori, degli ideali e l'autostima derivante da queste attività, più che la creazione di relazioni oggettuali soddisfacenti (ho già accennato alla convinzione di Kohut secondo cui la teoria psicoanalitica tradizionale attribuisce troppa importanza alle relazioni oggettuali e considera in senso peggiorativo il narcisismo, e alla sua intenzione di correggere quello che egli ritiene uno squilibrio). Penso che Kohut ritenga che per un adulto credere che l'oggetto sia necessario per l'integrità psichica o la sopravvivenza sia segno di una mancanza di coesività del Sé e del perdurare del rapporto con un oggetto-Sé, piuttosto che con un altro pienamente distinto.

Malgrado questa importante differenza è possibile, a mio avviso, conciliare in qualche misura le concezioni di Kohut e di Fairbairn in questo campo. Se si accetta l'ipotesi da me altrove avanzata (Eagle, 1982a) secondo cui interessi, valori e ideali assolvono funzioni vitali di relazione oggettuale, ecco che diventa possibile considerare queste attività non solo come «sano narcisismo», ma come espressione dei bisogni e delle tendenze universali di relazione con l'oggetto sottolineati da Fairbairn. La mia non è una affermazione arbitraria che si limita a etichettare come relativo alle relazioni oggettuali un insieme di attività che Kohut considera narcisistiche. Vi sono molte prove, che ho riassunto nello scritto citato e nel cap. 5, che mostrano che i legami cognitivo-affettivi forniti sia dalle relazioni interpersonali sia dagli interessi e dai valori rendono possibile un'integrità psicologica in condizioni di stress ed estremamente difficili. Anzi, in quelle circostanze in cui i rapporti interpersonali normali sono disturbati o non sono realizzabili (per esempio in isolamento) il ruolo degli interessi e dei valori interioriz-zati ai fini del mantenimento dell'integrità psichica diviene ancora più cruciale. Così, è stato dimostrato che tra i fattori che hanno consentito ai prigionieri di guerra di sopravvivere vi erano non solo i legami psicologici con gli altri (per esempio la propria famiglia o la propria gente), ma anche interessi dell'uno o dell'altro tipo. A proposito dei prigionieri di guerra degli Stati Uniti reimpatriati dai cinesi e dai nord-coreani nel 1953, Strassman et al. (1956) scrivono che «due cose sembravano salvare l'uomo prossimo alla morte per ' apatia ': metterlo in piedi a fare qualcosa, per quanto banale, e spingerlo a interessarsi a un qualche problema attuale o futuro» (p. 99) (cfr. anche Nardini [1952], che parla di scoperte analoghe).

Un tema comune nei resoconti autobiografici di persone costrette a condizioni terribili di prigionia o rinchiuse nei campi di concentramento è il ruolo degli interessi e dei valori nell'aumentare le probabilità di sopravvivenza e nel mantenere l'integrità psicologica. E questo vale per individui con retroterra anche molto diversi, come per esempio Malcolm X e Victor Frankl (1962), George Jackson (1970) e Bruno Bettelheim (1960). I resoconti autobiografici in cui descrivono la loro sopravvivenza fisica e psicologica presentano notevoli somiglianze riguardo al sostegno offerto dal legame con gli altri, oltre che da interessi e valori. In una recensione recente del libro di Bettelheim Sopravvivenza e altri saggi, Robinson (1979) scrive che «Bettelheim coglie probabilmente nel giusto quando afferma che a sopravvivere furono i prigionieri che vissero non per la vita stessa, ma per un qualche ideale — culturale o religioso — che li trascendeva» (p. 7). Un resoconto simile è fornito da Cohen (1953), un medico olandese che descrive la propria esperienza nel lager e ne riassume molte altre. Cohen si chiede: «Quali persone erano meglio attrezzate ad adattare se stesse, di modo che vi fosse almeno una probabilità di sopravvivenza in un campo di concentramento?» (p. 147). E risponde: «molti autori [...] sono d'accordo sul fatto che era della massima importanza che la persona avesse una qualche vita spirituale» (p. 148). Aggiunge poi: «Il concetto di 'vita spirituale' sta qui a indicare tutti i valori spirituali in senso più lato, quali la moralità, le conoscenze, l'emozione, l'intelletto, il carattere, la religione, ecc.». E cita un altro scrittore, De Wind, il quale osserva che «in generale, nel campo di concentramento coloro che hanno legami religiosi (utilizzando il termine nel suo senso più ampio, così da includere l'adesione a un sistema politico o una visione umanistica della vita) se la cavano più rapidamente, dopo lo stupore iniziale. Sicché non è un semplice caso che cristiani convinti e comunisti convinti, i quali sembrerebbero essere ai due opposti dal punto di vista psicologico, nei campi di concentramento abbiano dato prova della più grande forza di resistenza e siano riusciti persino a mettere in piedi alcune forme di organizzazione antifascista» (p. 148). Vi sono anche prove che indicano che in condizioni di deprivazione sensoriale, di isolamento e di stress, le attività che procurano il «nutrimento degli stimoli» (per esempio comporre una poesia) aiutano a conservare l'integrità psichica. Ed è nel procurare «nutrimento degli stimoli» che interessi e valori svolgono un ruolo adattivo nel mantenere intatte le funzioni dell'Io in condizioni di deprivazione sensoriale.

Rapaport (1958) propone che l'Io abbia bisogno del «nutrimento degli stimoli» per funzionare adeguatamente, e a riprova di questa sua ipotesi cita la scoperta che le funzioni dell'Io sono gravemente intaccate dalla deprivazione sensoriale (per esempio Bexton et al., 1954). Egli suggerisce inoltre l'idea di una duplice autonomia: l'autonomia dell'Io rispetto all'Es, che è facilitata dal «nutrimento degli stimoli» offerto dall'ambiente, e l'autonomia dell'Io rispetto all'ambiente, che è facilitata dal «nutrimento degli stimoli» provenienti dall'Es (per esempio segnali affettivi). E in effetti l'ipotesi di Rapaport è supportata dalla scoperta di Goldberger e Holt (1969) secondo cui gli individui capaci di «regressione al servizio dell'Io» (quale espressa, per esempio, dalla capacità di darsi a fantasticherie e fantasie) sono in grado di sopportare maggiormente l'isolamento dagli stimoli ambientali che l'esperienza della deprivazione sensoriale comporta.

Benché sottolinei l'importanza delle pulsioni in quanto «garanzie ultime» dell'autonomia dell'Io dall'ambiente, Rapaport esamina anche le «garanzie più prossime », derivanti dalle strutture dell'Io e del Super-io, che includerebbero ideologie, valori e interessi. Se si riformulano le concezioni di Rapaport in termini non relativi alle pulsioni, si può affermare che la presenza di una vita interiore ricca facilita l'autonomia dell'Io rispetto all'ambiente, e che un ambiente diverso e stimolante — sommato a un interesse e a una capacità a rispondervi — facilita l'autonomia dell'Io rispetto alle esigenze interne.

Ora, la prima parte della nostra riformulazione corrisponde precisamente a ciò che hanno riferito Cohen e altri sopravvissuti ai campi di prigionia e ai lager — e cioè che una ricca «vita spirituale» interiore ha reso possibile una certa autonomia dall'ambiente duro e intollerabile, facilitando così la sopravvivenza. Esprimendoci nel linguaggio di Rapaport, possiamo dire che le persone prive del «nutrimento degli stimoli» proveniente dalle fonti interne degli interessi, dei valori, della fantasia, ecc. dipendono in maggior misura dagli stimoli provenienti dall'ambiente. Di qui, difficoltà maggiori quando questa stimolazione ambientale è disturbata o intollerabile. All'opposto, le persone che ricevono «nutrimento» da fonti interiori sono più autonome rispetto alle vicissitudini ambientali.

Ci si può chiedere perché il «nutrimento» abbia un'importanza così cruciale per il mantenimento dell'integrità dell'Io. L'interpretazione dei dati relativi all'isolamento e allo stress proposta da Miller suggerisce che un qualche tipo di «esercizio mentale», che Miller descrive come «essenza stessa dell'attività dell'Io», è l'elemento fondamentale nel conservare l'integrità dell'Io. Questa spiegazione può risultare adeguata a situazioni (per esempio esperimenti di deprivazione sensoriale o di isolamento) nelle quali l'input ambientale è gravemente ridotto e l'input interno può essere considerato una compensazione, in termini strettamente quantitativi, dello scarso input ambientale. Ma non sembra applicarsi ad altre situazioni di stress (per esempio campi di concentramento), dove il problema non è un input ambientale ridotto, ma la qualità intollerabile dell'ambiente stesso. Anche nel primo caso, tuttavia, Miller trascura un aspetto cruciale, non quantitativo, comune a tutte le forme di «esercizio mentale» utilizzate per conservare l'integrità: e cioè il fatto che tutte queste attività comportano un rapporto o con oggetti o con rappresentazioni mnestiche degli oggetti nel mondo. Ciò vale per tutte le attività citate da Miller, dal contare sassolini al comporre una poesia, al provare attaccamento per ragni e scarafaggi. In breve, influenzato da un concetto psicologico dell'Io, Miller è portato a ignorare l'aspetto di relazione oggettuale degli «esercizi mentali» che favoriscono l'integrità.

Vale la pena di ricordare la descrizione che Cohen (1953) fa dell'importanza che le ideologie e la vita culturale hanno nell'aumentare le probabilità di sopravvivenza. Come hanno dimostrato Cohen e altri, questi «interessi culturali» permettono la fuga da un ambiente duro e intollerabile verso una vita interiore (o, nella terminologia di Rapaport, permettono un'autonomia dell'Io rispetto all'ambiente). Ma poiché la vita interiore verso la quale si fugge è caratterizzata, per sua stessa natura, da legami (interiorizzati) cognitivi e affettivi con gli altri, il proprio ritrarsi in sé è sì personale, ma non in senso autistico. Benché isolata dall'ambiente, la persona trova sostegno e supporto nei legami «silenziosi» con un mondo culturale interiorizzato. E dato che interessi e valori sono strutture che hanno interiorizzato il mondo culturale, essi permettono un'autonomia sia nei confronti dell'ambiente esterno, sia nei confronti degli aspetti più idiosincratici e autistici delle proprie valenze interne.

Relazioni oggettuali e «oggetti transizionali »

Il rapporto tra relazioni oggettuali da una parte e interessi, valori e ideali dall'altra, è ulteriormente chiarito dall'esame che Win- nicott (1958) fa degli «oggetti transizionali» e della loro importanza nel corso di una fase intermedia del movimento verso l'individuazione e l'autonomia. Ho già parlato dei primi movimenti del bambino verso la separazione e l'autonomia e del ruolo della madre nel facilitare questo processo. Tuttavia, come ha dimostrato Winnicott (e come abbiamo visto a proposito dei bambini «attaccati alla coperta»), in una certa fase dello sviluppo del bambino a facilitare questo processo sono chiamati anche oggetti diversi dalla madre. Noi tutti conosciamo la capacità tranquillizzante e rassicurante che hanno la famosa coperta o l'orsacchiotto di pelouche, e il ruolo particolare che svolgono in situazioni di angoscia e di pericolo psicologico78. Winnicott ha collegato direttamente questi «fenomeni transizionali» alla formazione della cultura e degli interessi culturali, sicché sarebbe utile illustrare qui le sottili e complesse formulazioni di Winnicott in questo campo e attingere da esse.

Secondo Winnicott i fenomeni transizionali sono tali in più sensi. In primo luogo — come già notato — al livello più manifesto, i fenomeni sono transizionali perché avvengono in una fase transizionale nella quale il bambino passa dalla simbiosi all'autonomia. In secondo luogo, a livello più sottile, i fenomeni transizionali sono transizionali in senso formale e cognitivo. In altre parole, un oggetto transizionale, in quanto rappresentazione, non può essere considerato la madre, e tuttavia non è nemmeno una rappresentazione simbolica del tutto astratta della madre. L'oggetto transizionale, dunque, è anche transizionale nel senso di un passaggio dalla rappresentazione concreta al raggiungimento del simbolo vero e proprio. Il bambino sa che la coperta o l'orsacchiotto non sono la madre, e tuttavia reagisce affettivamente a questi oggetti e ne ricava conforto come se fossero la madre. Dati degli oggetti esterni, la capacità di fornire conforto e benessere permette un'esplorazione più libera e sicura e un maggior interesse verso il mondo esterno.

Ciò suggerisce un terzo senso in cui l'oggetto transizionale e i primi fenomeni transizionali sono tali. Al bambino non si chiede di decidere se i significati esperiti nell'oggetto sono interamente una sua creazione o se esistano nel mondo esterno. In tal senso, questi significati sono intermediari tra il soggettivo e l'oggettivo. Come afferma Winnicott: «Dell'oggetto transizionale si può dire che si tratta di un accordo tra noi e il bambino sul fatto che non gli chiederemo mai: ' Sei tu che l'hai creato o ti è stato presentato dall'esterno? L'importante è non aspettarsi nessuna risposta su questo punto. Non è una domanda da formularsi» (Winnicott, 1958, p. 288).

Nel corso dello sviluppo gli oggetti transizionali dell'infanzia sono abbandonati e «vi è un graduale ampliarsi della gamma di interessi» (p. 279). Benché gli oggetti transizionali specifici perdano significato, essi «si sono sparsi, si sono distribuiti su tutto il territorio intermedio esistente tra la 'realtà psichica interna' ed 'il mondo esterno come viene percepito da due persone in comune', e cioè su tutto il campo culturale» (p. 280). In pratica, un processo che ha avuto inizio con oggetti tran-sizionali esterni si interiorizza sotto forma di interessi e valori culturali.

Come osserva Winnicott, nell'arte, nella religione ecc. è consentito porsi la domanda relativa al soggettivo o all'oggettivo, e cioè se una data cosa rappresenta una nostra creazione o parte del mondo esterno. In questo senso i fenomeni culturali rispecchiano sia la realtà interna che quella esterna. In altre parole, in quanto interiorizzati, essi sono profondamente personali e, per così dire, possono essere portati con noi. E dato che sono consensualmente convalidati e condivisi rispondono al nostro bisogno di collegamento con gli oggetti nel mondo.

Implicita nel legame proposto da Winnicott tra fenomeni transizionali e successive attività e interessi culturali è l'idea che fondamento degli interessi culturali è il bisogno di elaborare sostituti simbolici delle prime fonti di sicurezza e di benessere. In un certo senso questi sostituti costituiscono punti d'appoggio interiorizzati, ai quali dobbiamo periodicamente tornare prima di ripartire. In maniera assai più sofisticata facciamo quello che fanno le scimmie di Harlow e i bambini piccoli di fronte a situazioni strane, complesse e nuove. È certamente vicino a quello che ha in mente Winnicott quando afferma che alcune attività culturali (per esempio la musica, la poesia) costituiscono una periodica regressione terapeutica e sono simili ai fenomeni transizionali79.

Infine, l'esame che Winnicott (1965) fa della «capacità di stare soli» getta luce sul rapporto tra coesività del Sé e relazioni oggettuali. L'elemento cruciale sottolineato da Winnicott è che sia l'interiorizzazione dei fattori ambientali di sostegno all'Io, sia un senso di collegamento dell'Io permettono di stare soli senza eccessiva angoscia e senza la sensazione di essere psicologicamente isolati. In altre parole, dato che ci si sente collegati agli altri (ivi comprese le loro immagini o simboli), si può stare fisicamente soli senza sentirsi psicologicamente abbandonati. Proprio come il bambino si sente collegato all'oggetto transi- zionale che lo tranquillizza e lo conforta con la sua effettiva presenza, allo stesso modo, da adulti, ci sentiamo collegati agli «interessi culturali», alle ideologie e ai sistemi di valore che costituiscono tutti dei legami cognitivi e affettivi col mondo, e permettono tutti di sentirsi collegati agli altri e non isolati80.

Quanto detto ora porta alla conclusione che l'integrità o coesività del Sé e le relazioni oggettuali sono inestricabilmente connesse, non solo a livello d^llo sviluppo, ma anche a livello dinamico continuo. Quelle stesse attività e capacità che Kohut considera narcisistiche e relativamente autonome rispetto alle relazioni oggettuali — ambizioni, valori, ideali — sono invece ad esse intrinsecamente legate per loro stessa natura. Comportano infatti legami cognitivi e affettivi stabili e interiorizzati con gli oggetti, nell'accezione più ampia del termine.

IL PERSEGUIMENTO DI MOTIVAZIONI DI ORDINE SUPERIORE

Sia Kohut che Fairbairn sembrano ritenere il sesso e l'aggressività del tutto subordinati ai temi, rispettivamente, della coesi- vità del Sé e delle relazioni oggettuali. Entrambi, infatti, considerano per esempio l'ostilità essenzialmente un sottoprodotto — sulla linea del «deterioramento» — di disturbi del Sé e/o delle relazioni oggettuali. Ironia della sorte, mentre nelle formulazioni freudiane l'oggetto e le relazioni oggettuali sono subordinati al sesso e all'aggressività, Kohut e Fairbairn invertono il processo e subordinano totalmente sesso e aggressività alle vicissitudini dello sviluppo del Sé e delle relazioni oggettuali. Sembra difficile per i teorici della psicoanalisi (e altri) resistere alla convinzione che ogni comportamento debba essere ridotto a una o due motivazioni e obiettivi di base e d'ordine superiore. L'entusiasmo acritico dei sostenitori della psicologia del Sé e delle relazioni oggettuali tende a sottovalutare che il riduzionismo può operare in entrambe le direzioni. Se le relazioni oggettuali e il Sé possono essere ridotti a motivazioni di natura sessuale e aggressiva, è ugualmente possibile ridurre le motivazioni di natura sessuale e aggressiva a semplici trasformazioni (ivi compresi i prodotti «di deterioramento») di attività relative al Sé e alle relazioni oggettuali. Sembra che per loro sia troppo difficile accettare la realtà di una molteplicità di motivazioni e obiettivi (o di sistemi comportamentali) che, sebbene interagenti tra loro in modi complessi, non possono essere ridotti a questa o quella motivazione ritenuta primaria, di ordine superiore.

Se il comportamento sessuale e quello aggressivo sono indubbiamente connessi alle relazioni oggettuali e a quelli che Klein (1976) chiama i «valori del Sé», essi costituiscono tuttavia sistemi comportamentali distinti, regolati da influenze ambientali e interne (per esempio ormonali) distinte. E se è vero che il comportamento e le emozioni di carattere sessuale e aggressivo sono spesso attivati da situazioni e stimoli che hanno un «valore per il Sé» e un significato in rapporto alle relazioni oggettuali, è ugualmente vero che sono attivati anche da altri stimoli peculiari. Per esempio, se — come sostiene Rochlin (1973) — l'aggressività scatta spesso in risposta a minacce all'integrità del Sé e all'autostima, essa è anche però facilitata da un'ampia gamma di fattori, ivi compresi il model-lamento, l'apprendimento tramite osservazione, il rinforzo vicario, la stimolazione dell'ipotalamo, il livello di testosterone e gli influssi sociali. Senza contare il puro e semplice divertimento che molti ricavano dalla farsa burlesca o dal seguire un in-contro di pugilato. Dov'è, qui, il rapporto con le relazioni oggettuali e con il Sé?

Considerazioni analoghe valgono per il comportamento e le emozioni di natura sessuale. Anch'essi sono attivati da un'ampia gamma di situazioni ed eventi interni non necessariamente e manifestamente collegati ai temi delle relazioni oggettuali e dell'integrità del Sé. Piacere e odio sono comuni emozioni umane, e informano gran parte del nostro comportamento. È arbitrario ipotizzare che siano per necessità trasformazioni — o siano subordinate a trasformazioni — di motivazioni prevalentemente collegate alle relazioni oggettuali e alla coesività del Sé.

Quella che appare effettivamente una domanda legittima è se i sistemi comportamentali sessuale e aggressivo abbiano davvero un'importanza cruciale per lo sviluppo precoce della personalità, come ipotizzato dalla teoria freudiana tradizionale. È qui che le critiche e i dubbi sollevati dai teorici delle relazioni oggettuali e del Sé vanno di pari passo, e trovano conferma in prove recenti. In generale, queste prove danno supporto alla conclusione che fattori come il grado e la natura della stimolazione sensoriale (ivi compresa quella tattile e cenestesica), il rapporto neonato-madre, la sicurezza dell'attaccamento, la natura e la misura delle separazioni e il grado di «corrispondenza sensitiva» mostrata dalla persona che si prende cura del bambino hanno nel primo sviluppo della personalità un ruolo più importante di quello dei temi relativi all'aggressività e al sesso, ivi comprese le vicissitudini della deprivazione e la gratificazione in fasi psicosessuali diverse.

È importante notare che le ricerche sulla prima e sulla seconda infanzia hanno portato da una parte alla scoperta di fenomeni come le piuttosto complesse capacità cognitive del neonato, il suo bisogno e la sua reattività alle stimolazioni sensoriali, le sue precoci esigenze e reazioni di attaccamento, la sua risposta alle separazioni, le sue lotte per la separazione-individuazione, la sua dipendenza da una «base sicura» emozionale nel corso della prima attività esplorativa, e così via. Dall'altra hanno portato ad assai poche nuove scoperte o informazioni sicure sul ruolo della sessualità infantile. Ora, non credo che ciò possa essere spiegato con una direzione selettiva della ricerca o con l'aver trascurato in chiave difensiva quest'area del comportamento (un caso di rimozione dell'importanza della sessualità). Piuttosto è vero che le prime formulazioni cliniche sulla sessualità infantile hanno praticamente esaurito l'argomento, e non sono state di particolare valore euristico nell'additare scoperte e formulazioni ulteriori.

L'unico emendamento interessante in cui mi è capitato di imbattermi negli ultimi anni è il suggerimento di G. S. Klein (1976) che la sessualità infantile debba essere concepita più esattamente come sensualità infantile. Tutte le prove indicano che il neonato è un essere veramente sensuale, nel senso che è estremamente sensibile alla stimolazione sensoriale in tutte le sue modalità, e che la richiede. Tuttavia, la sua tendenza sensuale è inestricabilmente legata agli oggetti (come si può ricevere una stimolazione sensoriale in mancanza di oggetti?) e alle relazioni oggettuali, e non la si afferra adeguatamente se la si definisce in termini di impulsi istintuali che cercano di scaricarsi. Cioè a dire, non è resa in maniera particolarmente adeguata nelle formulazioni tradizionali della teoria della libido e dello sviluppo psicosessuale.

Ho affermato prima che il nostro comportamento è caratterizzato da una molteplicità di motivazioni e obiettivi che non possono essere ridotti o subordinati a uno o due sistemi motivazionali ritenuti fondamentali e soggiacenti. In che modo questa tesi si oppone alla posizione di un certo numero di teorici recenti della psicoanalisi, secondo cui l'integrità o l'unità del Sé costituisce una motivazione di ordine superiore nel comportamento? Per rispondere a questa domanda è necessario esaminare più da vicino il. concetto di motivazione di ordine superiore.

È evidente che sin dagli inizi della psiconanalisi alcune varianti dell'unità e dell'integrità del Sé hanno svolto, in un certo senso, la funzione di motivazione di ordine superiore. Così, sin dagli inizi Freud (1893-95) ha proposto l'idea fondamentale che alcune idee e alcuni ricordi traumatici siano tenuti lontani dalla consapevolezza perché nemici e persino ripugnanti al concetto che la persona ha di se stessa. In pratica la rimozione opera nel senso di mantenere intatto un dato concetto di se stessi. Quest'idea basilare si conserva in tutte le concezioni psicoanalitiche di conflitto dinamico e di difesa, ed è ad essa che si riferisce naturalmente Klein (1976) quando parla di metodi di «frazionamento» cui si ricorre nel tentativo di risolvere le incompatibilità e proteggere così l'integrità del Sé. Tuttavia, anche se la conservazione dell'unità e dell'integrità del Sé diventa una motivazione prepotente quando è minacciata, non ne consegue che questa sia la motivazione soggiacente a tutti o quasi i comportamenti, né che sia una componente onnipresente e necessaria in tutti o quasi i comportamenti. Avanzare questa ipotesi significa riproporre il pensiero di Freud, sostituendo semplicemente l'integrità del Sé alle motivazioni di natura sessuale.

Un altro problema che sorge quando si ipotizza che l'integrità del Sé sia una motivazione di ordine superiore è che — e anche qui l'errore è analogo a quello di Freud nello stesso contesto — si confondono le funzioni con le motivazioni (cfr. Moore, 1980). Per esempio, se un'ampia gamma di comportamenti può contribuire alla sopravvivenza, non ne segue che la sopravvivenza sia la motivazione di questi comportamenti, che possiamo mettere in atto per tutta una serie di ragioni e motivi specifici. La sopravvivenza tenderà a costituire una motivazione prepotente del comportamento solo quando essa sarà minacciata. Allo stesso modo, se un'ampia gamma di comportamenti può contribuire all'unità e all'integrità del Sé, non ne segue che questo sia l'obiettivo o la motivazione di questi comportamenti. È possibile invece che ciascuno di questi comportamenti venga perseguito per tutta una serie di ragioni e motivi specifici. In realtà, così come per la sopravvivenza, sembra molto probabile che l'unità e l'integrità del Sé non possano essere perseguite direttamente, e siano sempre prodotti collaterali di altre motivazioni e obiettivi specifici. Anche nelle prime formulazioni psicoanalitiche è presente l'idea di base, mantenuta nei vari sviluppi della teoria psicoanalitica, per cui il concetto che la persona ha di se stessa è conservato intatto (in seguito si parlerà di integrità dell'Io) non attraverso un perse-guimento diretto, ma attraverso operazioni difensive che, in linea generale, sono generate dall'angoscia e dal desiderio di evitare la sofferenza.

A mio avviso solo in questo senso molto circoscritto si può legittimamente parlare d'integrità del Sé come motivazione di ordine superiore. Innanzitutto, il raggiungimento della coesività del Sé è — come sostiene Kohut — un tema fondamentale legato allo sviluppo. Di conseguenza, la patologia in questo campo sfocia in un bisogno di perseguire la coesività del Sé che dura tutta la vita, e in una sensibilità anch'essa presente lungo tutto l'arco della vita alle minacce rilevanti (naturalmente, anche qui questo non significa che tutto il comportamento sia dettato da tali obiettivi). In secondo luogo, come si è già notato, essa tenderà a essere una motivazione prepotente quando è minacciata o, forse, quando è in competizione con altre motivazioni. Un meccanismo che renda il perseguimento dell'integrità del Sé una motivazione prepotente quando è minacciata è molto adattivo ed «efficiente» dal momento che sussume un'ampia gamma di possibili situazioni. Ma, naturalmente, ci si renderà conto che ciò di cui stiamo parlando è essenzialmente un meccanismo di difesa sensibile alle esperienze dell'angoscia e della «minaccia per l'Io», un meccanismo che è attivato da un messaggio interno che dice pressappoco: «Lascia perdere tutto e fa subito qualcosa per la minaccia che provo»83. Pertanto concluderei che il perseguimento dell'integrità del Sé come motivazione di ordine superiore va inteso sostanzialmente in termini di angoscia e di risposta difensiva all'angoscia — concetti che da lungo tempo sono parte essenziale della teoria psicoanalitica.

Affermare l'esistenza di motivazioni di ordine superiore come il bisogno e il perseguimento della coesività o dell'integrità del Sé, rappresenta in pratica — che ci piaccia o no — una nuova metapsicologia che viene a sostituirsi a quella freudiana. Come ho già osservato (cfr. nota 52), la teoria freudiana delle pulsioni, che è al cuore della sua metapsicologia, rappresenta il tentativo di individuare l'uniformità e la regolarità quali realtà di base soggiacenti alla diversità e alla specificità di comporta-menti e di motivazioni diversi. A mio avviso la nuova psicologia del Sé cerca in fondo di ottenere esattamente la stessa cosa, col perseguimento della coesività e dell'integrità del Sé quale nuova versione della realtà motivazionale di base soggiacente a una vasta gamma di comportamenti. Il tentativo freudiano di trovare un'uniformità richiese comprensibilmente l'elaborazione di una teoria causale (o, almeno, quasi-causale), nella quale si riscontrasse un'uniformità nelle pulsioni di base, nell'energia psichica e in altri parametri e meccanismi ritenuti universali (ivi compresi un giorno — così Freud sperava — i meccanismi biochimici del cervello) soggiacenti al comportamento. Molti teorici attuali; tuttavia, tendono a evitare qualsiasi ricorso a modelli causali o delle scienze naturali, e cercano di scoprire (io direi, piuttosto, di costruire) una analoga uniformità nel comportamento umano, all'interno però della modalità di discorso motivazionale, ipotizzando l'esistenza di una motivazione di ordine superiore in qualche modo soggiacente alla miriade di motivazioni specifiche che perseguiamo e che informano il nostro comportamento.

Assistiamo qui a una duplice ironia. Ironica infatti è l'immagine di studiosi che vogliono evitare la metapsicologia e che finiscono poi per assumere una posizione metapsicologica (come, in un contesto alquanto diverso, sottolinea Rubinstein [1976]); e ironico è pure il fatto che nel tentativo di evitare la metapsicologia e, secondo loro, di rimanere vicini alla situazione clinica ed esperienziale questi autori finiscono per compiere in questo campo una violenza più grande di quella prodotta da un approccio decisamente metapsicologico o causale che si proponga non di descrivere le motivazioni e le esperienze della persona, ma solo di spiegarle. In altre parole, una cosa è affermare che alla base di tutta una gamma di comportamenti, di motivazioni e di esperienze diverse vi sono certi meccanismi causali (i com-portamenti, le motivazioni e le esperienze rimangono intatti a quel livello di discorso), altra cosa è sostenere che necessariamente e invariabilmente, mentre in apparenza persegue le motivazioni specifiche a, b, c..., l'individuo persegue di continuo, alternativamente o simultaneamente, questa o quella motivazione di ordine superiore. Quest'ultimo approccio cerca di individuare un'uniformità nell'ambito motivazionale; ma data la diversità degli obiettivi, ciò non può essere legittimamente sostenuto. Si passa allora alla fase successiva, che consiste nel ridurre e trasformare questa diversità a una motivazione di ordine superiore — un passo, questo, che a mio avviso deforma le motivazioni e le esperienze specifiche (di solito al servizio di una concezione molto specifica dello sviluppo psicologico o della natura umana).

Più semplicemente diremo che una cosa è asserire che alla base di tutte le nostre esperienze e motivazioni diverse vi sono alcuni processi di base causali (o quasi-causali), altra cosa è sostenere che alla base di tutte le nostre esperienze e motivazioni diverse vi è una motivazione di ordine superiore, verso la coesività o la realizzazione del Sé o qualsiasi altra cosa. La prima posizione lascia intatte le diverse esperienze e motivazioni. La seconda, dato che la motivazione di ordine superiore e ritenuta essere allo stesso livello di discorso delle esperienze e motivazioni concrete, sostituisce l'una alle altre, e pertanto fa violenza a — e comporta una trasformazione di — ciò che in realtà esperiamo e desideriamo. In breve, un concetto legittimo di motivazione di ordine superiore non comporta la riduzione diogni comportamento a questa motivazione, né la pre senza di questa motivazione come componente necessaria di tutto il comportamento84. Noi siamo, per così dire, prigionieri di una situazione più complessa, in cui è presente una molteplicità di motivazioni e obiettivi specifici reciprocamente interagenti in vari modi. L'uniformità soggiacente alla diversità che si manifesta in superficie va ricercata non al livello degli stessi fenomeni superficiali da spiegare (ovvero al livello delle motivazioni e degli obiettivi), bensì a un altro livello di discorso, quello dei processi e dei meccanismi.

UNA RIVISITAZIONE DEL MODELLO ES-IO

L'idea di base espressa da Freud quando afferma: «Dove era l'Es, deve subentrare l'Io» (voi. 10, p. 190) è che la psicoanalisi aiuta l'Io ad appropriarsi di porzioni dell'Es. Ciò, tuttavia, si può intendere almeno in due modi, secondo come si concepi-scono i termini «Io » ed «Es».

1) Nel contesto del concetto di Es come pulsione istintuale e di Io come apparato o struttura di controllo, l'affermazione di Freud significa che là dove era il «crogiuolo di eccitamenti ribollenti» (voi. 11, p. 185) della pulsione istintuale, deve subentrare un maggiore controllo e una capacità di procrastinazione. Per quest'interpretazione, obiettivo della psicoanalisi è accrescere il controllo dell'Io fino a rinunciare, se occorre, a pulsioni istintuali coinvolte nel conflitto intrapsichico. Questa è stata l'interpretazione dominante dell'affermazione di Freud appena citata ed è chiaramente implicita nella versione della teoria freudiana proposta da Hartmann e da altri psicologi dell'Io di orientamento psicoanalitico (versione, per altro, criticata in modo molto convincente da Apfelbaum [1966] e Klein [1966]).

2) Nel contesto di un concetto di Es come id impersonale e di Io come «me» personale, l'idea di un Io che si appropri di porzioni dell'Es può essere intesa nel senso che ciò che era impersonale e non riconosciuto diventa personale e viene espento come parte di se stessi (cfr. Schäfer, 1976). Secondo quest ultima versione, l'appropriazione da parte dell'Io va intesa non come un maggiore controllo su un materiale intrinsecamente caotico e «alieno all'Io», ma come la trasformazione di un id impersonale (per esempio un pensiero ossessivo non governabile, un sintomo isterico o fobico) nell'ambito personale dell'«io desidero», «io voglio», ecc.

In questa accezione, ciò che era non riconosciuto viene affrontato non semplicemente esercitando un controllo su di esso, o continuando a scinderlo dalla propria organizzazione del Sé, ma ampliando il proprio concetto di sé in modo da includervi ciò che prima era non riconosciuto (per descrivere questo modo di negoziare gli obiettivi incompatibili con la propria organiz-zazione del Sé, G. S. Klein utilizza il termine «identificazione»). Ciò non implica che si agisca, o si abbia un atteggiamento uniforme verso tutto ciò che ora è consapevolmente perseguito, desiderato e voluto. Significa piuttosto, nella terminologia di Fingarette (1969), che si «esplicita» ciò cui si è sempre mirato, che si è desiderato e voluto quale rivelato dal proprio comportamento (ivi compresi i sogni, i sintomi e le associazioni libere). Come minimo, questa «esplicitazione» diminuisce la misura in cui illudiamo noi stessi o, per dirla con Sartre (1956), la «malafede» che caratterizza la nostra vita. Nel migliore dei casi, consente di percepire un barlume dell'ideale spirituale lontano ed eterno secondo il quale si farà «il giusto e il bene non per obbedienza alla legge e per autodisciplina, ma a seguito della propria risposta spontanea alla situazione e al momento» (Fingarette, 1969, p. 97).

Un tema classico, questo, affrontato da altri — vedi per esempio l'opposizione in Kierkegaard tra «purezza di cuore» e «doppiezza»; l'opposizione, in Sartre, fra i progetti liberamente scelti della consapevolezza (pre-riflessiva) e un Sé prodotto di una «riflessione impura» e, nella terminologia di Fingarette (1969), fra un «concetto distorto» e uqo «ben stabilito». Se intendiamo i termini Es e Io rispettivamente come ciò che non è riconosciuto e ciò che è riconosciuto e fatto proprio, potremmo, senza tema di forzare'troppo, considerare la consapevolezza preriflessiva di Sartre analoga in parte all'Es di Freud, e il suo Sé prodotto di una «riflessione impura» analogo agli aspetti difensivi dell'Io freudiano, tutto preso a dissimulare e misconoscere quei progetti in cui è impegnata la consapevolezza pre-riflessiva (obiettivi inconsci). La domanda posta da Sartre — una variante della domanda classica, d'interesse centrale anche per la psicoanalisi — è come raggiungere una congruenza tra la consapevolezza pre-riflessiva e il Sé della «riflessione impura». Questa domanda ne genera altre due: 1) in quale modo è possibile sfuggire all'illusione che si fa a se stessi, e raggiungere una vera conoscenza di sé; 2) come possono «i progetti liberamente scelti della consapevolezza coincidere con quel sistema stabile che è il Sé» (Fingarette, 1969, p. 97). Nel contesto psicoanalitico, il primo problema viene tradizionalmente affrontato mediante l'insight e la comprensione dei propri desideri e obiettivi inconsci (e siamo così vicini a quello che Fingarette chiama «esplicitazione», al rendere esplicita e a riconoscere la natura del proprio impegno nel mondo).

Quanto al secondo obiettivo — il conseguimento di un'armonia tra i progetti spontaneamente e liberamente scelti e il «sistema stabile che è il Sé» — il concetto di Es-Io come pulsione contrapposta a una struttura di controllo, rende praticamente irraggiungibile questo obiettivo. Se infatti si accetta come inevitabile «l'antagonismo primario dell'Io nei confronti dell'istinto» (A. Freud, 1966, p. 169), diventa diffìcile concepire una coincidenza o addirittura una riconciliazione tra la propria «risposta spontanea alla situazione e al momento» e i dettami della legge e dell'autodisciplina. Come osserva Apfelbaum nell'ambito di una critica della psicologia dell'Io, secondo la concezione Es-Io soggiacente alla psicologia dell'Io, un accresciuto controllo dell'Io sulle pulsioni dell'Es e/o un indebolimento della forza delle pulsioni istintuali sono i principali esiti salutari del cambiamento terapeutico, della crescita e dell'accrescimento della conoscenza di se stessi. Gli impulsi dell'Es, in se stessi, sono considerati fuori dal tempo, staticamente infantili e non soggetti a crescita e cambiamento. Non ci si può aspettare di dire, come Confucio: «All'età di 70 anni potevo seguire i dettami del mio cuore: perché ciò che desideravo non oltrepassava più i confini del giusto».

Questa versione del modello Es-Io non considera la possibilità che il rendere personale attraverso il riconoscimento ciò che prima era impersonale porta a modificazioni degli obiettivi e delle pulsioni stessi. Come suggerisce Apfelbaum (1966), non si tratta semplicemente del fatto che pulsioni infantili inaccettabili siano rimosse o non fatte proprie, quanto piuttosto che la rimozione e la non appropriazione operano nel senso di mantenere infantili e non adattivi alcuni desideri e obiettivi nella misura in cui essi non sono soggetti alle modificazioni e alle correzioni rese possibili dall'esperienza e dalla consapevolezza autoriflessiva. Di conseguenza, si può porre come obiettivo della terapia non soltanto un accresciuto controllo o una sublimazione delle pulsioni istintuali staticamente infantili, ma anche 1 appropriazione e il riconoscimento di desideri é obiettivi non riconosciuti, nella fiducia che per la maggior parte delle per- ^ rapporto tra la vita delle pulsioni spontanee e la vita dell autoriflessione non sia necessariamente un rapporto di incompatibilità ultima e di «antagonismo primario».

Se questa concezione è corretta, ne consegue che una maggiore conoscenza di sé e l'appropriazione di ciò che non era iconosciuto permettono non solo un'accresciuta comprensione e controllo sui propri desideri e obiettivi (in pratica, una maggiore capacità di operare secondo i dettami della legge e dell'autodisciplina), ma un tipo di trasformazione di questi stessi desideri e obiettivi che, nel lungo corso, renderà meno necessario il costante esercizio di una consapevolezza e un controllo autoriflessivi. In altre parole, se la «reazione spontanea alla situazione e al momento» è cosa identica a ciò che Confucio chiama «il giusto», se «i dettami del cuore» non vanno più al di là dei «confini del giusto», allora si è raggiunto quell'ideale spirituale nel quale i «progetti liberamente scelti» della consapevolezza pre-riflessiva coincidono con un Sé autentico. Va sottolineato che a questa conciliazione si arriva ampliando l'esperienza e facendo partecipare il Sé alle funzioni di conoscenza critica e di consapevolezza autoriflessiva. In altri termini, come nel caso dell'apprendimento di qualunque capacità, ciò che inizia come esercizio insistente, volontario della fun-zione autoriflessiva sfocia poi in una minore necessità di esercitare quella stessa funzione. O, per dirla diversamente, dato che si ha fiducia nella possibilità di esplicitare il proprio impegno, e dato che i progetti in cui si è impegnati si discostano meno dal senso che si ha di se stessi come persona,. c'è meno bisogno di un esercizio vigile della funzione autoriflessiva. È a questo stato di cose che si riferisce essenzialmente Fingarette quando parla di ideale spirituale eterno.

Fin qui ho messo a confronto due versioni del modello Es-Io; l'Es come pulsione istintuale e l'Io come struttura di controllo, in contrapposizione a un Es come id impersonale e un Io come «me» personale. Mi sono opposto all'idea che la pulsione istintuale sia intrinsecamente antagonista all'Io e debba essere necessariamente considerata l'equivalente del non riconosciuto e impersonale. Nel sostenere la maggiore utilità ed esattezza di definire l'Es e l'Io rispettivamente come aree non riconosciute e riconosciute della persona, ho suggerito di considerare l'Es come riferito a qualsiasi insieme di obiettivi e desideri non riconosciuti e pertanto resi un id impersonale. Sono convinto che questo modo di concepire la distinzione «Es-Ich» sia più utile ed esatto. Ad ogni modo, vorrei attenuare questa posizione in un senso e ad uno scopo particolari.

Precedentemente ho espresso la convinzione che Freud fosse nel giusto quando individuava in imperativi biologicamente basati la fonte di desideri e di aspirazioni che sono universali. Vorrei aggiungere che il concetto del Sé e l'organizzazione del Sé che si conseguono nel corso dello sviluppo sono il prodotto di un intergioco tra questi desideri e aspirazioni universali e la nostra storia personale, che ci porta ad accettare una parte di questi desideri e a rifiutare un'altra. Alcuni bisogni, desideri e aspirazioni, siano o no fatti propri dal Sé, sono universali, e possono pertanto essere considerati come parte della struttura della personalità di ciascuno, anche se non necessariamente parte del-l'organizzazione del Sé di ciascuno. Se questo è vero, l'affermazione di Freud: «Dove era l'Es, deve subentrare l'Io», o il concetto di un Io che si appropria di porzioni dell'Es, può essere intesa in questi termini: ciascun essere culturale ovvero ciascuna persona, deve affrontare la sfida che che consiste nel trovare un modo di rappresentare psicologicamente quei bisogni e quri deisderi universali a base biologica che costituiscono molta parte della nostra natura umana. In altre parole, per poter vivere in modo ragionevolmente armonico e in sintonia con la nostra natura umana, questi bisogni universali devono trovare la strada per entrare nel mondo psicologico ed esperienziale degli obiettivi e dei desideri della nostra vita quotidiana. In questo senso, affermare che l'Io deve appropriarsi di porzioni dell'Es significa che dobbiamo trovare una collocazione nel nostro quotidiano e nel mondo esperienziale dei desideri e degli obiettivi personali per quegli aspetti e per quei bisogni della nostra natura biologica vitale che, per qualsivoglia ragione, rimangono non rappresentati o male rappresentati (per esempio, rappresentati dai sintomi).

Idealmente, il perseguimento di desideri e obiettivi consapevolmente esperiti sarebbe del tutto coerente con le nostre esigenze organiche. Anzi, il perseguimento di desideri e obiettivi esperiti come capaci di mantenere e migliorare il Sé sarebbe un modo molto efficiente di affrontare tutta la gamma delle nostre esigenze organiche. In questo senso, l'organizzazione del Sé può essere considerata una struttura gerarchica adattiva biologicamente evoluta che coordina un'ampia gamma di funzioni subordinate. In un sistema complesso quale è la persona, ci si aspetterebbe l'evoluzione di una struttura di ordine superiore tra le cui funzioni principali rientrasse il coordinamento e l'adempimento di una vasta gamma di interessi ed esigenze della persona. E una struttura di ordine superiore o un'organizzazione del Sé che escludesse e dissociasse un'ampia gamma di obiettivi e scopi non rifletterebbe adeguatamente il benessere della persona e pertanto svolgerebbe male le sue funzioni adattive. In questa concezione dell'Es e dell'Io la caratteristica centrale della patologia è l'insuccesso dell'Io nell'appropriarsi di alcune esigenze vitali a base biologica e nel renderle obiettivi personali. Un po' come se le nostre esigenze fisiologiche di cibo non lossero rappresentate o fossero mal rappresentate al livello psicologico dell'esperienza, dei desideri e delle aspirazioni. In tal caso potremmo dire che di queste esigenze fisiologiche l'Io non si è appropriato, nel senso che non sono state trasformate in obiettivi, desideri e aspirazioni personali (come avviene nel-l'anoressia nervosa grave).

In pratica sto suggerendo che c'è un senso in cui la confusione tra un Es considerato id impersonale e substrato biologico è effettivamente legittima. Ed è quello per cui esistono alcune esigenze e tendenze universali e vitali a base biologica (il modo migliore di concepire le quali non è considerarle pulsioni istintuali) che hanno bisogno di essere rappresentate e «trasformate» in obiettivi e desideri personali. Queste esigenze e tendenze comprendono l'esperienza sessuale e sensuale, l'attaccamento, la ricerca dell'oggetto e il bisogno e la propensione alle relazioni oggettuali, ivi compreso il bisogno di comunione (Bakan, 1966) e le esperienze di integrità del Sé e di autostima. Nello sviluppo ottimale, rappresentazione e «trasformazione» riescono, nella patologia no. Come osserva Gedo (1979), uno degli obiettivi della psicoanalisi è innalzare al livello della con-sapevolezza alcuni bisogni biologici universali e vitali mal rappresentati (da notare che questo è un altro modo per dire che là dove c'era l'Es, deve subentrare l'Io). Tra le ragioni dell'insuccesso nel rappresentare psicologicamente questi bisogni vitali vi sono i traumi dello sviluppo, i conflitti interni, la rimozione e la dissociazione, _e forse un contesto sociale più ampio non facilitante o interferente88. Ancora una volta va sottolineato che questi insuccessi nella rappresentazione non sono funzione di un antagonismo intrinseco tra il substrato biologico e l'Io. In realtà, è molto probabile che nel corso dell'evoluzione si sia evoluto e sia stato selezionato, in quanto adattivo, un sistema nel quale gli obiettivi e i desideri esperiti sono per lo più coerenti con le esigenze vitali e le rappresentano adeguatamente, anziché un sistema in cui le spinte a base biologica costituiscano una minaccia intrinseca all'organizzazione del Sé.

Quando l'Es viene definito un «crogiuolo di eccitamenti ribollenti» e il rapporto tra l'Es e l'Io è concepito come un rapporto di «antagonismo primario», è comprensibile che si ponga l'accento sulla funzione di controllo dell'Io e sull'inelut-tabilità che l'Es venga rimosso. Ma, come abbiamo visto, non si deve partire dall'ipotesi che solo l'irrazionale e l'infantile costituiscano il rimosso. Si deve invece considerare l'idea alternativa che ciò che è rimosso diventa e/o rimane infantile e antisociale. Allo stesso modo, le esigenze e le funzioni somatiche universali esperite come aliene e minacciose non sono intrinsecamente e veramente tali; è piuttosto la perdita, per dirla con Winnicott (1958), di un «rapporto intimo» tra il funzionamento psichico e il soma a renderle tali89. Tuttavia, eome dice Winnicott, questo isolamento e questo antagonismo tra la mente e il soma è una situazione patologica, più che naturale. Se così è, quelle versioni del rapporto Es-Io che ipotizzano l'esistenza di un «antagonismo primario» tra di essi sono sostanzialmente descrizioni di una patologia profonda più che una descrizione corretta della personalità umana.

A me sembra che il nucleo di verità contenuto nel concetto reichiano (1927) di «potenza orgastica» e in taluni aspetti delle terapie collegate all'opera di Reich, quali la bioenergetica o la terapia primaria, sia il riconoscimento del fatto che, almeno per alcuni pazienti, non è un maggiore controllo dell'Io ad essere necessario, ma un'accresciuta possibilità — quando appropriata — di abbandonare il controllo dell'Io, ossia di invertire la nota concezione freudiana per cui «dov'era l'Es, deve subentrare l'Io», trasformandola nel suo opposto, «dov'era l'Io, deve subentrare l'Es» (almeno quando Es e Io vengono concepiti in termini di impulso in opposizione a controllo). La teoria psicoanalitica, che iniziò col riconoscere principalmente gli effetti patogeni della rimozione della sessualità (come espressi, per esempio, nei concetti di libido bloccata e di «nevrosi attuali»), è passata sempre più a considerare la sessualità e la vita istintuale in generale intrinsecamente antagoniste e nemiche dell'Io. La psicologia dell'Io, con la sua accentuazione delle funzioni e degli apparati dell'Io, con la sua interpretazione dell'Es-Io come impulso-controllo, con la sua tesi delle energie neutralizzate, e con la sua implicita corrispondenza tra libertà dai conflitti e autonomia da ciò che è istintuale, è l'esito naturale di questa concezione di base di una distinzione tra l'Es e l'Io. Come tale, essa fa violenza all'aspetto primo e più vitale della teoria psicoanalitica e al suo spirito. Ha portato inoltre a una certa sterilità, quella che, come afferma Conrad Aiken (1964), porta a

trattenere ciò che in noi v'è di più prezioso,

una sinistra profondità di brama, paura e odio,

quella vibrante nota che dà alla corda la sua forza,

quell'abbagliante amore — tale è per noi —

troppo simile al fuoco, per parlarne senza vergogna.

Da queste parole risulta chiaro che non soltanto «l'abbagliante amore», ma anche «la sinistra profondità di brama, paura e odio» non sono intrinsecamente minacciosi, ma «ciò che in noi v'è di più prezioso».

Anziché considerare l'istintuale come minaccioso e nemico dell'Io, una concezione più ampia e adeguata del biologico e dell'istintuale, che includa fenomeni quali il sistema comportamentale di attaccamento, il processo di separazione-individuazione, le tendenze alla ricerca dell'oggetto di cui parla Fairbairn, indica un'inestricabile interdipendenza tra l'istintuale e le funzioni dell'Io. Questo è proprio ciò che Modell (1975) intende col suo concetto di pulsioni relative all'oggetto associate all'Io. Una volta abbandonati i concetti di «crogiuolo di eccitamenti ribollenti» e di pulsione che cerca una scarica, eliminata la divisione strutturale della personalità in un Es totalmente isolato dalla realtà e in un organo che media questa realtà, e accettato il concetto rivisitato e più ampio di istinto che abbiamo presentato, non vi è più alcun bisogno di ipotizzare un'autonomia delle funzioni dell'Io rispetto all'istintuale per concepire un affidabile comportamento di verifica della realtà. Le tendenze istintuali (per esempio le prime reazioni di attaccamento) includono già una reazione agli oggetti della realtà.

Infine, il fatto che i nostri bisogni psicologici più vitali abbiano una radice biologica — un riconoscimento centrale nel pensiero freudiano — è la garanzia ultima contro un concetto della natura umana «schiava della società». Ci sono, naturalmente, enormi variazioni culturali nel comportamento umano, ma il limite alla gamma di queste variazioni è posto dalla radice biologica della natura umana. Non possiamo variare e modificarci all'infinito e restare tuttavia degli esseri umani. Riconoscere questo semplice dato di realtà permette di formulare il giudizio che alcune manipolazioni e condizioni culturali e-sociali o non rispondono adeguatamente, o fanno violenza, a questa comune eredità biologica.

Naturalmente, al loro meglio, il sociale e il culturale possono trascendere l'istintuale e il biologico senza fargli violenza. In altre parole gli ideali sociali e morali — per esempio l'idea di giustizia — possono trascendere l'istintuale, non perché siano in un rapporto di intrinseco antagonismo, ma semplicemente perché questi ideali non rientrano nell'ambito dell'istintuale. Così non c'è nulla nello sviluppo evolutivo che renda, per esempio, la ricerca della parità di diritti un esito inevitabile. Questo è per l'appunto un esito culturale che, in un certo senso, trascende la biologia e l'evoluzione.

In generale, noi trascendiamo l'istintuale allineandoci a ideali sociali e spirituali, e ampliando così ciò che è personale. Se è vero che estendiamo l'ambito del personale, per così dire, «dal basso» appropriandoci di «porzioni dell'Es», è anche vero che ampliamo il personale «dall'alto» appropriandoci di ideali sociali e morali e vivendoli come parte di noi stessi. In un senso importante, il Super-io può essere vissuto tanto come un id impersonale, quanto come un qualcosa di istintuale (un'ulteriore ragione per non equiparare appieno l'impersonale e l'istintuale). Come abbiamo già osservato nell'esaminare il concetto di oggetto interiorizzato, il Super-io può essere — e spesso è — vissuto come un elemento introiettato alieno all'Io, come indicano quelle immagini popolari che raffigurano la coscienza come un omuncolo dentro la nostra testa che dispensa dettami e proibizioni. Di conseguenza, è altrettanto legittimo parlare dell'Io che si appropria di porzioni del Super-io, e può essere ugualmente valido cercare di ottenere che «dove c'era il Super-io, deve subentrare l'Io», che cercare di ottenere che «dov'era l'Es, deve subentrare l'Io».

L'ampliamento di ciò che è personale «dal basso» e «dall'alto» non sono così scollegati come potrebbe sembrare. Così la capacità di appropriarsi di ideali sociali e morali e di viverli veramente come parte di se stessi sarà senz'altro influenzata dalle vicissitudini del sistema di attaccamento, dalla capacità «di rapportarsi dell'Io», come dice Winnicott, e da altri fattori inseriti in una matrice affettivo-istintuale. Quando gli ideali sociali e morali adottati vengono isolati e separati da questa matrice affettivo-istintuale, tendono probabilmente a trasformarsi in eccessiva freddezza, durezza e crudeltà. Tenderanno a perdere il loro legame, per usare un'espressione di Unamuno (1913), con «le ossa e la carne», e a portare a quello che Kant considerava il più grande fallimento morale — trattare gli altri come oggetti (e ovviamente non nel senso delle relazioni oggettuali).

A mio avviso, per quanto riguarda l'individuazione della fonte di pericolo sociale più grande per noi, l'intuizione kantiana è più profonda ed esatta di quella freudiana. In altre parole, il male sociale di portata cataclismatica, come la guerra nucleare e altre forme di genocidio, non rispecchia l'espressione sfrenata di una pulsione aggressiva liberata dai vincoli della civiltà. Tali mali rispecchiano piuttosto l'espressione sfrenata di ideali sociali che comportano l'oggettificazione e la disuma- n^zazione dell'altro e che sono isolati e separati dall'affettivo e dall'istintuale. Un individuo le cui pulsioni istintuali (così come vengono definite nella teoria tradizionale) sono sfrenate, potrà stuprare e uccidere, ma solo un numero limitato di persone.

Al contrario il massacro su larga scala, reso possibile dalla tecnologia moderna, richiede e comporta caratteristiche come l'anaffettività, l'indifferenza e un certo tipo e grado di razionalità talmente scisso e avulso da considerazioni rispetto all'altro che finisce per girare in tondo e diventare una forma di pazzia. Qui non abbiamo a che fare con pulsioni istintuali che si sono scatenate, ma con funzioni di pertinenza dell'Io e del Super-io — l'ideologia, gli obiettivi nazionali, la programmazione, ecc. — che sono isolate da ogni emozione e si sono scatenate. Sicché è senz'altro vero che, nella nostra epoca una caratteristica universale come il conformismo sociale ha molto più a che vedere con la possibilità di una guerra di massa di quanto ne abbia qualsiasi «crogiuolo ribollente.» traboccante di aggressività, di rabbia e di odio.

Probabilmente nessuna espressione getta più luce sulla natura del male sociale nella nostra epoca di quella di Hannah Arendt (1963), «la banalità del male». In Eichmann a Gerusalemme, la Arendt afferma che più che un mostro di proporzioni inumane e gigantesche, Eichmann era un uomo comune e non appariscente, il cui lavoro consisteva per puro caso nello spedire a morte degli esseri umani, anziché spedire, per esempio, delle automobili. Non era una persona manifestamente pazza, nella quale la rabbia, l'ostilità, il sadismo e l'odio si fossero scatenati superando ogni controllo sociale. Si trattava piuttosto di un uomo prosaico, di un ottimo marito, di un buon padre, di un cittadino patriottico, di un uomo dalle grette ambizioni che continuava a ripetere di non aver fatto altro che il proprio lavoro. L'aspetto veramente spaventoso — come dice la Arendt — è la giustapposizione di un male praticamente inimmaginabile alla totale banalità di chi l'ha perpetrato. Questo ci ricorda che, in circostanze appropriate, molto male può essere commesso da persone normali che fanno cose normali: scegliere di non sapere, rimanere indifferenti e continuare a svolgere il proprio lavoro.

Ma torniamo al tema originario. Trascendere l'istintuale non costituisce di per sé una garanzia che si faccia il bene. Sia a livello individuale che a livello sociale, ciò può essere una forza distruttiva o costruttiva. Paradossalmente, solo la capacità di trascendere continuando a mantenere alcune radici nell'istintuale — vale a dire un ideale sociale che, come minimo, non operi violenza alla nostra comune natura umana biologica — avrà probabilità di essere veramente significativa e costruttiva. La risposta dell'umanità a quegli ideali e valori che non sono raggiungibili e sono vissuti come troppo distanti da noi è sempre stata quella di considerarli appena o di ignorarli. Per esempio, l'insegnaménto" cristiano «porgi l'altra guancia» non ha certo impedito a nazioni e popoli cristiani di portarsi guerra.

Come ho già detto, se gli ideali sociali e morali universali non sono semplici vuote astrazioni o, peggio, oggettificazioni dell'umanità, di certo saranno emersi organicamente e avranno mantenuto i loro collegamenti con esperienze concrete e ristrette. L'adulto che è diventato capace di vero spirito universale, un tempo era un neonato inserito in una matrice libidica biologico- affettiva che aveva caratteristiche uniche per lui, ristrette nella sua essenza. Se questo universalismo è veramente umano, sarà organicamente emerso da questa prima matrice, e in modi sottili rispecchierà le sue prime radici e i suoi primi legami. Il rapporto tra madre e figlio è sempre concreto e ristretto, e altrettanto vale, a mio avviso, per qualunque rapporto umano. Un universalismo che trascuri questa realtà permette che l'ideologia domini sulla carne e sulle ossa, e porta di solito a trattare l'uomo come un oggetto e a sottometterlo come un mezzo in vista di un fine.

Nel suo libro Memorie di Adriano (1951) Marguerite Yourcenar attribuisce ad Adriano l'affermazione secondo cui gli Ebrei sono uno strano popolo, immersi fino agli occhi in una cloaca, ma con le sopracciglia che toccano il cielo. Ho sempre trovato estremamente commovente e profonda questa descrizione. Per me, essa rende con poetica ironia l'intuizione di un collegamento necessario e vitale tra la cloaca e il cielo — tra il somatico-istintuale e lo spirituale-ideale.

Una psicologia che ipotizzi l'esistenza di un intrinseco «antagonismo primario» tra l'Es e l'Io, che opponga un crogiuolo ribollente di pulsioni a una struttura di controllo e di procrastinazione, che veda come compito terapeutico primario il dominio del primo da parte della seconda, e che concepisca questo crogiuolo ribollente e i suoi derivati come fonte primaria del male individuale e sociale, semplicemente non è fedele alla natura umana o ai fatti oggettivi del comportamento individuale e sociale. Se dobbiamo mantenere il concetto di Es-Io come pietra angolare della psicoanalisi, allora dobbiamo ritornare alla prima accentuazione psicoanalitica o anche pre-psicoa- nalitica sul rapporto tra latente e manifesto, tra id impersonale e «me» personale, tra dissociato e integrato, e come dice G. S. Klein (1976) tra Sé frammentato e Sé intatto.