Équipe terapeutica

Nella cultura ospedaliera, soprattutto chirurgica, il lavoro in équipe è progressivamente diventato sinonimo di organizzazione moderna e di qualità, ma la parola risale al lessico della marineria e indicava originariamente l'equipaggio di un'imbarcazione, rimandando alle caratteristiche di isolamento, interdipendenza tra i marinai, missione, specializzazione tecnica. Il termine «équipe terapeutica» è oggi usato soprattutto nel lessico psicologico e psichiatrico, ed è traslato in quello psicopedagogico e sociale. Molto rilevante è stata l'estensione della cultura dell'equipe curante alle équipe medico-psicopedagogiche attive nell'ambito della neuropsichiatria infantile. Nel contesto culturale francese il termine équipe è strettamente connesso al concetto di «psicoterapia istituzionale», attualmente molto diffusa anche in Italia e nei paesi di cultura latina, mentre l'anglosassone team è usato, soprattutto oggi, con il significato non completamente sovrapponibile di squadra, senza sottolineatura degli aspetti relativi alla dinamica di gruppo a fini terapeutici. In psichiatria infatti il concetto di équipe è usato in due accezioni che sono andate distinguendosi sempre di più nel corso degli anni: in senso stretto, serve a indicare un gruppo di lavoro caratterizzato dall'uso programmato di strategie psicologiche allo scopo di aumentare l'efficacia terapeutica degli interventi sui pazienti più gravi; in senso lato, a indicare i gruppi stabili che lavorano nei servizi di salute mentale di comunità. Entrambe le accezioni sono fondate sull'idea che i compiti della psichiatria, non circoscrivibili a un'unica dimensione disciplinare, debbano essere affrontati da una molteplicità di operatori con diversa professionalità, sia nelle fasi valutative e diagnostiche, sia nel trattamento, sia infine nella presa in carico degli eventuali esiti. Le radici organizzative e teoriche dell'equipe terapeutica si rintracciano nello sviluppo della psichiatria antiistituzionale del secondo dopoguerra in una congiuntura politica, sociale ed emotiva che vede l'intreccio interdisciplinare per combinare terapia sociale e psicoterapia nella cura di pazienti psichiatrici gravi, con lo scopo di contrastare quella sindrome da istituzionalismo che appariva, allora, una causa maggiore della patologia mentale nei grandi istituti psichiatrici (la «nevrosi istituzionale» di R. Burton). Esse riportano alle esperienze della comunità di M. Jones e agli esperimenti di W. Bion e T. Main a Northfield e Cassel, in Inghilterra, fino a giungere alla più famosa esperienza del Kingsley Hall di R. Laing. Anche in ragione di questo anelito di rinnovamento i principi cui si ispiravano queste esperienze erano fortemente caratterizzati in senso umanistico, emancipativo e antiautoritario, e fondati su alcuni concetti guida, non a caso messi a punto da un antropologo sociale, R. Rapoport (1960), che fu chiamato da Jones alla fine degli anni '50 a studiare la propria comunità presso lo Henderson Hospital di Londra. Il concetto di «comunitarismo» tra pazienti e operatori, di «democraticismo» (equa condivisione del potere decisionale) e di «tolleranza» reciproca dei diversi modi di essere tra pazienti e operatori; il «sentimento comunitario» (relativo a uno stile informale nelle relazioni e a una comunicazione totale) e il «confronto con la realtà» (cioè il confronto con i comportamenti quotidiani di tutti i componenti) sono da allora paradigmatici dei valori di base in cui si vuole riconoscere, a tutt'oggi, la maggior parte delle varie esperienze di comunità terapeutica. E notevole che lo stesso Rapoport individuasse nella preponderante importanza della leadership carismatica della comunità uno dei fattori critici del successo terapeutico e organizzativo, e insieme il limite all'esportazione di un'esperienza caratterizzata anche dalla valorizzazione di molte figure professionali nuove come animatori, educatori, terapeuti occupazionali, psicomotricisti accanto ai consueti psichiatri, psicologi, assistenti sociali e infermieri.

Quasi contemporaneamente in area francese, dopo che nei primi anni '60 era stata avviata una convinta politica di settore (precorsa negli anni '50 dal lavoro di alcuni psicoanalisti, fra cui S. Lebovici e R. Diatkine), P.-C. Racamier, P. Paumelle e successivamente J. Hochmann tendono a sviluppare (nel parigino XIII arrondissement) tre principi: inserimento dell'equipe sul territorio; approfondimento del contesto del singolo soggetto nella sua interazione con l'ambiente, al fine di evitarne l'allontanamento e soprattutto per sottolineare la differenziazione tra cura e assistenza; necessità di superare la confusione tra cura e assistenza, che viene vista come la causa principale dell'istituzionalismo e quindi della segregazione (oggi si direbbe stigmatizzazione) del malato di mente.

Nel 1954, negli Stati Uniti erano stati individuati i due principi fondamentali di tutta la psicoterapia istituzionale, il primo dei quali dichiarava che quando in una équipe curante si evidenzia un conflitto o una tensione circa un paziente, esso riproduce un conflitto interiore dello stesso paziente esternalizzato nelle posizioni contrastanti tra gli operatori; il secondo principio affermava che se tale conflitto tra gli operatori non viene esplicitato e risolto, determina un peggioramento nel paziente in quanto questi coglie immediatamente tale tensione repressa nel gruppo degli operatori. La teorizzazione della équipe guérissante riprodurrà, raffinandola con il contributo esplicito della psicoanalisi, questi principi attraverso l'accentuazione del transfert e del controtransfert nella relazione terapeutica, e dell'equipe come macchina per la gestione del controtransfert del paziente psicotico, fondandola sull'impossibilità psicologica da parte del paziente di accettare un proprio conflitto interno. Questo approccio, in qualche modo paradigmatico, individuava la proprietà fondamentale della relazione con il grave paziente psicotico nella scissione, da lui operata, tra parti buone e cattive del Sé e nella loro proiezione sugli operatori che ne diventerebbero gli interpreti-attori. In questo modo la funzione terapeutica del lavoro di équipe è quella di evitare di riprodurre, nella realtà esterna del reparto, la scissione interna al paziente e di restituirgli l'integrazione dei suoi conflitti riflessi dai punti di vista, non più divergenti, dei vari operatori. E da rilevare l'importanza che questo approccio attribuisce anche all'ambiente fisico rispetto all'importanza unilaterale della relazione verbale di tipo psicoterapeutico classico. Questa esternalizzazione dei fattori terapeutici in gioco si accompagna a un intenso significato attribuito alla corporeità delle relazioni con il paziente psicotico, le cui regressioni psicologiche sono infatti interpretate preferibilmente come sostenute da gravi distorsioni percettive del proprio schema corporeo. L'equipe in questo modo riesce a integrare, oltre a medici, infermieri, assistenti sociali, anche fisioterapisti e altri pazienti che nella migliore tradizione comunitaria diventano coterapeuti e partecipi di ogni fase terapeutica (Woodbury, 1969). In area italiana il rinnovamento psichiatrico, avviatosi qualche anno più tardi, recepisce le influenze delle esperienze inglesi e francesi, e si traduce nell'esperienza più nota, anche se non unica, di Gorizia e Trieste. Nella cultura della psichiatria antiistituzionale italiana si colgono maggiormente gli aneliti comunitari delle esperienze inglesi e solo successivamente, con le esperienze di Reggio Emilia e Arezzo (G. Jervis e A. Pirella), si profila una maggiore vocazione dell'esperienza italiana a farsi carico degli aspetti sociali e di sostegno del paziente, in una originale interpretazione di cura senza il paracadute dell'ospedale psichiatrico, che apre alle équipe terapeutiche il difficile compito e la formale responsabilità dell'intera cura e assistenza al malato psichiatrico. All'indomani della legge 180, infatti, l'attivazione dei servizi di salute mentale su tutto il territorio nazionale consegna loro un compito che doveva costituire la base della concezione italiana dell'equipe terapeutica. I gruppi di lavoro, caratterizzati da una scarsa conoscenza reciproca dei componenti, accomunati più da un collante ideologico che da esperienze comuni, preparati spesso attraverso esperienze di formazione psicoterapeutica individuale e con sentimenti di appartenenza rivolti più alle proprie scuole di riferimento che al gruppo di lavoro concreto, costituirono un elemento fondante del panorama operativo dei primi anni '80. La psicoanalisi, così come la teoria dei sistemi e gli approcci più schiettamente psicosociali intesi allora come intervento politico sul territorio, diventano i modelli di intervento psicologico per lo più come alternativa antiistituzionale all'intervento bio-medico e non propriamente assimilati in specifici modelli di intervento. In Italia, successivamente alla riforma psichiatrica, il concetto di équipe terapeutica ha così incontrato una notevole fortuna e, pur con modi e riferimenti culturali spesso diversi e poco sovrapponibili, la rappresentazione del proprio gruppo di lavoro come di una équipe terapeutica è la modalità organizzativa rivendicata dalla maggior parte dei servizi psichiatrici (Ferranini, 1999). Nel corso degli ultimi quarant'anni, grazie al lavoro non solo teorico ma direttamente praticato nei vari servizi come operatori sul campo e come supervisori, di appassionati cultori della psicoanalisi applicata alle istituzioni (P. Galli, D. De Martis, D. Napoletani, G. Zapparoli) è diventata conosciuta e apprezzata una concezione ristretta di èquipe terapeutica che riprende in modo più rigoroso le premesse psicodinamiche della tradizione anglosassone e francese, tentando di diffondere questa cultura di gruppo e facendo dell'equipe lo strumento ritenuto essenziale per affrontare e curare i pazienti gravi. I contributi teorici più importanti di quella generazione sono forse affidati alla memoria storica dei vari gruppi di lavoro più che alla produzione organica di testi. Questi concetti guida sono riconducibili alle caratteristiche che Rapoport aveva individuato nelle comunità di M. Jones, consistenti nell'enfasi sull'accettazione a priori della soggettività del paziente senza intenti normalizzanti (accoglimento), nella massima comunicazione tra paziente e operatori, e tra gli operatori, di una certa insofferenza per l'organizzazione gerarchica dei rapporti e nell'aspirazione a un uso costruttivo dei conflitti e delle tensioni. L'equipe viene così intesa come una entità unitaria, come un organismo che non è la semplice sommatoria delle individualità e delle professionalità che la compongono, ma aspira a diventare un insieme che si muove all'unisono verso i propri obiettivi terapeutici, che permette alla frammentazione psicotica dell'individuo paziente di ricomporsi in uno spazio comune di riflessione e di elaborazione, attraverso il riconoscimento dei bisogni e dei vissuti individuali e attraverso una mediazione sistematica con la realtà esterna e i suoi dettami. Negli anni, con lo svanire dell'iniziale ottimismo nelle potenzialità terapeutiche degli interventi psicoterapici, con l'evidenza di un ricorso sempre più sistematico a trattamenti residenziali diretti a pazienti schizofrenici (nuova cronicità) e infine con l'aumento dei trattamenti combinati per pazienti psichiatrici e tossicodipendenti, questa messe di contributi confluisce nella cultura disciplinare della «psichiatria di comunità» e in particolare della riabilitazione psichiatrica, dove si rintracciano a tutt'oggi quasi tutti i valori professionali e le modalità organizzative proprie delle esperienze terapeutiche di gruppo (focus sui deficit, approccio pedagogico) piuttosto che della terapia (funzione terapeutica sul Sé) (Correale, 1991). In ogni caso la riabilitazione psichiatrica ha finito per diventare il luogo principale in cui persistono e si riaffermano i valori di base cui si rifacevano le prime storiche équipe terapeutiche. D'altro canto, con l'assegnazione ai servizi pubblici di compiti di psichiatria di comunità su tutto il territorio, e con il mutare conseguente del loro profilo organizzativo (dipartimenti di salute mentale), si determina un passaggio critico a una modalità assistenziale in cui gli interventi tendono a combinare l'uso simultaneo e integrato di numerose competenze e conoscenze professionali psicoterapeutiche individuali, di gruppo e familiari, interventi farmacologi, socioriabilitativi, e contemporaneamente a responsabilizzarsi in modo coordinato ed esaustivo sui fondamentali bisogni del paziente, assumendo una responsabilità professionale sia nei confronti degli altri agenti - come altri specialisti, medici di medicina generale -che di altri servizi - come i servizi sociali. La presa in carico nei confronti dei pazienti gravi, simultaneamente al loro contesto familiare, in modo da garantire la continuità degli interventi per un lungo tratto di vita, fino a che questo è necessario, integrando a questo scopo varie professionalità e varie culture professionali, è così diventato il compito assegnato alle équipe terapeutiche moderne, preferibilmente indicate come «gruppi di lavoro interdisciplinari» (Zani e Palmonari, 1996).

Nell'ultimo decennio la cultura dell'equipe terapeutica e l'attenzione all'incidenza del clima sulla funzione terapeutica istituzionale e di gruppo, confluita nel lavoro di psichiatria di comunità, si è particolarmente sviluppata nell'ambito delle strutture intermedie, centri diurni e del lavoro incentrato sulla riabilitazione psichiatrica che, relativamente alla funzione del lavoro di gruppo, ha assunto attualmente un ruolo di forte preminenza.

In essa sono confluiti i principi generali di accoglienza del paziente attraverso l'enfasi attribuita all'accessibilità al servizio, la priorità data ai pazienti più gravi nelle politiche assistenziali, l'ambizione al perseguimento di una cura globale della malattia attraverso l'individuazione di obiettivi concreti di miglioramento sintomatologico, di ricerca di un inserimento lavorativo, di una casa, di relazioni, integrazione psicosociale, igiene, all'integrazione in contesti di vita «normali», agli aspetti connessi alla vita spirituale e alla ricreazione, infine attraverso la grande importanza attribuita al coordinamento con altre agenzie sanitarie e sociali. Questi principi si sono progressivamente integrati da un lato con l'importanza attribuita al coinvolgimento attivo dei pazienti, dall'altra con l'affermazione delle dinamiche di gruppo quali elementi essenziali di ogni lavoro organizzato. Sul piano teorico e soprattutto tecnico si è così giunti alla massimizzazione della collaborazione del paziente e del suo empowerment e conseguentemente alla qualità della vita come variabile essenziale nella valutazione dei trattamenti, alla continuità, gradualità e flessibilità dell'intervento, alla personalizzazione dei servizi ma anche allo stretto monitoraggio degli interventi anche in funzione della rendicontazione delle risorse impiegate. Le dinamiche di gruppo (coesione, leadership, distribuzione delle responsabilità e dell'autorità, partecipazione alla soluzione dei problemi e ai processi decisionali, empowerment e crescita professionale degli operatori) sono così oggi maggiormente interpretati come un correlato piuttosto che come manifestazioni dirette dei compiti terapeutici o riabilitativi da valorizzare e interpretare in quanto tali: l'equipe moderna nasce dalla consapevolezza delle competenze diverse e molteplici che sono necessarie e quindi si basa sulla competenza multidisciplinare fondata su competenza clinica, capacità relazionale e capacità di advocacy (patrocinio, supporto-coordinamento). Essenzialmente la pratica della psichiatria di comunità occidentale si fonda su principi comuni, anche se con differenze che rendono difficili confronti di risultati di ricerche svolte in contesti diversi. Abbiamo così l'assertive community treatment americano, introdotto da L. Stein nel 1980, il case management e il care management inglese, la terapia

istituzionale di settore francese, il lavoro territoriale italiano che si confrontano sui principi comuni della delimitazione del bacino di competenza, dell'affidamento a una figura di riferimento della responsabilità generale di assistenza di ogni singolo paziente, dell'apporto necessario e costante di figure di supporto sociale e di terapia occupazionale o educativo. Il lavoro di équipe continua a essere ritenuto un principio consolidato, ma alcuni ne mettono in discussione l'ortodossia evidenziandone il potenziale rischio di deresponsabilizzazione del singolo operatore e sottolineando l'importanza cruciale del referente del caso, che non può essere surrogata dalla distribuzione della conoscenza del paziente a tutti i membri del gruppo di lavoro. D'altronde questa distinzione rischia di essere teorica, perché la maggior parte dei pazienti nei gruppi stabili finisce per essere conosciuta da tutti gli operatori e alcune condizioni operative (turni di servizio, mobilità del personale) rendono indispensabile una certa intercambiabilità dei ruoli e delle figure di riferimento, al di là delle affermazioni di principio.

Piuttosto si sta affacciando un problema di integrazione delle varie professionalità impegnate nello svolgimento dei compiti delle équipe e di leadership istituzionale nella conduzione dei gruppi di lavoro. In particolare, il forte rinnovamento delle tecniche psicosociali e quindi le competenze diverse richieste nei team di riabilitazione (neurocognitive, uso di risorse internet, skilltraining) rischiano di rendere marginali le competenze medico-psichiatriche, tanto che l'associazione degli psichiatri di comunità, negli Stati Uniti, nasce come reazione alla margi-nalizzazione professionale nei confronti di altre specialità.

Inoltre in tutti i paesi occidentali il lavoro di psichiatria di comunità si confronta ormai molto seriamente con il problema della definizione rigorosa delle risorse dedicate a ogni forma di assistenza sanitaria e sociale, in primo luogo le risorse di personale. Questo ha portato in primo piano, accanto ai problemi teorico-clinici, i temi dell'efficienza nella gestione delle risorse principalmente umane, della leadership organizzativa e, contemporaneamente, del burn out e della relazione di queste variabili con i livelli di soddisfazione degli utenti visti non più solo come pazienti ma come clienti di una relazione di servizio.

GIOVANNI NERI