Parte prima

Una valutazione critica degli sviluppi recenti della teoria psicoanalitica

INTRODUZIONE

Al giorno d'oggi c'è molto fermento in seno alla psicoanalisi. Uno degli aspetti principali di questo fermento è la particolare attenzione alle relazioni oggettuali e al concetto di Sé. Essa è in parte collegata all'attuale interesse per gli stati borderline e i disturbi della personalità narcisistica (per esempio Kernberg, 1975, 1976; Kohut, 1971, 1977); ma, naturalmente, risale a un'epoca precedente. Essa è stata stimolata anche dagli studi pionieristici di Spitz (1945, 1946a, 1946b) sugli effetti della deprivazione materna, dall'opera di Melanie Klein (per esempio 1932, 1948, 1957) e dei teorici inglesi delle relazioni oggettuali (per esempio Fairbairn, 1952; Guntrip, 1969; Winni- cott, 1958, 1965), dalle formulazioni della Mahler e dei suoi collaboratori (1968, 1975) sulla simbiosi e sulla separazione-individuazione, dall'opera di Bowlby (1969, 1973) sull'attaccamento e la separazione, nonché da una generale insoddisfazione per taluni aspetti della teoria psicoanalitica (per esempio Klein, 1976). Oggi, inoltre, vengono ad assommarsi nuove scoperte in diversi campi d'indagine, che mettono in questione alcune ipotesi di base della teoria freudiana tradizionale (Eagle, 1981, 1982a).

In questi ultimi anni il volto stesso della teoria psicoanalitica è radicalmente cambiato. Quelle che una volta erano ritenute proposizioni assolutamente fondamentali della psicoanalisi hanno subito una netta riformulazione. Non è affatto certo che tutte queste riformulazioni siano in sintonia con la teoria psicoanalitica classica quale è stata elaborata da Freud e dai suoi primi seguaci. In realtà, se si esamina in modo esaustivo tutta la gamma delle riformulazioni, non è affatto chiaro cosa rimanga della teoria psicoanalitica tradizionale. Queste riformulazioni e alterazioni, tuttavia, sono spesso presentate come se fossero semplici ampliamenti di idee precedenti o solo insiemi complementari di formulazioni, senza chiedersi se siano logicamente coerenti con la teoria tradizionale preesistente. Tali riformulazioni, inoltre, spesso incorporano critiche alla teoria psicoanalitica ripetutamente mosse nel passato e particolarmente cogenti, senza riconoscere esplicitamente che tali critiche erano state formulate, che ora vengono accettate e che si comincia ad affrontarle. Così il tentativo di correggere una carenza nella teoria psicoanalitica tradizionale, da lungo tempo notata dai critici, troppo spesso è salutato come un progresso teorico, anzi come una vera e propria rivoluzione — spesso senza alcun dovuto riconoscimento o alcuna citazione delle critiche precedenti. Per finire, troppo spesso si cerca manifestamente di dimostrare che queste riformulazioni — alcune delle quali sono di natura radicale — erano anticipate in alcuni degli scritti di Freud, che sono in accordo e che costituiscono un ampliamento di alcune delle idee di Freud, senza domandarsi se queste riformulazioni sono o meno in sintonia logica con le idee centrali della psicoanalisi quale sistema teoricamente coerente

Formulazioni e scoperte recenti, soprattutto nel campo delle relazioni oggettuali e dello sviluppo del Sé, comportano gravi attacchi a talune proposizioni e concetti freudiani di base sulla natura dello sviluppo della personalità e sulla psicopatologia. Cercherò di dimostrare che molte di queste formulazioni e scoperte più recenti, comunque siano state originariamente presentate, di fatto non sono coerenti con alcune proposizioni e concetti freudiani centrali. In breve, gran parte del lavoro psicoanalitico recente, anche se non sempre è presentato in questa luce, costituisce in realtà per certi aspetti importanti una revisione radicale della teoria psicoanalitica tradizionale. Modell (1975) ha notato che «questa nuova dimensione delle relazioni oggettuali [...] attende ancora d'essere integrata entro il modello freudiano di L'Io e l'Es», e ha inoltre riconosciuto che «se la teoria delle relazioni oggettuali non può essere integrata nel quadro di L'Io e l'Es, quest'ultimo non sopravviverà quale paradigma centrale della psicoanalisi» (p. 58). Benché Modell arrivi alla conclusione che L'Io e l'Es può rimanere il paradigma centrale della psicoanalisi, io non credo che questo possa avvenire con facilità, e cercherò di presentare le basi su cui poggio questa mia conclusione.

A mio avviso è importante esaminare in modo sistematico l'ondata delle recenti idee e concettualizzazioni e rendere esplicito in che modo la teoria psicoanalitica è stata oggetto di revisione, che cosa rimane della teoria tradizionale e che forma hanno assunto i nuovi concetti psicoanalitici di sviluppo della personalità, della psicopatologia e della condizione umana. Condivido pienamente il recente suggerimento di Gedo (1979) secondo cui «è arrivato finalmente il momento di mettere fine al tentativo che da oltre quarant'anni si va compiendo, di arrangiarsi mettendo insieme i pezzi dell'eredità teorica lasciataci da Freud» (p. 20). Quest'opera, dunque, intende essere una rassegna sistematica delle idee elaborate negli ultimi anni, con l'obiettivo di fornire un resoconto coerente dello stato attuale della teoria psicoanalitica.

Nell'esaminare gli ultimi sviluppi della psicoanalisi non ho cercato di essere esaustivo e di riferire su tutti gli autori che hanno contribuito significativamente in tempi recenti alla teoria psicoanalitica. Desidero spiegare perché alcune figure importanti e che ci si aspetterebbe di trovare sono state invece omesse. Per esempio, Erikson ha sicuramente dato dei contributi di enorme importanza alla psicoanalisi. Tuttavia questi contributi risalgono ad alcuni anni fa e sono stati in qualche modo assorbiti nella teoria psicoanalitica e ampiamente discussi nella comunità intellettuale in senso generale. Più difficile è spiegare perché non ho incluso un capitolo su Kernberg. Benché nel testo faccia riferimento a questo autore, e sebbene anche Kernberg abbia dato dei contributi alla psicoanalisi (per esempio le sue descrizioni e spiegazioni degli stati borderline), non sono riuscito a individuare un insieme organizzato di formulazioni teoriche coerenti sufficientemente comprensibili per una presentazione e valutazione critica. Infine, vorrei spiegare in particolare perché non ho incluso un capitolo su Benjamin B. Rubinstein, i cui scritti, a mio avviso, rappresentano quanto di più chiaro e preciso vi sia nell'attuale letteratura psicoanalitica. La ragione sostanziale è che, a differenza di altro materiale da me compreso nel volume, gli scritti di Rubinstein non presentano modificazioni cliniche e teoriche della psicoanalisi, quanto piuttosto analisi e chiarificazioni di alcuni concetti base della psicoanalisi stessa.

TEORIA DELLE RELAZIONI OGGETTUALI E TEORIA FREUDIANA DELLE PULSIONI

La maggior parte delle formulazioni che si sono discostate dalla teoria psicoanalitica tradizionale hanno avuto come punto di partenza un rifiuto o perlomeno una riformulazione della teoria freudiana delle pulsioni. Se è vero che l'ipotesi di un inconscio dinamico e i princìpi del determinismo psichico e della iper-determinazione sono le caratteristiche centrali più familiari della teoria freudiana, tuttavia ritengo che Bowlby (1969) abbia ragione quando osserva che la teoria freudiana delle pulsioni o delle motivazioni è al cuore della metapsicologia di Freud. Se i princìpi cui mi riferivo prima sono accettabili per qualsiasi analista di pressoché qualsiasi scuola, è la teoria delle pulsioni ad essere peculiarmente freudiana e a costituire il terreno su cui si basano molti altri concetti psicoanalitici — per esempio l'angoscia, la difesa, il processo primario. Non c'è da meravigliarsi che storicamente l'accettazione o il rifiuto della teoria delle pulsioni sia servito da criterio principale di definizione dell'apostasia dalla psicoanalisi freudiana. La critica della teoria delle pulsioni era ed è tuttora considerata da molti un rifiuto del biologico, dell'eredità istintuale dell'uomo, un rifiuto di ciò che, più di qualsiasi altra cosa, differenziava la scuola freudiana dalle scuole di psicoanalisi neofreudiane, interpersonali e culturali, ritenute più superficiali. Cercherò di dimostrare che questa concezione è errata. Così pure cercherò di dimostrare che la teoria freudiana tradizionale, in particolare la teoria delle pulsioni, non affronta in modo adeguato le relazioni oggettuali.

Sarà utile ricordare innanzitutto in che modo il tema delle relazioni oggettuali è affrontato nella teoria tradizionale. La teoria freudiana delle pulsioni è una di quelle teorie motivazionali onnicomprensive del comportamento umano nella quale ogni comportamento (cognitivo, interpersonale, sociale e così via) è considerato essere direttamente o indirettamente al servizio – e insieme espressione - di pulsioni ritenute, fondamentali o primarie. In tali teorie, ogni comportamento serve a gratificare queste pulsioni primarie o altre pulsioni sviluppatesi secondariamente in associazione alle cosiddette pulsioni primarie.

Credo si possa dimostrare che questa formulazione deriva direttamente dall'assunto quasi darwinista che il comportamento vada capito in termini della funzione di sopravvivenza della persona. Ciò è ancor più chiaro nel primo Freud, là dove egli afferma l'esistenza di pulsioni miranti sostanzialmente alla conservazione della persona (per esempio la fame) e alla conservazione della specie (per esempio il sesso). Benché successivamente Freud abbia parlato soprattutto di pulsioni sessuali e aggressive, l'essenza del concetto evolutivo iniziale non è mai stata abbandonata.

Dato che per Freud la gratificazione delle pulsioni e la scarica delle eccitazioni sono essenzialmente sinonimi, un altro modo di formulare la proposizione che ogni comportamento è al servizio della gratificazione delle pulsioni è dire che la tendenza fondamentale dell'organismo è la scarica immediata dell'eccitazione. Che Freud ritenesse che questa tendenza abbia un valore di sopravvivenza appare chiaro dalla sua ipotesi che l'eccitazione, se non è scaricata o se le è permesso di raggiungere un livello eccessivamente alto, può danneggiare l'organismo. In effetti, una eccitazione eccessiva è considerata il pericolo psichico principale che minaccia l'organismo — idea formulata nel Progetto di una psicologia e mai abbandonata da Freud (1887-1902) — e gran parte del comportamento umano è costituita dagli svariati modi di evitare questo pericolo3.

Se la stimolazione esterna può contribuire a un'eccitazione eccessiva, sono prevalentemente le tensioni istintuali a costituire la fonte principale di questo pericolo. A differenza di quanto avviene per la stimolazione esterna, infatti, non si può sfuggire fisicamente a tensioni generate dall'interno. In ogni caso, la naturale tendenza dell'organismo è di cercare una scarica immediata. Ciò che rende impossibile la scarica immediata sono sostanzialmente la realtà fisica e la realtà sociale, vale a dire la civiltà.

L'impossibilità di una scarica immediata ha enormi conseguenze per lo sviluppo della personalità e per il comportamento. Secondo la teoria freudiana questa impossibilità «costringe» lo sviluppo del pensiero e delle altre funzioni dell'Io, e genera un commercio con, e un interesse per, gli oggetti del mondo. In altre parole, se vivessimo in un mondo fantascientifico in cui il desiderio permettesse di ottenere tutto, non si svilupperebbe alcun'altra funzione se non il desiderio, né si avrebbero relazioni oggettuali. Consideriamo come esempio di questa concezione la riflessione di Freud (1900) secondo cui il neonato, dopo aver ricevuto gratificazione della sua fame, cerca di creare un soddisfacimento del desiderio attraverso un'allucinazione del seno quando prova nuovamente fame («la produzione dell'identità di percezione per la via breve, regressiva») (vol. 3, p. 516). Freud osserva che è solo perché questa via non allevia le tensioni della fame che bisogna cedere a mezzi di scarica più realistici, benché più procrastinati nel tempo e indiretti. Espressa molto chiaramente negli scritti di Freud è la proposizione che se non fosse per le procrastinazioni imposte e le frustrazioni della realtà, il pensiero e le altre funzioni dell'Io che mediano la realtà non si svilupperebbero mai. Per Freud il pensiero è solo un mezzo indiretto o di aggiramento dell'ostacolo per ottenere quella gratificazione delle pulsioni resa necessaria dalla natura della realtà. Per usare le sue stesse parole, malgrado l'attività allucinatoria «non c'è il soddisfacimento, il bisogno perdura» (vol. 3, p. 516); di conseguenza, l'apparato psichico è costretto a «ricercare altre vie, che alla fine permettono di stabilire la desiderata identità dall'esterno» (vol. 3, p. 516). «Ma — ci ricorda Freud — tutta la complessa attività di pensiero, che si svolge dall'immagine mnestica fino alla produzione dell'identità di percezione attraverso il mondo esterno, non rappresenta che una via indiretta, resa necessaria dall'esperienza, per giungere all'appagamento di desiderio. Infatti il pensiero non è altro che il surrogato del desiderio allucinatorio» (vol. 3, pp. 516-17). E anche dopo che si sviluppano l'esame di realtà e il pensiero, continua ad essere vero, secondo Freud, che solo un desiderio può mettere in attività il nostro apparato psichico.

Ciò che può essere detto per il pensiero può essere detto anche a proposito dell'interesse per gli oggetti e delle relazioni oggettuali in generale. Se la gratificazione della pulsione fosse possibile senza oggetti (vale a dire, se l'allucinazione del seno e i suoi equivalenti riuscissero a ottenere gratificazione) non nascerebbero né l'interesse per gli oggetti né le relazioni oggettuali. Ma, data la natura della realtà, si è costretti a superare quello che Freud chiama «l'odio primario» per gli oggetti e ad andare alla loro ricerca per ottenerne gratificazione delle pulsioni. Da qui il fatto che la loro importanza risiede prevalentemente nel loro ruolo di «ciò in relazione a cui, o mediante cui, la pulsione può raggiungere la sua meta» (vol. 8, p. 18).

Anche l'esame del narcisismo che compie Freud (1914) chiarisce la sua convinzione che solo in modo riluttante noi investiamo gli oggetti. Così, secondo Freud, c'è «un investimento libidico originario dell'Io di cui una parte è ceduta in seguito agli oggetti, ma che in sostanza persiste e ha con gli investimenti d'oggetto la stessa relazione che il corpo di un organismo ameboidale ha con gli pseudopodi che emette» (vol. 7, p. 445). In un passo successivo dello stesso saggio, Freud definisce l'Io nevrotico come svuotato da un «eccessivo investimento oggettuale». In altri termini, l'originaria riluttanza narcisistica all'investimento oggettuale è fondamentale e persiste per tutta la vita; l'investimento oggettuale, inoltre, comporta sempre il pericolo potenziale di uno svuotamento dell'Io.

La formulazione freudiana a proposito della formazione degli attaccamenti interpersonali deriva direttamente dalla concezione generale del ruolo e dalla funzione degli oggetti. La natura e l'origine essenziali dei rapporti interpersonali o delle relazioni oggettuali va anche capita nel quadro della teoria freudiana delle pulsioni. L'attaccamento del bambino alla madre (e, per implicazione, il nostro successivo attaccamento l'uno all'altro) viene spiegato soprattutto come legato al ruolo che la madre ha nel fornire esperienze di gratificazione istintuale. Come afferma Freud (1940a), «l'amore nasce in appoggio al bisogno soddisfatto del nutrimento» (vol. 11, p. 615). A un livello più generale, le basi dell'attaccamento del bambino alla madre risiedono soprattutto nel ruolo che quest'ultima ha nell'evitare una stimolazione eccessiva, che accrescerebbe l'accumulo di tensioni istintuali e, come corollario di questo ruolo, in quello di eccitatrice delle zone erogene (o per utilizzare il termine più forte di Freud, il suo ruolo di «seduttrice»). Benché, come sottolinea Bowlby (1969), si possano trovare negli scritti di Freud dei passi in cui egli indica la natura primaria, autonoma delle prime relazioni oggettuali neonato-madre, in generale nei suoi scritti, e secondo la logica della sua teoria delle pulsioni, egli considera l'attaccamento del bambino alla madre connesso con il ruolo che essa ha nel fornire gratificazioni istintuali.

Nella misura in cui l'attaccamento interpersonale è considerato trarre la sua forza dall'associazione con la gratificazione istintuale, nella teoria freudiana gli viene assegnato uno status secondario, derivato, che serve così da esempio per quella che Bowlby (1969) chiama la teoria della «pulsione secondaria» dell'attaccamento madre-figlio. In tali teorie, ciò che è istintuale (o, nella teoria tradizionale dell'apprendimento, le cosiddette «pulsioni primarie») è visto come nocciolo primario, biologico della personalità, mentre ciò che è interpersonale e sociale è considerato un aspetto secondario, derivato e successivo della personalità.

Questo concetto delle relazioni oggettuali come derivate dalle pulsioni fondamentali e secondarie rispetto ad esse è illustrato, per esempio, dalla spiegazione fornita da Spitz (1960) a proposito delle sue scoperte sulla deprivazione materna. Dato che queste scoperte sono state così frequentemente citate per mostrare i devastanti effetti che ha sullo sviluppo la mancanza di un maternage precoce, anche quando sono esaudite le più evidenti esigenze fisiologiche (fame, sete, riparo), si tende a trascurare il fatto che le interpretazioni fornite dallo stesso Spitz a proposito delle sue scoperte sono formulate in modo alquanto rigoroso nei termini della teoria freudiana delle pulsioni. In altre parole, Spitz attribuisce parte dell'effetto della separazione materna al fatto che la perdita dell'oggetto d'amore interrompe la scarica delle pulsioni sia libidiche che aggressive. Egli afferma specificamente: «... devo sottolineare ancora una volta che negli interscambi emozionali con l'oggetto d'amore sia le pulsioni libidiche sia quelle aggressive trovano scarica. La perdita dell'oggetto d'amore interrompe la scarica di entrambe queste pulsioni » (p. 90). In altre parole, non è la perdita dell'oggetto d'amore di per sé ad essere nociva, ma il fatto che questa perdita elimini la possibilità di scarica delle pulsioni libidiche e aggressive. Chiaramente implicata in questa formulazione è l'idea che il blocco delle energie delle pulsioni libidiche e aggressive sia il meccanismo primario responsabile dei gravi effetti sullo sviluppo dovuti alla separazione materna. È un modello idraulico ben netto, del tipo in cui è facile imbattersi nelle recenti formulazioni psicoanalitiche. È anche un esempio di come i dati sulle prime relazioni oggettuali siano interpretati dal punto di vista della teoria freudiana delle pulsioni. In questa prospettiva, gli oggetti e le relazioni oggettuali sono importanti soprattutto come mezzo e veicolo della scarica di pulsioni libidiche e aggressive. Sotto questo aspetto i primi hanno effettivamente uno status secondario e derivato.

Riassumendo, secondo la teoria freudiana non nascerebbero in noi né un interesse per gli oggetti né le relazioni oggettuali, e nemmeno le funzioni dell'Io di valutazione della realtà, se gli oggetti non fossero necessari per la gratificazione delle pulsioni e se la gratificazione immediata fosse possibile (come è esemplificato nell'allucinazione del seno). Ma, data la natura della realtà, la gratificazione immediata non è possibile e gli oggetti sono necessari, così come lo sono il fare programmi e i metodi indiretti di gratificazione5. Pertanto siamo costretti ad avere un commercio con gli oggetti. Ma la natura di questo commercio — ossia delle relazioni oggettuali — è tale che il nostro interesse per gli oggetti e il nostro rapporto con essi continuano a essere direttamente o indirettamente collegati al loro impiego e alla loro importanza per la gratificazione delle pulsioni.

Oggi disponiamo di molte prove che indicano che il modello «anaclitico» freudiano dell'attaccamento neonato-madre e il concetto generale della base, delle, relazioni oggettuali offerto dalla teoria tradizionale sono errati. La prova più nota è quella fornita dagli studi di Harlow (1958) sulla «natura dell'amore».

L'insoddisfazione per le spiegazioni dei rapporti interpersonali offerte dal modello della «pulsione secondaria» (e che, va notato, includono anche il modello «anaclitico») portò agli studi ormai classici di Harlow (1958), che hanno dimostrato in modo alquanto decisivo che l'attaccamento del neonato della scimmia al surrogato della madre non deriva da — o non è secondario rispetto a — un'associazione di quest'ultima con una riduzione delle cosiddette pulsioni primarie (cioè fame, sete). Piuttosto, questo attaccamento sembra essere basato su un bisogno autonomo, che Harlow definisce del «benessere da contatto». Alcuni neonati di scimmia vennero allontanati dalle madri naturali alla nascita e fatti crescere accanto a madri- surrogato, di fil di ferro e di spugna. Harlow pensava che se l'attaccamento del neonato di scimmia alla madre era secondariamente derivato dall'associazione della madre a una riduzione delle pulsioni «primarie», allora il piccolo si sarebbe attaccato a qualsiasi surrogato della madre in grado di ridurre le pulsioni primarie di fame e sete. Invece le scimmiette esibivano un attaccamento alla madre-surrogato che gli forniva un «benessere da contatto» (quella in spugna), anche quando un surrogato diverso (in fil di ferro) soddisfaceva le cosiddette pulsioni «primarie».

È importante tenere a mente che i surrogati di madre alle quali le scimmiette si attaccavano non assolvevano semplicemente la funzione di fornire «benessere da contatto», ma anche che il neonato vi si attaccava in quanto esse offrivano una base di sicurezza in situazioni di novità o in vista di un pericolo. In altre parole, mentre i piccoli di scimmia ricorrevano alle madri in fil di ferro che fornivano latte solo quando erano affamati, nei confronti della madre di spugna mostravano un attaccamento generalizzato e a «lei» si stringevano quando avevano bisogno di conforto e sicurezza.

Queste scoperte costituiscono una grossa sfida ai modelli dell'attaccamento visto come «riduzione omeostatica della pulsione» e, se è lecito generalizzare dai neonati della scimmia ai neonati dell'uomo, costituiscono una grave sfida anche al modello tradizionale «anaclitico» dell'attaccamento7. Se infatti l'attaccamento a un oggetto deriva dal suo ruolo nella gratificazione delle pulsioni, perché i neonati di scimmia non si attaccano alla madre dispensatrice di latte, che fornisce una gratificazione che più da vicino si adatta al modello della scarica delle pulsioni, invece di ricercare la gratificazione offerta dal «benessere da contatto» fornita dalla madre di spugna?

Il fatto che il neonato si attacchi a chi dà «benessere da contatto» invece che a chi fornisce latte, ci rivela qualcosa di importante circa la natura dell'attaccamento. Suggerisce che il neonato è geneticamente predisposto ad attaccarsi a un'entità con date caratteristiche, la principale delle quali è la capacità di fornire «benessere da contatto». Ê probabile che questo precoce bisogno di “benessere da contatto” e questa predisposizione  ad attaccarsi a chi è in grado di fornirlo costituisca la base, e sia precorritore, di un successivo contatto e di un bisogno di relazioni oggettuali che divengono di natura sempre più psicologica — per esempio il bisogno di risposte empatiche da parte della figura materna. In breve, non siamo di fronte a qualcosa di secondario o di «anaclitico»; piuttosto, esiste una base genetica autonoma dello sviluppo dell'attaccamento e delle relazioni oggettuali.

Ovviamente, nell'ambiente naturale le funzioni di alimentazione, cura e «benessere da contatto» sono svolte insieme da un'unica persona o animale, e infatti gran parte del «benessere da contatto» viene fornito attraverso e durante l'alimentazione e le cure. Indubbiamente queste rafforzano l'attaccamento del neonato alla madre, e dunque hanno un valore di sopravvivenza8. Ciò che lo studio di Harlow mostra tuttavia, attraverso una separazione sperimentale di queste funzioni, è che il «veicolo» principale di questo attaccamento è il «benessere da contatto» più che la funzione di alimentazione. Alcuni suggeriscono che anche il «benessere da contatto» abbia un alto valore adattivo. Infatti la capacità di fornire «benessere da contatto» è una caratteristica che fa parte integrante ed è condivisa da tutti i membri della specie, garantendo così virtualmente un attaccamento ad alcuni membri della specie. Questo diviene sempre più importante dopo l'infanzia, quando i rapporti tra i compagni e gli aspetti relativi alla scelta del partner assumono rilevanza. Il «benessere da contatto» quale veicolo primario dell'attaccamento costituisce una base più ampia, e garantisce una gamma di attaccamenti più vasta rispetto all'alimentazione. Nella misura in cui questa base più ampia e questa gamma più vasta di attaccamenti facilitano i rapporti tra i compagni e la scelta del partner, essi hanno un ovvio valore adattivo e selettivo per la specie (per esempio, gli animali incapaci di instaurare legami affettivi coi compagni hanno minori probabilità di trasmettere i propri geni).

È importante notare che le scimmie allevate senza la madre, ma con compagni di gioco, non sembrano mostrare nessuno dei principali disturbi di sviluppo riscontrati nelle scimmie allevate con surrogati artificiali della madre (cioè madri in fil di ferro e in spugna) o in isolamento. Per contro, le scimmie allevate con le madri biologiche, ma alle quali era impedito qualsiasi contatto con compagni della stessa età, sono risultate nettamente inadeguate nei loro repertori sociali (Alexander e Harlow, 1965).

Le scimmie allevate con compagni di gioco ma senza la madre mostrano un intenso attaccamento reciproco (Harlow, 1969) — un modello che ha notevoli somiglianze con la descrizione di quei bambini rinchiusi in campi di concentramento in età che andavano dai pochi mesi a un anno. All'epoca in cui Anna Freud e Dann (1951) ne ebbero conoscenza, essi erano vissuti insieme in diversi campi di concentramento per oltre due anni. Avevano sviluppato un intenso attaccamento reciproco, mostravano grande sensibilità agli atteggiamenti e alle emozioni dell'altro, condividevano tutto ciò che possedevano. Rivelavano un forte senso di gruppo e inizialmente reagivano agli adulti che si prendevano cura di loro con indifferenza o con attacchi verbali o fisici. Ma, più importante ancora in questo contesto, questi bambini non esibivano gravi patologie, nel grado e del tipo di quelle che, a detta delle più attuali teorie psicodinamiche, l'assenza della figura materna dovrebbe inevitabilmente produrre. Osservano Anna Freud e Dann che questi bambini «non erano né deficienti, né delinquenti, né psicotici» (p. 514).

L'importanza, nello sviluppo, del sistema affettivo costituito dai coetanei e il suo probabile essere un limitato surrogato del rapporto con la madre, chiarisce ulteriormente la base autonoma delle relazioni oggettuali e getta nuovi dubbi sull'ipotesi che l'attaccamento interpersonale sia secondariamente derivato dalla gratificazione delle cosiddette pulsioni primarie. Se l'attaccamento precoce fosse soprattutto funzione della gratificazione della pulsione della fame, avremmo delle difficoltà a spiegare la forza del sistema affettivo rappresentato dai compagni. È evidente infatti che il giovane si affida ai compagni non per esserne alimentato ma per quel bisogno di relazioni oggettuali che è del tutto indipendente dall'alimentazione.

Tutte le prove derivanti da ricerche e osservazioni sul comportamento umano e infra-umano~danno  un validissimo sostegno all'idea di un sistema istintuale di attaccamento primario e autonomo, relativamente indipendente dalle pulsioni della fame, del sesso e dell'aggressività. Come hanno affermato Bowlby (1969) e altri, è un sistema che comprende alcune componenti comportamentali quali il riso, la vocalizzazione, la suzione, la possibilità di essere tranquillizzato, la capacità di reagire ad oggetti con alcune caratteristiche specifiche, nonché, come dimostra l'opera di Harlow (1958), il «benessere da contatto». In tutte le specie in cui si sviluppa attaccamento tra il neonato e la madre, quest'ultima esibisce un comportamento di cura del piccolo che è complementare alle risposte di attaccamento del neonato (Bowlby, 1969). Non vi è alcuna prova del fatto che queste risposte di attaccamento siano del tutto dipendenti o interamente derivate dalla gratificazione di altri bisogni (benché, ovviamente, l'attaccamento alla madre possa essere rafforzato da queste gratificazioni).

Alcuni elementi del repertorio comportamentale di attaccamento del neonato (ossia alcune componenti del sistema comportamentale dell'attaccamento) compaiono alla nascita praticamente in tutti i membri delle specie. Essi facilitano l'«esito prevedibile» della prossimità e del contatto con l'essere che si prende cura dei piccoli, vuoi attraverso risposte di segnalazione (per esempio il pianto, il sorriso) che attivano risposte complementari nell'altro, vuoi attraverso comportamenti attivi (per esempio la suzione e l'avvinghiarsi) che ottengono direttamente la vicinanza e il contatto.

Stern (1980), eminente ricercatore nel campo delle interazioni neonato-madre, giunge alla conclusione che esistono ora prove sufficienti a indicare «che un forte rapporto non è creato dall'alimentazione, quanto piuttosto dalla condivisione e dalla complementarità esperienziale. È forse giunto il momento di suggerire che l'esperienza dell'aver fame, dell'essere nutrito e dell'addormentarsi beatamente, anche se associata a una particolare persona, non porta a un'intimità soggettiva con quella persona che fornisce l'alimentazione, a meno che ciò non sia accompagnato da una complementarità e una condivisione soggetto- oggetto» (p. 37). Questa posizione può essere messa a confronto con quella psicoanalitica classica, che ipotizza «un primo rapporto ' anaclitico ' con la madre, vale a dire una fase in cui le sensazioni piacevoli derivate dalla gratificazione dei principali bisogni sono strumentali nel determinare quale persona del mondo esterno sia scelta per un investimento libidico» (A. Freud, 1960, p. 55). (Il contrasto fra le due posizioni risulta evidente quando si consideri che nella teoria classica i «bisogni principali» non includono né quella che Stern chiama «complementarità soggetto-oggetto», né «sensazioni piacevoli» come sono definite nel contesto di un modello di scarica della pulsione.)

Che il modello adeguato dell'attaccamento non sia quello «anaclitico» proposto da Freud è indicato anche dagli effetti della deprivazione oggettuale (soprattutto materna). Così, il fatto che il tasso di mortalità delle scimmie neonate sia influenzato dalla presenza o dall'assenza di un pezzo di garza nella gabbia, per il resto vuota, può essere difficilmente spiegato in termini di nutrimento o di alimentazione (Harlow, 1958). È stato inoltre dimostrato che anche se vengono mantenute le interazioni visive, uditive e olfattive l'impedimento di un contatto fisico tra neonato e madre porta nella scimmia ad uno sviluppo anormale (Harlow e Zimmerman, 1959; Hinde e Spencer-Booth, 1971; Harlow e Harlow, 1965). Anche per i bambini vi sono prove del fatto che sebbene la nutrizione e le cure mediche siano adeguate una insufficiente attenzione materna è associata ad anormalità dello sviluppo (per esempio Powell et al., 1967; Silver e Finkel- stein, 1967) e a un elevato tasso di mortalità (Bakwin, 1949; Patton e Gardner, 1963). Una deprivazione materna cronica è associata anche a permanenti diminuzioni delle dimensioni corporee, indicate col termine «nanismo psicosociale» (per esempio Thoman e Arnold, 1968). Goldschmidt (1975) ha inoltre riferito che benché i bambini Sebei vengano alimentati su richiesta e siano svezzati a un'età relativamente tarda, vi è una notevole mancanza di vezzeggiamenti e di contatto visivo, essendo le madri lontane, disimpegnate e distaccate. Il risultato è che gli adulti Sebei tendono a rapportarsi reciprocamente soprattutto in termini strumentali, mostrano poca empatia per la sofferenza degli altri e sono relativamente privi di emozioni.

Nel tentativo di elaborare un modello animale del «nanismo psicosociale» umano, Schanberg e Kuhn (1980) hanno raccolto prove significative del fatto che la deprivazione materna è un fattore primario, e non secondario, rispetto ad altre variabili. Innanzitutto hanno dimostrato che nei piccoli del ratto non ancora svezzati la deprivazione materna si traduce in un decrescimento dell'attività del cuore, del cervello e della decarbossilasi dell'ornitina del fegato — un indice biochimico di maturazione dei tessuti — e che il riportare i piccoli alla madre accresce questa attività. Che l'abbassamento dell'attività di decarbossilasi non sia collegato alla privazione del cibo è stato definitivamente dimostrato dall'assenza di un tale decrescimento quando i piccoli erano posti accanto a un topo femmina che allattava, ma alla quale erano stati legati i capezzoli, e dalla presenza di un decrescimento quando i piccoli deprivati erano alimentati attraverso una cannula intragastrica, o quando erano posti accanto a femmine che allattavano ma il cui comportamento materno era stato impedito mediante gli effetti anestetizzanti dell'uretano (intervento che non influenza né la produzione né la eiezione di latte, e neppure la suzione da parte dei piccoli).

Che l'impedimento della stimolazione tattile sia un aspetto critico degli effetti della deprivazione materna è provato dalla scoperta che piccoli deprivati della madre, ma che venivano vigorosamente carezzati sulla schiena e sulla testa per due ore con una spazzola di peli di cammello umida (con effetto simile alle carezze materne), non esibivano il consueto decrescimento di attività di decarbossilasi. Schanberg e Kuhn mettono in relazione queste scoperte con i dati secondo i quali la stimolazione tattile dei bambini prematuri accresce significativamente il loro peso rispetto al gruppo di controllo (White e La Barba, 1976).

L'idea che un interesse per gli oggetti debba superare una fondamentale tendenza narcisistica e un «odio primario». che sia un esito dell’insuccesso dei tentativi del processo primario di "scarica diretta (come nell'allucinazione del seno), e che generalmente sia dipendente dalle vicissitudini e dalla gratificazione istintuale è inoltre confutata da un sempre maggior numero di prove che indicano che il neonato è un organismo alla ricerca di stimoli, e che la sua preferenza selettiva per talune configurazioni di stimoli è una tendenza autonoma, innata, naturale, che compare alla nascita o subito dopo la nascita.

È stato dimostrato che il neonato arriva persino a interrompere l'alimentazione per osservare uno stimolo nuovo o interessante (Emde e Robinson, 1979). Il neonato è capace di orientarsi visivamente verso la fonte di un suono. Fra le altre capacità, è in grado di riconoscere secondo una modalità sensoriale (visione) un oggetto che ha esperito in un'altra modalità (tattile). Sa raffrontare eventi che hanno la stessa struttura temporale e l'intensità di uno stimolo esperito in due modalità diverse.

Le prove fornite dalla ricerca hanno anche stabilito che il neonato piccolissimo mostra una discriminazione percettiva e/o una preferenza selettiva per stimoli visivi e uditivi nuovi (per esempio Friedman, Bruno e Vietze, 1974); per un insieme di caratteristiche geometriche rispetto a un altro (per esempio McCall e Nelson, 1970; Ruff e Birch, 1974); per un insieme di forme rispetto a un altro (per esempio Fantz e Fagan, 1975); per una luminosità di valore intermedio (Hershenson, 1974); per i colori (Cohen e Gelber, 1975; Cohen et al, 1971) e per un livello ottimale di discrepanza tra stimoli preesistenti (per esempio Kinney e Kagan, 1976). Va notato che nella misura in cui questi studi si riferiscono a preferenze selettive (determinate, per esempio, tramite la fissazione dello sguardo) il concetto di interesse per gli oggetti sembra particolarmente adeguato per il fenomeno di cui parliamo.

Per riassumere, tutte queste prove nel loro complesso indicano che un interesse per gli oggetti, come pure lo sviluppo di legami affettivi, non sono semplicemente un derivato o un prodotto di energie e obiettivi libidici, o una conseguenza della gratificazione di altri bisogni, ma un aspetto importantissimo e autonomo dello sviluppo, che esprime una tendenza innata a stabilire rapporti cognitivi e affettivi con gli oggetti del mondo. A quanto pare la stimolazione tattile (e, come suggeriscono altre prove che non ho citato, la stimolazione cenestesica) è, sin dagli inizi, una caratteristica particolarmente importante degli oggetti alla quale il neonato reagisce. Le prove fornite dalla ricerca convalidano le intuizioni e le formulazioni cliniche di Balint (1937), secondo il quale il termine «amore oggettuale primario » descrive più adeguatamente le tendenze precoci del neonato rispetto al concetto freudiano di narcisismo primario; e anche quelle di Fairbairn (1952), il quale ha affermato: «La libido è primariamente una ricerca di oggetto piuttosto che una ricerca di piacére».

Psicologia dell'Io

Le scoperte che abbiamo citato costituiscono delle sfide lanciate dall'esterno alla teoria psicoanalitica tradizionale. Ma in questi ultimi anni siamo stati testimoni anche di sfide dall'interno.

In seno alla teoria psicoanalitica tradizionale l'idea che ogni comportamento e ogni funzione psichica siano derivate dalle pulsioni di base e secondarie rispetto ad esse è stata messa seriamente in questione rispetto alle funzioni dell'Io. Questo tema è esplicito negli sviluppi della psicologia psicoanalitica dell'Io ed è strettamente connesso all'opera di Hartmann (1958, 1964). Questo autore ha schiuso la porta alla possibilità di considerare alcuni aspetti del comportamento, dello sviluppo e del funzionamento psichico come entità relativamente autonome rispetto alla pulsione istintuale. Benché importante per lo sviluppo della teoria psicoanalitica, non si trattava affatto di una scoperta empirica; nella sua sostanza questa affermazione equivaleva semplicemente a riconoscere e inglobare nella teoria psicoanalitica i fenomeni e i dati di realtà della maturazione biologica applicati alle funzioni cognitive — fenomeni e dati di realtà da lungo tempo familiari ai biologi, ai pediatri, agli psicologi sperimentali e dello sviluppo. Dopotutto, la proposizione che in un «ambiente medio prevedibile» talune funzioni dell'Io si svilupperanno in modo relativamente autonomo da conflitti e dalle vicissitudini delle altre pulsioni, non è forse un'affermazione, in termini psicoanalitici, del fenomeno della maturazione? In questo senso il contributo di Hartmann può essere visto essenzialmente come un contributo politico-teorico, in quanto ha permesso a quei teorici della psicoanalisi che continuano a definirsi analisti freudiani di considerare le funzioni dell'Io cognitivo in modo abbastanza autonomo dalla gratificazione degli istinti e dalla teoria delle pulsioni10. Dico in modo abbastanza autonomo perché in alcuni suoi scritti Hartmann afferma che sebbene possano svilupparsi lungo la linea della maturazione biologica, gli apparati dell'Io richiedono nondimeno la forza propellente delle pulsioni per poter funzionare e indurre all'azione. Quest'affermazione sarà affrontata e discussa a parte, nelle pagine successive.

Per quanto parziale, ciò che è stato ottenuto nel campo delle funzioni dell'Io — ossia la libertà di considerarle relativamente autonome dal contesto della teoria delle pulsioni — non è stato ottenuto in altri campi del comportamento e del funzionamento psichico, in particolare nei campi delle relazioni oggettuali e del Sé. Dato che non rappresentava un punto centrale nella contesa tra neofreudiani e teorici freudiani, lo sviluppo cognitivo costituiva un terreno più «neutrale» e dunque più suscettibile di modificazione e riformulazione. Al contrario, l'ambito dell'interpersonale, del sociale, del culturale è stato un vero e proprio campo di battaglia fra teorie freudiane e neo-freudiane e pertanto è stato maggiormente caricato emotivamente, ed è più suscettibile di diventare un tema ideologico centrale. Senza contare che, mentre sui processi maturazionali nello sviluppo cognitivo era già stata compiuta una buona mole di lavoro, un'indagine parallela sulle radici biologiche degli aspetti interpersonali e sociali del comportamento sarebbe venuta solo successivamente o, per lo meno, sarebbe stata più lenta nel sortire effetti significativi sul pensiero psicoanalitico. Per esempio, fu solo nel 1969 che apparve la prima delle opere importanti di Bowlby, che cercava di incorporare nella teoria psicoanalitica le importanti scoperte degli studi etologici e di altre ricerche sistematiche che provavano l'esistenza di radici biologiche primarie nell'interpersonale e nel sociale. Fu solo nel 1958 che Harlow riferì il suo classico esperimento — citato nelle pagine precedenti — nel quale tentava di mostrare che l'attaccamento del neonato alla madre non era derivato secondariamente dalle cosiddette pulsioni primarie come la fame e l'alimentazione. E solo di recente è stata svolta una indagine sistematica sull'interazione neonato-madre.

Un'interessante nota storica è il fatto che in parallelo con l'emergere di una psicologia psicoanalitica dell'Io si verificassero sviluppi simili nella psicologia accademica. In realtà, il classico esperimento di Harlow era inteso a confutare l'idea che ogni comportamento serva a gratificare le cosiddette pulsioni primarie o a soddisfare motivazioni e obiettivi secondariamente derivati da queste pulsioni — un assunto di base non solo della teoria freudiana, ma anche della teoria dell'apprendimento quale formulata da Hull (1943) e successivamente da Dollard e Miller (1950) n. Simile alla teoria freudiana, la teoria di Hull è anch'essa una teoria motivazionale onnicomprensiva, chiaramente derivata dalla teoria evoluzionistica, nella quale ogni comportamento è visto come motivato da una riduzione delle pulsioni. Questa concezione, che dominava la teoria dell'apprendimento americana, venne messa in crisi pressappoco nella stessa epoca in cui nasceva la psicologia dell'Io e — benché si interessasse prevalentemente del comportamento animale — con argomentazioni simili a quelle proposte dagli psicologi dell'Io. Per esempio si dimostrò che gli animali esibivano un comportamento di curiosità ed esplorativo — versione animale delle funzioni dell'Io — in modo del tutto indipendente dalle cosiddette pulsioni primarie (per esempio Barnett, 1958; Berlyne, 1960; Butler, 1965).

Rassegna degli sviluppi recenti in psicoanalisi

Come dirò più diffusamente in seguito, quali che fossero le modificazioni della teoria psicoanalitica tradizionale rappresentate dalla psicologia dell'Io, esse erano — ed erano intese essere — del tutto coerenti col modello strutturale fondamentale Es-Io della teoria freudiana. In questo senso non costituivano una sfida critica agli assunti di base della teoria tradizionale. Lo stesso non può dirsi, invece, delle scoperte e formulazioni più recenti, le quali, come ha notato Modell (1975), sollevano difficoltà di base rispetto ad alcuni aspetti centrali della teoria freudiana. Nucleo di queste critiche è che talune questioni e caratteristiche importanti dello sviluppo della personalità e della psicopatologia, che hanno a che fare con le relazioni oggettuali e il Sé, non si adattano facilmente al modello basilare Es-Io della teoria tradizionale. Per esempio le descrizioni dello sviluppo psicologico che più sono apparse significative a molti clinici e teorici recenti non sono quelle che si riferiscono allo sviluppo psicosessuale, quanto piuttosto quei resoconti che si incentrano su parametri quali la differenziazione tra sé e l'altro, il passaggio dalla simbiosi alla separazione-individuazione, il grado di coesività del Sé. Il sempre crescente interesse per questi parametri è stato stimolato non solo dall'osservazione dei bambini e delle interazioni madre-bambino, ma anche da una recente attenzione per talune classi di patologia — soprattutto per gli stati borderline, i disturbi della personalità narcisistica e le personalità schizoidi12 — che non sembrano incentrarsi sugli abituali conflitti edipici intrapsichici Es-Io quanto piuttosto sui problemi pre-edipici della coesività del Sé e della separazione-individuazione.

Nei prossimi capitoli affronteremo queste sfide dall'interno. In senso ampio, esse rientrano in una delle quattro categorie seguenti. Nella prima categoria, la risposta consiste essenzialmente nel tentativo di conservare la teoria tradizionale delle pulsioni e di combinarla con un riconoscimento dell'importanza delle_relazioni oggettuali e del Sé. Questo approccio è esemplificato dall'opera della Mahler(1968, 1975). (È anche rappresentato da Kernberg [1975, 1976] e Jacobson [1964], la cui opera non sarà qui esaminata). In questo approccio, se da una parte è dato un maggior riconoscimento ai temi delle relazioni oggettuali e del Sé, si continua a partire dall'assunto che lo sviluppo in questi campi sia in qualche modo legato alle vicissitudini dello sviluppo e della gratificazione istintuale, e sia contingente rispetto ad esse.

La seconda categoria può essere definita una teoria bifattoriale, ed è esemplificata dai primi scritti di Kohut (1971) e dall'opera di Modell. I teorici della psicoanalisi che rappresentano questo punto di vista sembrano accettare sia la teoria delle pulsioni sia una psicologia delle relazioni oggettuali e del Sé, considerando ciascuna prospettiva teorica appropriata a un insieme diverso di fenomeni (per esempio disturbi della personalità narcisistica in contrapposizione a «conflitti strutturali» nevrotici).

La terza risposta comporta un netto rifiuto della teoria freudiana delle pulsioni e una sua completa sostituzione con una psicologia delle relazioni oggettuali e del Sé. Questo approccio è esemplificato da Fairbairn (1952). da Guntrip (1969) e, a mio avviso, da G. S. Klein (1976). E' anche rappresentato dagli scritti successivi di Kohut (1977) e da quelli dei suoi seguaci.

La quarta ed ultima categoria à riservata alla teoria gerarchica epigenetica di Gedo (1979). che presenta alcune somiglianze con le formulazioni sia di Kohut sia di Klein.

Infine, analizzerò il lavoro di Weiss, di Sampson e dei loro collaboratori (Horowitz et al., 1975; Sampson, 1982; Sampson et al., 1972; Sampson et al., 1976; Sampson e Weiss, 1977; Sampson, Weiss e Gassner, 1977; Weiss, 1952, 1971, 1982; Weiss et al., 1977; Weiss et al., 1980), che non rientra in alcuna delle categorie sopracitate, ma che costituisce una sfida sufficientemente grande alle idee tradizionali e presenta un interesse tale da meritare di essere incluso in questo libro. Come vedremo, l'approccio di questo gruppo può essere considerato un'aggiornata e sofisticata psicologia dell'Io.

LE RELAZIONI OGGETTUALI E IL SÉ COME DERIVATO DELLE VICISSITUDINI ISTINTUALI: L'OPERA DELLA MAHLER

Le formulazioni della Mahler e dei suoi collaboratori (Mahler, 1968; Mahler et al., 1975) sullo sviluppo psichico sono presentate prevalentemente in termini di simbiosi e di separazione-individuazione. La Mahler si concentra su quella dimensione dello sviluppo psicologico che segue la crescita del neonato da uno stato di non-differenziazione tra l'«Io» e il «non Io » sino ad una successiva fase di separazione-individuazione. Secondo la Mahler et al. (1975), «la nascita biologica del bambino e la nascita psicologica dell'individuo non coincidono nel tempo» (p. 39). Quest'ultima viene indicata come processo di separazione- individuazione. La separazione «consiste nell'emergenza del bambino da una fusione simbiotica con la madre», mentre «l'individuazione consiste in quelle conquiste che denotano l'assunzione da parte del bambino delle proprie caratteristiche individuali» (Mahler et al., 1975, p. 40). In altre parole, l'interesse della Mahler e dei suoi collaboratori è per quella linea di sviluppo che culmina nell'acquisire il senso della propria identità corporea e psicologica autonoma, nel funzionare in maniera separata e autonoma nel mondo, nell'esperire le proprie caratteristiche individuali (p. es. nel campo della percezione, del pensiero e della memoria) nel corso di questo funzionare autonomo.

Secondo la Mahler lo sviluppo passa da una fase «autistica normale» (p. 75) a una fase simbiotica e poi alle quattro sottofasi, che si svolgono in sequenza, del processo di separazione e individuazione. Benché queste fasi e queste sequenze facciano parte di un processo maturazionale che si svolge normalmente, ciascuna fase, come vedremo, è fortemente influenzata dall'interazione neonato-madre, in particolare da fattori quali la prima gratificazione simbiotica e la disponibilità emozionale della madre. Benché la maggior parte di coloro che operano nel campo abbia familiarità con le fasi di sviluppo sostenute dalla Mahler, cionondimeno può essere utile passarle brevemente in rassegna.

Secondo la Mahler (1968), nel corso delle prime settimane di vita il neonato è in uno stato di autismo normale, nel quale le esperienze sono limitate ai «depositi di tracce mnestiche relative alle due qualità primordiali di stimoli (piacevole-buono/ doloroso-cattivo)» (p. 8). Per descrivere questo stato si ricorre al paragone con un uovo di uccello, preso come modello di un sistema chiuso, proposto da Freud (1911). In questa fase il neonato è presumibilmente chiuso e non reattivo agli stimoli esterni, ed è essenzialmente un essere fisiologico che «sembra trovarsi in uno stato primitivo di disorientamento allucinatorio, in cui la soddisfazione di bisogni appartiene alla propria sfera autistica, 'incondizionata' e onnipotente (vedi Ferenczi, 1913)» (Mahler et ai, 1975, p. 75).

La fase dell'autismo è seguita a partire dal secondo mese dalla fase simbiotica, che è contrassegnata da una profonda consapevolezza dell'oggetto capace di soddisfare il bisogno. In questa fase, il neonato è in uno «stato d'indifferenziazione, di fusione con la madre, in cui l'Io 'non è ancora differenziato dal 'non-Io'...» (Mahler et al., 1975, p. 78). Secondo la Mahler «l'elemento essenziale della simbiosi è la fusione somatopsi- chica onnipotente, allucinatoria o delirante, con la rappresentazione della madre e in particolare l'illusione di un confine comune a due individui che sono fisicamente separati» (Mahler et ai, 1975, p. 79).

Verso i quattro o i cinque mesi di età fa la sua comparsa la prima sottofase, quella di differenziazione, della separazione- individuazione. Durante questa sottofase «i bambini normali cercano di compiere i primi passi verso lo sganciamento, nel senso corporeo, dalla completa passività dello stare in braccio [...] lo stadio dell'unità duale con la madre» (Mahler et al., 1975, p. 89). In quei bambini che provano «un sicuro ancoraggio all'interno dell'orbita simbiotica » e nei quali la gratificazione simbiotica è stata ottimale, si osserva un grande piacere ricavato dalla percezione sensoriale, una curiosità e un meravigliarsi (invece di un'angoscia di fronte allo sconosciuto) in presenza di estranei, e un «controllo ripetuto della madre» (p. 90), una sorta di esame comparativo della madre e degli altri. Nel corso di questa sottofase fanno la loro comparsa anche i fenomeni transizionali (Winnicott, 1958).

Dai nove mesi circa in poi (giungendo fino ai quindici-diciotto mesi circa) fa la sua comparsa la seconda sottofase, che la Mahler chiama di sperimentazione. Le caratteristiche comportamentali più manifeste di questo periodo sono la pratica attiva della locomozione, che comprende il camminare carponi, il barcollare e l'arrampicarsi e che, naturalmente, culmina alla fine nella locomozione libera, eretta. Secondo la Mahler (1968), in questa fase il bambino «sembra essere al culmine della credenza nella propria onnipotenza magica, che è tuttora derivata in misura considerevole dalla sua sensazione di condividere i poteri magici della madre» (p. 20). La Mahler cita Greenacre (1957), là dove egli afferma che il bambino in questa fase ha «un'avventura amorosa con il mondo». Tuttavia esplorazione e avventura amorosa con il mondo da parte del bambino sono strettamente legati alla disponibilità della madre. Questo lo vediamo in svariati modi. Durante l'esplorazione il bambino mantiene una distanza ottimale dalla madre, la guarda come «punto di riferimento» e ritorna periodicamente a lei in cerca di quello che Furer ha chiamato «rifornimento emozionale». Inoltre, il grado di libertà di esplorazione del mondo varia in funzione delle vicende precedenti e della natura del rapporto neonato-madre.

La terza sottofase, quella del riavvicinamento, segue a quella di sperimentazione, intorno ai quindici-diciotto mesi (e dura fino ai ventiquattro mesi). Questa fase è caratterizzata da una maggiore consapevolezza da parte del bambino della sua separatezza, da una maggiore angoscia di separazione e, di conseguenza, da un accresciuto bisogno e desiderio di essere con la madre, di sapere dove essa si trovi, di condividere con lei le proprie nuove capacità, di avere il suo amore. Secondo la Mahler et al. (1975) a questa età il bambino esibisce due modelli caratteristici — «seguire la madre come un'ombra e allontanarsene all'improvviso» (p. Ill) — i quali, secondo gli autori, «indicano il suo desiderio di riunione con l'oggetto d'amore e il timore di esserne ringhiottito » (p. 111). La crescita delle capacità cognitive del bambino rende possibile una maggiore comunicazione verbale e l'inizio dell'«intelligenza rappresentativa» (Piaget, 1936). Si può anche osservare l'inizio della formazione di un Sé coesivo e della identità sessuale. Secondo la Mahler e i suoi collaboratori, il modo in cui è gestita la fase di riavvicinamento è estremamente importante per lo sviluppo futuro del bambino. È in questa fase che la madre deve unire a una continua disponibilità emozionale la propensione emotiva a lasciar andare e a dare «una spinta leggera» (p. 113) verso l'indipendenza. Per via delle proprie difficoltà, alcune madri sono incapaci di lasciare andare e «divengono loro stesse l'ombra del figlio» (p. 114) invece di essere ciò che il figlio segue come un'ombra; altre madri, al contrario, non sono sufficientemente disponibili e spingono all'indipendenza in modo improvviso e prematuro. Tali errori spesso portano sulla loro onda un accrescimento dell'angoscia di separazione, un disperato attaccarsi alla madre, una difficoltà a investire interesse nel mondo circostante e a trovare piacere e fiducia nella propria vita.

All'inizio circa del terzo anno di vita compare la quarta sottofase, che la Mahler et al. (1975) chiamano «consolidamento dell'individualità e inizio della costanza dell'oggetto emotivo» (p. 143). I principali compiti legati allo sviluppo nel corso di questa sottofase sono il raggiungimento di una individualità ben definita, che durerà tutta la vita, nonché di un certo grado di costanza dell'oggetto. Le principali conquiste nel corso di questa fase comprendono la formazione di una costanza dell'oggetto affettivo, che comporta una precedente «acquisizione cognitiva della rappresentazione simbolica interna dell'oggetto permanente» (Mahler et al. 1975, p. 144); l'interiorizzazione delle richieste genitoriali (formazione del Super-io); un accresciuto consolidamento dell'identità sessuale e l'unificazione dell'oggetto «buono» e «cattivo» in un'unica rappresentazione integrata. A differenza delle sottofasi precedenti, questa fase è a finale aperto e comprende compiti che continuano nel corso dello sviluppo ulteriore.

In un recente scritto Milton Klein (1981) ha valutato le formulazioni e i concetti della Mahler alla luce delle recenti ricerche sui neonati, e ha scoperto che un certo numero di essi risente di — e rispecchia — la quasi completa trascuratezza delle prove di ricerca disponibili. Per esempio è dubbio che il neonato viva mai in uno stato di «autismo normale», quale descritto dalla Mahler e dai suoi collaboratori. Le prove empiriche suggeriscono piuttosto che il neonato non si trova mai in uno stato di totale non-differenziazione tra sé e l'altro e che la nascita psicologica e biologica sono simultanee (in altre parole, non c'è alcun bisogno di affermare l'esistènza di una nascita psicologica successiva e distinta). Di conseguenza, secondo Klein, le varie caratterizzazioni del neonato in termini di concetti quali narcisismo primario, mancanza dell'oggetto, fusione e così via sono semplicemente inesatte.

Anche Stern (1980) presenta prove convincenti che mostrano come già alla nascita non vi sia una mancanza totale di differenziazione tra sé e l'altro. Al contrario, sin dall'inizio il neonato rivela capacità e abilità che gli permetteranno di formarsi un concetto rudimentale di sé e dell'altro e di differenziare tra i due. Per esempio, il neonato mostra un'equivalenza transmodale (capacità di riconoscere in una modalità sensoriale un oggetto che ha esperito solo in un'altra modalità); è in grado di orientarsi visivamente nella direzione della fonte di un suono; esibisce un'integrazione transmodale temporale (reagisce a due eventi che hanno la stessa struttura temporale come se fossero fusi insieme); sa raffrontare l'intensità di uno stimolo esperito in una modalità sensoriale all'intensità esperita in un'altra modalità; sa mantenere l'identità di un oggetto tridimensionale malgrado eventuali cambiamenti di prospettiva; mostra di ricordare un evento esperito giorni prima con l'impiego di stimoli minimi quali il contesto; infine sa distinguere tra un programma di rinforzo costante e variabile.

Da notare che tutte queste capacità non solo sono presenti nei primi mesi di vita, ma che sono proprio quelle capacità necessarie alla formazione di un precoce e rudimentale senso di sé e dell'altro e di differenziazione di sé e dell'altro. Per esem-pio il concetto di oggetto implica proprio quelle capacità (per esempio equivalenza transmodale e integrazione transmodale temporale) di cui il neonato dispone. Per fare un altro esempio, le azioni del Sé sul Sé comportano un costante programma di rinforzo, mentre le azioni del Sé sugli altri, oltre che le azioni degli altri sul Sé, comportano un programma di rinforzo variabile. Ora, la capacità del neonato di distinguere tra questi diversi programmi di rinforzo rappresenta perlomeno una base di discriminazione tra sé e l'altro.

Klein e Stern fanno entrambi delle importanti distinzioni, che sono spesso poco chiare nelle formulazioni della Mahler. Per esempio vi è una notevole differenza tra la mancanza relativa di discriminazione tra sé e l'altro basata su fasi di sviluppo normale della crescita cognitivo-affettiva da una parte, e la fusione o la simbiosi dall'altra, che possono essere fenomeni patologici e si basano su cognizioni complesse e di alto livello che sono al di là della capacità del neonato. Stern sottolinea che concetti quali «oggetti-Sé», «oggetti simbiotici» e «oggetti parziali», che possono essere adeguati per la descrizione di taluni fenomeni patologici dell'adulto, «non debbono essere presi a prestito ad essere retrospettivamente considerati parti normali dell'esperienza affettivo-cognitiva del neonato» (p. 28) (tendenza che Klein chiama del mito «patomorfico»). Viceversa, egli lamenta la tendenza a concettualizzare la patologia adulta in termini di riattivazione delle fasi normali di sviluppo.

Molte delle critiche di Klein e di Stern erano già state formulate da Peterfreund (1978), il quale aveva notato alcune tendenze inappropriate nelle concezioni psicoanalitiche dell'infanzia. Peterfreund osserva anche — e lamenta — la tendenza a caratterizzare le fasi normali dell'infanzia in termini di patologia adulta (una combinazione di «adultomorfìsmo» e di «pa-tomorfismo»). Per esempio, si dice che il neonato è «disorientato» o «affetto da allucinazioni», invece di riconoscerlo come persona orientata e realistica nella misura delle proprie capacità di funzionamento. Insieme a Klein e Stern, Peterfreund mette in dubbio anche la validità di quelle descrizioni del neonato che lo vogliono totalmente «indifferenziato» o «fuso», oppure «narcisistico».

È chiaro che molte delle critiche sopra riportate possono essere (e in realtà sono) dirette a taluni aspetti della caratterizzazione del neonato e del suo sviluppo forniti dalla Mahler. Tuttavia, se mi è permessa questa immagine, c'è il rischio di gettar via il bambino insieme con l'acqua sporca. In altre parole anche se, per esempio, la caratterizzazione mahleriana del neonato come essere totalmente indifferenziato e in stato di fusione completa con la madre è inesatta, resta come importante contributo il rilievo che la Mahler dà alla separazione-individuazione quale dimensione principale dello sviluppo psicologico. Dunque, anche se — come argomentano Klein, Stern, Peterfreund e altri — l'individuazione e la differenziazione hanno inizio alla nascita, è fuori di dubbio che esse sono presenti solo a livello rudimentale, continuano a svilupparsi quali elementi della crescita psicologica del bambino, e costituiscono un parametro essenziale di tale crescita.

Elaborando il concetto di separazione-individuazione la Mahler ha individuato una dimensione veramente universale, applicabile a tutti i membri delle specie e, in forma appropriata, ai membri di altre specie. Inoltre, descrivendo le varie fasi di questa dimensione la Mahler ha suggerito alcuni rapporti (per esempio, tra «ancoraggio sicuro» e «comportamento esplorativo») che, come vedremo, hanno ricevuto un'ampia e sistematica conferma. Per finire, è importante notare che concetti quali la gratificazione simbiotica e in particolare la separazione-individuazione sono compresi nel modo più significativo non in termini di gratificazione della pulsione (sessuale o aggressiva), bensì in termini di .comportamento di attaccamento. Come cercherò di dimostrare, benché la Mahler impieghi il linguaggio della libido e della pulsione, si può sostanzialmente ignorare questo linguaggio nell'interpretare le sue formulazioni fondamentali.

In comune con gli altri animali che esibiscono un comportamento di attaccamento il bambino deve negoziare il cammino spesso difficile dell'individuazione e dell'indipendenza atteso e richiesto da un membro adulto della specie. Nelle specie infraumane l'insuccesso nel negoziare queste richieste metterebbe senza dubbio in pericolo la sopravvivenza. Nell'essere umano, molto più complesso e influenzato dalla cultura, tali insuccessi si manifestano in uno sviluppo incompleto, in disturbi psicologici, nella devianza, nelle carenze interpersonali, e così via. In altre parole, psicopatologia e devianza derivano con più probabilità da tematiche — connesse con l'attaccamento — della simbiosi-individuazione che da tematiche relative alle pulsioni sessuali e aggressive. Se sesso e aggressività svolgono indubbiamente una parte nello sviluppo della personalità, la separazione-individuazione è una sfida veramente universale e inevitabile. una sfida di fronte alla, quale, la personalità-il_più_delle volte soccombe. Questo è indubbiamente un po' quello che aveva in mente Fairbairn (1952) quando affermava che ogni psicopatologia è in un modo o in altro collegata alla persistenza e alle vicissitudini della dipendenza infantile. In effetti, è pro-' babile che la capacità di gratificare adeguatamente i bisogni sessuali nonché la frequenza e la qualità di taluni comportamenti aggressivi patologici siano fortemente influenzati dalle prime esperienze di attaccamento. Così, i neonati di scimmia degli esperimenti di Harlow sottratti alle loro madri naturali e allevati con surrogati di madre in fil di ferro e in spugna manifestavano nell'età adulta gravi problemi nel comportamento sessuale e un comportamento deviante aggressivo (Harlow, 1974).

I concetti mahleriani di simbiosi e di separazione-individua- zione sembrano dunque implicare chiaramente il ruolo primario del sistema di attaccamento e il ruolo secondario delle pulsioni sessuali e aggressive nello sviluppo della personalità e nella psicopatologia grave. E tuttavia, simbiosi e separazione-individuazione sono collegati dalla Mahler non all'idea di un sistema autonomo di attaccamento, ma alle pulsioni istintuali freudiane. A mio avviso, ciò avviene solo in parte giacché, come è stato osservato in precedenza, nella storia del movimento psicoanalitico l'adesione alla teoria delle pulsioni è stata considerata il banco di prova del vero freudianismo, e il rifiuto o una alterazione radicale del ruolo primario delle pulsioni duali è stato considerato tradizionalmente come una apostasia neo-freudiana.

Ad ogni modo, il tentativo di far rientrare a forza le relazioni oggettuali e il Sé nella teoria delle pulsioni spesso sfocia in una patente goffaggine teorica e talvolta — va detto — in un gergo quasi incoerente. Per esempio la Mahler et al. (1975) osservano che l'identità «include in parte un investimento del corpo con energia libidica» (p. 44). Non è affatto chiaro se una frase di questo genere abbia qualche significato empirico.

E ancora, per prendere un esempio più estremo: «La primordiale riserva di energia che è coinvolta nell" Io-Es ' indifferenziato contiene ancora una mescolanza indifferenziata di libido e di aggressività. Come molti hanno notato, la cathexis libidica investita nella simbiosi, rafforzando la innata barriera agli stimoli istintuali, protegge l'Io rudimentale da premature tensioni non specifiche della fase, derivanti da traumi dovuti a stress» (Mahler, 1968, p. 9). Che fare di passi come questo?

È importante comunque ribadire che le formulazioni della Mahler e le sue discussioni del concetto di separazione-individuazione possono essere comprese indipendentemente dal tipo di gergo appena citato e, in verità, anche dai concetti di teoria delle pulsioni e di energia, e che in quanto tali esse rappresentano un contributo reale alla teoria psicoanalitica della psicopatologia e dello sviluppo della personalità.

Un aspetto importante e alquanto peculiare a proposito dell'opera della Mahler è il forte sostegno empirico che talune sue formulazioni e osservazioni centrali hanno ricevuto da un ampio corpus di ricerche al di fuori del contesto psicoanalitico. Consi-deriamo i concetti di «rifornimento affettivo» e di «ancoraggio sicuro» proposti dalla Mahler e dai suoi collaboratori. Come abbiamo notato prima, l'idea fondamentale suggerita da questi concetti è che il bambino si impegnerà più liberamente in un comportamento autonomo ed esplorativo se può periodicamente tornare dalla madre per «rifornirsi». Ciò che è specificamente implicato qui è che la presenza della madre sarà in rapporto positivo con l'esplorazione. E difatti, a conferma delle ipotesi della Mahler, troviamo che il rapporto generale tra disponibilità di quella che è stata chiamata un «punto di riferimento sicuro» e comportamento esplorativo ha ricevuto un forte sostegno empirico in una vasta gamma di specie, ivi compresi gli uccelli (per esempio Hogan e Abel, 1971; Wilson e Rajecki, 1974); le scimmie (per esempio Harlow e Harlow, 1965, 1972; Kaufmann, 1974) e gli esseri umani (Ainsworth et al., 1971; Ainsworth, I 1974). Vi sono inoltre prove che indicano che stimoli diversi I dalla madre possono fungere da punto di riferimento sicuro. In giovanni scimmie rinchiuse in una stanza non familiare Candland e Mason (1968) hanno riscontrato un battito cardiaco di velocità inferiore quando è presente un asciugamano rispetto a quando non lo è. Hill e McCormack (citati in Mason, 1970) riferiscono che in giovani scimmie situate in ambiente estraneo il livello di cortisone si abbassa se hanno accesso a un surrogato. Nei bambini si è visto che il comportamento esplorativo aumenta o diminuisce a seconda che la madre sia presente o assente (Cox e Campbell, 1968; Ainsworth e Wittig, 1969; Feldman e Ingham, 1975; Rheingold e Eckerman, 1970). Ma il comportamento esplorativo varia anche a seconda delle immagini della madre (Pass- man e Erck, 1977) e della presenza di una coperta di sicurezza per quei bambini «attaccati alla coperta», mentre per i «bambini non attaccati alla coperta» essa non ha questo effetto (Passman e Weisberg, 1975).

Implicito nelle formulazioni della Mahler (oltre che in quelle di Winnicott [1958, 1965]) è che più è sicuro l'attaccamento tra la madre e il figlio, più è probabile un comportamento autonomo ed esplorativo. Che la madre sia o no fisicamente pre-sente, il bambino che prova un attaccamento sicuro (per dirla con Winnicott [1965], che ha introiettato l'«ambiente che dà sostegno all'Io») sarà maggiormente capace di un comportamento esplorativo. Nella misura in cui l'attaccamento sicuro implica un «punto di riferimento certo» interiorizzato, questa ipotesi costituisce una estensione di quella precedente. Anche qui, prove empiriche al di fuori del contesto psicoanalitico sembrano confermare questo presunto rapporto. I bambini il cui legame con la madre è caratterizzato da un attaccamento ansioso hanno maggiori probabilità di esibire disturbi nel gioco, nel comportamento esplorativo, nelle attività autonome. Viceversa, un attaccamento sicuro è associato a maggiore libertà in questi campi (Ainsworth e Wittig, 1969; Ainsworth, Bell e Stayton, 1971).

La Mahler ha anche parlato di un altro fattore successivo d'importanza critica nell'influenzare la separazione-individuazione. Ha suggerito che come condizione ottimale la madre dovrebbe raggiungere un equilibrio tra l'essere disponibile in senso fisico ed emotivo durante le sortite autonome del bambino (che la Mahler definisce processo di «schiusa») e il permettere e l'incoraggiare questi movimenti verso la separazione e l'autonomia. Benché poche siano le ricerche sistematiche sugli esseri umani in tale campo, questo asserito rapporto tra l'equilibrio prima descritto e il comportamento autonomo trova sostegno dalle osservazioni su animali. Nelle specie infraumane si può osservare il complesso ruolo della madre sia nel far cessare gra-datamente il primo attaccamento scoraggiando una eccessiva prossimità, sia nel mostrare un'attenta disponibilità quando il piccolo si trova in situazioni di potenziale pericolo o ha comunque bisogno di lei (si veda per esempio Hinde, 1975; Marvin, 1977). Un aspetto osservato sia negli esseri umani (Devore e Konner, 1974) sia nelle scimmie (Kaufman, 1974) è il ruolo dei compagni e di altri giovani nel movimento in direzione della separazione e dell'autonomia. In altre parole, la separazione- individuazione non comporta solo un allontanarsi dalla madre, ma anche un avvicinarsi a un nuovo contesto sociale di compagni e di giovani (è degno di nota, tra parentesi, il fatto che il ruolo dei compagni nello sviluppo sia stato relativamente sottovalutato).

Il successo ottenuto dalla Mahler nell'individuare taluni parametri di base dello sviluppo va in gran parte attribuito al fatto che sia lei che i suoi collaboratori hanno osservato il comportamento dei bambini e le interazioni madre-bambino al di fuori della stanza di consultazione. Le sue esperienze in questo campo e la sua disponibilità a utilizzare dati non derivati dalla situazione analitica sono rare tra gli analisti. E in effetti, come risulta dal materiale presentato, delle formulazioni della Mahler si rivelano più utili e maggiormente confortate da altri dati proprio quelle che si attengono più strettamente alle osservazioni fattuali; al contrario, le formulazioni derivate quasi esclusivamente dalla teoria tradizionale tendono a presentarsi come non argomentate sperimentalmente e/o caratterizzate da un linguaggio praticamente indecifrabile.

LA TEORIA BIFATTORIALE: IL TENTATIVO DI MODELL DI INTEGRARE LA TEORIA DELLE RELAZIONI OGGETTUALI E LA TEORIA FREUDIANA DELLE PULSIONI

Un tentativo diretto di integrare le sfide poste dalla teoria delle relazioni oggettuali con la teoria freudiana tradizionale è stato compiuto di recente da Modell (1975). Prendendo a prestito l'analisi di Kuhn (1962), Modell nota che la psicoanalisi è a un punto di crisi, dovuto da una parte alla discrepanza tra la teoria tradizionale, che ha agevolmente dominato durante il periodo della «scienza normale», e dall'altra all'emergere di nuovi fatti derivanti soprattutto dalla «psicopatologia delle relazioni oggettuali». Modell afferma che «è questa nuova dimensione delle relazioni oggettuali che attende ancora d'essere integrata nel modello freudiano di L'Io e l'Es» (p. 58), ed è questo il fine al quale Modell dedica la propria opera.

Il tentativo di Modell di integrare i fenomeni delle relazioni oggettuali con il modello tradizionale freudiano assume la forma seguente. Innanzitutto egli suggerisce che si debbano oggi ac- cettare due classi di pulsioni: la pulsione sessuale e le pulsioni aggressive dell'Es, e le pulsioni — da poco riconosciute — delle relazioni oggettuali, che sono pulsioni dell'Io associate alle relazioni oggettuali stesse. Queste ultime pulsioni differiscono dalle pulsioni dell'Es freudiano in quanto sono «più tranquille», non possono facilmente essere attribuite a una fonte fisiologica, e il modo migliore per caratterizzarle è tramite processo e interazione piuttosto che tramite scarica; inoltre, sono gratificate da stimoli che non nascono dall'interno dell'organismo ma derivano dall'ambiente, nel quale una «presentazione di risposte specifiche da parte delle altre persone» costituisce la gratificazione. Le risposte specifiche richieste si riferiscono al bisogno, per usare i termini di Winnicott (1966), di relazioni oggettuali «sufficientemente buone», che «sono essenziali per la formazione di una struttura particolare dell'Io stesso — il senso del Sé o il senso di identità» (p. 64). Quanto ai rapporti tra le due classi di pulsioni, «le relazioni oggettuali forniscono il contesto di un normale svolgersi delle pulsioni dell'Es» (p. 63), e servono anche a depotenziare e a controllare queste pulsioni. L'Io riesce ad avere il controllo delle pulsioni dell'Es soprattutto per mezzo di una identificazione con un «oggetto buono». Per quanto io riesca a capire Modell (e non penso che egli sia del tutto chiaro su questo argomento) egli propone che l'identificazione contribuisca a depotenziare le pulsioni dell'Es in due modi: contribuendo allo sviluppo di un saldo senso del Sé e, come ha suggerito Freud (1923), come «unica condizione che consente all'Es di rinunciare ai propri oggetti (vol. 9, p. 492).

Come abbiamo già osservato, Modell riconosce che «se la teoria delle relazioni oggettuali non potrà essere integrata nel quadro di L'Io e l'Es, quest'ultimo non sopravviverà come paradigma centrale della psicoanalisi» (p. 58). Egli afferma anche che «se il bisogno di un oggetto rispecchia l'attività di una pulsione, si dovrà convenire che il concetto di pulsione qui è del tutto diverso dall'impiego che Freud fa di questo termine» (p. 61). Per finire, va notato che Modell si distacca dalla teoria freudiana tradizionale quando riconosce l'autonomia, se non il primato, delle relazioni oggettuali e dello sviluppo del Sé 1S. Specificatamente, egli osserva che «le relazioni oggettuali forniscono il contesto di uno svolgersi normale delle pulsioni dell'Es» (p. 63), una impostazione del tutto contraria alla concezione tradizionale nella quale, come abbiamo visto, le vicissitudini delle pulsioni dell'Es sono considerate il contesto dello svolgersi delle relazioni oggettuali.

Malgrado i notevoli sforzi di Modell, il tentativo di innestare sulla teoria freudiana esistente le più recenti pulsioni delle relazioni oggettuali connesse all'Io mette questo autore in inevitabili difficoltà e incongruenze. Innanzitutto, e più in generale, un discorso su pulsioni appartenenti all'Es e pulsioni appartenenti all'Io è diffìcile da capire in maniera chiara. I sistemi pul- sionali appartengono all'organismo o alla persona, non all'Es o all'Io. Inoltre, se vi sono pulsioni non connesse all'Es, che avviene del concetto di Es quale rappresentazione psichica e deposito delle pulsioni biologiche? La logica centrale del modello Es-Io si basa sull'opposizione tra pulsioni biologiche da una parte, e strutture di verifica della realtà e di controllo dall'altra. (E certo le cosiddette pulsioni delle relazioni oggettuali non sono meno biologiche delle tradizionali pulsioni dell'Es.) Come si può affermare di attenersi al modello fondamentale Es-Io quando si parla di pulsioni connesse all'Io? Più in sintonia con l'attuale modello Es-Io sarebbe stato il tentativo, da parte di Modell, di ampliare e riconcettualizzare il concetto di Es in modo da includervi tendenze pulsionali collegate alle relazioni oggettuali (per esempio l'attaccamento di Bowlby quale sistema pulsionale).

Inoltre, la distinzione tra i due insiemi di pulsioni effettuata da Modell non sta in piedi per altre ragioni. Consideriamo la caratterizzazione che egli fa delle pulsioni delle relazioni oggettuali, che egli afferma essere difficili da riportare a una fonte fisiologica e aventi la proprietà per cui «lo stimolo per la gratificazione di [queste] pulsioni non nasce dall'interno dell'organismo, ma deriva dall'ambiente; la gratificazione della pulsione richiede la presentazione di risposte specifiche da parte di altre persone» (p. 62). Quanto alla difficoltà di ricondurre le pulsioni delle relazioni oggettuali a una fonte fisiologica, essa è senz'altro in parte dovuta allo stato delle nostre conoscenze (e alla più recente «scoperta» e interesse per il comportamento di attaccamento) piuttosto che ad una essenziale e concreta differenza tra il cosiddetto Es e le pulsioni dell'Io. Le prove del fatto che una stimolazione tattile e cenestesica sono necessarie per uno sviluppo psicologico e fisico normale suggeriscono qualcosa circa il substrato fisiologico che media le cosiddette pulsioni delle relazioni oggettuali. Quanto alla seconda parte della caratterizzazione proposta da Modell, anche «lo stimolo per la gratificazione» delle pulsioni sessuali «non nasce dall'interno dell'organismo», e anche la gratificazione delle pulsioni sessuali «richiede la presentazione di risposte specifiche da parte delle altre persone». È difficile capire la natura della distinzione suggerita. Probabilmente Modell ha in mente che la gratificazione sessuale può avvenire, per esempio, attraverso stimolazione orale e anale, attività masturbatorie, perversioni varie, e attività sia di spostamento che di sublimazione — nessuna delle quali sembra comportare necessariamente «la presentazione di risposte specifiche da parte di altre persone». Ad ogni modo, qualunque cosa abbia in mente, si può dire a questo proposito: 1) che la gratificazione sessuale normalmente comporta reazioni specifiche da parte di altre persone; 2) che anche per le «pulsioni delle relazioni oggettuali» si possono trovare prove di perversioni, di spostamenti e di sostituzioni paralleli. In realtà, si può affermare che taluni comportamenti sessuali devianti possono essere una risposta a bisogni propri delle relazioni oggettuali che non sono stati esauditi (cfr. Kohut, 1977).

Modell sembra essere stato spinto a queste insostenibili distinzioni dall'esame dei fenomeni delle relazioni oggettuali e dal tentativo di inserirli nel quadro di riferimento di L'Io e l'Es di Freud. Egli accetta l'antitesi di base per cui «solo l'Io è in contatto col mondo esterno e l'Es corrisponde a ciò che è interno all'organismo, isolato dal mondo esterno» (p. 66). Tuttavia, ciò che sappiamo sul comportamento sessuale e aggressivo suggerisce che si tratta di una distinzione insostenibile. Un tale comportamento sia nell'uomo che negli altri animali è fortemente influenzato da, e interagisce con, gli stimoli esterni.

Il tentativo di Modell di integrare relazioni oggettuali e teoria delle pulsioni incontra altre due difficoltà. Scrive Modell che «lo studio dei disturbi caratteriali borderline e narcisistici... ha confermato la tesi centrale di Freud secondo cui l'identificazione serve a mitigare l'intensità delle esigenze pulsionali» (p. 60). E in un passo successivo Modell osserva che per il paziente borderline che mostra degli insuccessi nel processo di identificazione e pertanto nel senso del Sé «gli affetti associati alla rabbia e all'amore sono esperiti con una tale intensità da indurre a un senso di annichilimento...» (p. 61). Secondo Modell, in breve, una delle principali conseguenze positive di un saldo senso di identità è un depotenziamento delle pulsioni dell'Es, mentre una delle principali conseguenze patogeniche del-l'insuccesso nella creazione di un Sé coesivo è l'esperienza di pulsioni ad un tale livello di intensità da indurre un senso di annichilimento. Qui vanno fatte alcune osservazioni.

Riguardo alla concezione freudiana del rapporto tra identificazione e pulsione, nel passo citato da Modell, Freud (1923) scrive: «Forse questa identificazione è l'unica condizione che consente all'Es di rinunciare ai propri oggetti» (vol. 9, p. 492). Il contesto di questo passo chiarisce che ciò che Freud aveva in mente qui è che l'identificazione del ragazzo col padre gli permette di abbandonare i desideri aggressivi verso il padre stesso e i desideri incestuosi verso la madre. Non si dice nulla sul fatto che l'identificazione serva specificatamente a tener sotto controllo le pulsioni.

Più importante, tuttavia, è che il modo esatto in cui l'identificazione dovrebbe tener sotto controllo le pulsioni non è affermato esplicitamente da Modell. Se egli pensa che un Sé coesivo permette un maggiore controllo delle pulsioni dell'Es e pertanto una perdita del senso di minaccia da tali pulsioni, allora è impreciso e fuorviante quando dice che l'identificazione serve a «mitigare l'intensità delle richieste pulsionali» o serve a «tener sotto controllo le pulsioni». Non si tratta di una maggiore o minore intensità di richieste pulsionali, ma di un Sé coesivo che si sente meno minacciato da richieste che provengono o dall'interno o dall'ambiente. Questo equivale a dire che una persona con un forte Io si sentirà meno minacciata dai processi e dalle richieste interne Più importante, tuttavia, è che l'idea che il senso di annichilimento provato dal paziente borderline e da altri pazienti affetti da gravi disturbi del Sé derivi dall'intensità delle pulsioni dell'Es (per usare i termini di Modell, «rabbia e amore... esperiti con [una tale] intensità») rispecchia una mescolanza e una confusione di psicologia del Sé e di psicologia delle pulsioni dell'Es.

A me sembra che questa confusione e questa mescolanza tra due quadri di riferimento sia generata da, e sia un esempio di, quel tentativo di «mettere insieme» la teoria freudiana di cui parla Gedo (1979). Abbiamo solide prove cliniche che indichino che il senso di annichilimento o, per dirla con Kohut, l'«angoscia di disintegrazione» derivi dall'intensità delle pulsioni o degli affetti? Oppure una tale formulazione è dettata dalla posizione teorica che afferma «un antagonismo primario» tra l'Io e l'Es (A. Freud, 1966)? Chi si rifà a questa concezione assumerà, basandosi su dati non-empirici, che l'esperienza dell'«angoscia di disintegrazione» o il senso di annichilimento derivino necessariamente dal fatto che l'Io è sopraffatto dalle pulsioni e dagli affetti che ne derivano. In realtà, la casistica clinica indica, in particolare tra le personalità schizoidi, nei casi di disturbi della personalità narcisistica e in alcuni stati borderline (i quali tutti presumibilmente presentano. disturbi del Sé) un senso di vuoto e di piattezza, nonché un'incapacità di esperire affetti intensi di qualsiasi tipo. La spiegazione più fedele all'evidenza clinica e alla fenomenologia di tali esperienze si avvicina probabilmente a quella proposta da Kohut (1977) e Fairbairn (1952), in particolare quella per cui il senso di annichilimento provato da soggetti privi di Sé coesivo è generato non dall'intensità delle pulsioni, bensì da qualsiasi esperienza tale da provocare un'angoscia che porta in primo piano il senso di un Sé non intatto. Prima fra le situazioni che generano questa angoscia e di conseguenza un senso di annichilimento in questi soggetti è il trovarsi separati o privi del supporto di un importante oggetto di sostegno, o il trovarsi alla mercé di un oggetto persecutorio interiorizzato.

Consideriamo per esempio la sindrome dell'agorafobia, in particolare quando assume la forma familiare di paure persistenti e molteplici nelle quali è esperito un certo grado di angoscia in praticamente tutte le situazioni, e nella quale l'intensità dell'angoscia può essere considerata funzione della distanza dalla sicurezza data dalla propria casa e della presenza o assenza di una figura di sostegno. Sotto l'impatto di una sempre crescente conoscenza ed esperienza clinica, le prime formulazioni psicoanalitiche, che si incentravano prevalentemente sulle pulsioni sessuali (per esempio le fantasie del camminare per la strada, in Freud [1887-1902]) e sulle pulsioni aggressive (per esempio ostilità verso il compagno necessario, in Deutsch [1932]), hanno lasciato il posto alla consapevolezza che l'ago- rafobico multiplo cronico mostra prevalentemente gravi problemi relativi alla separazione-individuazione e prova un'incapacità di sopravvivere senza la presenza di oggetti-Sé di sostegno18. L'«angoscia di disintegrazione» o senso di annichilimento esperito da chi è affetto da agorafobia grave non è funzione di impulsi sessuali e aggressivi intensi che si presume lo assalgano quando è lontano dalla sicurezza data dalla propria casa, ma si spiega piuttosto attraverso il fatto che una persona che non ha raggiunto una adeguata individuazione e una adeguata capacità di separarsi sente di non poter sopravvivere senza la presenza di oggetti-Sé animati e inanimati, fattuali e .simbolici. L'agorafobico deve anche affrontare il pericolo rappresentato dall'altra faccia del conflitto, e cioè i desideri di fusione regressiva e simbiotica che minacciano anch'essi l'integrità del Sé. Sicché egli rimane spesso in uno stato cronico di angoscia anche quando non è di fronte alla situazione agorafobica (per un ulteriore esame di questo argomento cfr. Eagle, 1979).

Il tentativo di Modell di integrare il modello freudiano di L'Io e l'Es con le successive scoperte delle relazioni oggettuali non funziona innanzitutto perché egli in realtà interpreta le seconde a partire dal punto di vista tradizionale del primo. In altre parole, benché Modell riconosca che le esperienze relative alle relazioni oggettuali, indipendenti dalla gratificazione delle pulsioni dell'Es, siano di importanza critica nella formazione di quell'aspetto dell'Io che comprende il senso del Sé (diversamente da Kohut, Modell considera il senso del Sé un aspetto dell'Io), le funzioni principali che egli sembra attribuire a questo senso del Sé sono il controllo, il depotenziamento e la modulazione delle pulsioni dell'Es. Da questa posizione deriva che la psicopatologia associata a relazioni oggettuali disturbate e ad uno sminuito senso del Sé deve essere intesa prevalentemente in termini di insuccesso dell'Io nel controllare, domare e modulare le pulsioni dell'Es. Di conseguenza, un sintomo specifico di questo tipo di psicopatologia, quale il senso di annichilimento, è considerato essere indotto da una richiesta pulsionale eccessivamente intensa e da «affetti associati alla rabbia e all'amore» eccessivamente intensi.

In breve, benché riconosca i nuovi fenomeni delle relazioni oggettuali e la sfida che essi costituiscono, Modell interpreta la psicopatologia delle relazioni oggettuali e del Sé all'interno del quadro di riferimento del modello tradizionale, nel quale il principale pericolo psicologico per la persona deriva dall'intensità delle pulsioni dell'Es. Non si tratta dunque di integrazione, ma di incorporazione. E d'altra parte non l'integrazione (e neppure le modificazioni della teoria che rispecchiano in modo più preciso le ultime scoperte e conoscenze) ma solo l'incorporazione è possibile nella misura in cui ci si attiene alla posizione teorica secondo cui la minaccia principale per la persona è rappresentata dalle pulsioni dell'Es. Da questo punto di vista teorico, la minaccia psicologica più terribile di fronte alla quale può trovarsi una persona — il senso di disintegrazione e di annichilimento del Sé — è visto come un pericolo ancor più arcano e fondamentale, vale a dire come delle pulsioni dell'Es intense.

Sebbene Modell non sia riuscito a integrare la teoria tradizionale con le formulazioni più recenti, il suo reale contributo è stato quello di aver affrontato direttamente il fatto che il paradigma centrale Es-Io è messo in crisi gravemente dalle relazioni oggettuali e dai fenomeni del Sé. Ma veniamo ora alla più grossa sfida di recente posta al modello psicoanalitico tradizionale dell'Es-Io.

LA TEORIA BIFATTORIALE: IL RIFIUTO DI KOHUT DEL MODELLO ES-IO

L'opera di Kohut può essere considerata sia una teoria bifat- toriale nella quale si cerca di completare la teoria tradizionale con una psicologia del Sé, sia una psicologia del Sé onnicomprensiva che intende sostituire il modello psicoanalitico del- l'Es-Io. I suoi primi lavori sono caratterizzati dalla prima tendenza, la sua opera successiva e quella dei suoi seguaci sono caratterizzate dalla seconda. Il lavoro sui disturbi delle personalità narcisistiche ha portato Kohut a formulazioni cliniche e teoriche nelle quali il tradizionale primato delle pulsioni instin- tuali sessuali è sostituito dal maggiore rilievo dato alla psicologia del Sé e alle relazioni oggettuali.

In senso lato, il principale punto di distacco teorico di Kohut dalla teoria jradizionale[ISrdai0--diIIK-S.ua_^ffermazione di una linea di sviluppo narcisistico autonoma, indipendente dallo sviluppo psicosessuale e dell'Io 19 e precedente rispetto ad esso. Kohut ha posto l'accento soprattutto sul raggiungimento e lo sviluppo di un Sé coesivo. Egli ha affermato che questo aspetto O questa dimensione della çrescita psi col rigira, che egli chiama linea di sviluppo narcisistico, è centrale, e va considerata come del tutto distaccata dall'accentuazione tradizionale sulle sequenze psicosessuali o anche dello sviluppo dell'Io. Anzi, riguardo a quest'ultimo, per Kohut l'esperienza di un Sé unitario è una precondizione importante per un adeguato funzionamento dell'Io.

Prima di intraprendere una discussione critica dell'opera di Kohut sarà utile riassumere alcune delle principali idee concernenti lo sviluppo di un Sé coesivo. Secondo la formulazione di Kohut, che non è essenzialmente diversa da altre concezioni simili (p. es. Freud [1914]; Mahler [1968]), la prima fase della linea dello sviluppo narcisistico è quella dell'autoéroti- smo20, nella quale esistono solo un «Sé frammentato» e dei «nuclei del Sé». Successivamente, «la reazione esultante della madre al bambino considerato nella sua totalità [...] sostiene, nella fase appropriata, l'evoluzione dall'autoerotismo al narcisismo — dallo stadio del Sé frammentato [...] allo stadio del Sé coesivo» (1971, p. 121).

In qualche punto lungo la linea dello sviluppo, la «perfezione assoluta» che si considera essere esperita dal neonato (e che, presumo, ha un qualche rapporto con i concetti di onnipotenza infantile e di unione simbiotica) è scossa dalle inevitabili carenze delle cure materne. Tuttavia, l'«equilibrio del narcisismo primario» del bambino è ora mantenuto grazie allo sviluppo di un Sé grandioso ed esibizionista e «trasferendo la perfezione precedente ad un oggetto-Sé ammirato e onnipotente (transizionale): l'imago parentale idealizzata» (1971, p. 33).

Sia il rispecchiamento iniziale che l'idealizzazione successiva facilitano il fluido sviluppo della normale e necessaria fase narcisistica della grandiosità e dell'esibizionismo e la formazione di una «imago parentale idealizzata». L'esperienza della grandiosità e la disponibilità di una immagine idealizzata permettono al bambino di sentirsi potente e pieno, invece che impotente e vuoto, di fronte alle inevitabili carenze e frustrazioni della realtà. E fintantoché è mantenuta l'unione con questi oggetti-Sé, il bambino si sente potente, pieno, e sicuro, invece che impotente, vuoto e insicuro.

Nello sviluppo normale, soprattutto attraverso il rispecchiamento empatico e le possibilità di idealizzazione genitoriale, questa grandiosità e questo esibizionismo arcaici vengono depotenziati, modulati e trasformati in un «sano narcisismo », quale si manifesta in un Sé coesivo, in una adeguata regolazione del- l'autostima e nello sviluppo di ambizioni, valori e ideali. Nello sviluppo patologico, che è soprattutto conseguenza di carenze nel fornire rispecchiamento e opportunità di idealizzazione, la coesività del Sé non viene adeguatamente stabilita, la grandiosità e l'esibizionismo arcaici permangono, e «la psiche continua ad aggrapparsi a un'imago vagamente definita di perfezione assoluta...» (1971, p. 71).

Un aspetto fondamentale della linea di sviluppo narcisistico è la natura mutevole delle relazioni oggettuali. Nel corso delle prime fasi il bambino si rapporta agli altri non quali altri distinti, ma quali oggetti-Sé. In-altre parole, ci si affida all'oggetto- Sé per svolgere delle funzioni psicologiche vitali quali la regolazione della tensione, il mantenimento della coesività del Sé e la regolazione dell'autostima. Nello sviluppo normale vi è un graduale abbandono del ricorso agli oggetti-Sé e una crescente capacità di svolgere da soli le funzioni psicologiche vitali. La persona mostra una capacità sempre maggiore di esperire gli altri quali altri distinti e quali oggetti di gratificazione pulsionale. Nello sviluppo patologico la persona continua invece a reagire agli altri quali oggetti-Sé e ad affidarsi ad essi per svolgere quelle funzioni psicologiche che normalmente svolgerebbe da sola. Ancora più importante è che si guarda agli altri per il mantenimento della coesività del Sé e per la regolazione dell'autosti- ma. Inoltre, senza la sensazione di unione con l'oggetto-Sé idealizzato, la persona si sente vuota, impotente e vulnerabile all'«angoscia di disintegrazione». Questi soggetti — afferma Kohut — soffrono di disturbi della personalità narcisistica e, nel trattamento, si rapportano anche al terapeuta come un og- getto-Sé nel contesto di un transfert di rispecchiamento e di idealizzazione (in altre parole, in rapporti che ricalcano le prime esperienze traumatiche di rispecchiamento e di idealizzazione con i genitori).

Secondo Kohut, la formazione di un Sé coesivo e la crescita generale delle strutture psichiche avviene attraverso un processo che egli chiama di «interiorizzazione trasmutante». Kohut non è molto chiaro su cosa intende con questo termine, ma da ciò che si può cogliere dai suoi scritti l'ipotesi di base è che le strutture interne si formino in qualche modo attraverso un ritiro dell'investimento narcisistico (egli non specifica in che cosa consista) dalle immagini degli oggetti-Sé e attraverso un qualche successivo processo di interiorizzazione. Una delle con-seguenze più importanti di questo processo di interiorizzazione per lo sviluppo e per la formazione di strutture psichiche interne è il fatto che ora il bambino è in grado di effettuare da solo funzioni per svolgere le quali precedentemente si affidava al-l'oggetto — funzioni che comprendono valutazione di realtà, senso di coesione del Sé e regolazione dell'autostima.

Mentre nel suo primo lavoro Kohut (1971) presentava il proprio concetto del Sé come componente dell'Io, nella sua opera successiva (1977) il_Sé è presentato come una struttura di ordine superiore, con pulsioni e difese come componenti di ordine interiore. Così, secondo Kohut, né le fissazioni delle pulsioni né le carenze dell'Io sono primarie. Piuttosto, «è il Sé del bambino che [...] non si è stabilito in modo saldo, ed è il Sé indebolito e tendente alla frammentazione che [...] si volge difensivamente a mete di piacere, attraverso la stimolazione di zone erogene; e poi, secondariamente, determina l'orientamento pulsionale orale (e anale) e l'asservimento dell'Io alle mete pulsionali correlate alle zone corporee stimolate» (1977, p. 79) (come vedremo, questa concezione è identica a quella di Fairbairn [1952]). Altrove Kohut nota che «sin dall'inizio, l'esperienza pulsionale è subordinata all'esperienza che il bambino fa della relazione tra il Sé e gli oggetti-Sé» (1977, p. 84). Per esempio Kohut considera la distruttività «non come la manifestazione di una pulsione primaria [...] ma come un prodotto di disintegrazione, primitivo, ma non psicologicamente primario» (1977, p. 112). La rabbia distruttiva «...è sempre motivata da una ferita al Sé» (1977, p. 113) (questo è un tema centrale affermato da Rochlin [1973], ma Kohut non fa alcun accenno all'opera di questo autore). In generale, Kohut afferma che esiste una discrepanza concettuale tra la gratificazione della pulsione e altri aspetti del maternage, là dove nota che una madre può soddisfare ogni esigenza pulsionale del bambino e cionondimeno esporlo a esperienze traumatiche se non gli fornisce «risposte di ammirazione e conferma e approvazione», nonché «empatia materna» (p. 83). Qui vediamo Kohut sostenere chiaramente ed esplicitamente una posizione teorica nella quale le pulsioni sono secondarie rispetto a considerazioni del Sé e delle relazioni oggettuali — una posizione che è l'opposto di quella freudiana classica.

Forse la definizione più chiara del concetto di funzionamento psicologico di Kohut è espressa nella sua descrizione di quello che dovrebbe accadere prima che abbia termine il trattamento di una persona affetta da disturbi della personalità narcisistica. Secondo Kohut, questa condizione è rispettata «quando [il trattamento] è riuscito a stabilire un settore, nell'ambito del Sé, attraverso cui un flusso ininterrotto di moti narcisistici può procedere verso una espressione creativa [...]. Un tale settore, inoltre, include sempre un modello centrale di esibizionismo e di ambizioni grandiose, un insieme di ideali di perfezione saldamente interiorizzati, e un sistema correlato di attitudini e capacità che mediano tra l'esibizionismo, le ambizioni e la grandiosità da un lato, e gli ideali di perfezione dall'altro» (1977, p. 62). Tra gli altri aspetti di un sano funzionamento osservati da Kohut rientrano il proseguimento dello sviluppo della struttura del Sé — attraverso «interiorizzazioni trasmutanti» — in modo tale che la coesività del Sé e l'autostima non siano collegate intensamente e totalmente all'oggetto-Sé ipervalutato e idealizzato; la capacità di rapportarsi agli altri in quanto altri completamente separati; la capacità di un «Sé investito in modo più saldo e soddisfacente» di «diventare, in maniera calma e rilassata, il centro e il coordinatore di attività rivolte verso l'oggetto liberando queste ultime dal peso di dover essere intraprese al servizio di bisogni narcisistici inseguiti difensivamente per il rafforzamento dell'autostima» (1977, p. 52).

Per Kohut, nel trattamento questi cambiamenti avvengono non attraverso l'interpretazione e l'insight, ma «in conseguenza delle interiorizzazioni graduali che sono prodotte dal fatto che le esperienze antiche sono rivissute ripetutamente dalla psiche più matura» (1977, p. 43). Più specificamente, il ruolo principale del terapeuta è quello di fungere da oggetto-Sé (nel contesto del transfert di rispecchiamento e di idealizzazione che inevitabilmente si stabilisce), e di permettere così la ripresa dello sviluppo della struttura del Sé traumaticamente interrotto. In altri termini, il paziente utilizza il terapeuta come oggetto-Sé per sostituire le proprie strutture psicologiche poco sviluppate. Gradualmente, secondo Kohut, il paziente attenua il proprio investimento narcisistico sul terapeuta e interiorizza gli aspetti di alleviamento dell'angoscia, di sopportazione della procrastinazione e altri aspetti realistici dell'immagine del terapeuta.

Da quanto appena detto dovrebbe apparire chiaro in che misura Kohut sostiene che la linea di sviluppo narcisistico è distinta, con proprie caratteristiche specifiche per ciascuna fase, e del tutto indipendente — se non precedente — dalle vicissitudini delle pulsioni, dello sviluppo psicosessuale e dello sviluppo dell'Io. Per Kohut i traumi in questa sfera — soprattutto precoci carenze di rispecchiamento empatico e di opportunità di idealizzazione — conducono a disturbi specifici del Sé. Implicita negli scritti di Kohut è l'affermazione che la salute psicologica non può essere adeguatamente e pienamente descritta senza tener conto del comportamento e del funzionamento nella sfera narcisistica. Sembrerebbe che per Kohut non si possa essere veramente in contatto con le «fonti profonde» della propria grandiosità e del proprio esibizionismo senza lo sviluppo di forti valori e ideali, ivi compresi gli ideali di perfezione. Queste sono le qualità che Kohut sottolinea nel suo concetto di funzionamento ottimale; relativamente sottovalutati sono invece quei tradizionali obiettivi psicoanalitici quali la capacità di provare soddisfazione e piacere da una gratificazione spontanea della pulsione, la capacità di funzionamento genitale e l'esperienza di reciprocità e intimità nelle relazioni oggettuali.

Gamma di applicabilità delle formulazioni di Kohut

Dato che le descrizioni e le formulazioni di Kohut sono presentate soprattutto in rapporto ai disturbi della personalità narcisistica, una domanda che nasce è quale sia la loro gamma di applicabilità. Sono pertinenti, per esempio, a una comprensione della nevrosi, che, dopotutto, ha fornito i dati principali alla teoria freudiana e alla quale dovevano prevalentemente ap-plicarsi? Qui la posizione di Kohut è piuttosto ambigua e ambivalente. E questa ambiguità e ambivalenza sono espresse in svariati modi.

Da un lato, in particolare nelle sue prime opere, Kohut presenta una teoria bifattoriale basata sullo sviluppo e uno schema di suddivisione nel quale si vuole applicare una psicologia del Sé ai primi periodi e alla linea di sviluppo narcisistico, mentre la teoria tradizionale del conflitto delle pulsioni è applicata ai periodi edipici successivi. Per quanto riguarda la patologia, in questo schema una psicologia del Sé è intesa come pertinente ai disturbi del Sé (quali i disturbi della personalità narcisistica), mentre la psicologia delle pulsioni è applicabile alle «nevrosi strutturali». Il primato della pulsione per le nevrosi e quello della psicologia del Sé per i disturbi del Sé si riscontra anche là dove Kohut oppone una classe di angosce nella quale la paura di base è quella della disintegrazione del Sé a un'angoscia nevrotica nella quale, data la formazione di un Sé più o meno coesivo, il timore predominante è nei confronti di situazioni di pericolo che presumibilmente comportano un'espressione della pulsione stessa.

Secondo questo schema, nel corso dei primi periodi di sviluppo le sfide predominanti legate allo sviluppo hanno a che vedere soprattutto con temi quali la creazione di un saldo Sé coesivo, la regolazione dell'autostima (il mantenimento del-l'«equilibrio narcisistico»), inclusi il superamento e la trasformazione della grandiosità e dell'esibizionismo arcaici, nonché la trasformazione dei rapporti con gli oggetti-Sé, ai quali ci si riferisce in quanto altri distinti da sé. Una volta che queste prime sfide siano state affrontate con relativo successo, la persona affronterà temi che hanno a che fare con la gratificazione delle pulsioni, il coinvolgimento istintuale con oggetti del periodo edipico, il conflitto intrapsichico tra strutture presumibilmente intatte. Nei soggetti che non sono riusciti a costituire una struttura del Sé più o meno integra, la patologia si incentra su temi legati ai disturbi del Sé e intorno alle strutture compensatorie e difensive erette in risposta a questo insuccesso. In coloro che hanno sviluppato un Sé coesivo, la patologia assume la forma di «nevrosi strutturali» che comportano soprattutto un conflitto tra strutture relativamente integre e temi pulsionali edipici.

Ciò significa che mentre soggetti con disturbi del Sé tenderanno a lottare prevalentemente con temi quali l'autostima, le fantasie di fusione con oggetti-Sé onnipotenti, l'angoscia di disintegrazione, la grandiosità e l'esibizionismo, l'incapacità di sviluppare valori interiorizzati, il senso di isolamento e il vuoto, la pseudo-autosufficienza e la rabbia distruttiva a seguito di ferite al narcisismo, i pazienti nevrotici dovranno probabilmente lottare con temi quali i conflitti relativi a impulsi sessuali e aggressivi, il senso di colpa, l'angoscia di castrazione, un eccessivo coinvolgimento con immagini genitoriali che interferisce col conseguimento della vicinanza nei rapporti attuali, l'incapacità di raggiungere l'appagamento sessuale e la paura di imporsi e di avere successo. In altre parole, chi è stato abbastanza fortunato da costituire strutture del Sé integre può, per così dire, permettersi di coinvolgersi prevalentemente con temi edipici più avanzati in termini di sviluppo, nei quali i conflitti intorno alle pulsioni e alla gratificazione delle pulsioni sono primari; in chi invece non è riuscito a creare strutture del Sé integre, le lotte principali verteranno sulla coesività del Sé, come si esprime nelle fantasie di fusione, nell'angoscia di disintegrazione e così via.

Quali che siano i problemi che solleva, la concezione di Kohut costituisce un chiaro schema bifattoriale o di suddivisione nel quale una psicologia del Sé è intesa come applicabile ai primi periodi dello sviluppo, mentre la teoria psicoanalitica tradizionale è relegata a periodi successivi dello sviluppo stesso (Kohut [1977] chiama erroneamente questo schema «principio di complementarità»). Tuttavia, in particolare negli ultimi scritti, Kohut mostra di avere ambizioni più imperialistiche, on-nicomprensive, a proposito della sua psicologia del Sé — vale a dire che essa è intesa avere un'applicabilità universale, del tutto indipendente dalla classificazione nosologica.

Per esempio, l'affermazione che «... sin dall'inizio, l'esperienza pulsionale è subordinata all'esperienza che il bambino fa della relazione tra il Sé e gli oggetti-Sé» (1977, p. 84) intende descrivere manifestamente un fatto generale relativo allo sviluppo psichico senza alcun riferimento a questa o a quella categoria diagnostica. Oppure, per fare un altro esempio, l'affermazione di Kohut secondo cui la distruttività non è la manifestazione di una pulsione primaria, bensì un «prodotto di di-sintegrazione» è anch'essa un'affermazione di carattere generale. In entrambe queste (e altre) asserzioni Kohut sembra dire che, generalmente parlando, le pulsioni e la gratificazione delle pulsioni non sono fattori primari nello sviluppo, ma sono subordinate a considerazioni del Sé e delle relazioni oggettuali. In un altro passo Kohut afferma chiaramente che «le anormalità delle pulsioni e dell'Io sono le conseguenze sintomatiche di questo difetto centrale del Sé» (1977, p. 85). Quest'affermazione è di un'estrema generalità e non sembra essere affatto limitata ai disturbi della personalità narcisistica.

Ciò che Kohut propone in queste righe è che in tutti i pazienti le prime esperienze relative alle relazioni oggettuali, che hanno poco se non niente a che fare con la gratificazione delle pulsioni, svolgono il ruolo determinante nello sviluppo della per-sonalità e delle strutture del Sé. Si tratta di un'affermazione che si riferisce allo sviluppo generale, indipendentemente dalla classificazione nosologica. E in effetti la patologia particolare che si sviluppa nell'età adulta — ivi compresa la domanda se problemi o disturbi edipici nel Sé saranno fattori primari nella patologia stessa — sarà determinata in misura significativa da queste prime esperienze non-pulsionali. Una chiara implicazione, allora, delle concezioni di Kohut è che nel primo periodo di sviluppo — periodo della massima importanza per il destino delle strutture del Sé — ogni considerazione sulle pulsioni e la gratificazione delle pulsioni non è particolarmente rilevante. Da notare che anche quando Kohut propone una teoria bifattoriale la sua concezione del primo sviluppo e dei fattori che svolgono un ruolo determinante nel primo sviluppo è diametralmente opposta alla tradizionale concezione freudiana.

Questo passaggio da una teoria bifattoriale a rivendicazioni più onnicomprensive per la psicologia del Sé lo si riscontra anche nella trasformazione che il concetto di Sé ha subito dai primi ai successivi scritti di Kohut. Nel primo lavoro (1971) il Sé è concepito come una componente della struttura dell'Io, mentre nel suo pensiero successivo (1977) il Sé è presentato come una struttura di ordine superiore con pulsioni e difese che sono, al massimo, sue componenti costituenti.

Oltre a ciò, come ho sostenuto altrove (Eagle, 1982), lo schema di suddivisione nel quale la nevrosi è assegnata alla teoria tradizionale (con la sua accentuazione delle pulsioni sessuali e aggressive, del «conflitto strutturale» e dei problemi edi-pici) e i disturbi del Sé sono attribuiti alla psicologia è ben lungi dall'essere presentato in modo non ambiguo. In primo luogo, come è stato osservato, in certi passi Kohut suggerisce che le difficoltà relative al sesso e all'aggressività siano spesso, se non sempre, subordinate a temi relativi al Sé e al rapporto tra il Sé e gli oggetti-Sé. Inoltre, Kohut considera il conflitto edipico sia come un risultato ottenuto nello sviluppo (che contrassegna la capacità di interessarsi sessualmente alle persone quali altri distinti), sia come fonte di patologia, e si chiede se il complesso edipico così come è inteso nella concezione classica «non sia di fatto già la manifestazione di uno sviluppo patologico» (1977, p. 218). In terzo luogo, una vasta gamma di comportamenti considerati in un dato modo dalla teoria tradizionale può essere vista, ed è vista da Kohut e dai suoi seguaci, come segno di disturbi del Sé.

Rangell (1980) ha notato che la maggior parte, se non tutti i fenomeni clinici descritti da Kohut e dai suoi seguaci, sono stati incontrati da molti analisti, che li hanno esaminati all'interno della gamma della patologia nevrotica, piuttosto che come elementi che richiedono la creazione di una categoria distinta. Il fatto è che è possibile considerare un'ampia gamma di comportamenti e di esperienze patologiche come indici di disturbi del Sé. Se questo è vero, è molto probabile che la psicologia del Sé di Kohut sia essenzialmente intesa come un nuovo modo di guardare la patologia, piuttosto che come un mezzo di chiarificazione di una specifica categoria della patologia, ossia i disturbi del Sé21. In ogni caso, quand'anche fosse inteso in quest'ultimo senso più ristretto. Kohut ci dire rhe snnn proprio i disturbi del Sé ad essere oggi diffusi per via di presunti cam- biamenti nella struttura familiare e nell'interazione genitori-figli. Ne consegue che il paziente-tipo di oggi soffre probabilmente di una patologia del Sé e che non bisogna aspettarsi di trovare troppi pazienti i cui problemi siano capiti e meglio affrontati tramite la teoria tradizionale. La teoria bifattoriale e lo schema di suddivisione equivalgono allora, come ho sostenuto altrove, ad offrire «uno schema di suddivisione nel quale a un compartimento è assegnato un valore quasi zero» (Eagle, 1983).

Il conflitto presente in Kohut tra la formulazione di una teoria bifattoriale — che costituisce quella che Mitchell (1979) definisce una «forma psicoanalitica di ecumenismo» — e l'ambizione più «imperialistica» di una sostituzione generalizzata della teoria tradizionale con la psicologia del Sé trova espressione sia nelle contraddizioni logiche, sia nell'incapacità di definire le implicazioni logiche della propria posizione. Riguardo al primo problema, Mitchell pone la seguente domanda: «Se le pulsioni sono prodotti di disintegrazione che rispecchiano un crollo delle primitive configurazioni relazionali, come possono le ' nevrosi strutturali ' contenere e allo stesso tempo non contenere patologie del Sé e conflitti riguardanti pulsioni che, ner definizione, rispecchiano una grave patologia del Sé?» (p. 181).

Quanto alla incapacità di definire le implicazioni logiche, se è vero — come sostiene Kohut — che le forme patologiche scivolano sempre più in direzione dei disturbi narcisistici, che la psicologia del Sé è l'unica adeguata a questi fenomeni, mentre la teoria tradizionale del conflitto intrapsichico è inadeguata, ne consegue che in un tempo relativamente breve la psicologia del Sé sostituirà completamente la teoria tradizionale. Dalla premessa originaria consegue anche — un po' retroattivamente — che, come affermavano i precedenti critici «culturali» neofreudiani, la validità e l'applicabilità della teoria psicoanalitica tradizionale sono legate alla cultura e a un'epoca, nonché a particolari tipi caratteristici, e non, come invece afferma Freud, fuori dal tempo e universali. Kohut e altri hanno omesso di chiarire questa implicazione.

Per finire, non sembra che perlomeno alcuni dei seguaci di Kohut condividano lo schema di suddivisione secondo cui la teoria tradizionale è applicabile alla patologia nevrotica, mentre il regno della psicologia del Sé è quello delle patologie del Sé più gravi e pre-edipiche. Così Goldberg (1973) sostiene che «non si possono correlare i disturbi narcisistici ai disturbi precoci primitivi o più gravi», e continua affermando che «i disturbi del narcisismo vanno dalla psicosi [...] ai disturbi lievi della vita di ogni giorno» (p. 28). Questo accresce il sospetto che almeno alcuni dei seguaci di Kohut abbiano sempre considerato la sua psicologia come un modo di guardare ad una vasta gamma di patologie, o magari a una dimensione o un aspetto di tutte le patologie, piuttosto che come punto di vista limitato alla personalità narcisistica e ai disturbi correlati, e complementare alla teoria tradizionale. In un certo senso, Goldberg elabora le implicazioni della psicologia del Sé di Kohut più appieno di quanto non faccia Kohut stesso. Se si afferma l'esistenza di una linea dello sviluppo narcisistico quale dimensione base della personalità, separata e distinta dallo svi-luppo psicosessuale e dell'Io, c'è da aspettarsi l'affermazione che le conquiste dello sviluppo, come pure i disturbi, percorreranno, per così dire, tutta la scala dal meno al più. Come dice Goldberg, «se il narcisismo è una linea di sviluppo separata e distinta dall' amore e (dall'odio) per l'oggetto, allora ha i propri stadi di sviluppo e le proprie manifestazioni di disturbo» (p. 28).

Dato che il «successo» in tutte le aree dello sviluppo e del funzionamento della personalità è sempre relativo, sempre una questione di grado, sempre funzione delle circostanze della vita e delle esigenze della situazione, è probabile che tematiche che hanno a che fare con l'integrità delle strutture del Sé appariranno anche nella patologia e nel trattamento delle «nevrosi strutturali» (come vedremo più oltre, questo è stato affermato da Gedo nel 1980). Su questo punto Kohut è elusivo. Da una parte suggerisce che l'integrità delle strutture del Sé non è importante per il trattamento della nevrosi. Dall'altra, suggerisce che questo tema si manifesterà in tutte, o almeno in molte analisi, quando vengono raggiunti i «livelli più profondi». Quest'ultimo concetto implica che in alcuni soggetti traumatizzati e disturbati i temi relativi al Sé saranno primari e immediatamente preminenti. Per altri, le cui vicende di sviluppo sono state più fortunate, questi problemi non emergeranno, ma appariranno essere alla base dei sintomi e delle difese più nevrotici quando saranno raggiunti i «livelli più profondi» di analisi. Come vedremo, questa è appunto la posizione di Fairbairn (1952) e di Guntrip (1968), i quali sostengono che i temi fondamentali e ultimi di ogni patologia hanno a che vedere con una mancanza di senso intatto del Sé, piuttosto che con pulsioni sessuali e aggressive. Benché Kohut non assuma in modo chiaro ed esplicito questa posizione, essa — come è stato notato — è implicita in alcune sue formulazioni.

Il concetto d'angoscia in Kohut

L'ambiguità di Kohut riguardo alla gamma di fenomeni e di patologie per la quale egli propone che si applichino le sue formulazioni si riflette anche nel suo esame dell'angoscia. Innanzitutto egli parla chiaramente di due classi di angoscia: la prima «comprende le angosce sperimentate da una persona il cui Sé è più o meno coesivo; sono paure di situazioni di pericolo specifico (Freud 1925); l'enfasi dell'esperienza ricade sostanzialmente sul pericolo specifico e non sulle condizioni del Sé». La seconda classe d'angosce «comprende le angosce sperimentate da una persona che sta acquisendo coscienza del fatto che il suo Sé si va disintegrando» (p. 102). Kohut osserva poi che quando Freud (1923, vol. 9, p. 519) parla del «pericolo presentato dalla libido» quale «paura di essere sopraffatto, annientato» e di «eccessiva intensità degli eccitamenti» (1926, vol. 10, p. 244), e quando Anna Freud parla di un certo tipo di angosce (timore degli istinti) dovuta alla «paura della forza degli istinti», si tratta di «tentativi di trovare una formulazione dell'angoscia di disintegrazione all'interno della struttura della psicologia dell'apparato mentale classico» (p. 103). Secondo Kohut, il tipo d'angoscia sopraffacente nella quale si prova paura dell'annichilimento è non una paura della pulsione, non un «pericolo rappresentato dalla libido», ma un'«anticipazione del crollo del Sé» (p. 103).

A mio avviso Kohut ha ragione di chiedersi se il modo più significativo di considerare l'angoscia sopraffacente sia quello di vederla come «pericolo rappresentato dalla libido ». Egli è senz'altro nel giusto anche nelle sue osservazioni cliniche riguardo alle diverse intensità dell'angoscia (sto qui traducendo le due sue classi d'angoscia in gradi diversi dell'angoscia stessa). Il problema è di vedere se la sua analisi della natura dell'angoscia vada sufficientemente in profondità. La domanda che egli omette di porre è in che senso qualsiasi classe o grado d'angoscia sia specificamente un pericolo rappresentato dalla libido. Ci sono almeno due modi in cui può essere interpretato questo «pericolo rappresentato dalla libido». Da una parte, ciò che Freud sembra intendere con «pericolo rappresentato dalla libido» è la punizione esterna alla quale sono associati i desideri istintuali, mentre dall'altra parte questa frase può essere interpretata come riferentesi al pericolo di una eccessiva eccitazione portata dalla pulsione.

Secondo il primo modello, il legame tra pulsione e angoscia è tale che un desiderio istintuale fa scattare un'attesa della punizione (per via di passate associazioni tra il desiderio istintuale e la punizione effettiva o minacciata), in particolare di punizioni che comportino situazioni di pericolo quali perdita dell'oggetto, perdita dell'amore dell'oggetto, angoscia di castrazione e disapprovazione del Super-io. È la previsione di queste situazioni di pericolo a costituire l'angoscia. Prendiamo l'angoscia di castrazione. In che senso essa è un «pericolo rappresentato dalla libido»? Benché l'angoscia di castrazione sia la con-seguenza di desideri libidici (incestuosi) e aggressivi, essa non è di per sé, perlomeno in nessun senso manifesto, un «pericolo rappresentato dalla libido» — vale a dire una minaccia diretta trasportata dall'impulso stesso. È piuttosto paura della punizione sotto forma di mutilazione effettuata da un ente esterno (e successivamente interiorizzata). Lo stesso vale per la perdita dell'oggetto e la perdita dell'amore dell'oggetto. Se questi pericoli possono derivare da, o seguire a, desideri libidici e aggressivi, sono essenzialmente punizioni esterne che inizialmente devono essere effettuate da una fonte esterna.

Dagli esempi citati consegue che l'angoscia che circonda gli impulsi libidici e aggressivi è esclusivamente una questione di Proibizioni imposte dall'esterno (dalla società), e che se non fosse per tali proibizioni — se la società e l'educazione fossero Più permissive, per esempio — non vi sarebbe alcuna o poca angoscia associata ai desideri libidici e aggressivi. Per quanto plausibile e frequente sia questa interpretazione della teoria freudiana dell'angoscia, essa a mio avviso è essenzialmente inesatta o almeno incompleta.

Mentre è vero che l'interiorizzazione delle proibizioni e delle punizioni esterne rende la persona suscettibile all'angoscia e al senso di colpa, secondo la logica della teoria freudiana delle pulsioni l'assenza di punizioni esterne non renderebbe necessariamente benigni i desideri libidici e aggressivi, né eliminerebbe il loro potenziale di creazione d'angoscia. Anna Freud (1966) chiarisce questo punto quando parla dell'angoscia istintuale come di una «paura della forza degli istinti» (pp. 67 sgg). Nella misura in cui si ritiene che gli istinti comportino sempre la possibilità di una eccessiva eccitazione dannosa per l'Io, secondo la logica della teoria delle pulsioni essi sono il nemico naturale dell'Io — e questo del tutto indipendentemente da particolari proibizioni e punizioni di natura culturale e sociale.

Dato che le pressioni istintuali non possono essere risolte con la lotta o con la fuga (non si può fisicamente vincere o fuggire dai propri desideri), esse sono particolarmente suscettibili di costituire il pericolo teoricamente massimo di un eccita-mento eccessivo, con conseguenti danni per l'Io, e rappresentano pertanto il nemico naturale dell'Io. Passo in rassegna tutti questi elementi della teoria freudiana per affermare che ciò che Kohut (e gli altri) trascurano è che per Freud l'elemento invariante e la minaccia ultima rappresentata da tutte le forme di angoscia è l'eccitazione eccessiva. Così ciò che la castrazione, la perdita dell'oggetto e la perdita dell'amore dell'oggetto hanno in comune è che lasciano la persona senza possibilità di scarica istintuale, pongono l'organismo di fronte alla potenzialità di una eccitazione eccessiva, e pertanto costituiscono il pericolo ultimo di danno per l'Io22. In altri termini, rappresentano il pericolo di una situazione traumatica nella quale si prova una completa impotenza di fronte a un'eccitazione intensa e nella quale la mi-naccia fondamentale è il danno per l'Io.

È questa eccitazione eccessiva e la connessa minaccia di danno per l'Io a costituire il pericolo fondamentale per l'organismo, non gli impulsi e le richieste istintuali di per sé. In realtà, come nota Freud (1926), situazioni esterne in cui non si può sfuggire rapidamente a una stimolazione sopraffacente comportano lo stesso pericolo che un eccessivo grado di eccitazione può portare a danno dell'Io Una tale situazione di eccitazione eccessiva, al di là delle capacità dell'organismo di affrontarla o tollerarla, è chiamata da Freud una «situazione traumatica».

Ed è funzione principale dell'angoscia-segnale evitare queste «situazioni traumatiche», avvertendo l'organismo nelle «situazioni di pericolo» — ossia quelle situazioni che possono degenerare in «situazioni traumatiche» se non vengono mobilitati alcuni meccanismi adattivi (per esempio soprattutto difese, ma anche comportamenti quali la fuga fisica o l'evitamento, come nel caso delle fobie).

In questo contesto l'aspetto da sottolineare è che la netta distinzione di Kohut tra l'angoscia connessa con un «pericolo rappresentato dalla libido» e l'angoscia collegata alla paura di disintegrazione del Sé non è del tutto sostenibile. Essa trascura il fatto che anche per Freud l'essenza dell'angoscia è la paura del danno all'Io, concetto che non sembra lontano da quella che Kohut chiama «anticipazione del crollo del Sé» (p. 103).

Benché il discorso freudiano verta sugli apparati mentali mentre la prospettiva di Kohut è presumibilmente una prospettiva soggettiva, dal punto di vista dell'esperienza fenomenologica individuale mi sembra che nel concetto freudiano del rapporto tra pulsione, eccitazione, angoscia e Io, così come prima sono stati presentati, vi sia implicita l'idea che la minaccia decisiva nell'angoscia è quella all'integrità stessa dell'Io. Le differenze tra Freud e Kohut (oltre che tra Freud e i teorici delle relazioni oggettuali) stanno non nel concetto della natura della minaccia ultima nell'angoscia, ma nelle idee riguardo alle fonti di questa minaccia. Per Freud, come già osservato, è un'eccitazione eccessiva derivante, per dirla nel modo più semplice possibile, da un accumulo di tensioni pulsionali e istintuali non scaricate. Per Kohut (e per i teorici delle relazioni oggettuali) la minaccia al Sé deriva da carenze avvertite ed effettive e da debolezze nella struttura del Sé che interagiscono con situazioni in cui la persona esperisce se stessa come isolata o fusa con l'oggetto di cui ha bisogno (nei termini di Kohut, l'oggetto-Sé). In ogni caso, non vi è alcun «pericolo rappresentato dalla libido» da mettere in opposizione al pericolo per il Sé. C'è solo un pericolo per il Sé, così come vi sono concezioni diverse riguardanti la fonte di questo pericolo.

La psicologia del Sé e il conflitto edipico

L'ambiguità dell'approccio bifattoriale di Kohut al rapporto tra teoria tradizionale e psicologia del Sé appare nella sua disamina del conflitto edipico. Un'implicazione dell'approccio bifattoriale e dell'idea che il trattamento permetta una ripresa dello sviluppo psicologico traumaticamente interrotto è che dopo che i pazienti con disturbi della personalità narcisistica e altri pazienti con disturbi del Sé hanno raggiunto un grado maggiore di coesività del Sé nel corso del trattamento, dovrebbero cominciare ad affrontare i problemi edipici e ad esibire conflitti, difese e sintomatologia tipicamente associati alla nevrosi25.

All'occasione Kohut descrive una tale sequenza, ma la sua descrizione è colorita da commenti del tipo «il paziente entra gioiosamente» nel periodo edipico. Considerando anche altre osservazioni (secondo cui la fase edipica, così come è descritta dalla teoria tradizionale, può già essere manifestazione di un precedente sviluppo patologico, anziché un fenomeno inevitabile e onnipresente), si ha ragione di credere che Kohut non prenda del tutto sul serio l'implicazione della sua formulazione bifattoriale secondo cui alla formazione di un Sé saldo e coesivo se-guono problemi e temi tipicamente nevrotici. Se, come affermato dalla teoria bifattoriale, i pazienti narcisistici che provano un accresciuto grado di coesività del Sé si trovano ora ad un punto di sviluppo simile a quello dei pazienti nevrotici (vale a dire si trovano di fronte a «conflitti strutturali», problemi edipici e così via), perché appaiono più gioiosi, creativi e pieni di accettazione di sé rispetto a molti pazienti nevrotici?

Ciò che queste descrizioni di casi clinici sembrano implicare è che se da un punto di vista psicosessuale si può funzionare a livello preedipico, si può però condurre una vita creativa, gioiosa e soddisfacente nella quale si è in grado di perseguire ambizioni realistiche e significative e di sviluppare valori e ideali profondi e stabili. Vero o non vero che sia, ciò che mi preme sottolineare è che le descrizioni cliniche di Kohut smentiscono e contraddicono le implicazioni della sua teoria bifattoriale dello sviluppo. Queste descrizioni comportano che la crescita terapeutica nella sola dimensione del narcisismo (vàie a dire il passaggio dal narcisismo patologico al «sano narcisismo») è in grado di generare una vita ricca e significativa, nella quale, tra l'altro, sono perseguite ambizioni, è adeguatamente regolata l'autostima e sono sviluppati ideali e valori — il tutto in modo totalmente indipendente da progressi o meno nel campo dello sviluppo psicosessuale o dei conflitti associati con questo ambito. Questo, in pratica, è un altro modo per dire che ai fini di una vita ricca, significativa e piacevole i temi dello sviluppo psicosessuale e i conflitti intorno alla sessualità e alla aggressività sono del tutto irrilevanti, e che tutto ciò che conta è il raggiungimento di una coesività del Sé e il riuscito passaggio dal narcisismo patologico al «sano narcisismo». Più specificamente e nel concreto, ciò che Kohut sembra implicitamente affermare è che si può condurre una vita ricca e soddisfacente senza avere adeguatamente risolto temi quali l'amore e l'odio per l'oggetto e la capacità di vicinanza all'altro, nella misura in cui si siano raggiunti coesività del Sé e «sano narcisismo»26.

L'interesse di Kohut per i geni e le «persone eccezionalmente dotate» (1971, p. 112) è un'altra espressione indiretta di quella che sembra essere una sua convinzione di base, e cioè che quel che veramente conta nella vita, ciò che veramente rende la vita degna di essere vissuta è lo sviluppo di valori e ideali stabili, il perseguimento e il raggiungimento di ambizioni informate e motivate da questi valori e ideali insieme alle proprie capacità, e il conseguimento di un'autostima grazie a questi valori, ideali e ambizioni. Da notare qui che queste attività e questi risultati sono soprattutto attività e risultati ottenuti da soli. Nella teoria di Kohut gli altri sono necessari dal punto di vista eziologico e dello sviluppo, in quanto forniscono il rispecchiamento e la possibilità di idealizzazione indispensabili per lo sviluppo di un Sé coesivo e per la fluida trasformazione della grandiosità arcaica in un «sano narcisismo». Ma una volta che gli altri hanno svolto il loro ruolo, il sano narcisismo — che il genio e/o l'eroe possiedono per eccellenza — permette di partire da soli per adempiere ciò a cui è chiamata la propria vita.

In che misura, viene da chiedersi, lo sviluppo della psicologia del Sé di Kohut è stato richiesto dai fenomeni clinici dei disturbi del Sé, e in che misura essa è invece espressione dei valori del suo autore, in particolare della sua convinzione che una vita piena sia quella che, avendo raggiunto un «sano narcisismo», più si avvicina alla vita del genio e dell'eroe?

LA PSICOLOGIA DEL NARCISISMO DI KOHUT: UNA SINTESI CRITICA

Un problema fondamentale che nasce dalla discussione del capitolo precedente è il rapporto tra la psicologia del Sé di Kohut e la sua psicologia del narcisismo. Nel valutare il lavoro di Kohut le due cose sono state considerate solitamente equivalenti, ma io credo sia un errore. In realtà, benché la psicologia di Kohut sia chiamata (da lui stesso e da altri) una psicologia del Sé, a mio avviso un modo più esatto di definirla è considerarla un'estesa trattazione sul narcisismo.

In altre opere — per esempio nella Mahler (1968) — che affrontano il tema della prima formazione di un senso del Sé, si parte dalla ragionevole ipotesi che la formazione del concetto di sé comporti e richieda un'adeguata differenziazione tra sé e l'altro. Si ritiene che il neonato, prima di questa differenziazione, sia in uno stato di narcisismo primario. Quest'ipotesi apparentemente semplice e centrale ha costituito la base che ha permesso di collegare lo sviluppo del senso del Sé a una psicologia del narcisismo nonché a concetti connessi, come quello della costanza dell'oggetto e delle relazioni oggettuali. Così si potrebbe dire che un bambino che non è riuscito a negoziare questa differenziazione — che, per esempio, è rimasto troppo a lungo in un rapporto simbiotico — inevitabilmente mostrerà delle carenze nella formazione di un saldo e coesivo senso del Sé. Benché in termini diversi, Kohut parla di vicissi-tudini simili quando collega disturbi del Sé e bisogno degli altri quali oggetti-Sé. In altre parole, una persona che si rapporta agli altri in quanto oggetti-Sé invece che come altri del tutto distinti da sé non è manifestamente riuscita a raggiungere un'adeguata differenziazione tra sé e l'altro. Fin qui non vi è alcuna difficoltà a collegare narcisismo e sviluppo del Sé — nella misura in cui una differenziazione non riuscita tra sé e l'altro può essere considerata un insuccesso nella linea dello sviluppo narcisistico e quale aspetto critico dei disturbi del Sé.

Le difficoltà relative alla psicologia del Sé di Kohut e al suo tentativo di inserirla in una psicologia del narcisismo si incentrano su ipotesi e concettualizzazioni quali la fase del Sé grandioso ed esibizionista: la libido narcisistica, idealizzante e gran-diosa, e il «sano narcisismo». Riguardo alla prima ipotesi la base su cui poggiare l'affermazione di una fase inevitabile e universale in cui si manifesta un Sé grandioso ed esibizionista non è affatto chiara, e in realtà sembra alquanto arbitraria. Ci sono poche prove, o nessuna addirittura, a suffragare l'ipotesi che la grandiosità sia una fase normale dello sviluppo. Certo, Kohut non presenta alcuna prova tratta da studi longitudinali di bambini che dimostri che la grandiosità compare regolarmente in una certa fase dello sviluppo. L'unica «prova a sostegno» portata da Kohut alla sua asserzione riguardo all'eziologia e allo sviluppo è il materiale ottenuto da pazienti adulti in trattamento — o, più esattamente, materiale selezionato, riferito e interpretato da Kohut e dai suoi seguaci. Inoltre nessun grado di empatia sensibile e attenta verso i pazienti adulti permetterà mai delle legittime inferenze riguardo all'esistenza di un precedente Sé grandioso ed esibizionista.

Anziché basare la sua teorizzazione su basi empiriche solide, Kohut è stato costretto dalla sua stessa teorizzazione a formulare il concetto di un Sé grandioso ed esibizionista. Questo concetto si basa su un elaborato modello secondo il quale la «perfezione assoluta» che si presume sia esperita dal neonato durante la fase del narcisismo primario, disturbata dall'impatto delle inevitabili carenze nelle cure materne, viene ora sostituita dall'«equilibrio del narcisismo primario» — il mantenimento in vita di un Sé grandioso ed esibizionista. Questo Sé grandioso ed esibizionista, dopo esser stato dovutamente depotenziato e modulato, diviene la base del successivo «sano narcisismo». È facile vedere come questa idea di un Sé grandioso ed esibizionista sia centrale nella teorizzazione di Kohut. Ma la sua cen-tralità non deve far perdere di vista la mancanza di conferme empiriche. Inoltre, anche da un punto di vista puramente teorico e del tutto scevro da dati empirici, il concetto di fase grandiosa ed esibizionista sembra arbitrario. Perché, per esempio, carenze nelle cure materne e disturbi nell'«equilibrio del narcisismo primario» (vale a dire nell'esperienza della «perfezione assoluta») comportano immancabilmente una fase di grandiosità e di esibizionismo? Perché le inevitabili carenze nelle cure materne non dovrebbero funzionare allo stesso modo in cui funzionano le «frustrazioni ottimali»? Oppure, per impiegare la terminologia di Winnicott (1965), perché non dovrebbero avere lo stesso effetto dei «fallimenti graduali nell'adattamento», contribuendo lentamente e in modo cumulativo a una sensazione realistica, invece che grandiosa, del Sé e dell'oggetto? 27 E ancora, perché quando tali carenze assumono proporzioni traumatiche non sfociano in un senso di sfiducia di base (Erikson, 1959) o in un senso di insicurezza nei confronti dell'affidabilità dell'ambiente? Perché la conseguenza deve essere proprio la grandiosità e l'esibizionismo?

Sorgono anche altri interrogativi riguardo all'elaborato modello di Kohut. Per esempio, si domanda Gedo (1980), quali prove abbiamo del fatto che il bambino richieda l'ammirazione incondizionata di chi si prende cura di lui, e che la mancanza di tale ammirazione incondizionata abbia conseguenze significative di qualche tipo per lo sviluppo?

Inoltre, non è affatto sicuro che il neonato abbia bisogno di provare una «perfezione assoluta» per mantenere l'«equilibrio del narcisismo primario», né è chiaro cosa significhi per un neonato provare questa «perfezione assoluta». Nella concezione originaria del narcisismo Freud (1914) afferma l'esistenza di un pensiero magico e di una «onnipotenza dei pensieri» (vol. 7, p. 445), e sono queste caratteristiche ad essere sottolineate da Freud quando fa riferimento alla «grandiosità» e al «delirio di grandezza» (vol. 7, p. 445) del neonato (oltre che, come sostenne, dello schizofrenico e del cosiddetto uomo primitivo). Che Freud avesse ragione oppure no, riusciamo a capire cosa aveva in mente: l'idea fondamentale è che il desiderio ottiene tutto (l'esempio classico è l'«allucinazione del seno» quando il bambino ha fame). Ma qual è la natura della grandiosità narcisistica e della «perfezione assoluta» sostenute da Kohut?

Come sottolinea Peterfreund (1978), tutte queste caratterizzazioni psicoanalitiche dell'infanzia — narcisismo primario, onnipotenza e. aggiungerei io. perfezione assoluta — snnn «aHnl- tomorfe». nel senso çhe implicano degli standard adulti. Se un adulto si comportasse come fa un neonato normale lo si potrebbe considerare narcisista, o convinto della propria onnipotenza o perfezione assoluta. Ma il neonato si comporta come si comporta perché, stanti le sue capacità di funzionamento, non esiste altro modo possibile. Riguardo poi alle esperienze soggettive, come si può ipotizzare che il neonato esperisca un'onnipotenza o una perfezione assoluta o una grandiosità incentrata su sé? Tali attribuzioni appaiono chiaramente intrusioni arbitrarie e proiezioni adulte.

La concezione idiosincratica che Kohut ha del narcisismo e i suoi legami alquanto arbitrari con la psicologia del Sé sono stati rilevati anche da Gedo (1980). Esaminando la casistica di Goldberg (1978), Gedo nota che in molti dei casi riportati erano preminenti difficoltà nella regolazione della tensione e nell'organizzazione del comportamento. Perché, si chiede Gedo, tali problemi vengono visti nel contesto del narcisismo? E in che senso sono specificamente disturbi narcisistici? In una psicologia del Sé non arbitrariamente inserita nel contesto del narcisismo tali difficoltà sarebbero viste come insuccessi nell'integrazione da parte di una struttura di ordine superiore che può essere concepita come un'organizzazione del Sé (ma che, in un altro quadro di riferimento teorico, può essere considerata in termini di funzione sintetizzatrice dell'Io) (per una psicologia del Sé al di fuori del quadro di riferimento del narcisismo cfr. G. S. Klein [1976] e Gedo [1979]).

Consideriamo anche il rapporto tra non-coesività del Sé da una parte e grandiosità ed esibizionismo dall'altra. Qual è il rapporto tra le due cose? Anche qui, da un punto di vista squisitamente teorico perché la non-coesività del Sé deve esprimersi ed essere così strettamente collegata alla grandiosità e all'esibizionismo? Ora, da un punto di vista ordinario e comune, si osserva spesso che le persone tutte prese da se stesse, vanagloriose e con manie di grandezza (vale a dire narcisistiche nel senso comune del termine) spesso reagiscono difensivamente e in maniera compensatoria a un soggiacente senso di inadeguatezza e a una bassa autostima. Se fosse questa la natura essenziale del collegamento ipotizzato tra disturbi del Sé e grandiosità esibizionistica sarebbe un collegamento ragionevole e, naturalmente, non molto nuovo. E in effetti alcune delle formulazioni di Kohut che collegano disturbi del Sé e grandiosità a me sembrano affermare, in modo assai lambiccato, questa semplice e comune idea di buon senso. Così, ci viene detto che una persona con disturbi del Sé rimane fissata al livello della grandiosità e dell'esibizionismo arcaici, e continua «ad aggrapparsi a un'imago vagamente definita di perfezione assoluta» (1971, p. 71) — presumibilmente perché il senso stesso di carenza del Sé e di vulnerabilità (per esempio all'«angoscia di disintegrazione») richiede la compensazione data dalla grandiosità. Ma Kohut va oltre, e osserva che il perdurare della grandiosità arcaica e dell'esibizionismo indebolisce in qualche modo il Sé. Pra se ciò che intende dire è che la grandiosità irrealistica interferisce con la valutazione realistica e l'esperienza di ciò che veramente si è (ivi compresi i propri talenti, capacità, limiti e c°sì via), e con la programmazione realistica degli obiettivi della vita, anche questo sarebbe molto ragionevole, sebbene, ancora una volta, un'idea non molto originale. Ma invece ci viene detto che «i pericoli contro i quali l'Io si difende mantenendo il Sé grandioso arcaico dissociato e/o rimosso sono l'afflusso dediffe- renziante di libido narcisistica non neutralizzata...» (1971, p. 152). Questo è puro gergo, ed ha un significato coerente solo tra i più vaghi, se mai ne ha uno. Inoltre non dà nessuna indicazione né si avvicina lontanamente alla domanda di quali siano i processi di mediazione che collegano la non-coesività del Sé e la grandiosità.

Le formulazioni di Kohut sollevano anche altri interrogativi, per esempio se la capacità di sviluppare ambizioni e interessi e perseguire valori e ideali sia del tutto funzione del rispecchiamento e dell'idealizzazione precoci, se sia così inestricabilmente collegata alla grandiosità e all'esibizionismo precoci, e se il nar-cisismo (sano o no) sia il contesto teorico più significativo in seno al quale vadano capiti questi comportamenti. Riguardo ai primi due interrogativi .basti qui dire che basare l'acquisizione di ambizioni, di interessi e in particolare di valori e di ideali in modo così esclusivo su presunti eventi dell'infanzia significa ignorare del tutto sia le esperienze e gli eventi successivi della vita della persona, sia il più ampio contesto sociale che influenza lo sviluppo di queste caratteristiche. Tuttavia è l'ultimo punto — il concetto di «sano narcisismo» — che desidero esaminare più a fondo qui di seguito.

Il sano narcisismo

Come abbiamo precedentemente osservato, Kohut ha sostenuto che una dimensione fondamentale della crescita della personalità è la linea dello sviluppo narcisistico. In senso lato, dunque, per questo autore non soltanto mostriamo una sequenza regolare, nota come fasi psicosessuali, nelle zone e nelle modalità attraverso le quali otteniamo l'appagamento sessuale, ma mostriamo anche regolari sequenze di sviluppo rispetto ai mezzi impiegati per il mantenimento e il miglioramento del Sé. Proprio come nello sviluppo psicosessuale passiamo da mezzi di gratificazione sessuale immaturi a mezzi maturi, allo stesso modo progrediamo da modalità più primitive a modalità più mature di mantenimento e miglioramento del Sé lungo la linea dello sviluppo narcisistico. Per esempio, secondo Kohut si passa da una grandiosità e un esibizionismo arcaici e non depotenziati a una grandiosità depotenziata e modulata, che è integrata nell'organizzazione dell'Io ed espressa in ambizioni e obiettivi realistici.

È chiaro, allora, che Kohut propone una linea di sviluppo della personalità e un insieme di motivazioni paralleli e sotto ogni aspetto ugualmente fondamentali della crescita psicosessuale e della motivazione sessuale. In realtà, ciò che gli scritti di Kohut suggeriscono con forza è la convinzione del loro autore che la linea dello sviluppo narcisistico sia primaria e fondamentale. Kohut ha chiarito la sua convinzione che la psicoanalisi tradizionale ha accentuato eccessivamente l'interesse per l'oggetto, e la sua intenzione di correggere questo squilibrio riconoscendo l'importanza dell'amore di sé, della stima di sé e dello sviluppo di sé.

La teoria psicoanalitica tradizionale, afferma Kohut, ha posto un accento troppo esclusivo sull'investimento libidico nei confronti dell'oggetto e ha considerato l'investimento narcisistico sul Sé prevalentemente in senso peggiorativo — per esempio come primitivo o patologico dal punto di vista dello sviluppo. Uno degli obiettivi della psicologia psicoanalitica del Sé è correggere questo squilibrio e sostenere che un livello ottimale di autostima, di amore per se stessi e anche di grandiosità narcisistica modulata è necessario per una vita piena e gioiosa. In questa ottica chiaro come, anche al di là dell'investimento oggettuale, un certo grado di investimento narcisistico sul Sé sia necessario per intraprendere svariati progetti e azioniLe gesta dell'«eroe» e del genio artistico — tipi per i quali Kohut ha sempre provato interesse — sono esempi prototipici di attività narcisisticamente motivata e sostenuta. Così, mentre la teoria tradizionale si interessa esclusivamente della gratificazione istintuale dell'oggetto, la psicologia del Sé sottolinea l'importanza psicologica delle attività più narcisisticamente orientate, quali il perseguimento di ambizioni e obiettivi, l'esercizio dei propri talenti e delle proprie capacità creative, un comportamento in sintonia coi propri ideali e valori. Una chiara implicazione di questa concezione è che il mantenimento e il miglioramento del Sé sono motivazioni perlomeno altrettanto importanti, nel comportamento, della gratificazione istintuale legata all'oggetto. In effetti, come ho cercato di dimostrare, negli scritti successivi di Kohut sembra emergere la posizione implicita per cui l'elemento determinante di una vita riuscita e appagante è arrivare a negoziare la linea dello sviluppo narcisistico — dal narcisismo arcaico e primitivo al narcisismo maturo e sano. In altre parole, Kohut sostituisce sempre più al concetto tradizionale di fasi psicosessuali la linea dello sviluppo narcisistico quale dimensione centrale della formazione della personalità.

A me sembra che Kohut abbia dato un valido e importante contributo cercando di correggere uno squilibrio della teoria psicoanalitica e mettendo in risalto il fatto che, per esempio, alcuni comportamenti, ambizioni e obiettivi fondamentali non possono essere spiegati esclusivamente nel contesto del funzionamento psicosessuale e nei termini edipici della gratificazione pulsionale (o delle loro sublimazioni), ma sono motivati dal mantenimento e dal miglioramento del Sé. In realtà, se si abbandona un modello di motivazione umana in chiave di riduzione della tensione pulsionale si può riconoscere che la gratificazione sessuale stessa può riferirsi a quelli che G. S. Klein (1976) chiama «valori del Sé». Vi sono prove che la capacità di provare interessi e obiettivi e il possesso di forti ideali e valori possono contribuire all'integrità psicologica in circostanze terribili (per esempio campi di concentramento e lager). E, in generale, vi sono prove a sostegno dell'affermazione di Kohut che esista un legame tra un Sé saldo e coesivo da una parte e la capacità di intrattenere valori e ideali dall'altra (Eagle, 1982).

Tuttavia la questione non è così semplice come suggerisce Kohut. Da una parte, il rapporto tra ambizioni, ecc., e la coe- sività del Sé tende ad essere bidirezionale anziché, come sostiene Kohut, unidirezionale. Ho cercato altrove di dimostrare (Eagle, 1982) che il possesso di particolari talenti e doni e l'organizzazione di una parte importante della propria vita intorno ad essi può servire a sostenere e puntellare un Sé altrimenti poco saldo e non coesivo. Non si può ignorare, tuttavia, la possibilità che alcune persone con un Sé non coesivo siano capaci di elaborare ideali e valori forti, spesso fanatici, nonché divoranti ambizioni, e questo indubbiamente in parte perché motivati dalla necessità di rafforzare un senso inadeguato del Sé. Chiaramente, tutti questi temi richiedono un'ulteriore indagine.

Dopo aver esaminato i contributi di Kohut in questo campo, rimangono cionondimeno alcune difficoltà relative al suo concetto di «sano narcisismo». Innanzitutto, sarà forse utile ricordare cosa significhi il termine narcisismo. Un esame della letteratura psicoanalitica suggerisce tre dimensioni tra loro collegate: 1) mancanza di differenziazione tra sé e l'altro, come nel narcisismo primario; 2) regolazione dell'amore di sé e dell'au- tostima; 3) l'esser presi da se stessi e preoccupati solo di se stessi. Riguardo alle prime due dimensioni, ci sono poche diffi-coltà a concettualizzare un movimento di sviluppo lungo la linea del narcisismo, da una mancanza relativa di differenziazione tra sé e l'altro a una differenziazione sempre più grande, a un senso crescente del Sé e dell'attenzione a se stessi, a una sempre maggiore capacità di regolare l'autostima31. Come cerchérò di dimostrare, è a proposito della terza dimensione che nascono le difficoltà di Kohut. Riconosciamo che nel corso dello sviluppo psicologico passiamo da un relativo egocentrismo e attenzione a noi stessi a una sempre maggiore capacità di preoccuparci e di interessarci all'altro, di assumerne il ruolo (sottoli-neando aspetti diversi della personalità: processo descritto e discusso, per esempio, da Piaget [1969] e da Winnicott [1965]). Ciò che non è chiaro è se il concetto kohuttiano di «sano narcisismo» tenga adeguatamente conto di questo terzo aspetto dello sviluppo narcisistico.

La difficoltà più evidente rispetto alle formulazioni di Kohut è lo spazio relativamente esiguo lasciato a perseguimenti e a interessi autonomi nei confronti dell'oggetto, e dunque non al servizio del mantenimento e del miglioramento del Sé, ossia non in particolare rapporto con motivazioni narcisistiche, patologiche o sane che siano. Kohut, naturalmente, riconosce che una maggiore maturità e salute consentono di svolgere più facilmente attività rivolte verso l'oggetto, liberate «dal peso di dover essere intraprese al servizio di bisogni narcisistici perseguiti difensivamente per il rafforzamento dell'autostima» (1977, p. 52). Ma definendo sano narcisismo questa accresciuta capacità, Kohut suggerisce che queste attività rivolte verso l'oggetto siano in qualche modo al servizio del miglioramento del Sé. Altrimenti, perché vengono considerate specificamente espressioni del narcisismo? E nella misura in cui Kohut propone che anche le attività rivolte verso l'oggetto (comprendendo in particolare quelle che racchiudono le ambizioni e gli obiettivi della persona) sono, in parte, motivate da grandiosità ed esibizionismo depotenziati, mostra chiaramente di credere che tali attività contengano una necessaria e inestirpabile componente narcisistica.

Le formulazioni di Kohut implicano una ubiquità di motivazioni narcisistiche. Nel narcisismo patologico l'esser presi da se stessi e la ricerca difensiva e disperata del mantenimento e del miglioramento del Sé sono molto evidenti, mentre nel «sano narcisismo» l'esser presi da se stessi è depotenziato e le motivazioni del mantenimento e del miglioramento del Sé sono modulate e integrate con successo nelle proprie mire e attività. Ma ciò che rimane onnipresente è l'inevitabile presenza dominante delle motivazioni narcisistiche. L'ironia è che qui abbiamo un parallelo esatto con la teoria freudiana delle pulsioni. Proprio come in quest'ultima ogni comportamento è, direttamente o indirettamente, in modo manifesto o nascosto, al servizio della gratificazione delle pulsioni, negli scritti di Kohut (in particolare nel suo concetto di «sano narcisismo») è implicito che, in qualche modo, ogni comportamento sia al servizio del mantenimento e del miglioramento del Sé. Il risultato è che, così come la teoria freudiana delle pulsioni lascia poco o nessuno spazio alle attività autonome dell'Io, indipendenti dalla gratificazione delle pulsioni, allo stesso modo il sistema di Kohut lascia poco o nessuno spazio alle attività autonome dirette verso l'oggetto, relativamente indipendenti da motivazioni di mantenimento e miglioramento del Sé.

Il fatto è che gli individui si impegnano in attività rivolte verso l'oggetto prevalentemente a causa di un interesse autonomo per queste attività, senza considerare se esse siano in grado o meno di migliorarli. E in effetti, l'efficacia di queste attività rispetto al mantenimento e al miglioramento del Sé è spesso un prodotto collaterale del fatto che esse vengono svolte, piuttosto che costituire la motivazione di queste stesse attività. Dunque è fuorviarne parlare di questi comportamenti come espressione del narcisismo, patologico o sano che sia. Corren-temente, di persone pienamente impegnate in attività rivolte verso l'oggetto, e di conseguenza più assorbite in un oggetto esterno e meno prese da se stesse, diciamo che sono meno narcisistiche e non «narcisistiche in modo più sano». Abbiamo qui un esempio in cui la terminologia comune genera meno confusione di quella specialistica. Anziché parlare di sano narcisismo, a mio avviso vi è meno confusione se si dice che lo sviluppo di un senso di base di integrità, di autostima e di con-siderazione di sé permette di abbandonare le motivazioni prevalentemente narcisistiche come modulo organizzativo del proprio comportamento e dei propri rapporti personali.

Queste mie considerazioni si basano sull'ipotesi che vi sia una reciprocità tra attività rivolte verso l'oggetto e l'esser presi da se stessi, versione ordinaria della reciprocità posta da Freud (1914) tra gli investimenti narcisistici e gli investimenti libidici sull'oggetto. All'opposto, il concetto di «sano narcisismo» di Kohut implica un rifiuto di questo principio di reciprocità nella misura in cui permette la concomitante presenza sia del coinvolgimento nell'oggetto sia delle motivazioni narcisistiche. Affrontando questo tema a sostegno della posizione kohuttiana, Stolorow (1975) rifiuta anch'egli il principio di reciprocità e cita a riprova di questo rifiuto il fatto che le persone narcisistiche possono essere intensamente coinvolte negli oggetti. Egli sottolinea che queste persone possono addirittura richiedere la presenza di oggetti per poter mantenere un senso di coesività del SéPassa poi a suggerire di adottare una «definizione funzionale del narcisismo» per la quale il comportamento è narcisistico nella misura in cui è al servizio del mantenimento e del miglioramento del Sé (questo «al servizio del» io lo interpreto come «motivato dal bisogno di mantenere e migliorare il Sé»). Coerentemente con la logica delle formulazioni kohuttiane, egli distingue poi il narcisismo patologico dal narcisismo sano in termini di grado di successo nel conseguire l'obiettivo di mantenere e migliorare il Sé.

Se il «sano narcisismo» è semplicemente questione di grado di successo nel mantenere e migliorare il Sé, il rapporto disturbato che la personalità narcisistica intrattiene con gli oggetti-Sé e il ricorso agli altri tendente allo sfruttamento dovrebbero essere considerati abbastanza sani, nella misura in cui riescono, per lunghi periodi di tempo, a mantenere e migliorare il Sé. Inoltre, secondo la logica di Stolorow il brusco calo di autostima conseguente a un insuccesso nella realtà e a una violazione dei propri ideali e del proprio codice morale dovrebbe essere visto come espressione di narcisismo patologico. Cosa più importante di tutte, quei tipi di attività definite «sano narcisismo » da Kohut e Stolorow — ambizioni, ideali, coinvolgimento con l'oggetto, ecc. — in genere non sono primariamente motivate dal bisogno di mantenere e migliorare il Sé. Piuttosto, come prima osservato, il contributo alla solidità del Sé e all'autostima è spesso un prodotto collaterale di queste attività. In queste attività ci si tende a impegnare per l'interesse intrinseco che suscitano e il divertimento e la gratificazione che danno (per dirla con Hunt [1965], esse sono «intrinsecamente motivate»). Oppure, come osserva White (1959, 1965, 1966), al contrario di attività quali l'esplorazione e la manipolazione, che hanno un evidente valore di sopravvivenza, esse sono spesso «fatte per puro divertimento», e «parte del divertimento può essere addebitato a una sensazione di efficacia — di senso di padronanza — ...» (1966, pp. 247-48).

Consideriamo per esempio il suggerimento di Stolorow secondo cui un insieme di ideali saldamente interiorizzati è un esempio di sano narcisismo perché c'è da presumere che riesca a contribuire al mantenimento e al miglioramento del Sé. Innanzitutto, come abbiamo notato prima, un insieme di ideali saldamente interiorizzati non garantisce necessariamente l'autostima, anzi è portatore di un potenziale di attacchi all'autostima stessa nella misura in cui una persona potrebbe non essere all'altezza dei propri standard e ideali. In più, chi persegue standard e ideali non lo fa al fine di mantenere e migliorare il Sé, né «al servizio del» mantenimento e del mi-glioramento del Sé. Il miglioramento del Sé è spesso un prodotto collaterale del fatto di condurre la propria vita in sintonia con taluni ideali e valori, piuttosto che una motivazione diretta di tale comportamento. Lo stesso vale per ambizioni, obiettivi, attività e mire dirette verso l'oggetto (invece che nar- cisisticamente dirette). In generale mi sembra sensato, in campo clinico e teorico, affermare che, dato un certo grado minimo di coesività del Sé e di autostima, il comportamento è libero di diventare sempre più orientato non da motivazioni narcisistiche (sane o no), ma dal coinvolgimento nell'oggetto e da attività dirette verso l'oggetto. Ripetiamo che collegare tali coinvolgimenti nell'oggetto e tali attività rivolte verso l'oggetto a un «appagamento narcisistico», a una (depotenziata) grandiosità ed esibizionismo, a un «flusso organizzato di libido gran- diosa-esibizionistica», a una libido idealizzante e ad altri simili concetti e condizioni si basa non su dati clinici o su un'esigenza di eleganza teorica, ma sull'assunto centrale di Kohut che il contesto più appropriato per capire il successo dell'appagamento adulto nel campo delle ambizioni, degli ideali e delle attività rivolte verso l'oggetto va ricercato nella linea dello sviluppo narcisistico, ivi comprese le vicissitudini della prima fase di grandiosità e di esibizionismo.

Riguardo al tema della reciprocità tra attività rivolte verso l'oggetto e il narcisismo, Stolorow (1975) afferma che «gli obiettivi narcisistici possono essere caratterizzati da un attaccamento agli oggetti esterni molto intenso e manifesto. In altri termini, un accresciuto coinvolgimento col Sé non è necessariamente accompagnato da un diminuito investimento oggettuale [...]. L'ipotesi economica freudiana [1914] di una reciprocità mu- tualmente esclusiva tra libido narcisistica e libido dell'oggetto non sembra tenere in campo clinico... È chiaro che un rapporto con l'oggetto intensamente investito può servire a una funzione prevalentemente narcisistica» (p. 182).

Ora è vero, come nota Stolorow, che «i legami narcisistici con l'oggetto possono essere caratterizzati da un attaccamento molto intenso e manifesto agli oggetti esterni». Ma a mio avviso Stolorow trascura un elemento importante. Il punto critico non ha a che vedere con l'intensità, ma con la natura dell'attaccamento agli oggetti caratteristico dei legami narcisistici, rispetto al coinvolgimento non-narcisistico (vale a dire, legami diretti all'oggetto). Lo stesso Kohut sottolinea che i pazienti narcisistici reagiscono agli altri non come ad altri distinti da sé, ma come a «oggetti-Sé », e talora come a parti di se stessi. In altre parole non è affatto esatto, nel caso dei legami narcisistici, parlare indiscriminatamente di «attaccamento ad oggetti esterni», nella misura in cui, psicologicamente parlando, in questo tipo di legame l'altro è sia una parte di sé sia un oggetto distinto. E questa è la ragione per cui Kohut li chiama «oggetti-Sé».

Un'intuizione centrale che emerge quando si considera il ruolo della differenziazione tra sé e l'altro nello sviluppo (una dimensione fondamentale del narcisismo), è che non ogni interazione interpersonale è necessariamente una piena relazione oggettuale tra sé e un altro. Questa intuizione suggerisce che da un certo punto di vista affermare che «una relazione oggettuale intensamente investita può assolvere a una funzione prevalentemente narcisistica» è in un qualche modo una contraddizione in termini. Nella misura in cui l'altro assolve a «una funzione prevalentemente narcisistica», e non è un altro pienamente distinto, non si è coinvolti in una relazione oggettuale, ma in una relazione, per dirla con Kohut, con un «oggetto-Sé». È utile ricordare che nel mito originario Narciso è anche inten-samente coinvolto con un oggetto esterno. Ma l'oggetto è naturalmente la sua immagine speculare (in un altro contesto — vedi per esempio Fairbairn [1952] o Volkan [1976] — si parlerebbe di relazioni oggettuali interiorizzate). Il fatto che il coinvolgimento narcisistico, per quanto intenso, non comporti vere e proprie relazioni oggettuali è da molto tempo riconosciuto. Per esempio Fromm (1955) nota che «il narcisismo è l'essenza di ogni grave patologia psichica. Per una persona affetta da narcisismo c'è una sola realtà: quella dei suoi propri processi mentali, delle sue sensazioni e dei suoi bisogni. Il mondo esterno non è conosciuto o percepito obiettivamente, cioè come esistente nei suoi propri termini, condizioni e necessità» (p. 47).

Queste considerazioni suggeriscono che Freud fosse sostanzialmente nel giusto quando asseriva l'esistenza di un reciproco rapporto tra coinvolgimento narcisistico del Sé e investimento oggettuale. Più specificamente, io credo che l'osservazione se-condo cui i legami narcisistici possono comportare un «intenso [...] attaccamento agli oggetti esterni» non contraddice l'asserzione freudiana di una reciprocità, se si capiscono appieno le implipazioni delle formulazioni freudiane, e si tiene a mente la precedente chiarificazione per cui l'«oggetto esterno» dei legami narcisistici (che, naturalmente, è del tutto esterno) non ha lo stesso status che hanno gli oggetti esterni nel coinvolgimento non narcisistico. L'essenza di ciò che è implicato nel concetto freudiano di libido oggettuale è un investimento libidico in un oggetto in grado di fornire gratificazione pulsionale. All'opposto, il significato centrale della libido narcisistica è un coinvolgimento erotico o libidico con se stessi, anche se veicolo di tale coinvolgimento è un oggetto. Quando Kohut parla del passaggio dalla patologia ad una relativa salute come di un movimento attraverso il quale la persona può «diven-tare [...] il centro e il coordinatore di attività rivolte verso l'oggetto, liberando queste ultime dal peso di dover essere intraprese al servizio di bisogni narcisistici inseguiti difensivamente per il rafforzamento dell'autostima» (1977, p. 52), a mio avviso accetta la fondamentale intuizione freudiana per cui l'esser presi da se stessi è incompatibile con il libero esercizio del perseguimento di un'attività diretta verso l'oggetto. Questa intuizione va persa con l'introduzione del concetto di «sano nar-cisismo». Infatti, l'incompatibilità tra narcisismo e attività rivolta verso l'oggetto resta, quali che siano le ragioni e la natura del narcisismo. In altri termini, sia che l'esser presi da se stessi dipenda dalla mancanza di coesività del Sé e della grandiosità arcaica sia che dipenda dalla grandiosità depotenziata, essa rimane tuttavia incompatibile con un vero investimento oggettuale. Forse l'unico significato che il sano narcisismo potrebbe avere rimanendo compatibile col coinvolgimento ogget-tuale è quello di un qualche grado ottimale di amore per se stessi e di autostima che, una volta formatisi nel corso dello sviluppo, divengano carattereologicamente stabili e non abbiano bisogno d'essere costantemente rafforzati. Ma si noti che secondo questa definizione il «sano narcisismo» diviene l'equivalente del narcisismo minimo.

Nei termini più semplici e correnti, il principio di reciprocità di Freud afferma che nella misura in cui si è presi da se stessi si sarà meno interessati e coinvolti in persone e cose esterne, e viceversa nella misura in cui si è presi da un'autentica preoccupazione per gli altri e da autentiche attività e interessi rivolti verso gli oggetti si sarà meno presi da se stessi. A me sembra che sia sul piano della saggezza comune, sia su quello dell'evidenza clinica, questo principio riceva un'ampia con-ferma. L'osservazione che le persone tutte prese da se stesse sono anche in grado di provare un attaccamento agli oggetti non contraddice il principio, quando si consideri la natura dell'attaccamento — ma questa è un'altra manifestazione dell'esser presi da se stessi. Per chiudere questa parte della nostra discussione, riferirò la seguente storiella: un divo di Hollywood continua a parlare senza fine di se stesso a una giovane stellina. A un certo punto, in un raro momento di apparente consapevolezza di sé, esclama: «Ma basta parlare di me. Adesso parliamo di te. Tu che ne pensi di me?».

Alcuni commenti finali sulle radici del «sano narcisismo»: per Kohut, il fondamento primo del «sano narcisismo» è l'esperienza della «perfezione assoluta», che nel corso dello sviluppo diviene debitamente depotenziata e modulata. Ciò che caratterizza i disturbi della personalità narcisistica è un perturbamento traumatico di questo primo senso di perfezione e un insieme di reazioni difensive e compensatorie di questo perturbamento. In pratica, nello schema di Kohut il disturbo della personalità narcisistica non è manifestamente narcisistico, ma piuttosto non possiede un sufficiente «sano narcisismo». In altre parole, la sua prima sensazione di perfezione è stata traumaticamente disturbata, e di conseguenza, non adeguatamente conservata né trasformata. L'esser presi da se stessi, la grandiosità arcaica, ecc., vale a dire tutto il suo narcisismo patologico è una conseguenza di, e una reazione a, questo disturbo traumatico per il suo «sano narcisismo».

Secondo Kohut, dunque, chi è meno disturbato in questo primo senso di perfezione è meno narcisista nel senso della grandiosità, ecc. Quest'idea, naturalmente, non è granché diversa da quel che si osserva nella vita d'ogni giorno, per cui le persone tutte prese da se stesse, vanagloriose e con manie di grandezza spesso reagiscono difensivamente e compensano un soggiacente senso di inferiorità e di inadeguatezza, mentre le persone che nutrono un senso di adeguatezza e di autostima non hanno bisogno di esser tutte prese da se stesse, e di ostentare grandezza ed esibizionismo. Ma si noti che in questa concezione del senso comune l'opposto dell'essere narcisisticamente presi da se stessi, ecc. è semplicemente un senso ordinario di adeguatezza e di autostima. Ciò che non è assunto è che la base di questa ordinaria sensazione di adeguatezza e di autostima sia una prima sensazione di perfezione narcisistica. A mio avviso quest'ultimo assunto di Kohut confonde le cose. E arbitraria appare anche la sua affermazione che in qualche modo, in quanto fase naturale dello sviluppo, sperimentiamo tutti un senso di «perfezione assoluta» — che sarebbe poi sconvolto e disturbato dalle carenze delle cure geni- toriali, ivi comprese non solo le manchevolezze inevitabili, ma anche gli insuccessi traumatici nel rispecchiamento e nel processo di idealizzazione. Non solo non vi è alcuna prova di questa affermazione, ma essa sembra anche tradire una romanticizzazione di quello che sembrerebbe l'unico significato ragionevole del primo narcisismo — vale a dire una relativa mancanza di differenziazione (non solo tra sé e l'altro, ma tra diversi aspetti e componenti della propria personalità). Un tale stato relativamente globale e indifferenziato appare difficilmente capace di produrre un senso di perfezione (o anche di imperfezione).

L'alternativa a questa concezione del narcisismo primario è asserire l'esistenza di un qualche stato precoce di integrazione perfetta, susseguente a una fase autoerotica ancora più arcaica del «Sé frammentato» o dei «nuclei del Sé». Il fatto che Kohut abbia in mente qualcosa di simile è suggerito dal seguente passo: «La reazione esultante della madre al bambino considerato nella sua totalità [...] sostiene, nella fase appropriata, l'evoluzione dall'autoerotismo al narcisismo — dallo stadio del Sé frammentato [...] allo stadio del Sé coesivo...» (1971, p. 121). Se si prende alla lettera questo passo, ne consegue che la persona cosiddetta affetta da disturbi della personalità narcisistica non è una persona troppo narcisistica, ma una persona che non ha ancora pienamente raggiunto la fase del narcisismo.

Altri problemi sollevati dalle formulazioni di Kohut

In questo paragrafo considererò alcune difficoltà sollevate dalle formulazioni di Kohut che non ho affrontato nella precedente disamina dei suoi concetti di angoscia e di narcisismo.

Prendiamo la prima formulazione di Kohut del principio di complementarità: «In analogia col principio di complementarità della fisica moderna, potremmo effettivamente parlare di un principio psicologico di complementarità e dire che la spiegazione, secondo la psicologia del profondo, dei fenomeni psichici normali e patologici richiede due approcci complementari: quello della psicologia del conflitto e quello della psicologia del Sé» (1977, p. 82). Ciò che Kohut trascura è che il principio di complementarità si riferisce a due modelli diversi di status esplicativo uguale per lo stesso insieme di fenomeni — non, come suggerito da Kohut in altri passi, a situazioni diverse di quelli che si dimostrano essere fenomeni diversi (per esempio la patologia a livelli diversi di sviluppo).

Una difficoltà di base dello schema di suddivisione proposto da Kohut è la radicale dicotomia che esso suggerisce tra disturbi del Sé legati allo sviluppo da una parte, e conflitto intrapsichico dall'altra. Questo tema è sufficientemente importante da meritare una discussione approfondita, e il capitolo seguente sarà dedicato ad essa. Basti qui dire che ci sono buone ragioni per dubitare dell'esattezza dell'affermazione di Kohut secondo cui i pazienti affetti prevalentemente da disturbi del Sé (quali i disturbi della personalità narcisistica) non provano dei conflitti edipici perché non hanno ancora raggiunto quel livello di sviluppo. Come cercherò di dimostrare in un successivo capitolo, non credo che questo sia un quadro esatto della natura dello sviluppo psicologico.

Il modello implicito di Kohut dello sviluppo psicologico non si accorda con i dati clinici né con l'effettiva natura dello sviluppo. È interessante notare che — del tutto indipendentemente dal contenuto specifico delle sue fasi psicosessuali — la struttura implicita nel concetto freudiano di sequenze psicosessuali è un modello di sviluppo più utile e più esatto. In questo modello, malgrado dei blocchi in una fase (concepiti come fissazioni), lo sviluppo procede alle fasi successive, anche se il modo e il grado di riuscita nell'affrontare le fasi successive continuano ad essere influenzati dalle conseguenze di arresti e fissazioni precedenti. Nel modello freudiano non vi è alcuna distinzione netta e precisa tra carenze e blocchi da una parte, e desideri, paure e conflitti dall'altra. Vi sono semplicemente aspetti diversi e diversi modi di vedere lo stesso fenomeno. Così, una fissazione a una data fase psicosessuale può essere considerata sia come una carenza di sviluppo o un blocco, sia come desideri, conflitti e difese specifiche di quello stadio che continuano a persistere negli stadi successivi. All'opposto, Kohut (insieme ad altri autori recenti) effettua una netta dicotomia tra carenze e blocchi dello sviluppo da una parte e «conflitti strutturali» dall'altra.

Parallela alla dicotomia tra carenze dello sviluppo e «conflitti strutturali» accolta da Kohut e dai suoi seguaci è la generale netta distinzione tra una psicologia del Sé e una psicologia del conflitto. Così, un seguace di Kohut, Ornstein (1978), scrive: «L'integrazione della psicologia del conflitto nel nuovo paradigma della psicologia del Sé è forse il nuovo passo avanti che deve compiere la psicoanalisi? La risposta a questa domanda e un reciso no». Ma la ragione per cui un'attenzione al concetto di Sé è incompatibile o non integrabile con un riconoscimento del conflitto, Ornstein non la chiarisce. Dato l'orientamento generale della psicologia del Sé di Kohut, si può congetturare quale sia questa ragione. Come ha notato Wallerstein (1980) e come ho notato anch'io nella mia disamina del modello, implicito in Kohut, della terapia «secondo compensazione delle carenze», Kohut e i suoi collaboratori ritengono che la formazione del Sé sia un prodotto diretto della misura in cui sono stati forniti al bambino alcuni elementi necessari (per esempio il rispecchiamento empatico), e non comporta un conflitto intrapsichico. A me sembra però che Kohut abbia trascurato due considerazioni importanti. L'una è che, come ho prima cercato di dimostrare, le carenze anche gravi nel fornire elementi psicologicamente «forieri di crescita» non portano solo a stati di carenza, ma spesso a conflitti intorno all'area di deprivazione. Per esempio, una persona deprivata di amore ed empatia adeguati nelle prime fasi di vita potrà dover affrontare non solo la deprivazione di questi «elementi necessari», ma anche temi conflittuali quali la rabbia distruttiva, l'ambivalenza, la cupidigia, e così via.

La seconda considerazione clinica che Kohut ha trascurato nel postulare una netta dicotomia tra psicologia del Sé e psicologia del conflitto è il semplice riconoscimento del fatto che, per usare un'espressione di G. S. Klein (1976), l'insuccesso nell'arrivare alla «risoluzione delle incompatibilità» (ossia dei conflitti) è una minaccia per l'organizzazione del Sé. Come vedremo in un successivo capitolo, le formulazioni di Klein dimostrano che porre l'accento sull'integrità e la continuità del Sé come motivazione primaria nel comportamento non è necessariamente incompatibile con una «psicologia del conflitto». Ciò che distingue Klein da Kohut è il riconoscimento da parte del primo che in un'organizzazione così complessa quale è un essere umano, obiettivi e tendenze incompatibili sono inevitabili. Ne segue che qualsiasi struttura di ordine superiore, coordinatrice e integratrice — la quale, dopo tutto, è un aspetto essenziale del concetto del Sé — avrà come compito primario l'integrazione di questi obiettivi e tendenze complessi e conflittuali. Ne segue anche che la coesività e l'integrità di questa struttura del Sé saranno in rapporto significativo col grado di riuscita nell'esecuzione di questo compito primario. Così, separare radicalmente una psicologia del Sé da una psicologia del conflitto non solo non è necessario, ma è anche fuorviante nella misura in cui evita alla prima di affrontare alcuni dei suoi fenomeni e temi maggiormente significativi.

Da notare è anche la tendenza di Kohut a impiegare, sia nelle descrizioni cliniche che nella teorizzazione, quelli che Slap e Levine (1978) chiamano «concetti ibridi» — tendenza che va collegata all'accettazione, da parte di Kohut, dell'introspezione empatica quale mezzo-guida, di elezione, per acquisire conoscenze in psicoanalisi. Certamente Kohut non è il solo ad utilizzare «concetti ibridi», ma è degno di nota che Slap e Levine si soffermino soprattutto sulle sue formulazioni per illustrare questo fenomeno. Prendiamo innanzitutto alcuni esempi tratti dal loro saggio. Nel primo esempio, Kohut (1971) afferma che «il paziente comprende che lo stato [patologico] è dovuto al fatto che il suo Sé è stato temporaneamente privato dell'investimento narcisistico coesivo fatto defluire incontrollatamente nelle sue azioni» (p. 131). Ammesso che si capiscano i termini impiegati, l'investimento narcisistico è quel genere di cosa della quale si può provare o capire di essere stati deprivati? Consideriamo un altro esempio presentato da Slap e Levine: «Si può ipotizzare la presenza di una fantasia inconscia di fellatio in cui l'ingoiare il seme magico sostituisce l'interiorizzazione e la formazione della struttura psicologica che non sono state realizzate» (p. 78 nota). Come può una fantasia sostituire un costrutto metapsicologico come l'interiorizzazione o la formazione di una struttura?

Negli esempi citati il livello di descrizione prossima all'esperienza e all'osservazione è frammisto a costrutti molto astratti, metapsicologici, distanti dall'esperienza e dall'osservazione stessa, come se entrambi i livelli si riferissero all'esperienza e al comportamento effettivi della persona. È ironico che Kohut, il quale sposa così nettamente il concetto che empatia e introspezione siano il segno distintivo dell'approccio psicoanalitico, finisca poi per confondere così facilmente ciò che la persona prova o potrebbe provare con un resoconto astratto, di natura metapsicologica o eziologica. Quest'ultimo, dato il suo livello di discorso, non potrebbe mai rappresentare semplicemente una comprensione empatica di ciò che un'altra persona prova, né ci si dovrebbe aspettare che lo sia. Allo stesso modo, come si può conoscere in modo empatico il ruolo eziologico- causativo delle prime esperienze del paziente (o anche di ciò che è stata la prima esperienza)? O ancora, per fare un altro esempio, come può l'empatia permettere di effettuare delle diagnosi «alla cieca» dei genitori del paziente? E ancora, benché si possano riecheggiare empaticamente le emozioni e le paure di un altro, come si fa a conoscere in modo empatico quali sono le carenze strutturali di un paziente? Come si fa a distinguere empaticamente la sensazione e la fantasia di un'altra persona di avere delle carenze, dal fatto che questa persona presenta oggettivamente una carenza strutturale (sto ipotizzando di sapere veramente cosa intendiamo con questo termine)? Quest'ultima è il tipo di conoscenza che si potrà mai raggiungere in modo empatico? In realtà, come sottolinea Levine (1979), il fatto che il terapeuta asserisca di avere una conoscenza empatica dei disturbi del Sé di un paziente può servire a confermare le fantasie di quest'ultimo di avere effettivamente questi disturbi, e può anche impedire un'esplorazione analitica di queste fantasie. Parafrasando un vecchio detto: con un'empatia di questo genere, non c'è bisogno di capire male le cose.

Tutte le interpretazioni e le formulazioni psicoanalitiche comportano il rischio di essere intrinsecamente incongrue rispetto a ciò che sta avvenendo nel paziente e a ciò che egli sta esperendo35. È più facile essere attenti a questa possibilità e riconoscerla, se si ammette che la propria interpretazione è, dopotutto, un'inferenza. Al contrario, affermare che le proprie interpretazioni e formulazioni si basano esclusivamente sull'empatia può impedire o procrastinare il riconoscimento della pro-pria fallibilità, nella misura in cui permette di credere che questa via consenta un accesso diretto e privilegiato a ciò che un altro sta provando. In ogni caso, malgrado Kohut assegni all'empatia un grande valore, un'attenta lettura della sua opera — sia dei resoconti clinici che della teoria — dimostra, a mio avviso, che le sue descrizioni e formulazioni non sono in alcun modo manifesto più vicine all'esperienza o più ancorate in senso esperienziale della maggior parte degli scritti psicoanalitici.

Una caratteristica notevole degli scritti di Kohut è che egli fa asserzioni di natura eziologica senza alcuna prova al di fuori del materiale presentato da pazienti adulti — o, più esattamente, al di fuori dell'interpretazione che di questo materiale ha fatto l'analista — riguardo a ciò che essi esperiscono attualmente e/o ricordano di aver provato nell'infanzia. Dato che questo materiale è riportato con tanta frequenza e tanta sicurezza da Kohut e dai suoi seguaci, si rischia di perdere di vista il fatto concreto e sorprendente che formulazioni relative, per esempio, agli effetti del primo rispecchiamento empatico (o della sua mancanza) o della prima idealizzazione (o della sua mancanza) non si basano su nessuna prova affidabile e sistematica e non comprendono nemmeno un solo studio longitudinale o di follow-up sugli effetti di questi fattori sullo sviluppo successivo. Ma a questo riguardo Kohut non ha forse più colpa di molti altri autori, che fanno asserzioni simili con la stessa mancanza di prove. Esamineremo ulteriormente questo argomento in un successivo capitolo.

Come osserva Stolorow (1976) vi sono evidenti somiglianze tra la psicologia del Sé di Kohut e la terapia centrata sul paziente di Rogers (per esempio, 1951) (terapia che, va notato, anch'egli concepisce come una psicologia del Sé). Considero questa somiglianza un «problema», in quanto Kohut non ha ga- puto riconoscere appieno le influenze di altri e quali sono stati i suoi predecessori. Per dare a Cesare quel che è di Cesare, è importante citare almeno alcuni dei notevoli parallelismi rilevati da Stolorow tra le formulazioni di Kohut e quelle di Rogers: il mettere in guardia contro l'interpretazione, che può essere esperita come una minaccia al Sé grandioso del paziente; il parallelismo tra il transfert di rispecchiamento di Kohut e il rispecchiamento da parte di Rogers e il bisogno del paziente di sentirsi considerato; l'accentuazione, comune ai due, dell'empatia e del mondo fenomenico del paziente (o del cliente); l'interiorizzazione degli atteggiamenti del terapeuta, della «considerazione positiva incondizionata» nel caso di Rogers, e del rispecchiamento empatico nel caso di Kohut; per finire, il parallelismo tra l'obiettivo di Kohut di depotenziare il Sé grandioso e arcaico e l'obiettivo di Rogers di depotenziare il Sé ideale e ridurre la discrepanza tra esso e il vero Sé.

Per finire, arrivo alla tendenza di Kohut (e dei suoi seguaci) di reificare il concetto del Sé e confondere, apparentemente, vari contesti di discorso nell'esame della psicologia del Sé. Come ha sottolineato tempo fa Hartmann (1950), la definizione più semplice e meno problematica del Sé è «la propria persona» (p. 127). Rubinstein (1981) ha ulteriormente chiarito questa definizione, notando che il Sé si riferisce all'aspetto soggettivo della persona ed «è la persona quale essa è a se stessa» (p. 13). In altri termini, si può apparire — e spesso si appare a se stessi — in modo diverso da come si appare agli altri. Per esempio, quando diciamo che una persona ha un «Sé grandioso» intendiamo dire che vede se stessa in un certo modo irrealistico e stravagante e attribuisce a se stessa alcune qualità stravaganti che è molto difficile che gli altri vedano in lui, e sono molto diverse dalle qualità che gli altri gli attribuiscono (non intendo entrare nella discussione per stabilire a che cosa questo Sé grandioso costituirebbe una reazione). O, per fare un altro esempio tratto da Rubinstein, dire «egli ama il proprio Sé» o «egli odia il proprio Sé» può essere sostituito con l'impiego del pronome riflessivo, dicendo: «egli ama se stesso», o «egli odia se stesso». In entrambi i casi, queste frasi significano rispettivamente: «egli ama la persona che è» (o, aggiungerei io, «egli ama certi aspetti della persona che è»), oppure: «egli odia la persona che è» (oppure: «egli odia certi aspetti della persona che è»). Ma come sottolinea Rubinstein, ciò che a cuni teorici della psicoanalisi, ivi compreso Kohut, sembrano fare è prendere alla lettera il primo insieme di frasi — vale a dire trattare il concetto del Sé in quanto sostanza o entità distinta, separata dal concetto di persona. Oppure essi utilizzano il concetto del Sé riferendosi talvolta all'aspetto soggettivo della persona, altre volte a una struttura organica. Così in un suo passo, riferendosi chiaramente all'individuo, Kohut (1977) definisce il Sé come «il centro dell'universo psicologico», e due righe dopo parla del Sé come di «contenuto di un apparato mentale» (1977, p. 11).

La stessa confusione e mescolanza di contesti si ritrova nell'esame che Kohut fa del Sé frammentato. Talvolta, per esempio, quando parla di «angoscia di disintegrazione» ne parla in termini soggettivi, dal punto di vista del paziente. Così, nel provare un'«angoscia di disintegrazione» ci si può sentire frammentati, come se si venisse disintegrati in tanti pezzi. E in effetti, generalmente ci si può sentire frammentati, scissi, non integrati, ecc. Ma in altre occasioni Kohut e i suoi seguaci parlano di mancanza di coesività del Sé, di Sé frammentato, e di disturbi del Sé come se si riferissero a effettive «crepe» in un'entità strutturale concreta, proprio come si parlerebbe di fessurazioni in una struttura geologica. La domanda che Rubinstein pone a questo proposito è se un termine come Sé frammentato sia qualcosa di più di una metafora o di una descrizione sintetica delle «varie carenze» e dei sintomi del paziente. Ora, non c'è nulla di male nell'impiegare metafore e descrizioni sintetiche. Le difficoltà nascono quando si confondono queste metafore e queste descrizioni con entità esistenti, e quando si è convinti di aver dato una spiegazione di queste carenze e sintomi.

A mio avviso un motivo della forte reazione da parte di molti a locuzioni quali Sé frammentato e mancanza di coesività del Sé è la profonda convinzione che tali locuzioni si riferiscano a un livello di esperienza più profondo, viscerale. Ho osservato questa reazione quando ho tenuto seminari sulla psicologia psicoanalitica del Sé. La gente non reagisce in questo modo quando si parla dell'Es, dell'Io e del Super-io, o anche quando si parla di desideri inconsci. Alcuni però reagiscono con forza quando si parla di mancanza di coesività del Sé perché questa espressione è in consonanza con il modo in cui spesso sentono se stessi. In altri termini la descrizione, da parte di un osservatore, riguardante il tipo di persona che una persona è per se stessa sembra essere in consonanza con le sensazioni soggettive circa il tipo di persona che si appare a se stessi. Questo è certamente un aspetto critico di ciò che normalmente intendiamo per empatia. Tuttavia è molto importante notare che la sensazione soggettiva di essere frammentata che una persona ha non significa che essa possieda una struttura — un Sé — frammentata. Quest'ultima affermazione che, come ho notato prima, non ha nulla a che vedere con l'empatia, si basa sulla forza di convinzione della metafora «Sé frammentato» e sulla sua capacità di riecheggiare empaticamente le sensazioni soggettive della persona. La vacuità esplicativa delle formulazioni kohut- tiane diventa evidente non appena ci si rende conto che egli sta volutamente spiegando — o in qualche modo rendendone conto — le sensazioni dell'essere frammentato o del considerarsi una persona frammentata riferendosi a un Sé frammentato. Cosa causa la sensazione di essere frammentato? Risposta: un Sé frammentato.

Precedentemente ho riportato le critiche di Levine (1979) secondo cui Kohut non distingue fra le fantasie che il paziente fa di avere delle carenze e il suo reale avere delle carenze, e inoltre non analizza queste fantasie. Queste critiche erano pre-sentate nel contesto dell'ambito terapeutico. I miei commenti precedenti sottolineano sostanzialmente la stessa cosa nel contesto di una dimostrazione della loro vacuità a fini esplicativi.

Per finire, ricorderò l'osservazione di Slap e Levine (1978) secondo cui Kohut fa abbondante impiego di «concetti ibridi», vale a dire di concetti astratti, metapsicologici, utilizzati come se si riferissero all'esperienza effettiva della persona. A me sembra che il Sé e tutta una serie di altri concetti relativi al Sé (per esempio quello di Sé frammentato) siano, così come impiegati da Kohut, sostanzialmente dei «concetti ibridi», che talvolta si riferiscono al mondo della persona soggettiva e talaltra al mondo non-personale degli organismi — o, ancor peggio, che sono utilizzati come se appartenessero a un mondo quando in realtà appartengono all'altro.

Implicazioni per il trattamento

Esaminiamo ora brevemente le implicazioni che alcune formulazioni di Kohut hanno per il trattamento. Consideriamo innanzitutto le implicazioni del modello kohuttiano dello sviluppo. Come prima osservato, io non credo si possa ipotizzare che, dato che il paziente ha disturbi della personalità narcisistica oppure è borderline o schizoide, si possa limitare la propria attenzione ai disturbi del Sé o ad altre presunte tematiche pre-edipiche e ignorare i problemi edipici, asserendo che questi ultimi sono suc-cessivi in termini di sviluppo e pertanto pertinenti solo ai pazienti nevrotici. Questa ipotesi, che trova ampia espressione in gran parte dell'attuale letteratura, si basa — come ho cercato di dimostrare — su una teoria non esatta della natura dello sviluppo psicologico. A mio avviso, per quanto riguarda il trattamento è più realistico aspettarsi che in tutti i pazienti emergerà e sarà necessario affrontare materiale proveniente da molti livelli diversi di sviluppo anche se, naturalmente, vi saranno delle' variazioni tra paziente e paziente quanto a contenuto specifico, stile nell'affrontarlo, misura in cui predominerà un livello particolare (per un'ulteriore elaborazione .di questo punto di vista, cfr. Gedo [1979]).

La dicotomia tra carenze da una parte e conflitti intrapsichici dall'altra è anche espressa nel concetto kohuttiano di «angoscia di disintegrazione» che ho prima esaminato. Nello schema di Kohut questo tipo di angoscia è, come sottolineato da Levine (1977), un'esperienza passiva basata su carenze reali, più che un evento dinamico che coinvolge desideri, conflitti e difese. Come già osservato, una conseguenza terapeutica potenzialmente insidiosa della concezione generale secondo cui le difficoltà e le angosce del paziente sono dovute a effettive carenze precoci è che questo in una qualche misura conferma la fantasia del paziente di avere, dopotutto, delle carenze (Levine, 1979).

Un'altra difficoltà che l'approccio terapeutico fatto proprio da Kohut e seguaci presenta — perlomeno per quanto riguarda il fatto di considerarlo un trattamento psicoanalitico — è che esso tende a sostituire la gratificazione all'interpretazione. Nella sua analisi dei casi clinici pubblicata da Goldberg (1973) Levine (1979) ha dimostrato che, benché i seguaci di Kohut auspichino l'impiego dell'interpretazione nel trattamento, in casi specifici l'interpretazione passa in secondo piano e vengono invece offerte al paziente varie gratificazioni (per esempi clinici specifici, cfr. Levine, 1979).

Ho sempre trovato delle difficoltà in quelle descrizioni della terapia con adulti che concepiscono il cambiamento terapeutico totalmente o prevalentemente in termini di ripresa di un processo di sviluppo interrotto. Un paziente adulto è, dopotutto, in senso cronologico, fisico, sociale, e in molti campi significativi anche in senso psicologico, un adulto, e non può riprendere uno sviluppo allo stesso modo in cui un bambino normalmente attraversa il processo di sviluppo. Così, per tornare all'esempio spe-cifico esaminato prima, io non credo che dopo aver raggiunto una maggiore coesività del Sé il paziente cronologicamente adulto entri nel periodo edipico in modo simile o nemmeno analogo a come fa un bambino. Come ci ricorda Levine (1977), l'adulto è in una situazione totalmente diversa — diversa in senso sociale, fisico e psicologico — da quella del bambino. Inoltre, come puntualizza Loewald (1979), «l'analisi degli adulti, per quanto siano regrediti o [per quanto] siano immaturi in aree significative del proprio funzionamento, è un'avventura nella quale l'analizzando non solo è, in realtà, cronologicamente un adulto, ma che ha un senso solo se sono in evidenza le sue potenzialità adulte, quali si manifestano in alcune aree significative della vita» (pp. 163-64).

Nelle sue descrizioni di alcuni pazienti Kohut (insieme ad altri autori) spesso non sembra essere sufficientemente consapevole di questi punti fondamentali sui quali Loewald richiama la nostra attenzione. Per esempio, Kohut parla di alcuni pazienti come se non fossero andati al di là dei primi stadi del «Sé frammentato» e degli stadi dei «nuclei del Sé» che caratterizzerebbero la prima infanzia. Ora, sembra difficile capire o anche immaginare come un paziente adulto possa riprendere lo svi-luppo a partire da questo presunto primo periodo della crescita. Che tipo di processi possiamo immaginare siano coinvolti in questo periodo? E inoltre dobbiamo chiederci: com'è possibile che una persona rimasta fissata o bloccata a un tale stadio primitivo e precoce in un'area centrale della personalità (vale a dire la struttura del Sé o dell'Io) possa funzionare da adulto in tanti campi della vita? Com'è possibile per queste persone fare cose come pensare, comunicare, rapportarsi agli altri (anche se in modo molto disturbato), imparare, guadagnarsi da vivere, ecc.? A me sembra che le speculazioni cliniche e metapsicologiche di molti autori attuali — e a mio avviso Kohut è uno di essi — diventano quasi opere di fantasia nella misura in cui tendono a ignorare alcune di queste realtà basilari del paziente. C'è una fastidiosa tendenza in molti autori attuali verso quella che altrove (Eagle, 1982b) ho chiamato «infantilizzazione meta- psicologica» del paziente. Se si prendessero totalmente sul serio alcune di queste descrizioni di pazienti, non si riuscirebbe a capire come essi possano funzionare con un qualche grado di integrità in alcuni campi significativi dell'esistenza.

Una difficoltà che Kohut condivide anche con altri autori è un grado di vaghezza, di mancanza di chiarezza non necessario nella descrizione dei processi che mediano il cambiamento ]n terapia. Non sempre è così, perché talvolta Kohut, molto lodevolmente, è preciso riguardo ai fattori che considera responsabili del cambiamento terapeutico. Per esempio, egli esprime molto chiaramente la sua coinvinzione che le trasformazioni reali in terapia avvengano non come conseguenza di un insight intellettuale, ma «in conseguenza delle interiorizzazioni graduali che sono prodotte dal fatto che le esperienze antiche sono rivissute ripetutamente dalla psiche più matura» (1977, p. 43). Un'affermazione di questo tipo, sia essa giusta o sbagliata, ha un significato empirico ragionevolmente chiaro, può essere collegata a formulazioni simili che l'hanno preceduta, può essere resa più precisa e può, in linea di principio, essere valutata in modo più rigoroso. Oppure, come altri esempi, prendiamo l'accentuazione da parte di Kohut dell'importanza di fattori quali il processo di idealizzazione del terapeuta, l'identificazione col terapeuta e l'abbandono delle fantasie di simbiosi narcisistica col terapeuta: ebbene, a mio avviso, tutti sembrano avere un concreto contenuto empirico, sicché, per quanto difficile e complessa possa essere la loro attuazione, in linea di principio sono suscettibili di una verifica rigorosa e controllabile. Invece, uno dei concetti teorici chiave di Kohut, cui egli attribuisce il cambiamento terapeutico — la «interiorizzazione trasmutante» — è quanto di più vago ci possa essere.

Secondo Kohut, la crescita generale delle strutture psichiche avviene attraverso interiorizzazioni trasmutanti sia all'interno che all'esterno della terapia. Di solito, nella letteratura psicoanalitica il concetto di interiorizzazione è confuso e genera con-fusione, e Kohut non fa eccezione (per i tentativi recenti di portare un po' d'ordine in questo campo cfr. Meissner [1980] e Schäfer [1968]). Quando si cerca di capire cosa intende precisamente Kohut col termine «interiorizzazioni trasmutanti», si legge, per esempio, che esse comportano la creazione di strutture psichiche interne attraverso il ritiro dell'investimento dalle immagini oggettuali. Ma cosa sono le strutture psichiche? E cosa significa ritirare l'investimento dalle immagini oggettuali? A meno che le risposte a queste domande non siano ragionevolmente chiare e dotate di contenuto e riferimento empirici, le spiegazioni delle «interiorizzazioni trasmutanti» rimangono altrettanto vaghe del termine stesso. Purtroppo, a mio avviso si deve concludere che a questo punto il concetto-chiave impiegato da Kohut per descrivere e spiegare il cambiamento terapeutico ha al massimo un significato solo approssimativo e forse solo apparente.

Per concludere, un problema caratteristico di Kohut e di altri autori è che risulta difficile valutare dai loro scritti quel che effettivamente e precisamente avviene nel trattamento. Va bene parlare di empatia di rispecchiamento, di idealizzazione, di interiorizzazioni trasmutanti, ecc., ma tutto ciò lascia oscuro proprio ciò che il terapeuta fa effettivamente in una data seduta, e la natura esatta dell'interazione paziente-terapeuta. Sino a quando queste domande non saranno chiarite, non sapremo in che modo l'empatia di rispecchiamento di Kohut differisce, per esempio, dal rispecchiamento non-direttivo di Rogers (1959, 1961).

Alcuni contributi generali dell'opera di Kohut

Il lettore che ha familiarità con l'opera di Kohut può giudicare da solo in che misura essa rappresenta un contributo alla teoria e alla prassi psicoanalitica. Secondo me, ci sono alcuni contributi relativamente ben netti da segnalare. Innanzitutto gli scritti di Kohut contribuiscono al corpus generale della letteratura psicoanalitica recente, che, nel suo complesso, mostra con forza e in misura cogente come, per usare l'espressione di Wallerstein (1980), la teoria psicosessuale non costituisca un quadro di riferimento sufficiente entro cui considerare lo sviluppo psicologico. Oppure, per dirla ancor più specificamente e chiaramente (cfr. Loewald [1979]), la differenziazione tra sé e l'oggetto è un fenomeno più universale del conflitto psicosessuale. Da questo punto di vista, l'opera di Kohut si colloca accanto ai contributi,, per esempio, della Mahler (1968), di Jacobson (1964), di Klein (1976) e di Fairbairn (1952).

Se si considera la differenziazione tra sé e l'oggetto un parametro centrale e universale, diventa chiaro che i temi legati a questa dimensione svolgeranno un ruolo significativo durante la terapia, in particolare coi pazienti più disturbati. Come osserva Gedo (1980), il riconoscimento da parte di Kohut dell'importanza e del bisogno di affrontare i desideri di simbiosi37 durante il trattamento di alcuni pazienti rappresenta un possibile contributo all'efficacia del trattamento stesso e di quello che si è arrivati a definire l'obiettivo in espansione del trattamento psicoanaliticamente orientato.

Un contributo di carattere generale dato da Kohut (alcuni lo considerano regressivo, ma io no) è il fatto che egli ha in una certa misura facilitato l'introduzione o la reintroduzione del concetto del Sé nella teoria psicoanalitica. Da questo punto di vista, T opera di Kohut trova posto accanto alle formulazioni di Sullivan (1947, 1953), di Erikson (1959, 1963), di Jacobson (1964), di G. S. Klein (1976) e di Gedo (1979), i quali tutti, al di là delle loro differenze (e sono considerevoli), hanno ritenuto essenziale che una teoria del comportamento umano assegni un Posto centrale al concetto del Sé e dell'organizzazione del Sé.

Ho detto «reintroduzione del concetto del Sé» perché qualcuno ha sostenuto (per esempio Brandt [1966]) che originariamente la psicoanalisi tradizionale aveva un concetto del Sé, il freudiano «Das Ich», e che se questo termine fosse stato più esattamente tradotto con «l'Io» o «il Sé», ciò sarebbe stato manifesto.

Infine, penso valga la pena citare come contributo di Kohut il rilievo dato agli obiettivi, ai valori e ideali-guida, sia come riflesso sia come elemento di mantenimento della salute psichica. Questi fattori non hanno ricoperto un ruolo preminente nelle formulazioni psicoanalitiche tradizionali (una notevole eccezione a questa generalizzazione rappresenta l'opera di Jacobson [1964]), e sono stati ampiamente affrontati soprattutto da Erikson (1959, 1963) nel contesto degli scritti sull'identità dell'Io. Si condividano o meno i concetti kohuttiani dello sviluppo di obiettivi, di valori e ideali, a Kohut va comunque attribuito il merito di aver riconosciuto la loro importanza psicologica.

Sommario

Negli scritti di Kohut troviamo tre punti di vista discrepanti rispetto alla teoria delle pulsioni tradizionale. In primo luogo, l'idea che tale teoria sia valida per un'area circoscritta, in particolare per le «nevrosi strutturali»; in secondo luogo, il «principio di complementarità», nel quale sia la teoria delle pulsioni sia la psicologia del Sé costituiscono differenti prospettive sostanzialmente sullo stesso insieme di fenomeni; in terzo luogo la posizione più radicale, quella per cui la teoria delle pulsioni è sostituita da una psicologia del Sé lungo tutta la gamma dei fenomeni dello sviluppo e di quelli patologici. Kohut suggerisce, ma è restio ad adottarla esplicitamente, quest'ultima posizione. Ma è proprio quest'ultima posizione che Kohut e i suoi seguaci hanno finito per adottare, sia in modo implicito che esplicito.

Essa equivale a un rifiuto totale della teoria freudiana delle pulsioni e all'affermazione pura e semplice che alla fin fine i temi di base nello sviluppo e nella patologia non hanno prevalentemente a che vedere col conflitto tra desideri istintuali, Io e Super-io, ma con lo sviluppo di un Sé intatto e coesivo, caratterizzato da un chiaro senso d'identità, dalla capacità di esprimere i propri talenti, le proprie ambizioni e aspirazioni, dalla formazione di interessi, valori, ideali e obiettivi, dalla capacità di rapportarsi agli altri nel mondo.

Ciò che sembra implicito negli scritti di Kohut è che gli altri problemi che si verificano nel corso dell'esistenza, quali il senso di colpa di origine sessuale o il senso di colpa in rapporto alla lotta competitiva, tenderanno ad essere suscettibili all'azione di mezzi d'intervento relativamente economici (vale a dire, una psicoterapia breve) quando sono presenti nel contesto di un Sé saldo e coesivo, e tenderanno a resistere a tali interventi quando sono presenti in una persona che non ha un Sé coesivo. In entrambi i casi, i problemi nevrotici tipici di per sé non costi-tuiscono la sfida terapeutica principale del nostro tempo. Ha notato Erikson (1963) qualche tempo fa che il paziente d'oggi soffre soprattutto del fatto di non sapere in cosa credere, cosa dovrebbe — o potrebbe — essere o diventare, mentre agli inizi della psicoanalisi il paziente soffriva perlopiù di inibizioni che gli impedivano di essere ciò che riteneva essere.

Di regola i pazienti di oggi non presentano solo i classici problemi nevrotici di natura edipica, ma piuttosto quel tipo di problemi che si è arrivati a definire schizoidi, borderline e narcisistici. Quali che siano le ragioni, i problemi del Sé e delle relazioni oggettuali — esperiti sotto forma di senso d'inutilità, di vuoto, di depressione diffusa, di mancanza di interessi, obiettivi, ideali e valori motivanti, di sensazione di non essere legati agli altri — sono i sintomi di gran lunga predominanti nel paziente medio d'oggigiorno38. Inoltre, già nel 1954 Winnicott (1958) aveva messo in guardia i giovani analisti avvertendoli che era poco probabile che nella loro professione avrebbero incontrato molti pazienti nevrotici classici; è chiaro dunque che siamo di fronte a un fenomeno di una certa durata.

Vorrei commentare di sfuggita il problema del cambiamento di natura della patologia, ammesso che tali cambiamenti si siano in realtà verificati. Come sottolineano Morgenthau e Person (1978) i teorici della psicoanalisi, anche quando riconoscono l'influenza di fattori sociali più ampi sulla personalità e sulla patologia, tendono a ridurre questi fattori alle prime esperienze e all'educazione ricevuta dal bambino. In altri termini, se i fattori sociali influenzano lo sviluppo della personalità lo fanno soprattutto attraverso il veicolo dei processi di educazione del bambino. Questo lo vediamo, per esempio, nell'ipotesi di Kohut (1977) secondo cui la patologia del Sé del nostro tempo è conseguenza della sottostimolazione genitoriale (la quale, a sua volta, è funzione del fatto che i genitori lavorano, del tempo speso nei tragitti di andata e ritorno dal lavoro, ecc.) a differenza della sovrastimolazione che sarebbe una caratteristica dei pazienti nevrotici.

È tuttavia possibile che dato un «ambiente medio prevedibile» (p. 88) delle prime esperienze di accudimento (relative al rispecchiamento empatico, all'essere tenuti in braccio, all'identificazione simbiotica, ecc.), una maggiore frequenza dei disturbi del Sé possa cionondimeno verificarsi per via di alcuni fattori sociali che non sono mediati dal maternage e dalle esperienze di educazione del bambino. Per esempio, la mancanza di ideologie e valori stabili, o un particolare insieme di valori o un'atmosfera di disillusione e di cinismo nella società di cui facciamo parte possono essere potenti fattori che contribuiscono al senso di vuoto e di mancanza di significato, e possono essere massivamente operativi non nella prima e nella seconda infanzia, ma nel periodo che va dalla pre-adolescenza agli inizi dell'età adulta. In ogni caso, l'intero campo richiede ulteriori indagini e ulteriori, attente riflessioni.

Per tornare al sommario delle concezioni di Kohut, quando si esamina nei suoi scritti quella che ho definito la posizione radicale, diventa chiaro che essa è simile, per importanti aspetti, alla posizione assunta dai cosiddetti teorici delle relazioni oggettuali. Fairbairn e Guntrip hanno sostanzialmente sostenuto che il problema centrale di tutta la psicopatologia si incentra attorno alla mancanza di strutture del Sé intatte. Quei problemi che nella teoria classica (le «nevrosi strutturali» di Kohut) sono classificati come nevrotici, da Fairbairn e Guntrip sono visti come difese contro il problema centrale di esperire una mancanza di senso intatto del Sé.

Secondo questa concezione c'è solo una patologia del Sé più o meno grave, anziché categorie nosologiche qualitativamente diverse delle nevrosi, nelle quali sono primari i conflitti pulsionali e strutturali da una parte, e i disturbi del Sé dall'altra. A differenza di Kohut, Fairbairn e Guntrip lo affermano in modo diretto e non ambiguo; entrambi, infatti, non devono preoccuparsi di fare in qualche modo spazio alla teoria classica delle pulsioni, giacché la loro teoria delle relazioni oggettuali si basa sin dall'inizio su un esplicito e diretto rifiuto della teoria freudiana delle pulsioni. Nel capitolo successivo presenterò le formulazioni di Fairbairn, in quanto rappresentante dei teorici inglesi delle relazioni oggettuali. Sebbene anche altri, come Guntrip, Winnicott e Balint abbiano dato importanti contributi in questo campo, gli scritti di Fairbairn sono più sistematici ed esaustivi.

LA SOSTITUZIONE DELLA TEORIA DELLE PULSIONI CON LA TEORIA DELLE RELAZIONI OGGETTUALI: L'OPERA DI FAIRBAIRN

Come abbiamo visto nel cap. 5, l'opera di Fairbairn è caratterizzata da un netto rifiuto della teoria freudiana delle pulsioni, che viene sostituita con una teoria esaustiva delle relazioni oggettuali. L'approccio di Fairbairn al comportamento umano è espresso nel modo più conciso dal seguente passo di Ernest Jones, nella prefazione al libro di Fairbairn Studi psicoanalitici sulla personalità:

Se fosse possibile condensare in una frase le nuove concezioni di Fairbairn, potremmo esprimerle nel seguente modo. Invece di partire, come Freud, dalla stimolazione del sistema nervoso derivante dall'eccitazione di varie zone erogene e dalla tensione interna proveniente dall'attività delle gonadi, Fairbairn si concentra sul nucleo della personalità, l'Io, e ne descrive le lotte e difficoltà nello sforzo di raggiungere un oggetto dove può trovare sostegno (p. 15).

Una descrizione ancor più concisa delle differenze fondamentali tra Fairbairn e la teoria freudiana è la sua affermazione secondo cui «il principio conclusivo da cui è derivato il complesso delle mie vedute personali può essere formulato nella proposizione generale che la libido non è primariamente una ricerca di piacere, ma una ricerca di oggetto» (1952, p. 169). Altrove Fairbairn nota che «in base alla concezione che sono ora giunto ad adottare, si può dire che la psicologia si risolva in uno studio delle relazioni dell'individuo coi suoi oggetti, mentre, in termini analoghi, si può dire che la psicopatologia si risolva più specificamente in uno studio delle relazioni dell'Io coi suoi oggetti interiorizzati» (1952, p. 86). Benché Guntrip (1968) ritenga la teoria delle relazioni oggettuali un parallelo inglese della teoria interpersonale di Sullivan, è il concetto kleiniano di oggetti interiorizzati (malgrado l'affermazione di Guntrip) ciò che più di qualsiasi altra cosa distingue chiaramente i due approcci — ma su questo concetto tornerò in seguito.

Partendo dall'idea centrale che l'Io sia alla ricerca di oggetti, Fairbairn reinterpreta molte formulazioni freudiane tradizionali. Per esempio, ciò che viene rimosso non sono gli impulsi dell'Es, ma strutture dell'Io scisse e oggetti interiorizzati che appaiono intollerabilmente cattivi. Gli stadi psicosessuali sono tecniche impiegate dall'Io per regolare i rapporti con gli oggetti. L'alleviamento della tensione non è la direzione di base della persona, ma un principio deteriorativo che opera quando vi si registra un insuccesso nelle relazioni con l'oggetto. «Quindi non è un mezzo per raggiungere i fini libidici [che sono, naturalmente, le relazioni oggettuali], ma un mezzo per mitigare il fallimento di questi fini» (1952, p. 172) (si noti, a questo proposito, la somiglianza tra le concezioni di Fairbairn e quelle di Kohut). L'aggressività non è un istinto innato, ma una reazione alla deprivazione e alla frustrazione. La personalità non si suddivide tra un'energia priva di struttura (l'Es) e una struttura priva di energia (l'Io). L'Io, al contrario, è una struttura con propri obiettivi dinamici. Di conseguenza, il conflitto intrapsichico non è concepito nei termini di un modello Es-Io, quanto piuttosto in termini di scissioni nell'Io stesso.

Sarebbe utile precisare in maniera più esaustiva e dettagliata i concetti di Fairbairn, anziché limitarsi a specifici confronti con la teoria freudiana. In un certo senso le formulazioni di Fairbairn costituiscono tanto una psicologia dell'Io quanto ciò che si è arrivati a chiamare una psicologia psicoanalitica dell'Io (cfr. l'opera di Hartmann, Rapaport ed altri). In altre parole, lo sviluppo della personalità, la psicopatologia e il comportamento in generale sono considerati dal punto di vista dell'Io e, in particolare, dal punto di vista del rapporto dell'Io con gli oggetti esterni e interiorizzati. Naturalmente, ciò che distingue la psicologia dell'Io di Fairbairn da quella di Hartmann non è solo l'accento posto dal primo sulle relazioni oggettuali, ma anche il suo rifiuto del paradigma Es-Io. Nella teoria di Fairbairn non vi è alcun Es dal quale l'Io sia primariamente o secondariamente autonomo. Ci sono solo strutture dell'Io con i loro obiettivi e i loro impusi dinamici. L'autonomia dell'Io non è condizionata, ma totale. Nel sistema di Fairbairn lo sviluppo dell'Io e lo sviluppo della personalità in generale sono considerati non in termini di vicissitudini delle pulsioni o di apparati dell'Io, ma come movimento della persona da un primo stato di dipendenza infantile, basato sull'identificazione primaria con l'oggetto, a uno stato di dipendenza matura basato sulla differenziazione del Sé dall'oggetto (si noti la somiglianza di questa posizione con la concezione mahleriana dello sviluppo psicologico come separazione-individuazione, e con altre concezioni generali — per esempio quella di Kohut — nelle quali punto di vista centrale nel considerare lo sviluppo è la differenziazione del Sé dall'oggetto).

I tre stadi da notare nello sviluppo dell'Io sono: 1) la dipendenza infantile; 2) uno stadio transizionale; 3) la dipendenza adulta o matura. Secondo Fairbairn, alla base di ogni patologia ci sono carenze dello sviluppo (dovute a traumi e deprivazioni) durante il passaggio dal primo stadio di dipendenza infantile, e reazioni difensive del soggetto a queste carenze. I conflitti di base soggiacenti a ogni patologia sono: il conflitto schizoide tra «amare o non amare» e il dilemma che lo accompagna, e cioè come amare senza distruggere col proprio amore divorante l'oggetto di cui si ha bisogno; oppure il conflitto depressivo tra «amare o odiare» e il dilemma che l'accompagna, ovvero distruggere col proprio odio l'oggetto di cui si ha bisogno.

È nel primo stadio, quello della dipendenza infantile, che si verifica la scissione dell'Io — un fenomeno universale soggiacente a ogni patologia. Il concetto di scissione dell'Io riveste un ruolo centrale nella teorizzazione di Fairbairn, per il quale la scissione costituisce l'essenza della posizione schizoide e si ritrova, in misura diversa, nella schizofrenia manifesta e nelle nevrosi. Ma cos'è la scissione dell'Io? E come la concepisce Fairbairn? A mio avviso la descrizione che ne dà Fairbairn rivela una metapsicologia oscura, involuta, difficile da capire e i cui referenti empirici non sono, diciamo così, affatto chiari. Così come riesco a intenderla, essa asserisce più o meno quanto segue.

Inizialmente, il neonato scinde la figura della madre in un oggetto buono e in un oggetto cattivo (p. 140), onde migliorare l'ambivalenza dell'oggetto che esperisce. Successivamente interiorizza l'oggetto cattivo per «trasferire il fattore traumatico della situazione al campo della realtà interiore, in cui sente che le situazioni sono maggiormente sotto controllo» (p. 140). Le caratteristiche ambivalenti dell'oggetto cattivo costituiscono la base della scissione dell'oggetto interiorizzato in un «oggetto eccitante» e in un «oggetto rifiutante». Entrambi questi oggetti interiorizzati vengono poi rimossi dall'Io (centrale). Dato che parti dell'Io rimangono attaccate agli oggetti rimossi, la rimozione degli oggetti significa che parti dell'Io stesso vengono scisse e rimosse. Le parti dell'Io scisse dall'Io centrale sono chiamate da Fairbairn l'«Io libidico» (struttura dell'Io attaccata all'oggetto eccitante) e l'«Io antilibidico» o «sabotatore interno» (struttura dell'Io attaccata all'oggetto rifiutante).

Le formulazioni di Fairbairn sollevano parecchie questioni, sia da un punto di vista interno che esterno. Per esempio, rimanendo completamente all'interno del suo sistema una domanda che nasce è se siano interiorizzati solo gli oggetti cattivi. Benché talvolta Fairbairn parli anche di interiorizzazione degli oggetti buoni, la maggior parte delle sue annotazioni e la logica della sua teorizzazione suggeriscono che la prima interiorizzazione si intende applicata solo agli oggetti cattivi. Così, a differenza di Melanie Klein, per Fairbairn l'interiorizzazione avviene sotto l'impatto della deprivazione e della frustrazione, ed è motivata dal bisogno di far fronte alla malvagità dell'oggetto, persino assumendo e prendendo su se stessi questa malvagità. In effetti, la prima difesa del neonato contro le esperienze negative — sostiene Fairbairn — è l'interiorizzazione psichica dell'oggetto associato alle esperienze negative. Benché Fairbairn non effettui esplicitamente questa connessione, sembrerebbe che la prima «identificazione primaria» tra il bambino e la persona che si prende cura di lui predisponga il neonato all'interiorizzazione dell'oggetto.

Anche Guntrip (1969) ha cercato di chiarire il tema dell'interiorizzazione dei soli oggetti cattivi o dell'interiorizzazione degli oggetti sia buoni che cattivi, distinguendo tra due tipi di interiorizzazione. Le esperienze positive — sostiene — sono interiorizzate sotto forma di ricordi e fungono da alimento psichico, per così dire, per la costruzione delle strutture psichiche. Si possono chiarire ulteriormente le differenze tra interiorizzazione degli oggetti buoni e degli oggetti cattivi ricorrendo all'analogia del mangiare e del digerire (presa a prestito da Piaget [1966], che la utilizza in un altro contesto). Il cibo commestibile che viene mangiato e digerito è metabolizzato sotto forma di sostanze-base che vengono assimilate dall'organismo e servono da alimento per la costruzione e il rifornimento di energia della struttura e dei processi somatici. In una parola, il cibo ingerito diventa parte naturale del corpo e ne è assimilato. Al contrario, le sostanze non digeribili che ingeriamo non possono essere digerite e metabolizzate, non possono essere assimilate, non possono servire da alimento per fornire energie costruttive. Rimangono corpi estranei e mantengono la loro identità di sostanze estranee. Un'analoga differenza esiste anche — dice Guntrip — tra interiorizzazione delle esperienze buone e interiorizzazione delle esperienze cattive. Le prime vengono interiorizzate sotto forma di ricordi e servono per la costruzione di strutture psichiche cognitive e affettive, nonché dell'identità. Nelle esperienze cattive, l'oggetto cattivo viene interiorizzato come oggetto, non digerito e non assimilato, e rimane così un corpo estraneo in seno alla struttura psichica della persona.

Da un punto di vista esterno — ossia di una critica dal di fuori del sistema fairbairniano — molte critiche e domande possono essere dirette alle formulazioni di quest'autore. A mio parere, le più serie hanno a che vedere con la vaghezza e l'oscu-rità di alcuni concetti-base. Per esempio, cosa s'intende esattamente con concetti quali interiorizzazione e oggetti interiorizzati? Quale processo psicologico comune — ammesso che ve ne sia uno — di cui abbiamo una qualche conoscenza concreta, è implicato nell'interiorizzazione degli oggetti? Cosa significa dire che parti dell'Io rimangono attaccate agli oggetti interiorizzati? E cosa significa parlare di rimozione degli oggetti interiorizzati e di strutture dell'Io? Queste sono solo alcune delle domande di base che vanno poste.

Consideriamo innanzitutto il concetto di oggetto interiorizzato. La letteratura psicoanalitica sui processi di interiorizzazione — che comprendono l'incorporazione, l'introiezione e l'identificazione — è ampia e, perlopiù, fonte di confusione ed è essa stessa confusa. Il concetto fairbairniano di oggetto interiorizzato sembra appartenere a questa tradizione. Tuttavia si può fare un tentativo minimo di chiarificazione. Potrebbe essere utile cominciare col notare che ciò che Fairbairn descrive come oggetto interiorizzato sembra molto vicino a quello che altri nella letteratura hanno definito elemento introiettato, e quella che Fairbairn chiama interiorizzazione (dell'oggetto) altri l'hanno chiamata introiezione. Una volta tradotto «oggetto interiorizzato» in «oggetto introiettato», guardiamo più da vicino quest'ultimo. La maggior parte delle descrizioni psicoanalitiche dell'introiezione implicano il concetto essenziale dell'incamerare e portare a far parte di se stessi un qualche insieme di rappresentazioni esperite (ivi comprese caratteristiche, valutazioni, proibizioni e funzioni) dell'altro. Ora questo processo dell'incamerare e del portare a far parte di sé è comune a tutti i processi di interiorizzazione, incorporazione e identificazione incluse. Cosa distingue allora l'introiezione da altri processi di interiorizzazione? A me sembra che ciò che Fairbairn intende con il termine oggetto interiorizzato e che gli altri intendono con il concetto di introiezione è l'idea che ciò che è incamerato non e pienamente integrato nell'organizzazione del Sé. Il risultato e che gli elementi introiettati e gli oggetti interiorizzati sono — come sottolinea Schafer (1968) — spesso esperiti come presenze «avvertite» dalle quali ci si sente aggrediti (o gratificati) e in relazione alle quali ci si sente passivi Per esempio, alcuni pazienti possono riferire di avvertire una qualche forza cattiva o distruttiva che li spinge a un particolare comportamento non adattivo. All'opposto, il segno di identificazione, il processo per cui ciò che viene incamerato è più pienamente assimilato e integrato è una caratteristica «sensazione» di intenzionalità, volontà e attività.

Dato che l'oggetto interiorizzato o l'elemento introiettato non è pienamente integrato nell'organizzazione del Sé, ci si rapporta ad esso come a un oggetto — vale a dire, esso ha una qualità di relazione oggettuale, salvo che nella fattispecie ciò che prima era un rapporto con un oggetto esterno ora è sostituito da un rapporto con un oggetto interno. Consideriamo come esempio classico di introiezione la descrizione freudiana della formazione del Super-io (al quale — dice Fairbairn — può essere riportato il concetto di oggetto interiorizzato). Le punizioni, le proibizioni, le valutazioni, le regole ecc. che una volta furono esperite in rapporto a un oggetto esterno sono ora interiorizzate e rese parte di sé. Spesso, però, esse non sono pie-namente integrate nell'organizzazione del Sé, quale è espressa nella comune tendenza a esperire e descrivere queste proibizioni, ecc. come un omuncolo che sta al di fuori di noi e ci osserva mentre agiamo e pensiamo, o quale è espressa in frasi del linguaggio comune del tipo: «La mia coscienza mi dice...». Ciò che stiamo osservando — perlomeno secondo le definizioni qui adottate — è la presenza di un Super-io quale elemento introiettato più che quale prodotto di identificazioni pienamente riuscite42. Queste ultime sarebbero esperite come insieme di valori morali e di standard relativamente bene assimilati, intrinseci e facenti parte integrante della propria identità (per una descrizione più completa di questo tema e dei temi collegati cfr. Meissner [1981]).

Il legame tra oggetto interiorizzato e Super-io freudiano suggerisce che ciò che Fairbairn intende con il primo è un insieme di valutazioni di se stessi originariamente esterne che diventano interiorizzate e pertanto parte delle valutazioni che la persona fa di se stessa (in modo non diverso dalle «valutazioni riflesse» di Sullivan [1947]). Ora, se l'analogia col concetto di Super-io può essere utile, lascia però senza risposta molte domande. Per esempio, se è possibile forse capire cosa significa interiorizzare l'«oggetto rifiutante» (gli atteggiamenti e i valori rifiutanti dell'oggetto verso di me vengono interiorizzati, dimodoché ora posso rifiutare certi aspetti di me stesso), risulta più difficile capire cosa significa interiorizzare l'«oggetto eccitante», considerato il fatto che l'oggetto eccitante si riferisce sin dall'inizio non ad atteggiamenti dell'oggetto verso di me, ma a mie reazioni verso l'oggetto. In breve, l'«oggetto rifiutante» e l'«oggetto eccitante» non sembrano avere uno status concettuale paragonabile per quanto riguarda la loro suscettibilità d'interiorizzazione43.

Un'attenta lettura di Fairbairn indica che l'interiorizzazione può essere intesa in due modi fondamentali: 1) la tendenza «naturale» del bambino orale dipendente a incorporare l'oggetto col quale si è identificato. Ciò è espresso da Fairbairn nei termini seguenti: «La dipendenza infantile è caratterizzata non solamente dall'identificazione, ma anche da un atteggiamento orale d'incorporazione. Grazie a questo fatto l'oggetto con cui l'individuo è identificato diventa equivalente a un oggetto incorporato» (1952, p. 42). Il secondo modo in cui può essere intesa l'interiorizzazione è come una prima difesa del neonato. Come abbiamo osservato, Fairbairn afferma che il neonato interiorizza gli oggetti (cattivi) per rendere l'ambiente più controllabile e benevolo. «Diventando cattivo, egli prende realmente su di sé il peso della malvagità che sembra insita nei suoi oggetti», e cercando così «di liberarli dalla loro malvagità [...] è ricompensato da quel senso di sicurezza che è conferito in modo così tipico da un ambiente di oggetti buoni» (1952, pp. 91-2).

Quello che Fairbairn sembra qui suggerire è che il bambino considera proprie le caratteristiche «cattive», ovvero deprivanti e frustranti dell'oggetto, sia per la sua tendenza «naturale», specifica dell'età, a ricorrere all'identificazione (tendenza che presumibilmente non dovrebbe essere limitata alle caratteristiche «cattive»), sia per il suo bisogno difensivo di rendere l'ambiente più benevolo e tollerabile. Il che solleva tutta una serie di difficoltà e di domande, delle quali qui potremo dare solo un campionario. Per esempio, una variante della domanda spesso rivolta all'opera di Melanie Klein: il bambino è veramente capace di manovre così terribilmente complesse, dirette a uno scopo, quali prendere su di sé la malvagità dell'oggetto al fine di rendere l'ambiente meno cattivo?

C'è poi un'altra difficoltà relativa al concetto secondo cui il bambino assume su di sé la «malvagità» dell'oggetto. Dato che le caratteristiche «cattive» dell'oggetto di cui stiamo parlando sono un comportamento di rifiuto e di deprivazione, assumere su se stessi la «malvagità» dell'oggetto significa che anche il bambino dovrebbe divenire, e sentirsi, rifiutante e deprivante.

Ora, benché presumibilmente questo esito si verifichi (come nel caso di un Super-io primitivo e rigido, o di ciò che Fairbairn chiama «il sabotatore interno»), spesso la «malvagità» del bambino è reciproca rispetto al rifiuto della madre, piuttosto che una diretta identificazione con esso. In altre parole, la «malvagità» del bambino assume la forma non del sentirsi rifiutante e deprivante, ma del sentirsi e dell'essere degno di rifiuto e tale da meritare la deprivazione. In alcune delle descrizioni cliniche dello stesso Fairbairn, intese a fornire concreti esempi di interiorizzazione degli oggetti, il bambino si comporta non in modo rifiutante e deprivante, ma come una persona che è oggetto di rifiuto e deprivazione e non merita niente altro. L'immagine che egli ha di se stesso rivela, per dirla con Sullivan (1947), più le «valutazioni riflesse» dell'oggetto che l'identificazione con l'oggetto stesso. Abbiamo a che fare con un'immagine di se stessi che è il prodotto di un adeguarsi alla valutazione di altre persone significative. Questo processo è diverso dall'interiorizzare direttamente l'atteggiamento di rifiuto del genitore, per cui si rifiutano alcuni aspetti di se stessi, e poi ci si sente privi di valore. Nel primo caso abbiamo un rispecchiamento diretto degli atteggiamenti e delle valutazioni di altre persone significative, mentre nel secondo è chiaramente implicato un conflitto intrapsichico (in termini tradizionali, un tipico conflitto tra Es e Super-io). Fairbairn non chiarisce del tutto che tipo di interiorizzazione ha in mente.

Un altro aspetto delle difficoltà riguardo al concetto di oggetto interiorizzato è il seguente: il concetto di oggetto interiorizzato come corpo estraneo, che necessita di essere espulso, comporta un nucleo di aspetti relativi a se stesso e che sono di fatto proprio il Sé. In altre parole, se un corpo estraneo deve essere espulso, deve esserlo da un ambiente dal quale è estraneo. Ma qual è la natura di questo nucleo che costituisce veramente jl Sé e qual è la natura dell'ambiente in rapporto al quale l'oggetto interiorizzato è estraneo o alieno? Nella misura in cui Fairbairn definisce la struttura psichica (quella che egli chiama la «situazione endopsichica basilare») quasi completamente in termini di oggetti interiorizzati e di sub-strutture dell'Io ad essi attaccate, nascono due ulteriori domande: 1) che altro vi è nella struttura della personalità (oltre all'Io centrale, che è l'aspetto conscio, orientato sull'ambiente, della personalità)? 2) cosa rimane una volta che siano stati espulsi gli oggetti interiorizzati? Le uniche risposte implicite di Fairbairn a questi interrogativi sembrano risiedere nell'idea che prima dell'interiorizzazione degli oggetti e delle conseguenti «scissioni dell'Io », il neonato è dotato di una «originaria struttura egoica unitaria» (p. 181), la quale, nel contesto attuale, rappresenta secondo me il concetto che Fairbairn ha del vero nucleo della personalità (su questo concetto tornerò in seguito).

Per illustrare più concretamente le cose sul piano del comportamento, il fatto di interpretare, diciamo, una sensazione di poca autostima in termini di oggetto interiorizzato suggerisce un modello terapeutico di esorcismo e di espulsione, nel quale ciò che rimane dopo l'espulsione è un senso di valore personale che emana dalla «originaria struttura egoica unitaria». Suggerisce anche il concetto di un Sé puro pre-sociale e pre-interpersonale che si rivela dopo l'esorcismo del corpo estraneo. La domanda che va posta è se abbia senso, in ambito teorico o clinico, asserire l'esistenza di un tale Sé «originario» presociale.

Una teoria che identifichi molteplici processi normali nello sviluppo della personalità può parlare in modo significativo (anche se solo metaforico) dell'espulsione di elementi introiettati nella misura in cui vi siano altri aspetti della personalità (e più specificamente del Sé e dell'Io) rimanente che si siano sviluppati attraverso processi diversi dall'interiorizzazione degli oggetti. Ma come abbiamo prima osservato, Fairbairn descrive lo sviluppo della personalità prevalentemente in termini di interiorizzazione degli oggetti e delle sue conseguenze, e ha poco o nulla da dire circa altri processi contributivi. Il silenzio su tali processi contributivi gli rende difficile rispondere alla domanda su cosa rimanga della personalità una volta espulsi gli oggetti interiorizzati, e lo costringe a ricadere nel concetto vago e irrealistico di un Io o di un Sé originario pre-sociale, la cui «originaria unitarietà» sia stata distrutta da una precoce interiorizzazione difensiva.

Questa posizione comporta anche un modello di terapia nel quale il compito e l'obiettivo principale è esorcizzare l'oggetto interiorizzato e, a seguito di questo, riscoprire ciò che rimane della «originaria struttura egoica unitaria», piuttosto che un modello in cui la terapia consiste in un processo di riapprendimento e di lenta crescita. Il primo tipo di processo spinge a parlare di «ri-nascita» e altre simili locuzioni iperboliche (per esempio cfr. Guntrip [1968]), mentre il secondo suggerisce un processo più realisticamente lento e arduo di nuovo apprendimento, di prova di nuovi atteggiamenti e comportamenti (elaborazione), e di sperimentazione di nuove identificazioni.

Ipotizzando l'esistenza di un'entità quale la «originaria struttura egoica unitaria» Fairbairn suggerisce che nasciamo integri, e che sono solo il rifiuto, la deprivazione e la frustrazione (e le nostre reazioni difensive) a disintegrarci. Ma qui Fairbairn non sembra distinguere tra «integrità» intrinseca nella mancanza di differenziazione (in questo senso una goccia è «intera»), e integrità che emerge dalla differenziazione e l'integrazione di svariati aspetti differenziati di una struttura. Può darsi che la maggior parte di noi sia nata con un potenziale di integrità. Ma l'integrità vera e propria è una conquista progressiva che richiede tutta una vita. Troppo spesso Fairbairn (e anche Guntrip, quando commenta Fairbairn) scrive come se, una volta esorcizzati gli oggetti interiorizzati, potessimo in qualche modo tornare ad un originario, pre-scisso stato di unità e integrità. Si tratta di una pericolosa illusione, troppo connotata da concetti quali «originaria struttura egoica unitaria».

Si potrebbe continuare l'esame teorico del concetto centrale di oggetti interiorizzati, ma credo che le descrizioni cliniche e comportamentali dello stesso Fairbairn, più che le sue formulazioni metapsicologiche, potranno aiutarci a capire cosa egli intende. Quando Fairbairn scrive nel linguaggio ordinario, clinicamente descrittivo, le sue formulazioni riguardo agli oggetti interiorizzati suggeriscono quanto segue: quando il bambino si sente genuinamente amato è in grado di separarsi psicologicamente dall'oggetto perché può dipendere con sicurezza dai suoi oggetti reali. Se questa sicurezza manca, il bambino trova difficoltà a rinunciare e a superare la dipendenza infantile, «poiché tale rinuncia equivarrebbe ai suoi occhi alla rinuncia ad ogni speranza ad ottenere mai la soddisfazione dei suoi bisogni infantili» (1952, p. 64). Tra le manifestazioni di questo stato di dipendenza infantile rientrano l'incapacità di differenziarsi dall'oggetto (nei termini di Fairbairn, l'«identificazione primaria»), e una preoccupazione per l'oggetto in cui l'individuo continua a sperare nel cambiamento dell'oggetto stesso. Dato che per Fairbairn l'interiorizzazione dell'oggetto e l'incapacità di differenziarsi da esso sono sostanzialmente equivalenti (in quanto espressione della dipendenza infantile), «il compito di differenziare l'oggetto tende a risolversi in un problema di espulsione dell'oggetto incorporato» (1952, p. 68).

Quando Fairbairn esamina specifici sintomi clinici, le sue formulazioni sono espresse più direttamente e prevalentemente nei termini sopra citati di differenziazione e di separazione dall'oggetto. Per esempio, parlando delle fobie egli scrive: «si può quindi dedurre che è nel conflitto fra l'impulso progressivo alla separazione dall'oggetto e l'allettamento regressivo dell'identificazione con l'oggetto che dobbiamo cercare la spiegazione dello stato fobico» (1952, p. 68). Ed esaminando le difficoltà di soldati schizoidi e depressi, nota che «l'abbandono della dipendenza infantile implica un abbandono delle relazioni basate sull'identificazione primaria in favore di relazioni con oggetti differenziati» (1952, p. 67). Considerare lo sviluppo e la patologia in questi termini è, si riconoscerà, notevolmente vicino a concetti più recenti, nei quali la dimensione centrale dello sviluppo psicologico è, per dirla con la Mahler (1968), un movimento in direzione della separazione-individuazione e, in termini più generali, la differenziazione del Sé dagli altri.

A mio avviso, gran parte della involuta metapsicologia fairbairniana degli oggetti interiorizzati e delle strutture dell'Io scisse ad essa associate può essere riformulata in modo più semplice e comprensibile in termini di valutazioni di sé e di reazioni cognitivo-affettive derivate da esperienze con l'oggetto non integrate con successo nella personalità. Per esempio, un insieme di obiettivi (rappresentato dal termine «Io libidico») — diciamo il fatto che l'oggetto si prenda cura di noi e il fondersi con l'oggetto — può essere in conflitto con l'insieme degli obiettivi derivanti dal desiderio di differenziarsi dall'oggetto, e può anche far nascere il nostro disprezzo e il nostro odio, rappresentati dal termine «Io antilibidico». Una riformulazione di questo tipo non solo semplifica le cose, ma mantiene intatta l'insistenza di Fairbairn sulla necessità di concettualiz- zare il conflitto intrapsichico non in termini di -struttura del-l'Io in opposizione a pulsioni istintuali, ma in termini di strutture diverse, ciascuna con i propri obiettivi. Oppure, per semplificare al massimo, il conflitto intrapsichico è una questione di diversi sistemi di obiettivi (cfr. G. S. Klein, 1976).

Prima di concludere la nostra analisi dell'opera di Fairbairn, bisogna notare un punto di contrasto tra Fairbairn e Freud. Si ricorderà che per Fairbairn l'interiorizzazione mentale è la difesa fondamentale, la prima difesa del neonato. E in effetti essa è il punto di partenza dell'elaborata metapsicologia fairbairniana degli oggetti interiorizzati, delle scissioni nell'oggetto e delle scissioni nell'Io. In modo del tutto opposto, per Freud la difesa principale consiste nel rendere esterno ciò che e interno. Così, mentre per Fairbairn punto di partenza della difesa è l'interiorizzare ciò che è esterno, per Freud la difesa consiste nel rendere esterno ciò che era interno45. In questa opposizione possiamo trovare la traccia di alcune fondamentali differenze di prospettiva tra Fairbairn e Freud. Per Freud, è il desiderio o impulso interno proibito a costituire una minaccia e a richiedere una difesa. Di qui il bisogno di disconoscere e di espellere il desiderio, di negare che esso ci appartenga. All'opposto, per Fairbairn sono le esperienze negative di rifiuto e di deprivazione di fronte ad un oggetto esterno (vale a dire un ambiente «cattivo») a costituire la minaccia fondamentale e a richiedere la difesa. Di qui il bisogno di interiorizzare l'ambiente per negarne e controllarne la malvagità.

Mentre per Freud la natura intrinseca del desiderio istintuale è tale che, anche in circostanze ideali, essa si opporrà irriducibilmente alla civiltà, implicita in Fairbairn è l'idea utopica che in un ambiente idealmente «buono» le difese non sarebbero necessarie4Ó. Un altro modo di esprimere questa differenza è affermare che per Freud i problemi di base dell'individuo derivano da obiettivi incompatibili e conflittuali e dai mezzi difensivi messi in atto per affrontare queste incompatibilità. Per esempio, come nota G. S. Klein (1976), la rimozione e altre forme di disconoscimento del proprio insieme di obiettivi tendono a «frazionare» la personalità (si osservino i collegamenti con i concetti pre-psicoanalitici di dissociazione). Per Fairbairn, invece, i problemi di base dell'individuo derivano da un'esperienza negativa di un ambiente «cattivo» e dall'interiorizzazione difensiva che segue a tali esperienze negative. Non c'è da stupirsi, allora, che il concetto fairbairniano di psicoterapia ponga l'ac-cento sulla necessità di esorcizzare gli oggetti cattivi interiorizzati e di porre in situazioni di oggetto «buono», mentre il concetto freudiano del trattamento sottolinei continuamente la necessità dell'insight e della comprensione.

Si riconoscerà che queste opinioni contrastanti anticipano già gran parte del dibattito attuale sulla natura della patologia e l'approccio terapeutico adeguato al suo trattamento. Per esempio, Fairbairn condivide con Kohut l'idea che la patologia, in particolare quella del Sé, sia il risultato di un ambiente «cattivo» (con mancanza di rispecchiamento e di maternage empa- tico quali aspetti particolari della «malvagità» sottolineati da Kohut). Di conseguenza, per Fairbairn come per Kohut, la psi-coterapia deve soprattutto comportare la realizzazione di una situazione di «oggetto buono». Devo tuttavia ripetere l'osservazione già espressa a proposito dell'opera di Kohut. Si può anche vedere il trattamento come un fornire al paziente situazioni di «oggetto buono» (necessarie a «dissolvere» l'oggetto cattivo interiorizzato), come «ambiente contenente» e tante altre descrizioni simili. Ma queste caratterizzazioni hanno un valore limitato se non sono accompagnate da una descrizione dettagliata delle interazioni paziente-terapeuta e dei processi terapeutici che avvengono, la quale sia in grado di illustrare questi concetti.

Nel tentativo di valutare nel suo complesso il significato dell'opera di Fairbairn ciò che è importante, a mio avviso, non sono le specifiche, complesse formulazioni metapsicologiche riguardanti gli oggetti interiorizzati e le strutture scisse dell'Io, quanto piuttosto il forte rilievo dato all'importanza delle prime relazioni oggettuali, il concetto di sviluppo psicologico in termini di differenziazione tra sé e l'oggetto, e il passaggio dalla dipendenza infantile alla dipendenza matura. E parallelo a questa accentuazione positiva è il rifiuto di Fairbairn della teoria freudiana delle pulsioni e la concomitante implicita ed esplicita affermazione che la tendenza alla ricerca dell'oggetto è altrettanto primaria e altrettanto biologica delle pulsioni sessuali e aggressive. Sotto tutti questi aspetti, l'opera di Fairbairn ha anticipato — ed è stata strumentale nel generare — l'attuale fermento della teoria e della pratica psicoanalitica.

È importante notare ancora una volta che le intuizioni di Fairbairn a base clinica riguardanti la nostra tendenza innata alla ricerca dell'oggetto e l'autonomia del bisogno di relazioni oggettuali ricevono una forte conferma empirica dalle prove otte-nute con ricerche rese possibili proprio grazie alle sue formulazioni (vedi cap. 2).

UNA RIFORMULAZIONE DELLA TEORIA PSICOANALITICA: L'OPERA DI G. S. KLEIN

In questo capitolo presenterò l'opera di G. S. Klein che, per taluni aspetti, è molto simile a quella di Fairbairn. Questa somiglianza è particolarmente interessante perché Klein ha cercato di rimanere entro -i confini della teoria freudiana tradizionale invece di rifiutarne aspetti significativi. Il suo tentativo è stato quello di ricostruire e razionalizzare la teoria psicoanalitica, piuttosto che formulare una teoria nuova. Purtroppo, la tragica e prematura morte ha interrotto il suo lavoro, sicuramente signi-ficativo e originale.

Klein (1976) ha essenzialmente riformulato la teoria psicoanalitica come teoria del Sé. In questo senso, la sua opera fa parte di quel movimento in seno alla psicoanalisi che ha posto sempre più l'accento sul ruolo motivazionale centrale del mantenimento dell'integrità del Sé. L'elaborazione del concetto di obiettivi e il loro rapporto con il concetto di Sé costituiscono una parte importante del suo libro Psychoanalitic Theory. Secondo Klein, dal punto di vista psicoanalitico il modo più significativo di considerare lo sviluppo e il comportamento umano è vederli come tentativi di una «costante risoluzione di obiettivi e tendenze incompatibili». L'idea di incompatibilità e di una loro risoluzione non è certamente nuova per la teoria psicoanalitica. Ma ciò che è peculiare della concezione kleiniana è l'affermazione che la risoluzione di queste incompatibilità è condizionata dalla necessità di un Sé coerente e integrato. Klein asserisce che il bisogno di un Sé unitario è una motivazione diffusa, onnipresente, soggiacente a ogni comportamento. -I legami tra questi concetti e alcune formulazioni recenti, per esempio di Kohut (1971-77), come pure con precedenti formulazioni di teorici delle relazioni oggettuali quali Fairbairn (1952) e Guntrip (1968) dovrebbero essere evidenti.

Prendendo come punto di partenza fondamentale una psicologia del Sé, Klein reinterpreta in modo nuovo e stimolante molti concetti psicoanalitici consacrati e tradizionali. Per esempio, ridefinisce la rimozione «uno schema di significato che è dissociato dal concetto di sé che ha la persona» (p. 241). Egli esprime quella che a molti analisti sembrerà un'opinione sconvolgente, e cioè che l'essenza della rimozione non va ricercata nel concetto di inconscio o di contenuto e attività inconsci, ma nel fatto che «i significati ' vissuti ' sono [...] segregati dalla comprensione, vale a dire dissociati dal Sé» (p. 251). Il conflitto è considerato non un fenomeno che si verifica tra forze opposte, ma sempre in rapporto al concetto di sé. Klein definisce l'angoscia non nei termini quantitativi di una stimolazione eccessiva, ma come un qualcosa che «[comporta] sempre problemi di identità e relativi al Sé». L'Io e l'Es sono definiti, rispettivamente, come esperienze ed azioni proprie e collegate al Sé, e come esperienze che invece si verificano senza avere il Sé come centro (definizioni che, come già osservato, alcuni riterrebbero più vicine agli impieghi attuali di quanto lo fosse l'uso originariamente fatto da Freud dei termini «Das Ich» e «Das Es» —  (per esempio cfr. Brandt [1966]).

Fondamentale, in tutte queste reinterpretazioni, è l'immagine di una persona che cerca di difendere e mantenere, nel modo migliore possibile e con qualsiasi mezzo disponibile, un Sé coerente e unitario. Nel suo esame dei due mezzi principali —  «il frazionamento e l'identificazione» — attraverso i quali la persona cerca di garantire unità e continuità al proprio Sé, Klein è estremamente stimolante. Nel frazionamento, del quale la rimozione è l'esempio principale, si compie il tentativo di difendere l'unità scindendo uno schema significativo dalla struttura del Sé. Nell'identificazione, di cui esempio principale è l'inversione di voce da passiva ad attiva (un concetto che Klein attribuisce a Loevinger, 1966), si cerca di difendere questa unità alterando lo schema del Sé. Nella rimozione, l'esperienza è dissociata dal Sé ma continua a influenzare il comportamento. Neil' 'inversione di voce si cerca di ricreare in un modo attivo, a scopo di padronanza, ciò che è stato esperito e provato passivamente.

Mentre Klein non ha esitazioni a rifiutare la metapsicologia freudiana, il suo atteggiamento verso il ruolo primario assegnato alle pulsioni istintuali nella teoria freudiana è più complesso e a mio avviso, più ambiguo. Klein ha poco da dire circa l'aggressività e incentra tutta la sua attenzione sulla pulsione sessuale. Qui l'atteggiamento esplicito fondamentale di Klein è che ci si può sbarazzare del modello di scarica della pulsione e della teoria della libido senza minare il valore delle intuizioni freudiane sull'importanza centrale della sessualità. Più specificamente, Klein afferma che si può rifiutare la teoria freudiana della libido senza rifiutare la sua teoria psicosessuale. Egli ci assicura che in realtà le sue riformulazioni della teoria freudiana non sminuiscono l'importanza della sessualità. E in effetti, egli ci avverte del pericolo di una «ri-mozione di intuizioni ottenute a caro prezzo circa l'importanza della sessualità» (p. 7). Qui Klein mostra di essere sensibile ad una tradizione, nella storia della psicoanalisi, che nell'atteggiamento assunto nei confronti della teoria freudiana delle pulsioni ha sempre visto il criterio principale in base al quale decidere se le concezioni di un autore dovessero essere considerate una apostasia (cfr. anche Holt, 1976).

Fatto è, tuttavia, che malgrado le sue assicurazioni quando Klein esamina specificamente il ruolo della sessualità nel comportamento si allontana radicalmente dai concetti freudiani. Consideriamo il passo in cui Klein interpreta il desiderio sessuale, il continuo bisogno di far conquiste come «un qualche bisogno più ampio in cui sono in gioco il concetto di sé .e lo status del Sé». Nello stesso passo egli così continua: «In tali esempi ciò che fa male e disturba non è la tensione dell'energia sessuale non liberata, ma l'incapacità di attualizzare il valore di sé che è giunto ad essere simbolizzato attraverso i risultati in campo sessuale» (p. 97). Questo non è un concetto freudiano della sessualità. Del tutto all'opposto rispetto alla concezione freu-diana, ciò che è centrale nelle formulazioni sopra riportate non è la scarica o la gratificazione sessuale, e nemmeno il piacere sensuale, ma il sopraffacente bisogno di unità e coesività del Sé.

In breve, malgrado l'insistenza di Klein sulla centralità della sessualità, quest'ultima non è centrale nel senso in cui l'intendeva Freud. Affermare che il sesso è importante nel comportamento diffìcilmente può essere considerato in se stesso come peculiarmente freudiano, e non dovrebbe far perdere di vista il fatto che Klein si distacca dal concetto freudiano. Ciò che è peculiarmente freudiano è il concetto che ogni comportamento, ivi compreso quello manifestamente non pulsionale, è conside-rato essere, direttamente o indirettamente, al servizio della gratificazione della pulsione. Klein inverte questa posizione sostenendo che la gratificazione sessuale è prevalentemente al servizio del mantenimento dell'unità del Sé. Così, le sue formulazioni comportano un rifiuto non solo delle componenti libidiche o di scarica della pulsione della teoria freudiana della sessualità, ma anche un rifiuto della fondamentale proposizione freudiana secondo cui la sessualità ha un ruolo motivante particolare, centrale e onnipresente nel comportamento. Klein formula in maniera esplicita la prima di queste posizioni: la seconda, benché non riconosciuta da lui, è implicita nei suoi esempi e nella sua psicologia del Sé quale «struttura di ordine superiore». Klein era convinto di poter separare la teoria della libido dalla posizione freudiana generale sulla centralità della sessualità nel comportamento, ma in realtà esse sono troppo intimamente legate perché questo possa essere realizzato con facilità. In altre parole, ciò che ci permette di considerare un comportamento manifestamente non sessuale come sessualmente motivato, come comportante una gratificazione sessuale indiretta, come uno spostamento di obiettivi sessuali (come avviene nella sublimazione) — in breve, ciò che ci permette di vedere la sessualità come una motivazione centrale in un'ampia gamma di comportamenti — sono proprio le ipotesi contenute nella teoria delle pulsioni e nella teoria della libido. Senza tali ipotesi, la sessualità vi troverebbe posto semplicemente come una tra le nostre tante motivazioni.

La mia osservazione che Klein rifiuta gli aspetti essenziali della teoria freudiana delle pulsioni sessuali non vuole essere una critica, dal momento che, a mio avviso, egli è nel giusto in questa sua posizione. Ma l'ambiguità e l'ambivalenza di questo rifiuto vanno sottolineate. L'ambivalenza di Klein in questo campo ci aiuta a spiegare alcune incongruenze nel modo in cui tratta la teoria freudiana della sessualità e il suo insuccesso nel trarre tutte le implicazioni di una psicologia nella quale il mantenimento e l'unità del Sé sono considerati gli obiettivi di ordine superiore che guidano il comportamento della persona.

Come esempio di queste incongruenze, Klein nota con approvazione che nel suo concetto della sessualità «Freud è riuscito a collegare fenomeni altrettanto diversi quali le perversioni e i forti interessi [non sessuali]» (p. 25). Ma questo è un risultato positivo o una carenza della teoria? Klein rileva che uno dei problemi fondamentali dello sviluppo e della psicologia cui si trova di fronte la persona è quello di mantenere l'integrità del Sé rispetto ad obiettivi e tendenze incompatibili. Egli nota, inoltre, che gli obiettivi incompatibili con la struttura del Sé sono la principale fonte di angoscia e di minaccia per il Sé, e che una delle principali condizioni della psicopatologia è data dai tentativi poco adattivi, «di frazionamento», messi in atto nel- l'affrontare queste minacce. Ora il punto qui è che, secondo le formulazioni kleiniane, qualsiasi insieme di obiettivi incompatibili con la struttura del Sé costituisce le condizioni primarie dell'angoscia e della minaccia. Non vi è nessuno status necessariamente speciale degli obiettivi psicosessuali. In breve, è difficile conciliare la concezione kleiniana dell'angoscia, della difesa, del conflitto e dello sviluppo, nonché le condizioni della patologia in termini di incompatibilità con la struttura del Sé, con la sua affermazione di disponibilità ad accettare le idee freudiane sulla centralità della sessualità.

È interessante notare che per alcuni importanti aspetti la psicologia del Sé di Klein è simile alle prime formulazioni freudiane dell'isteria, nelle quali i principali elementi patogeni erano alcune tendenze psichiche dissociate da quella che oggi sarebbe chiamata la struttura del Sé. Scrive Freud (1893-1895) che «condizione indispensabile per l'acquisizione dell'isteria sembra essere il fatto che si determini un rapporto di incompatibilità fra l'Io e una rappresentazione che ad esso si presenti» (vol. 1, p. 277). Egli non specifica che l'idea debba necessariamente avere un contenuto sessuale. Tali formulazioni hanno evidenti collegamenti con la psichiatria europea non-psicoanalitica di Janet e di Binet (un legame riconosciuto da Freud), con la psichiatria americana di Morton Prince (1929a, b) e con la psicologia del Sé di Sullivan (1953, 1955) (non so resistere alla tentazione di notare, di passaggio, l'assenza significativa di qualsiasi riferimento a Sullivan nelle recenti opere in cui si sottolineano le relazioni oggettuali e il Sé).

La centralità, nel pensiero kleiniano, del concetto di obiettivi incompatibili con le strutture del Sé emerge anche nel modo in cui Klein tratta il concetto di rimozione, che, a sua volta, ha importanti implicazioni per le opere recenti che sottolineano il ruolo della scissione come difesa. Klein definisce la rimozione (e altre difese) non tanto nei termini tradizionali di operazioni tendenti a mantenere al di fuori della consapevolezza talune idee e impulsi, quanto piuttosto nei termini di «struttura cogni- tivo-affettiva scissa, che esercita un'influenza selettiva sul comportamento» (p. 198). Oppure, come egli nota in un altro passo, nella rimozione «la continuità e l'integrità del Sé sono risolte attraverso una dissociazione dal Sé» (pp. 293-94). L'idea di strutture cognitivo-affettive scisse (considerate sistemi di obiettivi motivazionali) ricorda, come già osservato, il primo Freud (1893-1895). Ma ricorda anche l'ultimo dei suoi scritti, nel quale egli si occupa del rapporto tra rimozione e scissione dell'Io (1940a, 1940b), come se alcune delle sue prime idee venissero riprese in considerazione.

Il concetto di scissione come difesa emerge fortemente anche in recenti descrizioni dello stato borderline (per esempio Kernberg, 1975, 1976; Masterson, 1976). In effetti, in queste descrizioni la presenza diffusa della scissione, in opposizione ad una rimozione presumibilmente più matura nel corso dello sviluppo, è frequentemente citata come segno distintivo di tali stati. Ora, la domanda implicitamente posta dalla descrizione kleiniana (e freudiana) della rimozione è: se la rimozione comporta per definizione delle strutture cognitivo-affettive scisse, come la si può differenziare dalla scissione più patologica che si osserva negli stati borderline? A mio avviso alcune risposte a questa domanda sono implicite nell'opera di Klein e devono essere interpretate. La caratterizzazione della rimozione in termini di strutture cognitivo-affettive scisse, di dissociazione dalla struttura del Sé, di mancanza di comprensione e di incapacità di compiere collegamenti (piuttosto che come semplice incapacità di avere consapevolezza), aiuta a chiarire il rapporto tra rimozione e scissione. Ciò che è implicito nella rimozione è che sia presente una struttura predominante, relativamente stabile del Sé, dalla quale le strutture cognitivo-affettive possano essere scisse. È l'«opzione» aperta ad una persona che abbia un Sé relativamente coesivo. All'opposto, nei fenomeni clinici descritti mediante la scissione, è presente in misura minore una struttura del Sé predominante, coesiva, dalla quale vengono scissi cognizioni e affetti. Vi è piuttosto, per così dire, un'alternanza di diverse strutture del Sé, senza che nessuna struttura costituisca un elemento determinante, decisivo e stabile dell'identità. È l'«opzione» aperta ad una persona che non ha ancora raggiunto una stabile struttura del Sé. Così, chi ricorre alla scissione ama tutto e idealizza tutto in un dato momento, e odia tutto e denigra tutto il momento successivo. Le descrizioni cli-niche dovrebbero essere simili agli stati di dissociazione della personalità o di fuga, se non fosse per il fatto che quando la persona è nello stato 1 (lo stato in cui ama tutto) ricorda molte delle cognizioni e affetti dello stato 2 (lo stato in cui odia tutto).

In realtà è una questione di gamma delle integrazioni. Mentre le persone che ricorrono alla rimozione hanno raggiunto l'integrazione dell'insieme degli obiettivi definiti da un Sé coesivo (ma non sono state capaci di integrare ciò che è stato scisso dal Sé), la gamma di integrazioni ottenuta da chi ricorre alla scissione è limitata a «isole» valutative e affettive appartenenti all'«intra-Sé» (buono/cattivo, amore/odio) all'interno di una struttura del Sé relativamente gracile e instabile.

Il primo gruppo di persone può affidarsi ad un elemento coordinatore ed integratore relativamente stabile e affidabile che è riuscito a coordinare e integrare le componenti (o sub-routines) principali della personalità, anche se alcune componenti rimangono non integrate. Nel secondo caso vi sono componenti semi-autonome o strutture della personalità che operano in modo alternato o parallelo, non integrate da un coordinatore esecutivo. Naturalmente è facile osservare che queste non sono altro che traduzioni, in un linguaggio simile a quello di un computer, di ciò che in un altro contesto sarebbe definito Sé coesivo o non coesivo. Tra le altre chiarificazioni apportate da Klein, vi è una formulazione della rimozione più in sintonia con l'importanza assegnata alle relazioni oggettuali, e un concetto dell'Io non semplicemente come «struttura pura» che controlla e incanala le pulsioni dell'Es, ma come struttura con propri obiettivi (per un ulteriore esame di questo tema, cfr. Apfelbaum, 1966).

L'opera di Klein trova posto accanto ai contributi di altri autori qui esaminati, i quali hanno dato vita a questo nuovo orientamento. Essa è un'ulteriore prova del fatto che nella nostra epoca stiamo assistendo ad un passaggio importante, per prendere a prestito i termini di Kuhn (1962), nel «paradigma» fondamentale della teoria psicoanalitica. Questo cambiamento è caratterizzato da un interesse centrale per lo sviluppo e le vicissitudini delle relazioni oggettuali e di un Sé individuato e coesivo — proprio gli ambiti sottolineati da Klein.

Vorrei fare un'ultima considerazione a proposito dei contributi di Klein. Asserendo l'esistenza di «una costante risoluzione di obiettivi e tendenze incompatibili » quale sfida psichica centrale cui si trova di fronte la persona, collegando il grado di tale risoluzione al grado di integrità del Sé, e insistendo sul fatto che gli obiettivi fondamentali sono sempre perseguiti nel contesto delle relazioni oggettuali, Klein, a differenza di quanto ha fatto Kohut con il suo schema di suddivisione e le sue attuali radicali distinzioni, ha implicitamente dimostrato che è possibile integrare una psicologia del Sé e una psicologia delle relazioni oggettuali con una psicologia del conflitto intra-psichico.

Il modello epigenetico-gerarchico di Gedo

Un altro teorico della psicoanalisi contemporanea che, come Klein, concepisce gli obiettivi importanti per il Sé come obiettivi di ordine superiore e dominante è Gedo (1979, 1980). Il suo obiettivo dichiarato è sostituire alla teoria tradizionale delle pulsioni il suo modello epigenetico-gerarchico. Più specificamente, Gedo sostituisce agli obiettivi sessuali e aggressivi di Freud l'autonomia personale e la definizione del Sé quali obiettivi di ordine superiore, espressi attraverso una molteplicità di lotte e ambizioni. L'organizzazione del Sé è definita la «gerarchia coesiva» di questi obiettivi e lotte, ed è nella minaccia alla organizzazione del Sé (più che negli impulsi istintuali) che risiede lo stimolo principale dell'attivazione dell'angoscia.

Gedo presenta un modello gerarchico nel quale lo sviluppo psicologico è concepito lungo due dimensioni intercollegate: la prima, che egli definisce «fasi», passa dalla differenziazione dei confini del corpo al consolidamento dell'organizzazione del Sé, alla formazione del Super-io, alla creazione della barriera della rimozione; lungo la seconda dimensione, che Gedo chiama «modi», lo sviluppo è considerato in termini di princìpi di governo diversi e di situazioni problematiche tipiche. Così, nel punto più precoce dello sviluppo (corrispondente alle fasi della differenziazione dei confini del corpo e del consolidamento del-l'organizzazione del Sé) il principio che governa è evitare la sofferenza e il problema tipico cui si trova di fronte la persona è il pericolo della iperstimolazione. Nella successiva fase di sviluppo, il principio che governa è il principio del piacere e il problema tipico è la persistenza delle illusioni. Il principio di realtà entra in gioco come regola di governo nella fase successiva di sviluppo e il problema tipico associato è il conflitto intrapsichico. Nell'ultima fase, infine, come principio guida emerge la creatività e il problema tipico cui si trova di fronte l'individuo è la frustrazione.

All'opposto di Kohut, secondo cui la teoria psicoanalitica tradizionale è adeguata ad affrontare i «conflitti strutturali» nevrotici, mentre per spiegare i disturbi del Sé è necessaria una psicologia del Sé, Gedo è dichiaratamente interessato a presentare una teoria psicoanalitica unificata, applicabile a tutta la psicopatologia. A sostegno della sua convinzione della necessità di una teoria unificata, Gedo insiste sul fatto che nella psicoterapia bisogna affrontare tutte le fasi dello sviluppo, soprattutto in vista del fatto che il modo in cui si reagisce ai temi legati allo sviluppo successivo è fortemente influenzato dai disturbi e dai successi precedenti.

Il contenuto specifico delle «fasi» e dei «modi» di Gedo presenta una qualche vaghezza e arbitrarietà, e solleva un certo numero di domande. Per esempio, perché nello sviluppo il principio del piacere segue quello della definizione del Sé come principio regolatore? O per fare un altro esempio, perché l'evi- tamento del dolore, il principio del piacere e anche la definizione del Sé possono essere considerati obiettivi e principi motivazionali, e in che modo il «principio della creatività» è primariamente motivazionale in natura? La creatività è un principio motivazionale del comportamento oppure un esito di un particolare insieme di interessi (per esempio in un particolare fenomeno o problema) e di talenti? Per finire, la definizione del Sé e l'organizzazione del Sé sono presentate da Gedo sia come temi e motivazioni di ordine superiore e dominante, sia come fasi e modi specifici caratteristici di un particolare livello di sviluppo. Questi sono solo alcuni degli interrogativi che lo schema di Gedo solleva. Ma l'aspetto notevole nel suo modello è che esso rappresenta un tentativo di formulare una revisione sistematica ed esauriente della teoria psicoanalitica dal punto di vista di una psicologia del Sé.

UNA RIFORMULAZIONE DELLA TEORIA PSICOANALITICA DELLA TERAPIA: L'OPERA DI WEISS, DI SAMPSON E DEI LORO COLLEGHI

L'ultima elaborazione psicoanalitica che esaminerò brevemente è l'opera di Weiss, di Sampson e dei loro colleghi presso il Mt. Zion Hospital di San Francisco. Il lavoro di questo gruppo è ciò che più si avvicina allo sviluppo di quella che in seguito chiamerò una teoria autonoma della terapia. Costituisce anche uno dei pochissimi esempi di ricerca ben progettata e rigorosa relativa alla psicoterapia psicoanalitica. E benché le formulazioni del gruppo del Mt. Zion siano state compiute prevalentemente nel contesto della terapia, esse presentano anche un interesse teorico.

Weiss (1971, 1982) oppone alla prima teoria freudiana della terapia e del funzionamento mentale una sua concezione che — afferma — deriva dal secondo Freud. Per Weiss, la prima teoria psicoanalitica della terapia si articola come segue: sotto la spinta della rimozione e della situazione psicoanalitica sono mobilitati ed espressi nel modo più diretto, durante il transfert, i desideri inconsci infantili e i conflitti e le difese che li circondano. La frustrazione di questi desideri dovuta alla neutralità dell'analista facilita l'emergere, nell'associazione libera, dei contenuti inconsci. Contro l'emergere di questi contenuti inconsci nella coscienza lavora l'onnipresente resistenza, che include lo stesso transfert, le difese specifiche contro il manifestarsi di desideri inconsci che provocano angoscia, e la riluttanza ad abbandonare sia la gratificazione parziale e inconscia fornita dai sintomi e dalla nevrosi, sia la fantasia di un maggiore appagamento dei desideri infantili.

Per la prima teoria freudiana generale del funzionamento mentale, i contenuti inconsci sono prevalentemente «impulsi e difese». Gli impulsi cercano la loro gratificazione infantile, mentre le difese — o per essere più precisi le forze della rimo-zione — mantengono inconsci questi impulsi. Inoltre, gli impulsi sono additivi. Sono pertanto allo stesso livello nella gerarchia mentale. Interagiscono dinamicamente l'uno con l'altro e con le difese, e attraverso le loro interazioni dinamiche determinano il comportamento.

«Secondo la prima teoria, la rimozione è mantenuta prevalentemente per proteggere le gratificazioni infantili che le pulsioni stanno ottenendo inconsciamente. Se una persona divenisse consapevole di tali gratificazioni, dovrebbe abbandonarle » (Weiss 1982, pp. 1-2).

Se il gruppo del Mt. Zion conserva l'idea psicoanalitica centrale che taluni contenuti inconsci siano tenuti fuori dalla coscienza (come fa la maggior parte, se non tutti i critici della teoria psicoanalitica tradizionale), esso modifica però il concetto di cosa è tenuto fuori dalla coscienza e di come questi contenuti emergano nella consapevolezza. Mentre nella prima teoria sono soprattutto gli impulsi istintuali che cercano gratificazione ad essere tenuti fuori dalla coscienza, il gruppo del Mt. Zion sottolinea l'importanza delle motivazioni tenute fuori dalla coscienza «derivanti dalle parti inconsce dell'Io» e dal Super-io, come per esempio il desiderio di obbedire ai genitori o il desiderio di ripristinare un oggetto, o quello di riparare un danno im-maginario contro un oggetto. Tenute fuori dalla coscienza sono anche «le sinistre credenze inconsce che nascono nei traumi dell'infanzia, quali la credenza inconscia nella castrazione come punizione» e le paure, le angosce e il senso di colpa collegati a queste credenze.

Veniamo ora al modo in cui tali contenuti divengono coscienti: secondo la teoria tradizionale, gli impulsi istintuali inconsci sono in lotta costante per la gratificazione, e continuamente spingono in alto alla ricerca di un'espressione conscia. All'opera contro tale espressione sono le difese e la resistenza. In questo schema il principio del piacere regola automaticamente l'emergere e il non-emergere del materiale nella consapevolezza: Come abbiamo notato prima, nella situazione analitica le com-ponenti regressive e il transfert, tra le altre cose, tendono a mobilitare e a rafforzare le pulsioni inconsce, sicché esse tenderanno sempre più a «zampillare» sino alla consapevolezza. Secondo il gruppo del Mt. Zion, invece, ciò che regola l'emergere di contenuti tenuti fuori dalla consapevolezza è la valutazione inconscia del paziente riguardo al pericolo e alla propria sicurezza.

Anziché ipotizzare che la spinta motivazionale di'base del paziente sia il desiderio di gratificare i desideri inconsci infantili, l'ipotesi radicalmente diversa del gruppo del Mt. Zion è che il paziente venga in terapia con il desiderio conscio e inconscio di padroneggiare conflitti, traumi, angosce precoci e con dei programmi inconsci su come ottenere questa padronanza. Al servizio di questa padronanza, il paziente cerca di trovare e/o creare delle condizioni di sicurezza nelle quali poter attuare il suo piano inconscio. In condizioni di sicurezza, si è in grado di riprendere la lotta per raggiungere gli obiettivi personali che sotto l'impatto del trauma del conflitto e dell'angoscia sono stati messi da parte in un precedente periodo della propria vita. Così, in gran parte a livello inconscio, il paziente istituisce dei «test» che il terapeuta può superare o no. Ogni insuccesso in questi test sarà più suscettibile di essere seguito da una maggiore angoscia, da una mobilitazione delle difese e da una diminuzione nell'emergere di contenuti inconsci tenuti fuori dalla coscienza. All'opposto, il superamento di questi test sarà associato a una riduzione dell'angoscia, a una maggiore profondità di sensazione, a un'accresciuta probabilità che emergano i contenuti tenuti fuori dalla coscienza.

Come nota Weiss (1982), secondo la teoria tradizionale la terapia deve indurre il paziente «a fare ciò che non vuole fare — vale a dire abbandonare le gratificazioni infantili». All'opposto, secondo il modello del gruppo del Mt. Zion «il terapeuta può aiutare il paziente permettendogli di fare ciò che inconsciamente vuole fare — vale a dire cambiare le proprie convinzioni patogeniche e superare le sensazioni di paura, angosce e senso di colpa che ne derivano» (p. 14). Quanto al modo in cui il terapeuta permette al paziente di fare ciò che inconsciamente vuole fare, è, come già osservato, soprattutto superando dei test e contribuendo a creare certe condizioni di sicurezza.

Il concetto di «condizioni di sicurezza» è un concetto apparentemente semplice, che dovrebbe essere elaborato e sostenuto da concreti esempi clinici. L'esempio prototipico di questo concetto è quell'esperienza della vita di ogni giorno che Weiss (1952) chiama il «piangere di gioia». Perché, si chiede Weiss, una persona prova tristezza e piange proprio nel momento in cui il lieto fine dovrebbe renderla felice? Questo fenomeno non può essere spiegato, come fa invece la prima teoria, come conseguenza di un'intensificazione e di un'irruzione della tristezza nella coscienza. E questo perché persino nei momenti più tristi non si è pianto. Inoltre, questa intensificazione dell'emozione sarebbe accompagnata da tensione e angoscia; ma in realtà la persona che piange non è più né tesa né ansiosa, e non esperisce come estranee all'Io la tristezza e il pianto. La risposta proposta da Weiss è che il lieto fine fornisce quella sicurezza necessaria per poter provare appieno la propria tristezza.

Consideriamo i seguenti esempi clinici, ricavati dal trattamento, nei quali alcuni contenuti inconsci sono tenuti fuori dalla coscienza fino a che non è sicuro accoglierli in essa. Prima di un'interruzione del trattamento a causa delle vacanze, il paziente nega che il terapeuta gli mancherà, ed effettivamente durante l'interruzione non sente la mancanza del terapeuta. Tuttavia, quando riprende il trattamento, allora il paziente avverte che il terapeuta gli è mancato e che si è sentito triste nel non vederlo. Questo esempio è in diretto parallelo con il fenomeno del «piangere di gioia». L'esempio successivo comporta la presentazione di un test che il terapeuta può superare o no. La risposta del terapeuta al dono di un paziente maschio è rifiutare con tatto il dono e ricordare al paziente il contratto analitico. Durante la seduta successiva il paziente comincia a parlare di paure e fantasie omosessuali. L'interpretazione di questa se-quenza di eventi è che il paziente sottopone a un test l'analista offrendogli un dono, è rassicurato dal rifiuto dell'analista, che a livello inconscio equivale alla comunicazione che non sarà sedotto e pertanto costituisce un superamento del test, e poi si sente sicuro di poter far emergere i contenuti omosessuali sinora tenuti fuori dalla coscienza. Da questi esempi dovrebbe risultare evidente che ciò che costituisce le condizioni di sicurezza sarà fortemente influenzato dalla natura delle paure, delle angosce e dei conflitti specifici del paziente.

I test presentati al terapeuta spesso si incentrano su quegli stessi temi che sono stati traumatici e colmi di angoscia, non per via della coazione a ripetere pulsionale, ma a scopo di padronanza. Così un paziente che a livello inconscio è convinto che competendo con il padre, nell'infanzia, lo ha ferito, potrà competere con l'analista non perché voglia ferirlo ma «per assicurare a se stesso che, competendo con lui, non lo ferisce. Con questo test il paziente spera di superare l'idea costrittiva che, competendo con una autorità, necessariamente debba danneggiarla» (Weiss e Sampson, 1982, p. 13).

Indipendentemente dal contesto terapeutico, Weiss e Sampson presentano una concezione della sintomatologia diversa da quella tradizionale. Invece che considerare i sintomi come espressioni camuffate di impulsi inconsci che cercano gratificazione, essi li interpretano come «un tentativo della persona di togliersi da una situazione di pericolo, oppure possono esprimere l'angoscia che essa sente quando si trova di fronte al pericolo» (Weiss, 1982, p. 4). Ecco alcuni esempi concreti presentati da Weiss e Sampson:

La paziente, che durante l'infanzia credeva di essere molto più carina della petulante madre, era stata in competizione con lei per l'amore del padre e, stando a quanto provava, l'aveva sconfitta. Tuttavia avvertiva un senso di colpa per la sua vittoria. Infatti era convinta che, divertendosi tanto con il padre, stesse distruggendo la madre. Era tormentata dalla preoccupazione per la madre, fino a quando non trovò un modo per «salvarla» — e cioè farsi venire delle crisi. Giusto o sbagliato che fosse, era convinta che mediante le sue crisi permetteva alla madre sia di sentirsi moralmente superiore a lei, sia di sconfiggerla nella competizione per il possesso del padre. La madre, che di solito era alquanto depressa, quando la paziente aveva una crisi diventava vivace e adirata e spingeva il padre a punirla. Stando a quanto provava la paziente, la madre si sentiva meglio quando aveva modo di dimostrarle che ciò che lei (la madre) chiedeva al marito aveva la precedenza su quanto chie-deva la paziente stessa (1982, p. 8).

Un altro paziente all'età di cinque anni era rimasto traumatizzato da un incidente automobilistico in cui il padre era rimasto invalido. Dato che a quell'epoca lottava con successo per divenire più autonomo e felice, era convinto che fosse stato questo ad aver causato l'incidente d'auto. Si instaurò in lui l'inconscia convinzione patogenica che se fosse diventato nuovamente autonomo e felice avrebbe provocato un'altra catastrofe, e che soffrendo e rimanendo dipendente avrebbe evitato il disastro.

Da giovane il paziente aveva avuto molti problemi ad andarsene di casa. Frequentava un college a circa cinquanta miglia di distanza, e benché fosse una persona amichevole e aperta non permetteva a se stesso di godersi la vita sociale del college. In realtà, tornava a casa quasi ogni fine settimana per stare con la famiglia.

La sua convinzione inconscia che se fosse stato autonomo e felice avrebbe causato un trauma era uno dei temi principali della sua analisi. Quando le cose andavano bene diventava ansioso e spesso, dopo una buona giornata, cominciava a temere che succedesse qualcosa di terribile.

L'apparente dipendenza di questo paziente dai genitori non era espressione di un desiderio primario di essere dipendente, derivante da un impulso primario che cercasse gratificazione, automaticamente, al di là del controllo del paziente.

Era invece basato sulla convinzione del paziente, da lui acquisita con l'esperienza, che essendo forte avrebbe danneggiato i genitori. Il paziente era guidato da questa convinzione non in modo automatico, ma dall'impiego, a livello inconscio, delle funzioni mentali superiori (1982, p. 10).

Come già osservato, l'opera di Weiss, di Sampson e dei loro colleghi è alquanto inusuale nella comunità psicoanalitica per il fatto che comprende test di formulazioni rigorosi e ben elaborati. In una ricerca (Horowitz et al., 1975), è stato dimostrato dall'informazione assunta da appunti presi nelle prime dieci ore del trattamento che i giudici ritenevano largamente attendibili le conclusioni riguardo all'individuazione di quali temi erano stati tenuti fuori e sarebbero emersi successivamente. La probabilità che questi temi venissero poi ad emergere risultava maggiore allorché, a seguito della presentazione di un test da parte del paziente (per esempio disaccordo con il terapeuta, rabbia verso il terapeuta, richiesta di qualcosa al terapeuta), all'analista veniva riconosciuto un atteggiamento di neutralità anziché di non-neutralità. Infine, alla neutralità dell'analista e all'emergere di temi tenuti lontani dalla coscienza era associato un calo del disagio da parte del paziente. Gassner (1980) ha aggiunto a questi risultati l'importante, ulteriore scoperta che i contenuti tenuti fuori dalla coscienza tendono ad emergere senza l'interpretazione dell'analista.

In un'altra ricerca Caston (1980) ha riconosciuto come altamente affidabili i giudizi «alla cieca » — formulati indipendentemente da un altro gruppo di giudici — circa il grado di compatibilità degli interventi del terapeuta con il programma inconscio della paziente (tale programma consisteva nel fatto che, prima di poter padroneggiare un rapporto di prossimità e intimità, la paziente avrebbe dovuto sentirsi tranquilla sulla sua «opposizione» all'altro, per poi padroneggiare quella tendenza). Più importante ancora, i punteggi con cui veniva espressa la compatibilità degli interventi con il programma rivelavano una significativa corrispondenza con le misure effettuate indi-pendentemente per verificare l'audacia e il grado di introspezione delle risposte della paziente immediatamente dopo l'intervento (laddove i punteggi- di compatibilità con il programma non rivelavano una corrispondenza significativa con un segmento di controllo delle risposte della paziente).

Il gruppo del Mt. Zion ha riferito altri risultati della ricerca, ma gli esempi riportati al lettore possono dare un'idea dell'approccio di questo gruppo alla terapia. Il quadro complessivo del processo terapeutico (e per estensione, del funzionamento mentale in generale) che ne emerge è quello di un paziente che viene in terapia non per gratificare impulsi istintuali inconsci, ma per padroneggiare conflitti, desideri, credenze irrazionali e angosce originati da traumi ed esperienze infantili. Avendo la padronanza come obiettivo fondamentale, il paziente sottopone il terapeuta a test. Superare questi test crea delle condizioni di sicurezza che consentono al paziente di abbandonare la rimozione e di far emergere contenuti tenuti fuori dalla coscienza. Come dice Weiss (1979a): «Nella sua analisi, il paziente riprende la lotta per raggiungere quegli obiettivi che aveva lasciato da parte nell'infanzia, e nel suo tentativo di raggiungerli a livello inconscio sottopone a test l'analista per rassicurarsi che l'analista non lo traumatizzerà come hanno fatto i suoi genitori» (p. 5). Il processo terapeutico generale è qui concepito come l'eliminazione della connotazione di pericolo da ciò che l'Io ha erroneamente considerato pericoloso. In sostanza, un benefico cambiamento in un'area precedentemente non padroneggiata segue ad una serie di ri-valutazioni da parte dell'Io di aver ottenuto una relativa sicurezza; viceversa, alla valutazione dell'esistenza di un pericolo rilevante continuato o accresciuto seguono una mancanza di cambiamento terapeutico o un cambiamento regressivo patologico (Caston, 1980, p. 31).

Una valutazione critica dell'opera del Mt. Zion

Al pari di tutti gli altri sviluppi e modificazioni recenti della teoria psicoanalitica che ho preso in considerazione, il gruppo del Mt. Zion rifiuta sia implicitamente che esplicitamente la teoria freudiana degli istinti e delle pulsioni. L'immagine fon-damentale che della persona emerge non è quella di una persona impegnata prevalentemente nella ricerca diretta e indiretta della gratificazione istintuale, ma di una persona che cerca di padroneggiare i conflitti, le angosce e le convinzioni distruttive che la fanno soffrire e ne limitano la soddisfazione, la produttività e la consapevolezza. Questa accentuazione della padronanza collega l'opera del gruppo del Mt. Zion alle formulazioni di Hendrick (1943) e White (1960, 1963). E in effetti le tesi del gruppo del Mt. Zion possono essere viste come un'elaborazione ed applicazione alla situazione terapeutica delle idee di questi due autori. Si possono anche trovare dei legami tra le formulazioni del Mt. Zion e l'accentuazione, da parte di Fairbairn, degli obiettivi dell'Io, e alcuni concetti elaborati da Rogers (1959, 1961). Tuttavia Weiss e Sampson ignorano tutti questi legami e cercano di dimostrare che le loro formulazioni derivano quasi per intero dagli ultimi scritti di Freud — un tentativo che sembra più di natura politica che accademica.

Concetti come programma inconscio, valutazione delle condizioni di sicurezza e decisionalità riguardo al far emergere o meno il materiale tenuto fuori dalla coscienza, alcuni anni fa sarebbero apparsi insostenibili ad alcuni critici scettici. Tuttavia, sotto l'impatto di sviluppi e ricerche nella cosiddetta scienza cognitiva e nella teoria cognitiva, l'idea di operazioni cognitive inconsce complesse e miranti ad uno scopo appare un luogo comune e totalmente attuabile. E tuttavia il gruppo del Mt. Zion continua a porre l'accento sulla consapevolezza e sul- l'insight. In molta parte della sua ricerca il portare in primo piano contenuti inconsci, tenuti fuori dalla coscienza, è la variabile dipendente studiata, basata senza dubbio sull'ipotesi che solo l'emergere alla consapevolezza di contenuti inconsci può essere terapeutico. È comunque possibile che il superamento dei test da parte del terapeuta e la valutazione inconscia della presenza di condizioni di sicurezza possano generare un cambiamento terapeutico senza l'emergere alla consapevolezza di contenuti tenuti fuori da essa. Ecco qui di seguito un esempio.

Ho avuto in trattamento una paziente nella quale il sintomo iniziale, una grave dispareunìa, scompariva spettacolarmente a seguito di quello che io chiamerei l'«acting out» con me di un modello che aveva caratteristicamente messo in atto con gli uomini e con i suoi genitori. In questo schema, alla sfida seguiva una sottomissione accompagnata da dolore fisico e/o psicologico. Quando aveva tre-quattro anni era stata vittima di violenza sessuale (abbastanza grave da finire in tribunale) ad opera di sua madre, perché, secondo la madre stessa, l'aveva «sfidata». Da adolescente e da adulta era convinta, sulla base degli atteggiamenti paterni, che l'accettazione e l'amore del padre nei suoi confronti fossero legati alla convinzione che fosse vergine. E prima di ogni rapporto sessuale era perseguitata dal pensiero ossessivo, di sfida: «Se mi potessero vedere adesso», in cui si riferiva chiaramente ai genitori. Il pensiero era inevitabilmente seguito da un forte dolore durante il rapporto, dolore che lei sopportava in silenzio. Espresse la convinzione che il partner l'avrebbe sicuramente lasciata se gli avesse parlato di questo dolore.

Una volta la paziente si arrabbiò moltissimo con me perché le avevo fatto balenare la possibilità di sdraiarsi sul lettino (fino a quel punto era rimasta sempre seduta). Il mio suggerimento venne chiaramente vissuto, a qualche livello, come una seduzione e una richiesta di sottomissione. Ma lei non si sottomise. Rifiutò invece l'idea accompagnandola, come ho detto, con rabbia e attacchi verbali contro di me. Eravamo verso la fine della seduta (e anche alla fine della settimana) ed io rimasi in silenzio, senza dare nessuna interpretazione. La seduta successiva la paziente riferì di aver pensato di aver «iperreagito», ma cionondimeno si sentiva a disagio e in qualche modo spaventata all'idea di utilizzare il lettino; «non era pronta », così disse. Io accettai i suoi commenti, anche qui senza interpretazione, e continuammo la terapia.

La seduta seguente la paziente si presentò molto sollevata e annunciò che la sera precedente, per la prima volta nella sua vita, aveva avuto un rapporto sessuale senza provare dolore. Espresse sia un senso di sollievo sia il timore che «fosse troppo bello per essere vero» e che «non sarebbe durato». Mi informò anche che lei e il suo ragazzo sarebbero andati via quel fine settimana e che considerava la gita una specie di test del perdurare della sua nuova libertà dal sintomo. La paziente tornò dal fine settimana nuovamente sollevata e riferì che il sintomo non si era ripresentato e che il rapporto sessuale era addirittura piacevole. Nel momento in cui scrivo, un follow-up di oltre tre anni indica una continua assenza del sintomo e un perdurare di altri cambiamenti positivi.

Sono convinto che in un momento critico della terapia l'«acting out» da parte della paziente del tema dinamico di base — sottomissione e/o sfida, questa volta non seguito da dolore e/o rifiuto — abbia contribuito a migliorare il conflitto. Va nuovamente notato che l'«acting out» di questo schema di fondo e la scomparsa del sintomo avvennero senza nessuna interpretazione da parte mia o nessun insight articolato e verbalizzato da parte della paziente riguardo al significato dinamico di questo «acting out». Né vi fu alcun emergere manifesto alla consapevolezza di materiale tenuto fuori da essa (un punto su cui ritorneremo successivamente).

Espresso nei termini del modello presentato dal gruppo del Mt. Zion, il test che era stato «messo in atto» e superato consisteva nel verificare se io riuscivo a sopportare la sfida e la rabbia della paziente e a continuare purtuttavia il trattamento. Questo test più manifesto era stato preceduto da altri, più sottili, sul modo in cui avrei reagito alla sua ostilità e alla sua sfida. Il suo rifiuto praticamente automatico di ogni interpretazione del transfert può essere visto in questa luce, ed è simile agli esempi presentati da Weiss e Sampson, nei quali test comportanti rischi più modesti sono seguiti da test in cui la posta è più alta. Nel caso esposto, lo scoppio di rabbia e la sfida della paziente erano stati preceduti da sfide e ostilità in dosi più piccole, che non avevano avuto conseguenze particolari — il lavoro terapeutico era infatti continuato — e avevano quindi contribuito a creare delle «condizioni di sicurezza».

Il mio suggerimento alla paziente di utilizzare il lettino aveva fornito l'occasione di un «acting out» cruciale e, una volta superato il test (col mio silenzio e la semplice continuazione del trattamento), il sintomo iniziale era scomparso.

Questo caso, come le formulazioni del gruppo del Mt. Zion, suggerisce un modello di transfert del tutto diverso da quello classico. Secondo la teoria tradizionale le reazioni di transfert sono soprattutto un esito «automatico» della sempre presente pressione alla scarica di pulsioni istintuali infantili, della mo-bilitazione particolare di tali spinte da parte delle caratteristiche regressive della situazione terapeutica, e dell'onnipresenza e della forza della resistenza caratterizzata dalla tendenza del paziente a gratificare anziché ricordare le pulsioni conflittuali. In questa concezione, le reazioni di transfert sono soprattutto espressioni patologiche che costituiscono «la resistenza più forte al trattamento» (Freud, 1912, vol. 6, p. 525) — in realtà costituiscono una nevrosi nel senso più pieno — ed è solo l'analisi interpretativa del transfert a permettere l'insight e il progresso terapeutico. Di conseguenza un «acting out», anziché una rammemorazione del materiale fondamentale relativo ai primi conflitti e traumi, costituirebbe una resistenza e, se non interpretato, interferirebbe con il progresso terapeutico.

Ciò che sto suggerendo a proposito del concetto di «acting out», e che è suggerito nell'opera di Weiss e Sampson, è che invece di interpretare le reazioni di transfert necessariamente come espressione di pulsioni perentorie e di una costrizione «a ripetere il contenuto rimosso [...] anziché [...] ricordarlo» (Freud, 1920, vol. 9, p. 204), le si può considerare come tentativi inconsci di affrontare, nella relativa sicurezza offerta dalla situazione terapeutica, materiale collegato a conflitti e traumi precoci, allo scopo di padroneggiarlo.

Il caso sopracitato suggerisce anche che il superamento dei test e la creazione di condizioni di sicurezza possono portare ad un miglioramento dei sintomi (e ad altri cambiamenti) senza che intervenga la fase in cui emergono contenuti tenuti lontani dalla coscienza e senza un insight articolato48. A me sembra che questo rappresenti la sostanziale modificazione dell'idea di transfert elaborata da Alexander e French (1946), in particolare del loro concetto di «esperienza emozionale correttiva». Secondo questa concezione, «nella nevrosi di transfert, il paziente impara ad affrontare piccole quantità di quelle tensioni emotive che non riusciva a padroneggiare nel passato» (p. 17). Malgrado il discredito in cui è caduta l'opera di Alexander e French in seno alla comunità psicoanalitica, il loro concetto di transfert e del rapporto terapeutico non è essenzialmente diverso da un certo numero di concezioni recenti — per esempio la convinzione di Kohut (1977) secondo cui «le trasformazioni strutturali fondamentali indotte dall'elaborazione [...] si verificano [...] in conseguenza delle interiorizzazioni graduali che sono prodotte dal fatto che le esperienze antiche sono rivissute ripetutamente dalla psiche più matura» (p. 43) e l'accentuazione, da parte di Volkan (1976), del fatto che il paziente impara a distinguere tra introiezioni arcaiche e nuovi oggetti (idea già sottolineata da Strachey [1934])49.

Le tesi elaborate dal gruppo del Mt. Zion implicano, fra l'altro, che se il materiale inconscio non riesce a emergere e, più in generale, se non si riesce a compiere progressi in terapia, ciò non è dovuto tanto alle resistenze del paziente, così come definite nel senso tradizionale (che include, per esempio, l'idea di resistenza ad abbandonare la gratificazione dei desideri infantili), quanto piuttosto al giudizio inconscio del paziente che non vede realizzate le condizioni di sicurezza. Un'ulteriore implicazione è che l'insuccesso del terapeuta nei test ai quali lo sottopone il paziente — forse spesso dovuto alle reazioni e alle difficoltà di controtransfert del terapeuta stesso — può essere la ragione più frequente dell'insuccesso del trattamento.

Per quanto riguarda l'esito terapeutico ci si può riferire solo alle implicazioni della teoria formulata dal gruppo del Mt. Zion piuttosto che a dati empirici, perché tutto il lavoro empirico di questo gruppo si è incentrato sul processo più che sull'esito terapeutico. Il che rappresenta un limite ben netto della loro ricerca. Se è infatti interessante sapere in quali condizioni nuovi temi e contenuti tenuti lontani dalla consapevolezza emergono in una terapia a orientamento psicoanalitico, ancora più importante è stabilire se l'emergere di questi contenuti è correlato secondo una qualche legge all'esito terapeutico. Il gruppo del Mt. Zion può dare tacitamente per scontato che tale rapporto legittimo esista o debba esistere (dato il ruolo consacrato dell'insight e della consapevolezza nella teoria psicoanalitica), ma resta il fatto che la correlazione deve essere ancora dimostrata. E se si dovesse scoprire che non esiste alcun rapporto di questo genere, si dovrebbe riconoscere che le scoperte sull'emergere di contenuti tenuti lontani dalla consapevolezza diminuirebbero d'importanza.

Un altro limite del lavoro del gruppo del Mt. Zion è che la sua ricerca è (necessariamente?) limitata ad un piccolo numero di soggetti. Ciò solleva la solita domanda riguardo alla generalizzabilità dei risultati. Più specificamente, solleva la domanda sul tipo e la gamma di pazienti cui si applicano le formulazioni di questo gruppo. Come ho sostenuto prima, è possibile che alcuni aspetti di queste formulazioni, in particolare l'importanza dell'emergere di contenuti tenuti lontani dalla coscienza, possano non applicarsi allo stesso modo a tipi diversi di pazienti. Quanto agli altri fattori, per esempio il superamento dei test e la creazione delle condizioni di sicurezza, sembra ragionevole e anzi probabile che essi si applichino ad una vasta gamma di pazienti (e quindi, a una vasta gamma di tecniche terapeutiche). Ma per quanto ciò possa sembrare ragionevole, attende ancora di essere dimostrato.

Ancora alcune osservazioni prima di concludere. In primo luogo, vorrei far notare la convergenza tra alcune idee del gruppo del Mt. Zion e l'accentuazione da parte di G. S. Klein (1976) della «inversione di voce» dal passivo all'attivo (il termine è impiegato da Loevinger [1966]) quale fattore base nel processo terapeutico. Il ruolo attivo del paziente nel presentare i test, nel determinare se esistano o meno le condizioni di sicurezza e nel decidere se portare o no alla luce del materiale trau-matico, possono tutti essere visti come esempi del tentativo di invertire esperienze traumatiche passivamente subite in sforzi attivi di padroneggiarle.

La seconda osservazione che desidero fare ha a che vedere con la distinzione spesso incontrata tra la funzione interpretativa, di facilitazione dell'insight da parte del terapeuta, e i fattori legati al rapporto, come la capacità di fornire un rispecchia-mento empatico e un «ambiente contenente». A me sembra che i concetti e le scoperte qui esaminati si oppongano a una distinzione radicale tra queste due dimensioni. Il lavoro al Mt. Zion ci insegna che il superamento di un test e la realizzazione delle condizioni di sicurezza (che sembrano essere agevolate nel modo più efficace da una neutralità non conflittuale, benevola) facilitano l'insight e la consapevolezza (vale a dire l'emergere di contenuti tenuti lontani dalla coscienza) e contemporaneamente costituiscono fattori di rapporto diretto che possono essere tali da ridurre l'angoscia e pertanto migliorano i sintomi. Inoltre, la creazione di condizioni di sicurezza può essa stessa essere considerata un'interpretazione implicita, nella misura in cui il paziente non è nella situazione traumatica originaria e il terapeuta è diverso, sotto importanti aspetti, dalle figure traumatiche del passato.

Infine, qualche parola sul concetto di condizioni di sicurezza. È un concetto solo in apparenza semplice e sottile. Infatti comprende non solo le condizioni esterne, ma può includere anche il giudizio inconscio di disporre di una sufficiente forza dell'Io per tentare di padroneggiare una situazione che, in una fase precedente, è apparsa troppo minacciosa o tale da generare angoscia per poter essere affrontata (la decisione di entrare in trattamento può rispecchiare un tale giudizio). Inoltre, a mio avviso, si può essere ragionevolmente certi che interpretare il concetto in termini di prescrizioni universalmente valide tipo calore, amore e «considerazione positiva incondizionata», non sarà molto utile perché, tra le altre cose, esse non sono suffi-cientemente sintonizzate sui bisogni individuali. La difficile sfida clinica è essere sensibili a ciò che costituisce le «condizioni di sicurezza» per un dato paziente, alla luce della sua costellazione particolare di conflitti, paure e traumi precoci.