Normalità/anormalità

Nella storia delle scienze cliniche della psiche il costrutto «normalità/anormalità» è qualcosa di più di un circoscritto argomento di studio e di ricerca, dal momento che ha contribuito non solo a definire gli intenti pratici, gli oggetti di studio, i modelli operativi e le tecniche di queste discipline, ma anche a configurare delle specifiche figure professionali, ovvero ruoli e competenze necessari a rispondere, in modo tecnico, all'affermarsi di una richiesta istituzionale e sociale sempre più interessata alla normalità ideale, e motivata da un'intensa volontà di conoscenza e di controllo della diversità e della devianza. Pertanto, la psichiatria, l'antropologia criminale, le psicologie cliniche e diagnostiche della personalità non possono essere separate, in ogni momento della loro storia, dai contesti sociali e culturali entro cui si sono costituite. Queste discipline, strettamente collegate con i giudizi di normalità, devianza e patologia, sono riuscite a condividere con la domanda sociale e giuri dica due criteri: l'assiologico, la valutazione del «bene» e del «male», quindi della conformità dei comportamenti rispetto ai valori egemoni e normativi; il funzionale, ovvero la valutazione delle capacità di autoregolazione individuale nel sapersi adeguare alle prescrizioni morali e alle situazioni sociali.

Rispetto alla rilevanza dei comportamenti giudicabili «anormali», le scienze cliniche della psiche possono essere suddivise in due gruppi. Un primo gruppo è formato da discipline diagnostiche come la psichiatria, l'antropologia criminale, le psicologie differenziali della personalità e altre, come la psichiatria forense e la psicologia giuridica, che esprimono il punto di vista di un osservatore esterno, in una posizione di potere rispetto all'osservato e il cui intento discriminante, ancor prima della cura, è la difesa sociale. Gli scopi e i criteri conoscitivi dell'osservatore discendono prevalentemente dalle esigenze normative e istituzionali di cui egli è compartecipe. Un secondo gruppo di discipline cliniche, definibili terapeutiche, come la psicoanalisi e le psicoterapie, ha invece costruito le sue pratiche e conoscenze in funzione dell'osservato e delle sue richieste, come la riduzione del conflitto intrapsichico, il superamento dei problemi interpersonali, l'eliminazione di stati mentali indesiderati o disfunzionali. In questo secondo gruppo il giudizio di normalità o di anormalità, in quanto dettato da parametri esterni, non è rilevante se non per il cambiamento della percezione soggettiva. Tra il primo e il secondo gruppo, a partire dagli anni '60 del '900, c'è stata spesso una certa ibridazione, soprattutto tra psichiatria e psicoanalisi (psichiatrie psicodinamiche) e, più recentemente, tra psicologie comporta-mentiste e diagnostica psichiatrica. In definitiva, per tradizione, sistema di conoscenze e attribuzioni giuridiche, stabilire ciò che si può reputare normale o anormale è un compito assegnato alle scienze diagnostiche della psiche, attraverso il quale si delega a un esperto il ruolo di valutare l'anormalità o meno di pensieri, percezioni, azioni ed emozioni, mettendo in luce la loro eventuale natura patologica ricorrendo a configurazioni nosografiche o tipologiche di personalità.

Alle scienze diagnostiche è anche riconosciuto il potere di definire la realtà normativa e i suoi valori di riferimento, di valutare le persone attraverso diagnosi, stabilire o imporre i trattamenti. Le psicologie cliniche con finalità terapeutiche sono sorte e si sono affermate di fronte all'impossibilità delle discipline diagnostiche di comprendere e modificare le persone, dato che affrontano i problemi psicologici depersonalizzandoli, concettualmente, come entità indipendenti dagli attori. Negli ultimi due secoli di storia il paradigma delle scienze diagnostiche della psiche è stato caratterizzato:

a) dalla persistenza di una matrice epistemologica legata, in origine, al meccanicismo delle scienze del XVII-XVIII secolo, alle filosofie della natura, poi al positivismo e al neoempirismo;

b) da un intento volto a riportare ogni competenza scientifico-operativa entro una compagine laica e professionale di tipo sanitario, imitando i procedimenti e il linguaggio medico anche per problemi d'altra natura;

c) dalla definizione di questi problemi come anormali o patologici anche quando solo trasgressivi di regole morali, giuridiche e culturali;

d) dalla delega sociale o dall'autoattribuzione di competenze normative, prescrittive e proscrittive, entrando, per tali ragioni, nella sfera della religione, del costume, del diritto civile e penale, dell'educazione, dei rapporti familiari e degli accadimenti quotidiani. Transitando, per esempio, dalla fisiologia della riproduzione umana alla morale sessuale e, senza più ancoraggi scientifici, entrando nella sfera dei sentimenti, delle relazioni e delle pratiche sessuali, vietando o prescrivendo, patologizzando o autorizzando, facendo dell'etica sessuale un capitolo dell'igiene mentale e della psichiatria morale.

La storia delle scienze diagnostiche della psiche relativa al costrutto sovraordinato «normalità/anormalità» non è la cronaca di una crescita cumulativa di conoscenze scientifiche, ma la storia di una costante rielaborazione dei criteri di giudizio e dei loro parametri valutativi i cui risultati, dopo due secoli, lasciano comunque inalterati gli assunti paradigmatici iniziali, che possono essere fatti risalire a una schiera di alienisti dai nomi in parte dimenticati, tra cui F. Gali, J. Spurzheim, B.-A. Morel. Precursori di un programma costantemente impegnato a cercare o a dimostrare l'esistenza di connessioni tra il tipo di anormalità attribuita e gli indicatori, di volta in volta fisiognomici, antropometrici, comportamentali, psicodinamici, sintomatologici o psicobiografici; programma che, con sempre maggiore eclettismo, perdura anche oggi nella ricerca di relazioni fra tratti psicologici e il comportamento deviante, tra l'organizzazione di personalità, il temperamento, il tipo di attaccamento e la condotta percepita come anormale, in quanto riprovevole. Schema interpretativo-esplicativo inaccessibile alla critica, nonostante che:

a) da parte degli psicologi della personalità sia stata dimostrata la debole o inesistente correlazione fra i tratti psicologici e il comportamento;

b) dagli studiosi delle strategie di ragionamento sia stato dimostrato come questo tipo di inferenza sia esposta a sistematici errori cognitivi, di giudizio e attribuzionali;

c) i sociologi abbiano messo in luce come il perseguimento della normalità ideale possa indurre all'uso di mezzi anormali e quindi illeciti, o insoliti, e come non sia possibile stabilire una relazione equivalente tra gravità morale del delitto, assurdità di un comportamento e corrispondente grado di anormalità psichica. Da una prospettiva metodologica è stato riaffermato lo scarto categoriale tra i costrutti psicologici e quelli giuridici, come a dire che le norme e i criteri del botanico e del giardiniere non sono sovrapponibili. Più che con la storia di un sapere scientifico intorno a diversi modi di essere e di agire configurati come anormali (per esempio le droghe illecite, le perversioni sessuali, il delitto, ma anche entità minori come l'esaltazione religiosa, l'apatia, la povertà e il vagabondaggio), abbiamo a che fare con la storia di un tentativo riuscito, ossia la riduzione di una molteplicità di comportamenti, an che molto lontani dalla follia, ma comunque giudicati «non normali», a un unicum descrittivo ed esplicativo: la «malattia psichica» (sia essa degenerativa, regressiva, costituzionale, psicopatologica, sociopatologica o altro).

La storia delle discipline diagnostiche della psiche è anche la cronaca delle strategie argomentative volte a tradurre l'anormalità in una pluralità di rappresentazioni o di costruzioni discorsive di senso, di significato e valore, in artefatti linguistici, come se si trattasse di entità ascrivibili a procedimenti conoscitivi di tipo medico. Teorie e procedimenti che hanno dato vita, a partire dal XIX secolo, a un genere narrativo particolare, a metà strada tra giudizio morale e discorso medico, mutuando da questo, per esempio, un procedimento categoriale, nosografico e diagnostico di tipo positivista, senza peraltro poterne rispettare pienamente i medesimi criteri scientifici, data la diversa natura dei problemi e degli eventi considerati.

Il sistema dei saperi che si articola attorno alla descrizione e valutazione dei caratteri e dei comportamenti umani, definiti anormali, attraversa da sempre numerose discipline filosofiche e giuridiche, religiose e mediche. Pur avendo degli anticipatori, nel '500, in G. Della Porta e G. Grataroli, è solo nella seconda metà del '700 che gli studi di antropologia fisica comparata e di alienistica entrano a far parte dell'insegnamento universitario. G. Lavater (1775), con la fisiognomica, e Gali (1798), con la frenologia, sono senz'altro tra i precursori ufficiali dell'antropologia criminale e della diagnostica psicologica e psichiatrica, con il ricorso ai metodi osservativi e clinici per la seconda e di misura per la prima, stabilendo in modo scientifico-naturalistico il principio della corrispondenza fra «tratti», caratteri psichici e comportamento. Principio che rimarrà inalterato per quasi tre secoli, nonostante l'ampia varietà e natura dei tratti considerati dalle pratiche professionali e dalle rispettive scuole di pensiero. Da un punto di vista storico la crescita dell'interesse di definire, specificare e trattare l'anormalità è correlato all'affermarsi di un'esigenza normativa sempre più articolata e adeguata alla crescente complessità delle moderne società secolarizzate. Ereditando lo sforzo del '600 di dare un ordine al mondo, è nel '700 che l'intento si trasforma in un programma sistematico e diffuso. In alcuni stati europei vengono pianificati veri e propri dispositivi ideologici, educativi e organizzativi intesi a controllare, in forma diffusa, i comportamenti sociali devianti e a rendere sempre più uniformi quelli normali. Sforzo pedagogico e normativo non solo dettato dalle trasformazioni culturali e materiali della società moderna, ma necessario alle nuove forme di organizzazione del lavoro e delle sue tecnologie produttive, come all'innovazione strategica in campo militare e al mutare degli assetti politici, giuridici e amministrativi. Da questo cambiamento prenderà consistenza quello che N. Elias (1969-80) ha chiamato «processo di civilizzazione», caratterizzato da un'omologazione degli stili di vita, e il micropotere di una sorveglianza interstiziale (Foucault, 1963; 1975), sostenuta dall'umanizzazione riabilitativa delle pene e dalla funzione curativa, ma ambigua, dei manicomi. Il comportamento normale si identificherà, per tutto l'800, con un corpus di pratiche disciplinari collettive, diffuse e condivise, familiari e scolastiche, lavorative e sanitarie, amministrative e penali. I medici dell'800 saranno affascinati da un immenso lavoro archivistico e tassonomico non solo della follia, ma anche del delitto, delle sessualità periferiche, delle varie forme di follia morale, del libertinaggio, della povertà, del continente oscuro della sessualità femminile. Un coacervo di deviazioni, alterazioni e anomalie degli istinti naturali che dovranno essere riportati sotto il controllo della ragione. Da Esquirol a Freud, a Mantegazza, da Krafft-Ebing a Weininger fino a Maranon, passando per un'infinità di altri autori meno noti, per pili di un secolo i temi relativi alle passioni, alla sessualità, al delitto e alle piccole deviazioni alimenteranno un'immensa «volontà di sapere», di svelamento e di controllo facendone l'opus, l'idea ossessiva e ridondante, delle discipline cliniche della psiche. In questo secolo saranno anche gettate le basi di un nuovo modo di affrontare la follia, i comportamenti dissociali, la povertà e ogni altro disordine definito come «malattia morale» e imputabile, non più alla volontà della persona, ma alla sua individualità degenerata, regredita, immatura e ammalata. Il giudizio di anormalità si caratterizzerà per tutto il '900 come il mezzo per ricondurre a un ordine naturale violato una classe sempre più ampia di trasgressioni umane. Nei diagnosti c'è la buona fede di essere nel giusto, avendo appreso dalla loro scienza l'idea che in ogni deviazione dalla norma, valutata con i criteri personali e di senso comune, si celi una «patologia degli istinti». Le scienze cliniche della psiche non servono solo a sostenere una definizione morale di normalità, storica, contingente e politica ma anche a ridefinire rifiuti, conflitti, scarti e ribellioni trasformandoli in afflizioni e patologie neuropsichiatriche.

Se nel discorso scientifico la normalità di un evento è un'inferenza statistico-matematica, anche nel senso comune il nucleo stabile di tale inferenza s'aggancia a un'attesa di regolarità percepita (statistica ingenua), utilizzando l'esperienza personale socialmente Ci indivisa. Questo processo implica due aspetti: una selezione degli eventi attraverso la rievocazione contingente di uno «schema di tipizzazione», che implica un riconoscimento lungo la discriminante normale/ anormale, e un'attribuzione di qualità (in qualche misura anche di causa) che rinvia alla molteplicità di criteri antinomici di giudizi, impliciti o espliciti, come positivo/negativo, noto/ignoto, affidabile/pericoloso, buono/cattivo e altri similari che, a loro volta, danno vita a preordinati generi discorsivi o narrativi. Altre caratteristiche dei giudizi di senso comune che derivano o confluiscono (percorso deduttivo o induttivo) nel costrutto sovraordinato normalità/anormalità sono:

a) di semplificare la realtà riducendo la complessità cognitiva mediante una logica dualista

b) di ricorrere a schemi di tipizzazione degli altri, mediante classificazioni-denominazioni prototipiche e stereotipiche;

c) di creare coerenza tra giudizi, attese e percezioni, quindi di cercare conferme più che disconferme;

d) di avere finalità concrete, come la tutela di un interesse del gruppo sociale di appartenenza. In quest'ultimo caso il giudizio di normale/anormale è identificato coi sottostanti o associati indicatori di qualità come utile/inutile, desiderabile/indesiderabile, responsabile/irresponsabile e così via. Un'altra caratteristica del pensiero di senso comune, con intenti di facilitazione cognitiva, è quello di trasformare ciò che attiene ai sistemi governati da regole e da significati in aggettivi volti a giudicare un comportamento. Per esempio, nel caso di una tipica anormalità, si trasforma l'aggettivo «omosessuale», attribuito a un comportamento, in un sostantivo e, in modo transitivo, in un carattere costitutivo della persona (si dirà allora che X è omosessuale); carattere che, per il noto effetto della «correlazione illusoria», se giudicato negativo sarà associato (come causa probabile) a qualche evento psicobiografico altrettanto negativo.

Se è vero che, spesso, i fatti discendono dalle parole, conferendo a quanto denominano le caratteristiche della realtà, l'effetto è che si finisce per renderli socialmente veri. Per cui, ciò che è nominato attraverso un giudizio di qualità, desunto per esempio da un sistema di norme, esiste poi indipendentemente dal valore violato che lo ha costituito, si tratti di un drogato, di una strega, di un'isterica, di un infedele o di uno psicopatico. Le loro ragioni, bisogni, percezioni, intenzioni entrano a far parte della loro natura sbagliata oppure, rovesciando lo schema (seppur mantenendolo), la loro devianza può essere idealizzata. Sul volto dell'individuo giudicato e percepito come anormale s'intersecano i segni non solo della sua eventuale diversità ma anche quelli del sistema di regole e di norme, di definizioni e di aggettivi che mettono in risalto gli elementi della sua deviazione e gli effetti del suo conformarsi al trattamento, sia che questi lo accetti, sia che lo rifiuti. Per mezzo della reificazione, il mondo delle istituzioni sembra fondersi con quello della natura, conferendo a ogni entità psicologica nominata una fondazione ontologica.

I procedimenti di senso comune da cui scaturiscono i giudizi/percezioni di normale/ anormale se, da un lato, sono un imprescindibile modo di conoscere e ordinare gli eventi, semplificandoli, piegandoli a interessi pratici e contingenti, dall'altro si espongono, tramite gli stessi loro processi cognitivi, a numerosi errori attribuzionali. Errori che divengono sempre più ricorrenti quando ci si allontana dal mondo degli eventi fisici e si entra nei sistemi costruiti da relazioni, regole, significati, scopi e intenzioni, episodi e generi narrativi. Gli errori sistematici di giudizio, dall'errore fondamentale di attribuzione alla correlazione illusoria, dalle profezie che si autoadempiono alla confusione tra diversi sistemi di regole (per esempio naturali e sociali) sono presenti non solo nei processi cognitivi di senso comune, ma anche nelle scienze diagnostiche della psiche che, necessariamente, li ricalcano. La ricerca di conferma o le attribuzioni di causa permeano non solo il senso comune ma anche, per necessaria corrispondenza, l'intero apparato diagnostico delle scienze psicologiche, cliniche in particolare, rendendo altamente opinabile quello che invece appare ai diagnosti come un sistema di costrutti logico-argomentativo ineccepibile, apparentemente esplicativo ma che rientra, invece, in un procedimento interpretativo. Gli assunti paradigmatici che dominano oggi le scienze diagnostiche della psiche, in particolare quelle preposte ai giudizi di normalità e di anormalità, sono:

a) l'agire umano è una variabile strettamente dipendente dalle caratteristiche psichiche individuali e queste, a loro volta, sono espressione di una natura umana universale di cui è necessario scoprire le leggi;

b) ogni anormalità della condotta, del pensiero o dell'emozione apre al sospetto che, nell'individuo, esista una condizione degenerativa, una costituzione psichica anomala, labile o deficitaria causata da una patologia organica, ambientale, educativa o affettiva di cui è necessario stabilire la natura, l'origine e gli effetti;

c) gli stati mentali problematici, atipici o diversi, i comportamenti deviami, ma anche quelli moralmente riprovevoli, sono assimilabili a malattie: le persone interessate divengono pazienti e, come tali, vanno affrontati e trattati da esperti qualificati, psicologi clinici e psichiatri;

d) il soggetto, non essendo responsabile della propria condizione di anormalità e della sottostante eventuale patologia, non è in grado di opporvisi, per cui deve essere custodito, contenuto e curato, anche contro la sua volontà deficitaria la quale, se contraria, deve essere considerata sintomo della sua stessa condizione di malato;

e) spetta alle scienze cliniche della psiche definire i criteri e i modi di valutare l'anormalità e, quindi, fissare i contorni e i requisiti della normalità, sia in termini prescrittivi (ciò che si deve fare) che proscrittivi (ciò che non si deve fare) e stabilire, in seguito alla decisione diagnostica, il trattamento più opportuno. Questo insieme di assunti acquista valore attraverso la sanzione giuridica e l'apparato istituzionale sanitario di cura e di prevenzione.

Anche se, in via di principio, tutti sono disposti a riconoscere che l'anormalità non coincide con la malattia, nei fatti è sempre la percezione della prima che apre al sospetto della seconda. Nella pratica clinica l'anormalità non è vista come un'entità neutra, essendo già parte di un giudizio e di un'aspettativa negativa, proprio nell'attesa di essere collegata o tradotta in qualche categoria psicopatologica. A fronte degli eventuali repertori nosografici, con un aumento di categorie diagnostiche (più di 350, nella IV edizione del DSM), qualsiasi comportamento, atipico e non, può essere facilmente etichettato come patologico. Nella storia recente delle scienze della psiche possono essere individuate, a titolo didascalico, due tendenze concorrenti e, talvolta, complementari: la prima può essere fatta risalire a J.-É Esquirol (1805), il quale stabilisce un rapporto di analogia tra le passioni che eccedono l'ordinario e una condizione di malattia, lungo un continuum che va, appunto, dal normale all'anormale. Tale linea di pensiero, che attraversa Charcot, Janet, Freud e i suoi epigoni, approda nelle attuali psicologie cliniche dinamiche in cui, invertita la prospettiva, è il normale a essere interpretato come un'estensione normalizzata del patologico.

Questa posizione, che dà allo psichico una sua autonomia, anche patologica, è presente nei vari rimaneggiamenti delle etichette professionali nel '900 istituendo, per esempio, lo «specialista in malattie nervose e mentali», attribuendo quindi, tramite un artificio linguistico, alle malattie mentali la stessa consistenza delle nervose e favorendo per un certo periodo,pur nella divisione, la loro riunione sotto un'unica competenza. La separazione delle malattie mentali da quelle nervose giustificherà la fondazione autonoma della nosologia delle prime; posizione, questa, resa ancor più radicale dalle psicopatologie fenomenologiche (Binswanger, 1955; Jaspers, 1913), dai quali la «malattia» sarà considerata come un modo particolare e soggettivo di fare esperienza di sé e del mondo, erodendo, più di quanto abbiano poi messo in pratica i loro epigoni, ogni idea aprioristica e oggettiva di malattia; con ciò riqualificando la normalità soggettiva, anche quando anomala, come progetto, funzione e modo personale di declinarsi nel mondo. Questa prospettiva è oggi rintracciabile nelle psicologie cliniche «postmoderne» costruttiviste, interazioniste e sociocognitive che, dopo una lunga gestazione e marginalità accademica e istituzionale, si affacciano sulla scena attuale delle scienze cliniche della psiche; posizioni, queste, non diagnostiche, disinteressate al costrutto normale/anormale e con un riferimento convenzionale al concetto di patologia psichica.

Una seconda posizione, che connette in modo non più analogico la normalità a un sospetto di malattia, può essere ricondotta all'idea che le malattie della mente sono malattie del cervello, poggiata proprio sull'ipotesi di una causa neuropatologica dietro ogni anormalità. A suo tempo ampiamente condivisa anche dall'antropologia psicologica (Sergi, 1889) e criminale (Lombroso, 1897), questa prospettiva, con alterna fortuna, ha riguadagnato terreno ideologico appoggiandosi ai risultati della psicofarmacologia, poi

alle neuroscienze. Il problema della difficoltà di creare nosografie fondate, come quelle mediche, su evidenze eziologiche, viene risolto precocemente da W. Griesinger (1845), che legittimerà la nosografia psichiatrica come un sistema classificatorio basato sull'evidenza clinica dei quadri sintomatici e non sui sottostanti meccanismi eziopatogenetici, liberando la psichiatria dall'onere della prova di dover dimostrare non solo il misterioso salto dal cervello alla mente, ma anche gli effetti della causalità ambientale; obbligandola, da un lato nel letto di Procuste del cavillo nosografico, dall'altro a cercare comunque un aggancio eziopatogenetico ricorrendo ampiamente, nella seconda metà del '900, alle teorie psicoanalitiche. La psichiatria psicodinamica si è così trovata nella confusione di dover utilizzare le interpretazioni come spiegazioni, le metafore come realtà effettive, mescolando in modo insostenibile ermeneutica e determinismo. Tuttavia, grazie alla sua affermazione istituzionale, la psichiatria potrà inscrivere, tra le malattie mentali, una classe sempre più ampia di comportamenti considerati anormali con il risultato, però, di cancellare la possibilità di stabilire, in via di principio, le differenze tra i sistemi prevalentemente regolati da norme sociali e culturali e quelli prevalentemente determinati da cause biologiche. A partire dagli anni '90 del secolo scorso, la lenta eclisse della psichiatria dinamica e delle sue interpretazioni ha fatto rifluire l'intera psichiatria nella cornice concettuale fondata sui giudizi preliminari di normalità/anormalità e sul conseguente impianto consensuale nosografico-diagnostico; malgrado ciò la stessa classificazione degli psicofarmaci sulla base di entità diagnostiche si è rivelata, con queste, non sempre corrispondente. All'incertezza congetturale delle cause si è trovato un rifugio alternativo utilizzando la certezza delle sindromi, dei termini usati, delle classificazioni diagnostiche e dei lori possibili intrecci generando, così, un apparato diagnostico convenzionale che, nella prassi clinica, sociale e giuridica, in quanto consensuale, è assunto come realistico, in somiglianza di un'effettiva dia gnosi medica. Apparato diagnostico che, a partire dai concetti sovraordinati di normalità e di anormalità, si offre alle critiche sia dei nominalisti che dei positivisti logici, sia degli studiosi dei processi di ragionamento che dei metodologi delle scienze del comportamento, con il vantaggio invece della sua perfetta aderenza alle esigenze cognitive e ideologiche del senso comune e giuridico; vantaggio che ha vincolato anche i professionisti delle scienze cliniche della psiche a credere in quello che fanno attraverso i discorsi che la loro formazione e funzione professionale gli impone e il mondo gli chiede. In definitiva, la valutazione e il giudizio di ciò che è da ritenersi normale o anormale è anche una costruzione del professionista delle scienze cliniche della psiche, nel senso che è guidato:

a) dalle credenze, teorie, pratiche e tecniche che usa;

b) dalle attese culturali, istituzionali e giuridiche, cui deve dare una risposta entro vincoli preordinati e spesso fondati su presupposti culturali decaduti, cui non è possibile dare risposte scientifiche o per le quali non esistono conoscenze sufficienti o adatte (come per la valutazione della capacità di intendere e di volere o della pericolosità sociale);

c) dagli schemi cognitivi e dai procedimenti linguistici da cui dipende la sua visione della realtà e la sua condizione di esperto;

d) dal fatto che l'osservato non rimane indifferente alla relazione che lo definisce, costruendo disturbo e identità in modo complementare al ruolo attribuito e alla teoria che lo definisce (devianza secondaria).

Poiché le definizioni della normalità, così come le loro interpretazioni, sono variegate e sempre più multidimensionali, i tecnici della psiche hanno intrecciato criteri eterogenei di giudizio, come l'adattamento sociale, lavorativo, familiare e sessuale, il criterio statistico, lo schema diagnostico medico-biologico, la valutazione della forma e dei contenuti di pensiero, la rilevanza della devianza sociale e culturale, il principio della sofferenza soggettiva, il richiamo e confronto con la norma etologica, la percezione del grado di consapevolezza critica dell'osservato rispetto al suo disturbo.

Criteri che, per la loro discrezionalità e sovrapposizione, possono far sospettare chiunque di una qualche anormalità, suscettibile di entrare a far parte di qualche configurazione diagnostica. La sottrazione del giudizio di anormalità ai criteri esclusivi della morale religiosa o del diritto, dell'autorità amministrativa, del senso comune, ha comunque permesso qualcosa di nuovo. In certi settori delle scienze cliniche della psiche il discorso dell'osservatore, i suoi criteri, non sovrastano più la voce dell'osservato: il giudizio sfuma nella comprensione delle molteplici versioni e immagini che l'umano ha di sé, riportando un interesse centrato sulla persona e il suo disagio; spazio di accoglienza che tuttavia conferisce, per esempio, al pluriomicida sospettato di insanità mentale una condizione di malato/peccatore che la redenzione diagnostica, dopo l'espiazione, riconosce come guarigione esponendo la sua identità, per i molti effetti della devianza secondaria, a coltivare la probabilità di una recidiva. Si continua così a cercare nella causa psicopatologi-ca l'attenuazione della responsabilità e della colpa, rafforzando lo schema lombrosiano della non imputabilità e del perdono cristiano atti a salvare, per contrasto, l'immagine buona, sana e normale del mondo comune.

Facendo coincidere la normalità psichica con la salute, il giudizio con la diagnosi, il segno con il sintomo, sostituendo la causa all'intenzione, l'individuo alla relazione, si impedisce così alle scienze cliniche della psiche di imboccare altre strade, di rinunciare al successo e agli utili di un paradigma ottocentesco che, tutt'ora, continua a opprimerle.

ALESSANDRO SALVINI