Ian Tattersal

I signori del Pianeta

Codice EDIZIONI, 2013

 

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Introduzione alla lettura di Luigi Anepeta

I paleoantropologi continueranno a fare il loro appassionante mestiere ancora per molto tempo (il mondo è una miniera di reperti ancora sepolti), ma, al di là dell'ambizione di ricostruire nel modo più preciso e documentato possibile l'evoluzione degli ominidi, il più si può ritenere acquisito. Tale evoluzione non è avvenuta, come si pensava appena qualche decennio fa, con una successione lineare da specie più semplici a specie più complesse fino all'uomo. Il modello emergente è quello del cespuglio, vale a dire di specie le più varie che si ramificano e vanno incontro ad un processo di selezione per cui alcune persistono e altre si estinguono.

Il modello del cespuglio vale anche per la specie Homo. Ormai non solo è certo che l'evoluzione lineare ipotizzata dai teorici della nuova sintesi (homo ergaster, homo erectus, Neanderthal, Homo sapiens arcaico, homo sapiens sapiens) non è avvnute. E' certo invece che, in tutte le fasi dell'ominazione, varie specie umane sono convissute. Questo è vero anche per l'homo sapiens sapiens che, per un certo periodo, è convissuto con almeno tre o quattro specie umane.

Sulla base di questi dati, l'enigma della comparsa dell'homo sapiens sapeins e ancora più qeulla dell'essere egli rimasto unico rappresentante della specie homo diventa più problematica.

Al di là della ricostruzione minuziosa delle varie tappe dell'ominazione, che muove dall'assunzione della posizione eretta, l'interesse di Tattersal è rivolto essenzialmente a tale enigma.

Il prologo del libro definisce esplicitamente questo interesse a cui l'autore cerca di rispondere negli ultimi due capitoli, che riporto integralmente (oltre al Prologo).

Tra le due ipotesi proposte per spiegare l'enigma dell'acquisizione della capacità simbolica - un'intensa interazione sociale caratterizzata dall'empatia e la nascita del linguaggio - Tattersal privilegia la seconda. Egli opera, dunque, una scelta che privilegia le potenzialità cognitive prodotte da un rimaneggiamento dei circuiti cerebrali.

Tattersal non prende in cosiderazione il fatto che le due ipotesi possano essere integrate tra loro, vale a dire che l'interazione sociale sottesa dall'empatia abbia concorso ad attivare le potenzialità linguistiche.

L'orientamento cognitivista di Tattersal comporta anche il trascurare il fenomeno della neotenia, che forse è a monte delle due ipotesi, e giustifica il salto di qualità "catastrofico" cui egli fa riferimento.

Gould ha espresso magnificamente il significato di questa catatsrofe scrivendo che "il bambino è il padre dell'uomo". Solo da questo presdupposto, che fa riferimento salla neotenia, l'enigma dell'uomo si potrà chiarire.

Densissimo di dati, aggiornati alle ultime scoperte paleontaropologiche, il libro di Tattersal è dunque carente nelle conclusioni.

La scienza in tanto è giustificata in quanto essa fornisce e organizza dati che portano a conclusioni che arricchiscono e trascendono i risultati cui sono giunti i filosofi. Che il linguaggio sia l'aspetto più straordinario della specie umana è stato affermato da numerosi filosofi. Ribadire questo assunto senza aggiungere alcunché sa un po' di banalità.

 

Prologo

Guardate uno scimpanzé in faccia. Fissatelo negli occhi. Probabilmente proverete sensazioni molto forti, complesse e confuse. Forse, dopo qualche istante, sarete portati a indietreggiare come tendevano a fare i vittoriani, riconoscendo nelle scimmie antropomorfe quella bestiale brutalità che rappresentava un ricordo sgradito del temuto e (solitamente) represso lato oscuro dell'umanità. Ai giorni nostri, però, è probabile che vedrete anche qualcosa di positivo: non l'incapacità di raggiungere lo status umano, ma uno scorcio appena abbozzato delle profonde basi biologiche su cui, in fin dei conti, si fondano la moderna civiltà e la nostra creatività. Di nuovo, qualunque essa sia, la vostra reazione deriverà dal fatto che in quegli occhi vedrete molto di voi stessi (e il lato della medaglia che vedrete riflesso dipenderà interamente da voi, non dallo scimpanzé).

Considerando questa ambiguità, è molto frustrante che lo scimpanzé non sia in grado né di esprimere chiaramente quello che pensa né di rispondere alle nostre domande. D'altro canto, nonostante le molte differenze a livello fisico, se potesse parlare sarebbe uno di noi. Non servirebbe nient'altro per poterlo considerare a pieno titolo umano: da moltissimo tempo infatti sappiamo che nessun'altra caratteristica ci definisce meglio del linguaggio.

A tal proposito, il giurista scozzese James Burnett, noto anche come lord Monboddo, anticipò il pensiero evoluzionistico fin dagli anni settanta del diciottesimo secolo, suggerendo che l'acquisizione del linguaggio fosse l'elemento chiave in grado di distinguere l'umanità dagli animali "inferiori", concetto affascinante ripreso in seguito da numerosi pensatori. Nei circa duecentocinquant'anni trascorsi da quando scriveva Monboddo sono state accumulate molte informazioni a sostegno di questa idea in vari settori della scienza, dalla linguistica alla genomi-ca, fino alla neurobiologia. Ancora più importanti sono le numerose scoperte legate alla varietà dei nostri predecessori sulla Terra e sui loro comportamenti: una quantità di dati sufficiente per cominciare a ipotizzare come, quando e in quale contesto l'umanità abbia acquisito la sua mente straordinaria e la capacità di comunicare.

La storia di come siamo diventati umani è molto lunga ed è meglio raccontarla fin dalle sue origini più remote, quando ancora non esisteva un indizio certo di quanto sarebbe accaduto. Torniamo allora per un momento allo scimpanzé e ai suoi parenti. Non deve stupirci il fatto che le scimmie antropomorfe ci sembrino tanto inquietanti: sono i nostri parenti più stretti nella biosfera e condividono con noi un antenato "recente", che visse circa 7 milioni di anni fa (praticamente un battito di ciglia nella storia della vita). In un tempo così breve nessun'altra linea di discendenza animale è cambiata tanto quanto la nostra. Questo significa che possiamo guardare agli scimpanzé e ai loro parenti per cercare indizi sull'aspetto del nostro comune antenato, anche se le scimmie antropomorfe a loro volta devono essere un po' cambiate da allora. E se è vero che questi animali sono una guida attendibile, il nostro antenato comune doveva essere un animale molto complesso.

Gli scimpanzé stringono legami con i loro simili, litigano e fanno pace, imbrogliano, uccidono, costruiscono strumenti e si curano da soli. Inoltre, vivono in società molto articolate e lottano per acquisire uno status sociale più alto, si alleano, si dedicano a intrighi che alcuni studiosi hanno definito addirittura "politici". E molto probabile che se gli esseri umani non si fossero evoluti, le scimmie antropomorfe sarebbero, dal punto di vista cognitivo, gli animali più sofisticati mai esistiti.

Eppure, eccoci qui. La storia di come siamo passati da lì a qui, lasciando indietro - o almeno... sugli alberi - i nostri antenati antropomorfi, è forse la vicenda più affascinante che la nostra specie, appassionata di storie, abbia mai cercato di raccontare. Allo stesso tempo si tratta di una vicenda molto elusiva, perché se fare confronti tra noi e loro ci può aiutare a stabilire il punto di partenza del nostro lungo viaggio evolutivo, è ormai chiaro che gli esseri umani moderni non sono semplicemente una "versione migliorata" delle scimmie antropomorfe: noi non abbiamo precedenti sul pianeta e spiegare i casi unici, si sa, è un compito ingrato e difficile.

Nonostante questo, possiamo contare su una solida base da cui partire: nell'ultimo secolo e mezzo abbiamo infatti accumulato una straordinaria documentazione fossile che, anche se non potrà mai dirsi completa, permette comunque di farsi una buona idea dell'aspetto e della stupefacente diversità di quei parenti, diretti antenati o rami collaterali, che ci hanno preceduti. C'è un altro aspetto straordinario che riguarda questi nostri precursori: le testimonianze archeologiche che si sono lasciati dietro (ossa macellate, manufatti litici, siti abitati) descrivono in modo eloquente le loro abitudini quotidiane e il modo in cui tali comportamenti sono diventati sempre più complessi con il passare del tempo.

Documentare gli importanti cambiamenti fisici e tecnologici che hanno accompagnato il lungo viaggio dall'antica scimmia antropomorfa agli esseri umani moderni è, almeno in linea generale, un compito relativamente semplice; eppure il segreto del peculiare successo della nostra specie è da individuare nel modo davvero insolito in cui il nostro cervello elabora le informazioni.

L'atteggiamento mentale è qualcosa di molto difficile da leggere nelle ossa e nei resti materiali, almeno prima della comparsa di prove tangibili e schiaccianti della nascita di un intelletto equivalente al nostro. Peraltro è chiaro che questo livello cognitivo è stato raggiunto molto tardi (almeno se teniamo conto dei più antichi resti della famiglia umana), anche se in termini storici moderni è avvenuto molto presto. Alcuni potrebbero trovare piuttosto sorprendente questo ritardo, perché tradizionalmente siamo abituati a pensare che l'evoluzione sia stata una lunga e graduale trasformazione dalla condizione primitiva alla perfezione. La realtà però è un'altra: l'acquisizione della singolare sensibilità moderna è avvenuta all'improvviso e molto di recente. Si tratta infatti di un evento verificatosi mentre sulla Terra c'erano già esseri umani con un aspetto uguale al nostro. L'espressione di questa nuova sensibilità è stata quasi certamente favorita dalla cruciale invenzione di quella che è la caratteristica più notevole del nostro io moderno: il linguaggio.

Questo balzo comunicativo e cognitivo non è comunque sufficiente a raccontare l'intera storia. Le radici di quelli che sono la nostra mente e il nostro aspetto fisico affondano in un tempo molto più lontano; molte pagine del libro che state per leggere sono dedicate proprio a esaminare le fondamenta su cui è stato costruito lo straordinario "fenomeno umano". Perché nulla di ciò che siamo oggi avrebbe potuto realizzarsi se fosse mancato un qualche particolare del nostro singolare percorso. Oltretutto, anche se è in Africa che dobbiamo cercare i primi segnali della mente moderna, l'imprevedibilità delle testimonianze è tale che soltanto contemplando la straordinaria arte parietale sviluppatasi in Europa durante le glaciazioni incontriamo la prima traccia di esseri umani in grado non soltanto di pensare come facciamo noi, ma di lasciarsi dietro un insieme di prove davvero convincenti per dimostrarlo.

Il pensiero simbolico e l'arte parietale

La forza e la raffinatezza di quest'arte - di cui le famose immagini di animali dipinte sulle volte e sulle pareti di Altamira in Spagna e di Lascaux e Chauvet in Francia sono alcuni degli esempi migliori - vengono esaltate se consideriamo l'epoca remota in cui vissero i pittori che hanno prodotto queste opere. Infatti, anche se si tratta di opere sofisticate e dai colori brillanti, sono state realizzate da cacciatori-raccoglitori vissuti più o meno al culmine dell'ultima glaciazione, tra 35.000 e 10.000 anni fa. In quei tempi così duri le estati miti erano seguite da lunghi inverni gelidi e il paesaggio, oggi ricoperto da boschi, era quasi del tutto privo di alberi. L'età di queste opere d'arte lascia senza parole e basta ammirarle per capire cosa intendesse Picasso affermando che i pittori dei tempi delle glaciazioni gli avevano lasciato ben poco da inventare. Di certo è impossibile immaginare una prova più convincente del fatto che lo spirito creativo umano, straordinario e senza precedenti, fosse già ben consolidato in quella fase della preistoria moderna.

Non è stato facile ammetterlo. Gli scienziati nel diciannovesimo secolo facevano fatica ad accettare che gli abitanti della Francia meridionale e della Spagna settentrionale, ai tempi delle glaciazioni, avessero dato vita a una tradizione artistica (pitture, incisioni, sculture e bassorilievi) che nella sua massima espressione aveva eguagliato o perfino superato tutto ciò che era stato realizzato fino a quel momento. Dopo la scoperta delle prime (e forse più raffinate) pitture rupestri ad Altamira nel 1879, l'ammirazione spontanea ha rapidamente lasciato il posto ai dubbi. Come era possibile che un'arte così raffinata e completa potesse essere opera di popolazioni tanto antiche? Come poteva essere stata prodotta da "selvaggi" senza fissa dimora, semplici cacciatori-raccoglitori che vagavano in lungo e in largo approfittando di ciò che trovavano nell'ambiente circostante? Questi individui erano l'antitesi degli abitanti civilizzati del diciannovesimo secolo, che pregavano in magnifiche cattedrali, costruivano edifici robusti e piegavano al proprio volere la terra e tutto ciò che su essa cresceva. È stato necessario scoprire molte altre antiche opere d'arte in grotte e siti archeologici mai esplorati per convincere il mondo che si poteva avere una mente sofisticata e, allo stesso tempo, condurre uno stile di vita primitivo. Molte decine di migliaia di anni fa esistevano dunque popolazioni che non vivevano in case né dissodavano i campi, ma che, nonostante ciò, producevano opere d'arte favolose, conducevano vite misteriosamente complesse e possedevano caratteristiche cognitive simili alle nostre. Quelle antichissime popolazioni, e le più vaste società che hanno incorporato le loro credenze e i loro valori nelle immagini di Altamira e Lascaux, sono scomparse da molto tempo. Di conseguenza, anche se possediamo ottime prove materiali dello spirito creativo di quegli uomini, non potremo mai sapere con certezza in cosa consistessero quelle credenze e quei valori. Tuttavia, nonostante la distanza culturale e temporale, possiamo essere certi che gli antichi uomini di Altamira, Lascaux e di altre località erano nostri simili nei tratti fondamentali, intrisi dello stesso straordinario spirito umano che oggi ci anima.

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Rappresentazione monocromatica di un affresco policromo oggi molto sbiadito, realizzato circa 14.000 anni fa nella grotta di Font de Gaume in Francia. Una femmina di renna si inchina davanti a un maschio che si sporge in avanti e le lecca delicatamente la testa. Disegno di Diana Salles a partire da una rappresentazione di H. Breuil.

Le pareti di Lascaux e delle altre grotte non furono soltanto decorate con immagini di animali e disegnate con la destrezza, lo spirito di osservazione e l'agile stilizzazione che hanno posto i loro creatori tra i più grandi artisti di tutti i tempi. Infatti, in mezzo e sopra a quelle figure riconoscibili sono inseriti motivi geometrici (griglie, linee di punti, segni simili a frecce) che dovevano avere un significato preciso. Purtroppo oggi non possiamo sapere che cosa volessero esprimere gli artisti ma, se consideriamo la peculiarità delle immagini e la loro complessa sovrapposizione, è facile intuire che non si trattava di semplici rappresentazioni. Dovevano essere espressioni simboliche. Ogni immagine, realistica o geometrica, presente in questa e nelle altre grotte, è impregnata di un significato che va ben oltre la sua mera forma.

Se dunque non possiamo conoscere i significati di quest'arte per chi l'aveva creata o per chi ne fruiva (non siamo certi che si trattasse delle stesse persone), è indubbio che quei disegni dovevano contenere qualcosa di più di quanto possiamo stabilire osservandoli. Questa incertezza è anche una delle ragioni per cui molti di noi sono toccati in modo tanto profondo dall'arte dei tempi delle glaciazioni: nonostante l'infinita varietà culturale sviluppatasi nel corso della storia, non c'è nulla che unisca gli esseri umani moderni più del pensiero simbolico, ovvero la nostra capacità di organizzare il mondo in un vocabolario di rappresentazioni da rimescolare in un'infinita varietà di modi. Grazie a tale esclusiva capacità la nostra mente può creare i mondi alternativi da cui, in prima istanza, dipende la varietà culturale che caratterizza la nostra specie. Gli altri organismi vivono nel mondo all'incirca come questo viene offerto loro dalla natura e ad esso rispondono in modo più o meno diretto, anche se talvolta le risposte possono essere sofisticate. La nostra vita, invece, si svolge soprattutto nei mondi che il nostro cervello ricrea, anche se spesso ci dobbiamo scontrare con la dura realtà.

La nostra specie è insolita per molte delle sue caratteristiche fisiche, oltre che cognitive, ma il modo esclusivo con cui elaboriamo le informazioni è senza dubbio l'elemento che ci rende diversi dagli altri organismi, ed è certamente quello che ci fa sentire diversi. Come spero di mettere in evidenza nelle prossime pagine, questa capacità non ha alcun precedente. Il ragionamento simbolico non solo manca ai nostri più stretti parenti viventi, le grandi scimmie antropomorfe, ma sembra assente anche nei nostri parenti estinti più prossimi (e perfino nei primi esseri umani con le nostre sembianze). Tuttavia, non bisogna dimenticare che condividiamo numerose caratteristiche intellettive con tutti questi parenti, scomparsi e viventi; e nonostante ci vantiamo della nostra razionalità non siamo certo esseri del tutto razionali (lo si può osservare anche senza ricorrere a studi prolungati). Questo perché, seguendo i capricci di una lunga e movimentata storia evolutiva, alcuni dei più innovativi elementi che compongono il nostro cervello (l'organo strano e complesso racchiuso nel cranio, il cui compito è controllare il comportamento e l'esperienza) comunicano tra loro attraverso strutture davvero molto antiche.

A causa di tale peculiare struttura, il nostro cervello non può certo essere comparato a qualche prodezza tecnologica. Gli ingegneri, anche dove devono scontrarsi con limiti consci o inconsci, cercano sempre di trovare soluzioni ottimali ai problemi. Per contro, nel corso del lungo e disordinato processo che ha dato origine al moderno cervello umano, gli elementi già presenti hanno sempre esercitato un'influenza assai maggiore sul risultato storico (ciò che è effettivamente accaduto) di quanta potesse averne una qualsiasi previsione del futuro. E meno male. Dopotutto, se il nostro cervello fosse stato progettato come una macchina, ottimizzato per svolgere un qualche compito particolare, funzionerebbe con prevedibilità e mancanza di sensibilità. Nonostante tutti i suoi difetti, sono proprio il disordine e la casualità frutto della sua storia a rendere il nostro cervello (e noi stessi) un'entità così intellettualmente fertile, creativa, emotiva e interessante.

Una simile interpretazione contrasta con il concetto di evoluzione che la maggior parte di noi ha studiato a scuola (se ne ha avuta occasione). Secondo tale idea, i più basilari fenomeni biologici sarebbero frutto di un miglioramento lento e inesorabile, sempre teso verso il tentativo di raggiungere la perfezione. Pertanto, prima di imbarcarci nella ricostruzione della storia umana, è giusto dedicare qualche pagina a un'analisi più ravvicinata dello straordinario processo che ci ha prodotti, perché, anche se a ragione possiamo considerarci eccezionali, in realtà siamo il risultato di una storia biologica perfettamente ordinaria.

L'imprevedibilità dell'evoluzione

Cominciamo dall'inizio, secondo lo schema onnicomprensivo che caratterizza l'organizzazione della natura. Si tratta infatti del migliore punto di partenza per comprendere i meccanismi responsabili della nostra comparsa sul pianeta. Nel mondo vivente vige un chiaro ordine: il modo in cui è strutturata la diversità degli animali e delle piante intorno a noi non è casuale, anzi, riflette uno schema generalizzato di gruppi inseriti in altri gruppi. Tra i mammiferi, per esempio, gli esseri umani sono più simili alle scimmie antropomorfe e tutte le scimmie somigliano, per l'anatomia più che per tutto il resto, ai lemuri. I primati, nel complesso, formano un raggruppamento separato all'interno dell'ordine Mammalia di cui fanno parte gli animali omeotermi, pelosi e che allattano i piccoli. A loro volta tutti i mammiferi rientrano in un gruppo più vasto, quello dei Vertebrata (animali con la colonna vertebrale come pesci, anfibi, rettili, uccelli e, ovviamente, mammiferi), e così via.

Questo inscatolamento gerarchico caratterizza ogni altro essere vivente: possiamo illustrare graficamente tale schema con un albero da cui partono moltissime ramificazioni. In sostanza, ognuno dei vari milioni di organismi viventi può essere inserito all'interno di un solo gigantesco albero della vita. In questo maestoso albero i biologi riuniscono le più piccole ramificazioni (le specie, per esempio Homo sapiens) nei generi (per esempio, il genere Homo), che a loro volta sono raggruppati in famiglie {Hominidae), riunite in ordini (Primates) e così via. Spostandosi dal basso verso l'alto, ogni livello successivo si allontana un po' di più rispetto al precedente dall'antenato comune posto alla base e dalle equivalenti ramificazioni vicine. Potremmo limitarci a studiare l'evidente struttura di questo albero, ma è molto più interessante capire che cosa l'abbia prodotto.

L'unica spiegazione scientifica verificabile (e accuratamente testata) di tale modello di somiglianze è quella della discendenza comune. Le affinità che indicano il nostro posto nella struttura dell'albero vengono ereditate da alcuni antenati ancestrali comuni, dai quali i discendenti si sono distinti per vari aspetti. Le forme simili condividono un antenato comune recente, mentre quelle che meno si somigliano condividono un antenato molto più lontano nel tempo (nel più lungo periodo trascorso si sono infatti accumulate più differenze). A prescindere da quanto possano oggi appari- re dissimili, tutte le forme viventi sono collegate a livello genetico a un singolo antenato comune, vissuto oltre 3,5 miliardi di anni fa.

Nel diciannovesimo secolo i naturalisti britannici Charles Darwin e Alfred Wallace hanno per primi trovato un meccanismo convincente per spiegare la divergenza da un antenato comune. Darwin ha chiamato questo meccanismo selezione naturale. Una volta descritto, tale processo è apparso talmente evidente che il biologo e filosofo Thomas Henry Huxley, contemporaneo di Darwin, si è pubblicamente rimproverato per non averci pensato prima. In poche parole, la selezione naturale consiste nella sopravvivenza e nella riproduzione preferenziale di individui meglio "adattati" all'ambiente rispetto ai loro simili, grazie ai caratteri ereditati dai genitori. Questa è in sostanza una conseguenza matematica del fatto che, in tutte le specie, ogni generazione produce più discendenti di quelli che riescono a sopravvivere per riprodursi a loro volta. L'idea alla base è che, se si ha un tempo abbastanza lungo, gli individui con caratteristiche ereditarie più vantaggiose avranno un maggiore successo riproduttivo e dunque la popolazione sarà convogliata nella direzione di un più spinto adattamento. In questo modo l'aspetto medio dei membri della linea di discendenza cambierà e questi finiranno per evolvere dando origine a una nuova specie.

In seguito è però stato ipotizzato che la selezione naturale agisca soprattutto limando entrambi gli estremi della variazione disponibile e quindi mantenendo la popolazione più o meno stabile. Inoltre, quando pensiamo all'adattamento di solito abbiamo in mente una singola struttura anatomica, o caratteristica comportamentale, dell'animale in questione: l'anatomia del suo piede o del bacino, oppure la sua "intelligenza". Se consideriamo una struttura isolata è facile immaginare come questa possa essere stata migliorata dalla selezione naturale con il tempo. Oggi però sappiamo che tutti gli organismi sono entità genetiche eccezionalmente complesse, in cui un numero piuttosto piccolo di geni strutturali (non si sa esattamente quanti siano nella nostra specie, anche se la cifra sembra avvicinarsi a ventitremila) regola lo sviluppo di un'enorme quantità di tessuti e di processi corporei. Dunque la selezione naturale può soltanto favorire, o non favorire, un individuo nella sua interezza (un vero e proprio miscuglio di geni e di conseguenti caratteristiche), ma non isolare specifici caratteri per favorirli o per ostacolarne la diffusione. Questo dettaglio fa in qualche modo passare in secondo piano l'idea della fitness-, conta poco, per esempio, essere il membro più furbo della vostra specie se, in un ambiente brulicante di predatori, siete anche il più lento (o anche solo il più sfortunato). Inoltre, in un mondo indifferente e neutrale, il vostro successo riproduttivo potrebbe non c'entrare molto con il vostro splendido adattamento: il fatto che un predatore riesca a prendervi o no, oppure che riusciate a conquistare o meno una ragazza, potrebbe essere semplicemente una conseguenza della fortuna o delle circostanze. Il risultato di simili complicazioni è che le storie evolutive, per lo meno come le vediamo riflesse nella documentazione fossile, non sono il semplice prodotto dei destini riproduttivi dei singoli individui. Infatti, in ambienti in costante cambiamento, dove la competizione tra gli organismi per lo spazio ecologico è ininterrotta, sono di solito i destini di intere popolazioni e di intere specie a determinare i principali modelli evolutivi che osserviamo quando studiamo i fossili.

Ci sono poi altre ragioni per non aspettarsi che l'evoluzione produca un'ordinata perfezione. Come ho già accennato, il cambiamento può soltanto costruirsi su ciò che c'è già, perché l'evoluzione non può tirar fuori dal cilindro soluzioni ex novo per affrontare ogni tipo di problema ambientale o sociale. Di conseguenza, siamo tutti costruiti a partire da versioni modificate di un modello che ci ha lasciato un antico antenato.

La storia limita in modo drastico quello che un organismo può diventare, non soltanto perché deve per forza essere una versione di quanto è venuto prima, ma in quanto i genomi (responsamli della propagazione di sistemi molto complessi) si sono rivelati assai resistenti al cambiamento. I genomi, infatti, esemplificano a perfezione il detto: "se non è rotto, non aggiustarlo". Dopo tutto, armeggiare con qualcosa di così intricato come un genoma è un modo per cercar guai: la maggior parte dei cambiamenti casuali in un sistema efficace così complesso è destinata a non funzionare. Il fatto che i cambiamenti nel codice genetico portino grandi rischi spiega l'intrinseco carattere conservativo dei genomi. Spiega inoltre perché alcuni organismi molto diversi per aspetto abbiano geni sorprendentemente simili: si dice che condividiamo oltre il 40 per cento dei nostri geni con una banana, mentre un gene fondamentale nel determinare il colore della nostra pelle è lo stesso che regola il colore delle strisce, più o meno scure, sui fianchi di un pesce, il danio zebrato.

Può sembrare incredibile che gli stessi geni o le stesse famiglie di geni possano influenzare la formazione di strutture in organismi così diversi come un essere umano e una drosofila. Eppure l'idea ha senso se consideriamo non solo che tutti gli organismi condividono un antenato comune, ma anche che la forma di un qualsiasi organismo vivente non è semplicemente un riflesso della struttura dei suoi geni singoli. L'anatomia di un adulto, anzi, è il punto finale di un processo di sviluppo profondamente influenzato dagli stessi geni, dalla sequenza in cui questi sono attivati o disattivati, da quando si verifica questa attivazione e dall'intensità con cui i geni vengono espressi quando sono attivi.

Questo processo multilivello (dei geni, del tempo, dell'attività) spiega il paradossale carattere conservativo del genoma e anche la straordinaria varietà anatomica degli organismi. Allo stesso tempo, poi, limita le possibilità future. Perché se è vero che i cambiamenti nel codice genetico si verificano con un tasso incredibilmente elevato in seguito a semplici errori di copiatura {mutazioni) durante la duplicazione cellulare, pochi di questi sopravvivono nel pool genico. Alcuni geni mutati possono essere mantenuti semplicemente perché non sono stati toccati (e potrebbero eventualmente rivelarsi utili in futuro). Non molti geni però producono un risultato vitale, per non parlare di un esito vantaggioso in termini adattativi. Per tutti questi motivi è assai difficile che si verifichino trasformazioni radicali nelle strutture fondamentali dell'ereditarietà.

Il ruolo del caso

Un'altra importante ragione per cui non dobbiamo considerare l'evoluzione come un processo di raffinata "messa a punto" è il fatto che non tutti i cambiamenti evolutivi sono opera della selezione naturale. Il caso (tecnicamente indicato come deriva genetica) è un ulteriore fattore cruciale. In seguito alle mutazioni che si verificano costantemente, popolazioni locali isolate e semi-isolate di organismi appartenenti alla stessa specie tenderanno sempre a divergere una dall'altra come risultato di quello che è indicato come un errore di campionamento, anche in assenza di forze selettive che producano il cambiamento. Questo fenomeno si osserva soprattutto nelle popolazioni piccole: più il campione è ridotto, maggiore è la probabilità che si verifichino simili errori. Provate a pensare al lancio della moneta: se lanciate una moneta solo due volte c'è una buona probabilità di ottenere testa in tutt'e due i casi; se la lanciate dieci, cento o mille volte, diventerà via via meno probabile che esca sempre testa. Piccole popolazioni equivalgono a pochi lanci di moneta.

D'altra parte, non tutte le mutazioni si equivalgono. Alcune non hanno effetto (o ne hanno poco) sull'organismo adulto, altre invece possono influenzare profondamente i processi di sviluppo e quindi la struttura finale dell'organismo. Conta anche il grado in cui sono espressi gli effetti di un gene o quanto i suoi prodotti sono attivi nel determinare il risultato fisico finale. Per tutte le ragioni indicate, non dovremmo aspettarci che cambiamenti evolutivi significativi nella forma fisica si verifichino sempre (e neppure spesso) con piccoli passaggi incrementali. Come vedremo, talvolta un cambiamento molto piccolo nello stesso genoma può avere effetti vasti e ramificati sullo sviluppo, determinando un balzo anatomico e comportamentale tra stadi adulti profondamente distinti.

Nessuna tra quelle indicate è una via del tutto efficiente per produrre adattamento. Tuttavia, come dimostra la rigogliosa ramificazione del grande albero della vita, avendo tempo a sufficienza il sistema funziona. E funziona non soltanto per spiegare come la vita si è diversificata nel corso di miliardi di anni, ma anche per comprendere in che modo il profondo baratro cognitivo che separa gli esseri umani da tutti gli altri organismi sia stato così imprevedibilmente superato.

Tutto questo ci riporta al tema centrale del libro: la storia di come gli esseri umani siano diventati gli organismi straordinari che sono (come entità fisiche, ma anche come fenomeno cognitivo senza precedenti). Si è trattato di un viaggio lungo (benché rapido per gli standard evolutivi) e ricco di eventi a partire dal modesto inizio, quando i nostri antenati erano prede vulnerabili e vivevano nelle boscaglie in espansione dell'Africa antica, fino ad oggi, in cui siamo i principali predatori sulla Terra. Finalmente i contorni di questa emozionante storia stanno cominciando a chiarirsi e coincidono con le nostre nuove idee sui meccanismi multilivello alla base del cambiamento evolutivo. Perché vale la pena di ripeterlo: per quanto possiamo considerarci speciali, siamo soltanto il prodotto di un processo biologico ordinario.

[...]

 

[...] Capitolo 12

Una comparsa enigmatica

Circa nello stesso periodo in cui in Europa è comparso Homo neanderthalensis, in Africa faceva la sua apparizione la specie a cui apparteniamo: Homo sapiens. Grazie a fossili come quelli della Sima de los Huesos ci siamo fatti un'idea abbastanza precisa degli antenati dei Neandertal in Europa; al contrario, non abbiamo un equivalente africano che possa fare lo stessa per la nostra specie. In alcuni siti dell'Africa orientale e meridionale risalenti a un intervallo di tempo compreso tra 200.000 e 400.000 anni fa sono stati scoperti diversi crani di ominidi, ma nessuno sembra essere uno stretto predecessore dell'Homo sapiens dall'anatomia moderna.

Siamo certi che l'Africa sia il continente in cui siamo nati non soltanto perché i più antichi e plausibili fossili di Homo sapiens sono venuti alla luce qui. Numerosi confronti tra il DNA delle popolazioni umane moderne hanno infatti evidenziato che convergono tutte verso un'ascendenza africana. L'assenza di fossili con tratti "anticipatori" potrebbe semplicemente essere spiegata dalla grande estensione dell'Africa, ragione per cui questo continente non è ancora stato esplorato completamente; tuttavia, è anche possibile che l'evoluzione della nostra insolita specie si sia verificata in seguito al cambiamento di alcuni geni regolatori, evento già menzionato in relazione alla comparsa altrettanto improvvisa di Homo ergaster. Sono molte infatti le caratteristiche che differenziano Homo sapiens dalla forma anatomica ancestrale rappresentata sia dai Neandertal sia dagli altri membri estinti del genere Homo conosciuti. E comunque evidente che l'evoluzione fisica costituisce per Homo sapiens un dettaglio ben diverso dal sistema cognitivo simbolico, che ha distinto la nostra specie da tutti gli altri organismi. I due tratti non sono stati acquisiti nello stesso momento: il più antico Homo sapiens era indistinguibile, dal punto di vista cognitivo, dai Neandertal e dagli altri ominidi suoi contemporanei.

Homo sapiens anatomicamente moderno

Le più antiche tracce di individui con una struttura anatomica uguale (o quasi) alla nostra provengono da due siti dell'Africa nordorientale. Alla fine degli anni sessanta alcune rocce risalenti a 195.000 anni fa, rinvenute nel bacino dell'Omo, nell'Etiopia meridionale, ci hanno restituito i resti frammentari di un cranio che, una volta ricostruito, si è rivelato quasi certamente di Homo sapiens, anche se la forma del cranio è diversa da quella di ogni popolazione umana oggi esistente. Ancora più di recente, nei depositi di Herto, nell'Etiopia settentrionale, è stato scoperto un trio di crani (tra cui uno quasi completo di un bambino e un altro di un adulto) attribuiti senza esitazione a Homo sapiens, sebbene anche questi presentino dettagli diversi dagli esseri umani moderni. L'adulto è dotato di una caratteristica volta cranica alta e voluminosa, con una faccia piccola arretrata rispetto alla fronte, tipiche della nostra specie. I crani di Herto possono essere fatti risalire a 155.000-160.000 anni fa. Se si considerano insieme, i fossili della valle dell'Omo e di Herto dimostrano quindi che l'anatomia del cranio così distintiva di Homo sapiens deve essere comparsa tra 200.000 e 160.000 anni fa. E importante notare che questo intervallo di tempo coincide con la data che gli antropologi molecolari suggeriscono per l'origine della nostra specie. Tale data è basata sul tempo di coalescenza (il tempo necessario per ritrovare la variante genetica comune a tutti, tornando indietro nelle generazioni) calcolato per un certo numero di popolazioni umane moderne sparse nel mondo.

In termini culturali, sembra comunque che il regno di Homo sapiens sulla Terra sia nato più con un sussurro che con un forte boato. Gli strumenti litici trovati in entrambi i siti etiopici non hanno infatti nulla di spettacolare: i pochi manufatti provenienti dal bacino dell'Omo possono considerarsi "indefinibili", mentre a Herto sono presenti bifacciali insieme a schegge tratte da nuclei preparati. Si tratta dei bifacciali più recenti tra quelli scoperti in Africa, che pongono l'industria litica di Herto alla fine di una lunga e complessa transizione dall'Acheuleano all'industria del Paleolitico medio africano (MSA, Middle Stone Age), associata con gli esseri umani più recenti. Il Paleolitico medio africano veniva di solito considerato (anche se, come abbiamo visto, non sempre in modo appropriato) l'equivalente del Musteriano dei Neandertal europei, principalmente perché entrambe le industrie si basavano sulla lavorazione di nuclei preparati. Tuttavia, questo periodo sembra comprendere elementi più complessi degli strumenti tipici del Musteriano anche se, almeno finora, queste avvisaglie non sono presenti nei reperti di Omo/Herto.

Tutta la storia tecnologica umana è stata caratterizzata senza interruzioni dalla persistenza del vecchio accanto al nuovo, è perciò difficile stabilire con precisione l'inizio del Paleolitico medio africano. In linea generale la sua origine è stata collocata tra 300.000 e 200.000 anni fa, e potrebbe quindi precedere la comparsa di Homo sapiens nella sua forma moderna riconoscibile. Se così fosse, ancora una volta viene confermata l'ipotesi per cui l'innovazione culturale umana è scollegata da quella biologica.

Lo studio delle origini di Homo sapiens è stato complicato dalla tendenza di lunga data, da parte dei paleoantropologi, di identificare come Homo sapiens arcaici gli ominidi fossili che possiedono un cervello grande ma che non sono né Neandertal né sapiens anatomicamente moderni. L'appellativo è stato attribuito a specie trovate in quasi tutte le regioni dell'Africa e anche altrove. Tuttavia, non mi pare utile includere nella nostra specie esseri con cui non condividiamo neppure i tratti fondamentali della nostra caratteristica anatomia (in particolare la faccia piccola e appiattita). Tra i fossili di questo tipo, i più enigmatici sono alcuni crani nordafricani, in parte associati a un'industria litica indicata come Ateriano, dal nome del sito di Bir el Ater in Algeria. L'industria ateriana può essere considerata una variante di quella del Paleolitico medio africano, ma include alcuni strumenti peculiari, come le cosiddette punte peduncolate, che venivano forse provviste di manico e impiegate come lance o, in fasi più recenti, utilizzate come punte di freccia.

L'Ateriano, per molto tempo ritenuto una fase culturale recente, viene oggi riconosciuto anche in siti piuttosto antichi. Questa scoperta ha indotto alcuni studiosi a ipotizzare che gli ateriani abbiano svolto un ruolo nell'"emigrazione" di Homo sapiens fuori dall'Africa. Dal punto di vista geografico questa idea è sensata. Il deserto del Sahara non è sempre stato un ostacolo ai movimenti umani: in aree oggi sabbiose e desolate sono state trovate numerose tracce di un'occupazione passata, principalmente da parte di ateriani. Come testimoniano i bacini idrografici fossili nascosti sotto la sabbia accumulata dal vento, il Sahara "verdeggiava" periodicamente, in concomitanza con l'aumento delle precipitazioni, i laghi si riempivano e le piante spuntavano un po' ovunque. Una delle fasi più umide risale a 130.000-120.000 anni fa (quando l'Europa stava attraversando l'ultimo periodo interglaciale). A quel tempo il Sahara avrebbe potuto essere un comodo passaggio per le popolazioni dirette a nord, anche se ci sono ragioni per credere che gli ateriani siano rimasti in Africa per un tempo più lungo.

L'identità dei popoli dell'Ateriano resta incerta. Anche se di solito è imprudente associare un particolare tipo di ominide a una specifica industria litica, i resti degli ominidi nordafricani sono stati finora associati ai primi gruppi ateriani appartenenti alla dubbia categoria di Homo sapiens arcaici. Uno dei fossili ateriani più noti è un cranio parziale rinvenuto, insieme ad alcuni frammenti materiali, a Dar-es-Soltan II, un sito marocchino risalente a circa 110.000 anni fa. Un altro fossile di cui si è parlato molto è un cranio schiacciato e frammentario (ma relativamente completo) appartenuto a un bambino, rinvenuto nelle Grotte des Contreban-diers, sempre in Marocco. Quest'ultimo reperto ha una datazione analoga a quello di Dar-es-Soltan II e la sua ricostruzione non mostra corrispondenze con la tipologia standard degli esseri umani moderni, pur avendo una calotta cranica voluminosa. Ancora più lontani dalle forme degli umani moderni sono una coppia di crani scoperti in un altro sito marocchino, Jebel Irhoud, risalente a circa 160.000 anni fa. Questi antichi esemplari sono collegati a strumenti litici che ricordano da vicino quelli musteriani, sebbene i fossili degli ominidi in questione non abbiano affatto caratteri riconducibili ai Neandertal. Nessuno di questi esemplari nordafricani si può considerare con sicurezza una varietà di Homo sapiens, nonostante il volume cerebrale degli individui di Jebel Irhoud raggiunga 1305-1400 centimetri cubi. Il cranio più completo, indicato come Jebel Irhoud 1, presenta una faccia piccola, ma l'intero scheletro cranico è nel complesso leggermente sporgente; inoltre si nota un marcato rilievo che sovrasta la fronte sopra le orbite, mancante nell'Homo sapiens moderno.

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Vista laterale e frontale di un cranio trovato a Jebel Irhoud, in Marocco, e risalente a 160.000 anni fa. Spesso considerato affine a Homo sapiens, questo reperto ha una struttura della faccia molto diversa dalla nostra. L'industria è molto simile a quella neandertaliana in Europa. Disegno di Don McGranaghan.

Riconoscere le diverse specie a partire dalle ossa è un'impresa molto difficile quando si ha a che fare con forme imparentate in modo stretto. In alcuni casi è possibile che all'interno di una popolazione si presenti una notevole diversità fisica, anche senza avere speciazione. In altri casi può accadere che le ossa di due specie derivate dallo stesso antenato siano indistinguibili. Senza un buon criterio morfologico è impossibile escludere che i popoli ateriani o quelli di Jebel Irhoud fossero in grado di scambiare i propri geni con individui della corrente principale di Homo sapiens. In effetti è possibile che questi scambi ci siano stati, come vedremo tra poco. Tuttavia, anche se gli ateriani si avventurarono fuori dall'Africa in una fase molto arcaica, certamente non hanno preso parte all'esodo finale della specie Homo sapiens, che ha in seguito popolato il mondo intero.

Ora spostiamoci nel Levante, l'area lungo il margine orientale del Mediterraneo, forse la prima tappa del viaggio degli ominidi fuori dall'Africa e poi verso nord e ovest. Il Levante condivide elementi della propria fauna con l'Africa e differisce invece dalle regioni più a nord, pertanto i biogeografi hanno sempre considerato quest'area come un'estensione del grande continente africano. Dopo i reperti di Omo/Herto si assiste a un aumento dell'inventario di crani fossili africani che mostrano la caratteristica morfologia di Homo sapiens, nessuno di questi però è antico come lo scheletro quasi completo sepolto, circa 100.000 anni fa, nella grotta di Jebel Qafzeh, in Israele. Questo esemplare rappresenta un membro della nostra specie, analogamente ai resti fossili di un individuo adolescente trovato non lontano. Nello stesso sito sono stati scoperti anche numerosi resti di ominidi dal grande cervello, che però non corrispondono all'Homo sapiens standard, sebbene non siano Neandertal. Per rendere ancora più complicato questo mistero, nello stesso sito sono stati trovati strumenti litici di tipo musteriano quasi identici a quelli prodotti dai Neandertal, la cui presenza è ben documentata in Israele all'incirca nello stesso periodo (i siti neandertaliani nella regione hanno un'età compresa tra 160.000 e 45.000 anni fa).

Gli ominidi di Qafzeh vengono spesso associati a quelli scoperti nel riparo roccioso di Mugharet-es-Skhul, un luogo di sepoltura affacciato sul Mediterraneo, a una quarantina di chilometri da Qafzeh, sul versante occidentale del Monte Carmelo. Gli scavi hanno portato alla luce i resti di dieci individui, tra adulti e giovani, probabilmente risalenti a 100.000 anni fa. Questi fossili hanno un aspetto fisico più uniforme di quelli di Qafzeh, ma non meno peculiare.

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Il più antico fossile di Homo sapiens moderno trovato fuori dall'Africa è il cranio proveniente dal sito israeliano di Jebel Qafzeh. Noto come Qafzeh 9, questo cranio corrisponde allo standard anatomico degli esseri umani moderni. Tuttavia, altri ominidi fossili nello stesso sito non presentano questa anatomia tipicamente moderna; tutti i fossili di Qafzeh sono inoltre associati con un'industria musteriana simile a quella prodotta dai Neandertal nella stessa regione. Disegno di Don McGranaghan.

Per essere Homo sapiens moderni hanno una volta cranica molto arrotondata, che conteneva un cervello sorprendentemente grande, con un volume di 1450-1590 centimetri cubi. Gli ominidi di Skhul avevano una faccia piuttosto robusta, e non piatta come la nostra, che si protendeva in avanti rispetto alla volta cranica; avevano inoltre un rilievo osseo trasversale sopra le orbite invece di una fronte alta e verticale. Tale morfologia ha lasciato molto perplessi gli scienziati che prima della seconda guerra mondiale hanno descritto questi fossili: le loro conclusioni sull'identità degli ominidi di Skhùl, contenute in un lungo resoconto, rimangono davvero vaghe.

È possibile che questi ominidi rappresentino una popolazione ibrida tra i moderni esseri umani e i Neandertal. Dal punto di vista geografico si tratta di un'idea fondata, considerando che la località di Skhul dista pochi minuti dalla grotta di Tabun, a lungo occupata dai Neandertal. Inoltre, l'occupazione della grotta di Tabun da parte dei Neandertal risale a un periodo prossimo a quello in cui sono stati sepolti gli individui di Skhùl, anche se non ci sono prove che dimostrino la concomitanza delle sepolture e dell'uso della grotta. Dal punto di vista biologico la questione è più complessa: la forma corporea dei Neandertal è infatti profondamente differente da quella degli esseri umani moderni. E se anche non abbiamo idea di quale potesse essere l'aspetto di un ibrido sapiens/ neanderthalensis, sappiamo che gli ibridi presentano caratteristiche di entrambe le popolazioni parentali: cosa che certamente non avviene nei fossili di Skhul.

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Il cranio V dal sito di Skhûl in Israele. Risalenti a circa 100.000 anni fa, i fossili di Skhûl sono stati per molto tempo assegnati alla specie Homo sapiens, anche se hanno una morfologia distinta. Disegno di Don McGranaghan.

Negli ultimi anni, di fronte a questa enigmatica anatomia, molti paleoantropologi hanno evitato la scottante questione, preferendo attribuire questi fossili al raggruppamento di comodo indicato come Homo sapiens arcaico. Questa scelta si limita a evitare il problema, mentre ci sono altre possibili spiegazioni. Secondo una di queste, piuttosto ovvia, gli ominidi di Qafzeh/Skhul sarebbero una linea di discendenza totalmente distinta, della quale non abbiamo nessun'al-tra documentazione. Una possibilità ancora più intrigante considera la loro curiosa anatomia come il risultato di un incrocio non tra moderni Homo sapiens e Neandertal, ma tra esseri umani moderni e discendenti degli ateriani nordafricani, esemplificati dai fossili di Jebel Irhoud e Dar-es-Soltan. Non abbiamo idea di quale potesse essere il risultato di un ibrido tra questi popoli, ma in qualche modo sembra un'entità più plausibile: avendo un antenato comune africano piuttosto recente è possibile infatti che i due gruppi fossero molto affini. Anche l'intervallo di tempo e le condizioni climatiche prevalenti sembrano essere state quelle giuste. È probabile che circa 120.000 anni fa, durante una fase umida, gli ateriani si siano spinti verso est attraverso l'Africa settentrionale e quindi a nord lungo il corridoio del Nilo, piegando poi bruscamente verso Israele. I due tipi di ominidi possono essersi incontrati, incrociandosi con successo, nonostante l'aspetto fisico diverso. La differenza doveva comunque essere meno marcata di quella tra esseri umani moderni e Neandertal.

Resta peraltro ancora un mistero il modo in cui la tecnica musteriana di lavorazione della pietra sia stata adottata nel nuovo territorio, anche se non si trattava di una tecnica diversa dai più antichi metodi di lavorazione e dai vari insiemi di strumenti litici nordafricani, di tanto in tanto descritti come musteriani. Con lo sviluppo delle tecniche di analisi del DNA potremo forse verificare i frutti di questo particolare incrocio tra specie diverse.

Nel frattempo, a prima vista, la presenza di una coppia di Homo sapiens anatomicamente moderni a Jebel Qafzeh sembra sostenere l'idea di una popolazione mista (o appena mescolata) e dimostra anche un rapporto tra musteriani e sapiens del luogo. Chiunque fossero gli esseri umani di Qafzeh, non si comportavano in modo diverso dai Neandertal. Lo stesso vale per Skhùl, dove l'insieme di utensili litici è a sua volta chiaramente musteriano. Ma qui il quadro potrebbe complicarsi a causa della recente scoperta di pigmenti e conchiglie bucate per essere forse infilate su un cordino. Torneremo su questo particolare fra poco, nel frattempo possiamo concludere che la prima scorreria degli esseri umani moderni fuori dall'Africa, qualsiasi forma essi avessero, deve essere stata un insuccesso. Sembra infatti che circa 60.000 anni fa i Neandertal siano tornati a prevalere nel Levante, e non si hanno più tracce di Homo sapiens in quella regione fino a tempi molto più recenti, quando la nostra specie aveva ormai sviluppato la superiorità cognitiva e tecnologica di cui in precedenza era priva.

Nel complesso, alla luce della frustrante scarsità di informazioni, sembra ragionevole considerare la prima escursione fuori dall'Africa e nel vicino Levante come il prodotto fortuito delle circostanze, facilitato e perfino stimolato da un cambiamento climatico favorevole. Più tardi queste popolazioni devono essersi ritirate tornando nel loro continente nativo (o, più probabilmente, scomparendo lì dove si trovavano), forse a causa di un deterioramento climatico. Sappiamo infatti che circa 60.000 anni fa, a causa di un improvviso raffreddamento, il clima diventò estremamente arido. Questo cambiamento deve aver colpito duramente anche le popolazioni ateriane originarie del Sahara: circa 40.000 anni fa, infatti, questa cultura risultava limitata a due soli avamposti, situati lungo le coste del Mediterraneo. A prescindere dall'effettiva identità e dal destino degli ateriani, e nonostante gli interessanti fossili di Qafzeh e i peculiari scheletri di Skhul, nulla dimostra che Homo sapiens sia riuscito ad avviare una massiccia invasione dell'Eura-sia, se non molto tempo dopo.

Le prove molecolari

Le conclusioni a cui sono giunti gli studiosi di antropologia molecolare sono in linea con lo studio dei fossili e dei reperti archeologici, secondo cui alcune popolazioni di Homo sapiens di tipo arcaico (almeno dal punto di vista comportamentale) sarebbero uscite dall'Africa per poi tornare nel loro continente natale.

Approfonditi confronti delle sequenze di DNA di popolazioni umane moderne suggeriscono che la nostra specie proviene dal continente africano (molto probabilmente dalle regioni orientali o sudoccidentali); il gruppo fondatore si è successivamente diffuso a sud, a nord e a ovest per popolare il resto del continente d'origine e, successivamente, l'Eurasia e il mondo. Questa diffusione è stata accompagnata da un aumento della popolazione e della diversificazione locale: all'interno del continente africano sono state infatti identificate almeno quattordici moderne linee di discendenza distinte derivate dalla popolazione ancestrale, ciascuna con le proprie varianti. Tale grado di diversificazione genetica, se confrontato con i dati provenienti dal resto del mondo, suggerisce che l'evoluzione degli esseri umani è durata in Africa più a lungo che in qualsiasi altra località. A conferma di questa interpretazione, tutte le principali linee di discendenza genetica scoperte nelle altre parti del mondo si possono interpretare come sottoinsiemi della varietà osservata in Africa, un fatto che, di nuovo, conferma l'origine africana della nostra specie.

Peraltro, le conclusioni a cui sono giunti i ricercatori di antropologia molecolare sono a grandi linee confermate anche dalle differenze di lingua e di cultura, nonostante le innovazioni culturali (trasmesse orizzontalmente nell'ambito della stessa generazione) siano soggette a vincoli più deboli di quelli che limitano la diffusione delle novità biologiche.

Altri studi molecolari hanno rivelato che la popolazione fondatrice non soltanto era africana, ma era anche molto piccola. La varietà riscontrata a livello del DNA nelle diverse popolazioni umane non è infatti così notevole se messa a confronto con quanto si osserva nelle altre specie, anche strettamente imparentate. Una sola popolazione di scimpanzé dell'Africa occidentale, per esempio, sembra presentare una maggiore diversità, nel proprio mtDNA, rispetto all'intera specie umana attuale. Questa osservazione può essere giustificata soltanto in due modi, entrambi validi: la nostra specie ha un'origine recente, dunque non ha avuto tempo per diversificarsi, oppure la popolazione fondatrice era molto piccola. È possibile che si siano verificati entrambi questi fattori.

Consideriamo il momento in cui è avvenuta la separazione della nostra specie, Homo sapiens, dal suo parente più prossimo (oggi estinto): da questo episodio a oggi è trascorso un decimo del tempo che è passato dalla separazione delle due specie viventi di scimpanzé. E anche se non sappiamo quali parenti estinti può aver avuto lo scimpanzé, è evidente che, considerando gli standard dei mammiferi, la nostra separazione può essere considerata molto recente. E non è tutto. Analizzando la distribuzione delle varianti del DNA umano emerge che l'antica popolazione dei nostri antenati attraversò nel corso del Pleistocene superiore uno o più colli di bottiglia, oppure fu soggetta a importanti contrazioni. Secondo i dati archeologici e paleontologici, il più significativo di questi colli di bottiglia sembra essersi verificato quando gli esseri umani moderni hanno lasciato per la prima volta l'Africa per "invadere" definitivamente tutto il mondo.

L'età attribuita a questo evento varia leggermente in base al tipo di dato considerato; in linea generale sembra essersi verificato tra 75.000 e 60.000 anni fa circa. La data più antica è legata a una ricostruzione che individua come causa dell'episodio una catastrofe naturale: l'eruzione esplosiva del monte Toba, un vulcano indonesiano. Circa 73.500 anni fa il Toba è stato oggetto di una delle più vaste e violente eruzioni vulcaniche verificatasi nella storia geologica recente. La regione circostante è stata devastata dal vulcano, che ha riversato nell'atmosfera milioni di tonnellate di cenere molto fine, generando nubi che possono aver oscurato il cielo per anni. Questo avrebbe ostacolato il passaggio dei raggi solari causando un "inverno vulcanico" in grado di influenzare il clima in tutte le regioni del Vecchio mondo. Tale inverno prolungato, insieme al successivo abbassamento delle temperature mondiali avvenuto circa 71.000 anni fa all'inizio dello stadio MIS 4, potrebbe aver contribuito a ridurre drasticamente le popolazioni di ominidi in Africa, tra cui quella nascente di Homo sapiens. E anche se, come sostengono alcuni studiosi, le escandescenze del Toba, per quanto distruttive, non hanno avuto effetti vasti come quelli appena descritti, è praticamente certo che lo stadio freddo MIS 4 (tra 71.000 e 60.000 anni fa) fece una strage tra le popolazioni di ominidi diffuse nel Vecchio mondo.

In Africa questo periodo così rigido è stato causa della lunga siccità che ha portato gli ateriani ad abbandonare il Sahara, e non si può dubitare che abbia influenzato anche altre popolazioni di ominidi. Come vedremo, lo sconvolgimento ambientale causato da tale peggioramento climatico è proprio il tipo di fenomeno che provoca una frammentazione delle popolazioni animali in piccole unità sparse. È molto probabile che una popolazione africana di Homo sapiens, superando questa dura prova ambientale con una capacità simbolica sviluppata, abbia cominciato a diffondersi nel mondo. I primi fermenti del pensiero simbolico sono infatti già visibili ben prima degli sconvolgimenti portati dallo stadio MIS 4. Per completare il quadro, gli studiosi di antropologia molecolare sono riusciti a tracciare le vie seguite dagli esseri umani durante la "colonizzazione" del globo.

Questo risultato è stato ottenuto studiando le distribuzioni dei differenti marcatori del DNA nelle varie popolazioni. Tenendo conto dei diversi insiemi di dati considerati (mtDNA, cromosomi Y e marcatori nucleari del DNA), gli studiosi sono riusciti a ricostruire le rotte con una notevole precisione e un livello di dettaglio storico molto accurato. Il fatto che gli individui maschi abbiano avuto, come si è scoperto, storie migratorie diverse dalle femmine, complica le cose. Anche se è del tutto comprensibile considerando le differenze dei due sessi dal punto di vista sociale ed economico nell'ambito dei gruppi umani, si tratta di un particolare che confonde la ricostruzione della storia delle popolazioni di Homo sapiens. Quando c'è di mezzo la nostra specie nulla è semplice. Nonostante queste complicazioni, i diversi scenari ricostruiti sono abbastanza in linea con quelli ottenuti dallo studio dei pochi fossili.

Con l'eccezione dei primi "emigrati" con tratti ancora arcaici trovati in Israele, non abbiamo alcun fossile certo di Homo sapiens fuori dall'Africa prima di quanto sia logico aspettarsi, almeno sulla base delle prove molecolari. Recentemente un frammento di mandibola con un'età di circa 100.000 anni, scoperto nella grotta di Zhirendong nella Cina meridionale, è stato spacciato come resto di Homo sapiens. Per le sue caratteristiche il fossile sembra in realtà riconducibile al locale uomo di Pechino, un tipo di Homo erectus, e difficilmente può essere considerato un qualche remoto invasore dai tratti moderni. In linea generale, le molecole indicano che nel periodo successivo a circa 60.000 anni fa, con l'attenuarsi dei rigori dello stadio MIS 4 e l'instaurarsi delle condizioni più miti proprie dello stato MIS 3, i portatori di varietà diverse di DNA, appartenenti ad altrettante linee di discendenza, abbiano abbandonato il continente africano nativo.

La prima via migratoria ha attraversato l'Asia minore fino all'India, dove è stata intrapresa una via costiera che si è spinta fino all'Asia sudorientale. Tutto è avvenuto piuttosto in fretta: a giudicare dalla documentazione archeologica, gli esseri umani avevano infatti già raggiunto l'Australia almeno 50.000 anni fa. Questo dato è davvero straordinario perché i primi australiani devono aver attraversato almeno 80 chilometri di oceano aperto per raggiungere la loro nuova patria, un'impresa che richiede non soltanto imbarcazioni (o, per lo meno, zattere sofisticate) ma anche eccellenti capacità di navigazione.

Nel frattempo un gruppo di migranti ha continuato a spingersi verso l'Asia sudorientale e un altro è andato più a nord, colonizzando la Cina e la Mongolia fino a ritornare nell'Asia centrale. I migranti di origine africana hanno raggiunto l'Europa, presumibilmente attraverso l'Asia minore, circa 40.000 anni fa. E nonostante le condizioni climatiche stessero avvicinandosi al minimo dell'ultima glaciazione, circa 21.000 anni fa gli esseri umani moderni si sono avventurati a nord fino alla Siberia settentrionale, oltre il circolo polare artico. La straordinaria vastità di questa diffusione e la capacità di sopravvivere ad alcune delle condizioni ambientali più difficili del tempo sono enfatizzate dal fatto che i Neandertal, sebbene adattati al freddo, si sono tenuti a centinaia di chilometri di distanza da tali ambienti estremi.

Il processo che ha portato i moderni esseri umani a prendere possesso del Vecchio mondo (e più tardi anche del Nuovo mondo e dell'area pacifica) non è stato il frutto di una spedizione intenzionale. Quasi certamente questi ominidi hanno ampliato la propria estensione in seguito a una semplice espansione demografica, via via che le popolazioni crescevano e nuovi gruppi si installavano nei territori circostanti. Dal momento che le condizioni mutavano localmente, il processo non deve essere stato regolare e neppure inarrestabile. Le piccole popolazioni venivano senz'altro sballottate avanti e indietro a causa delle costanti vicissitudini climatiche e demografiche, accompagnate da espansioni ed estinzioni a livello locale. Ciononostante, la dispersione umana fu davvero rapida: se in una generazione una popolazione umana espandeva la propria distribuzione soltanto di una quindicina di chilometri, in circa 2500 anni venivano occupati oltre 2400 chilometri, un risultato del tutto plausibile considerata la scala temporale in gioco. Qualunque siano stati i dettagli, una simile crescita della popolazione implica qualcosa di diverso in questi nuovi migranti, in particolare una capacità senza precedenti di sfruttare in modo intensivo l'ambiente. Questa possibilità ha permesso una più rapida crescita della popolazione e, di conseguenza, un'ulteriore espansione geografica.

La rapida crescita demografica sorprende anche per il fatto che il nuovo Homo sapiens non ha occupato territori vergini, mai sfruttati prima dagli ominidi: specie affini abitavano in molte, se non nella maggior parte, delle regioni in cui la nostra specie si è diffusa. Il risultato di tutti questi incontri è evidente. Quando gli esseri umani moderni hanno raggiunto l'Europa, i Neandertal hanno ceduto il passo. Quando si sono spinti nell'Asia meridionale è stato Homo erectus a sparire, anche se in una fase altrettanto recente proliferava nel suo ultimo avamposto insulare dell'Asia sudorientale. Lo stesso è accaduto, un po' di tempo dopo, nel caso degli sfortunati hobbit di Flores e probabilmente anche in varie località dell'Africa poco studiate, dove altri ominidi erano riusciti a sopravvivere ai rigori dello stadio MIS 4. C'era davvero qualcosa di speciale nei nuovi invasori. Fin dall'inizio dell'evoluzione umana il mondo ha ospitato diverse specie di ominidi nello stesso tempo, e talvolta molte di esse coabitavano nel medesimo ambiente. Ma quando i nostri antenati hanno abbandonato l'Africa il mondo è diventato rapidamente una monocultura "umana". Questo particolare ci insegna qualcosa di molto importante su noi stessi: non soltanto siamo incapaci di tollerare la competizione, ma possediamo anche mezzi incomparabili per esprimere e imporre tale intolleranza. E una riflessione da tenere bene a mente, visto che continuiamo a perseguire con violenza i nostri più stretti parenti, con il rischio di portarli all'estinzione.

Capitolo 13

L'origine del comportamento simbolico

Le forme di elaborazione e comunicazione dei nostri antenati hanno compiuto un'incredibile transizione da una modalità non simbolica e non linguistica a quella simbolica e linguistica attuale. Questo balzo qualitativo non ha paralleli nella storia. Infatti, come già accennato, l'unica ragione per pensare che questo balzo possa essersi verificato è che si è effettivamente verificato. E sembra sia avvenuto ben dopo l'acquisizione della forma biologica moderna che caratterizza la nostra specie.

Le prime avvisaglie di una sensibilità simbolica tra le popolazioni del neoevoluto Homo sapiens provengono dall'Africa e dai suoi immediati dintorni. Il dato più antico è discutibile: consiste infatti nell'ipotesi che a Skhûl, oltre 100.000 anni fa, piccole conchiglie marine fossero state forate per essere infilate in un cordino come perline, mentre blocchi di pigmento venivano cotti per cambiare il loro colore da giallo a un più attraente arancione o rosso. E un'ipotesi interessante, seppure azzardata, perché l'uso di ornamenti personali come collane o braccialetti (e anche l'abitudine di usare pigmenti per colorarsi il corpo) viene considerato un comportamento simbolico tra popoli storicamente documentati. Il modo in cui ci vestiamo e decoriamo indica la nostra identità come membri di un gruppo, ovvero di una classe, di una professione o di una banda di persone della stessa età all'interno della popolazione. Le tracce più remote sono modeste: due conchiglie trovate a Skhùl, perforate (forse per cause naturali) nei loro punti più deboli, e una sola conchiglia in un sito ateriano di età incerta in Algeria. Le conchiglie di entrambi i siti appartengono a una specie che venne probabilmente raccolta a grande distanza, sulle spiagge del Mediterraneo. Per gli individui che le possedevano doveva dunque trattarsi di oggetti speciali, provenienti da località lontane e recuperati grazie a scambi. Ancora più significativo è il fatto che le conchiglie siano del genere Nassarius, come quelle che in seguito avrebbero avuto grande diffusione in altri luoghi, con chiare finalità ornamentali.

Oggetti certamente identificabili come perline cominciano a comparire circa 80.000 anni fa in altri siti ateriani. Una dozzina di conchiglie bucate di Nassarius è stata trovata, per esempio, in Marocco nel sito della Grotte des Pigeons. Come nel caso dei siti israeliani e algerini, questa grotta è lontana dai luoghi in cui si possono trovare le conchiglie e ciò suggerisce che esse siano state intenzionalmente raccolte o procurate attraverso il commercio. Ancora una volta però non ci sono prove che i buchi siano stati prodotti da esseri umani, anche se alcune conchiglie presentano tracce di pigmento, come se fossero state colorate, oltre a una curiosa lucidatura forse ottenuta strofinandole su qualche tipo di pelle.

Ritrovamenti simili, provenienti da altre località lungo la costa nordafricana, suggeriscono che le scoperte della Grotte des Pigeons non sono un caso isolato. È probabile facessero parte di uno schema più diffuso e la prova migliore a tal riguardo proviene curiosamente dall'estremo opposto del continente africano. A circa 6500 chilometri di distanza dalla Grotte des Pigeons, nella grotta di Blombos, un sito costiero non lontano dalla punta più meridionale del continente, gli archeologi hanno trovato numerose conchiglie di Nassarius perforate e consumate come se fossero state infilate su un cordino. Associate a un'industria tipica del Paleolitico medio africano, e con un'età di 76.000 anni, queste perline rientrano in modo convincente nell'intervallo di tempo e nell'ampio contesto culturale di cui fanno parte gli equivalenti reperti nordafricani. Il riconoscimento di questi oggetti come ornamenti personali da parte della maggior parte degli studiosi sembra confermare l'idea che alcune popolazioni del Paleolitico medio africano abbiano cominciato a decorare i propri corpi poco meno di 100.000 anni fa.

Ma queste popolazioni hanno lasciato tracce ancora più esplicite del loro comportamento simbolico. Da Blombos infatti provengono anche i più antichi oggetti che possiamo interpretare come simbolici. Si tratta di un paio di placche di ocra lunghe una decina di centimetri, lucidate e incise con un disegno intrecciato; i reperti provengono dagli stessi livelli del Paleolitico medio africano in cui sono state trovate le perline di Nassarius. Non possiamo sapere quale fosse il significato di quel disegno, ma i due reperti sono stati trovati in strati sovrapposti verticalmente e molto vicini uno all'altro. Da questo particolare si può dedurre che il disegno geometrico non doveva essere casuale, ma ha mantenuto un significato nel corso del tempo: non era quindi un semplice scarabocchio realizzato da qualche individuo ozioso. Un altro frammento di ocra, rinvenuto in un riparo roccioso a circa 400 chilometri di distanza e forse prodotto poco dopo i reperti di Blombos, riporta una versione semplificata dello stesso motivo, offrendo così una prova ulteriore del fatto che il disegno avesse un significato. Inoltre, negli stessi depositi di Blombos sono stati scoperti strumenti in osso, in origine forse inseriti in un manico. Come abbiamo visto, si tratta di oggetti assenti tra i manufatti neandertaliani europei dello stesso periodo.

Non molto lontano da Blombos si trova un altro complesso di grotte costiere indicate come Pinnacle Point. Questa località è stata abitata da esseri umani del Paleolitico medio africano a partire da 164.000 anni fa, fino a circa 70.000 anni fa (con qualche interruzione forse dovuta all'innalzamento del livello del mare, che deve aver spazzato via i depositi intermedi durante lo stadio MIS 5e). Gli abitanti che occupavano la grotta circa 164.000 anni fa avevano già ampliato la loro dieta, inserendo alimenti marini non facili da ottenere, forse in risposta alle condizioni climatiche fredde del MIS 6. Allo stesso tempo nel sito venivano regolarmente lavorati i pigmenti e prodotte microlame (piccole schegge di roccia poi inserite in un manico, di cui non si conoscono equivalenti fuori dall'Africa, se non molto più recenti). Questa fase deve essere stata accompagnata da una profonda trasformazione culturale, anche se non è certo che si trattasse di espressioni tecnologiche segno di una capacità cognitiva simbolica.

In precedenza ho affermato che nella prima parte del Paleolitico abbiamo davvero poche tracce di innovazioni tecnologiche intenzionali, classificabili come opera di menti simboliche. L'eccezione a questa regola si può cercare a Pinnacle Point. Le rocce adatte a essere scheggiate sono davvero rare in quell'area, e abbiamo prove evidenti che circa 72.000 anni fa gli abitanti di quel sito si servissero di una complessa tecnologia per migliorare almeno una delle scadenti materie prime disponibili in loco. La materia in questione è il silcrete, un tipo di roccia che talvolta si forma in suoli ricchi di silice.

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Una delle placche d'ocra con disegno geometrico scoperte nella grotta di Blombos, sulla costa dell'Africa meridionale. Con un'età di circa 77.000 anni questo reperto è il più antico oggetto simbolico conosciuto. Disegno di Patricia Wynne.

Il silcrete è adatto a essere scheggiato ma, nel suo stato naturale, non conserva a lungo i margini affilati. Tuttavia gli abitanti di Pinnacle Point scoprirono che, se viene adeguatamente riscaldato e raffreddato seguendo una serie di passaggi prestabiliti, il silcrete diventa più duro, utilizzabile quindi per realizzare strumenti migliori. La tecnologia richiesta è così complessa e richiede così tanti passaggi che non può essere stata immaginata e messa in pratica da menti incapaci di compiere astrazioni e di visualizzare lunghi concatenamenti causa-effetto. Così, circa 72.000 anni fa, più o meno nello stesso periodo in cui la gente di Blombos produceva (in modo del tutto diverso) le placchette d'ocra, i loro vicini a Pinnacle Point mostravano segni di un ragionamento simbolico nascente. Gli strumenti in silcrete si trovano anche nei primi e più antichi strati a Pinnacle Point, sebbene non sia certo che il materiale fosse stato trattato con il fuoco prima dell'uso.

Quasi in risposta alle scoperte di Pinnacle Point, i reperti più recenti provenienti da Blombos indicano che, circa 75.000 anni fa, gli abitanti di quel luogo mostravano capacità tecnologiche avanzate. Non soltanto sono stati rinvenuti strumenti in silcrete indurito dal fuoco, ma gli studiosi hanno anche scoperto che i margini di questi strumenti furono migliorati con la tecnica della scheggiatura a pressione: un processo delicato, conosciuto altrove soltanto in Europa, ma in siti più recenti di 20.000 anni, dove veniva adottato dagli ultimi Cro-Magnon. Questa inattesa scoperta, piuttosto sorprendente, ci permette di accantonare i dubbi sulla datazione di 90.000 anni riferita ad alcuni arpioni in osso presenti nel sito di Katanda, nel Congo orientale. Si tratta di un ritrovamento che precede di molte decine di migliaia di anni i primi arpioni dentati conosciuti e realizzati dai Cro-Magnon in Europa, ben dopo la comparsa dei primi esempi di scheggiatura a pressione. Abbiano, insomma, sempre più prove a testimoniare che nella fase intermedia e finale del Paleolitico medio africano qualcosa di molto importante si agitava in Africa.

Ciononostante, l'identità dei popoli del Paleolitico medio africano rimane un enigma. Le ossa conservate sono scarse, anche perché questi ominidi non seppellivano i morti nei siti dove abitavano e neppure nelle vicinanze. I numerosi denti umani isolati trovati nel sito di Pinnacle Point non aggiungono molte informazioni, ma un'interessante eccezione è rappresentata dalle grotte alla foce del fiume Klasies, vicino alla costa, a circa 300 chilometri a est di Blombos. Nei livelli del Paleolitico medio africano di Klasies gli archeologi hanno scoperto le prove, risalenti a oltre 100.000 anni fa, di una divisione simbolica dello spazio vitale in aree funzionali distinte. In strati che risalgono a 80.000-90.000 anni fa sono stati invece rinvenuti resti umani molto frammentari, che potrebbero rappresentare gli avanzi cotti di un banchetto cannibale. Questi resti sono stati interpretati come ossa di Homo sapiens e, sebbene non presentino esattamente le peculiarità della nostra specie oggi, ci sono molto vicini.

Dopo la grande eccitazione provocata dai reperti di Blombos, la pista simbolica sembra raffreddarsi un pochino. Da alcuni siti del Paleolitico medio africano nell'Africa meridionale e orientale provengono frammenti d'uovo di struzzo con quelli che sembrano disegni incisi. Questi reperti sono presenti in gran numero nel riparo roccioso di Diepkloof in Sud Africa. Il sito risale a circa 60.000 anni fa ed è dunque più recente di Blombos, ma rientra ancora a tutti gli effetti nel Paleolitico medio africano. I frammenti di guscio, decorati con motivi simbolici, sono stati interpretati come pezzi di recipienti usati per raccogliere l'acqua e confermano in modo convincente una duratura tradizione simbolica sudafricana diffusasi nel corso del Paleolitico medio africano. I gusci d'uovo di struzzo sono stati usati come materia prima per manufatti simbolici anche in siti dell'Africa orientale, nonostante si tratti di reperti più recenti. La più nota di queste località è il riparo roccioso di Enkapune Ya Muto, nella parte kenyota della Rift Valley. Questo sito risale a 40.000 anni fa e dunque coincide con la transizione tra il Paleolitico medio africano e il Paleolitico superiore africano. Il Paleolitico superiore africano inizia all'incirca quando in Europa si avvia il Paleolitico superiore. In linea generale, infatti, le due fasi sono considerate equivalenti. Per quanto ne sappiamo, il Paleolitico superiore africano è stato ovunque opera di esseri umani anatomicamente moderni. I gusci di struzzo del sito di Enkapune Ya Muto sono privi di incisioni, ma accuratamente lavorati per essere infilati su un cordino; pertanto appartengono a una categoria diversa rispetto ai contenitori decorati di Diepkloof. Ciononostante, una certa continuità culturale con il Paleolitico superiore africano del Sud Africa si può scorgere nella presenza di perline simili scoperte nei siti locali dello stesso periodo.

L'Africa è un continente davvero vasto e molte delle sue regioni costituiscono un'incognita per gli archeologi del Paleolitico. Per esempio, è frustrante che, a eccezione di scoperte come quelle di Katanda, abbiamo poche informazioni riguardo a ciò che è avvenuto nella parte centrale del continente a proposito dello sviluppo del pensiero simbolico, quando gli ominidi mostravano, nell'estremo nord come nell'estremo sud, cospicui segni di una modernità nel loro modo di interagire con il mondo. I contatti indiretti tra le popolazioni umane nel nord e nel sud dell'Africa nell'ultima fase del Paleolitico medio africano sono oggetto di supposizioni, proprio come i criteri di distinzione di queste popolazioni dal punto di vista biologico.

Il fatto che in quel periodo antico le conchiglie di Nassarius siano state scelte per realizzare perline in entrambe le regioni è suggestivo, ma non dice molto di più. In effetti 120.000 anni fa, durante la fase umida, la profonda barriera ecologica che oggi separa i margini settentrionali del continente africano dalla regione a sud del Sahara non esisteva, e non è assurdo supporre che, in concomitanza con l'emergere della consapevolezza simbolica, vie di scambio attraversassero regolarmente quello che oggi è diventato un arido deserto. Durante il successivo stadio MIS 4 il deserto ha riacquistato il ruolo di formidabile barriera, almeno a fasi intermittenti. E non è affatto chiaro se nel periodo in cui troviamo gli indizi di un nuovo stile cognitivo, circa 80.000 anni fa, fosse possibile un interscambio culturale e biologico, con l'eccezione forse della via lungo la valle del Nilo.

In ogni caso, se gli studiosi di antropologia molecolare hanno ragione (confortati anche dalla documentazione archeologica, almeno per il momento), gli esseri umani che hanno finito per conquistare il mondo derivano da una popolazione dell'Africa occidentale, di dimensioni piuttosto piccole e presumibilmente vissuta dopo la fase di Blombos. A questo riguardo è importante ricordare che non molto tempo in seguito a questo principio di innovazione, tra 80.000 e 60.000 anni fa, l'Africa meridionale è piombata in un prolungato periodo di siccità durante il quale le sue regioni interne sono rimaste in gran parte spopolate. Considerato questo aspetto, vi sono moderate probabilità che le pratiche culturali della gente di Blombos e di Pinnacle Point siano le antenate dirette delle più recenti espressioni simili, di cui troviamo traccia molto più a nord. È forse più logico che ci sia stata un'accelerazione dello spirito creativo degli ominidi in luoghi diversi nell'ultima parte del Paleolitico medio africano. Questo processo deve aver tratto ovunque vantaggio da una generale predisposizione verso il pensiero simbolico, emersa con l'origine di Homo sapiens come entità del tutto distinta, subito dopo l'inizio del Paleolitico medio africano.

Ovunque sia comparsa in Africa la popolazione antenata di tutti noi, e qualunque sia la via seguita dai suoi discendenti nel loro esodo, sappiamo che gli esseri umani cognitivamente moderni hanno fatto la loro comparsa in Europa al massimo 60.000 anni fa. Abbiamo già visto che gli esseri umani hanno raggiunto l'Australia circa 50.000 anni fa e, non molto tempo dopo, hanno lasciato tracce della loro attività artistica. Nei siti dell'India meridionale che si possono far rientrare in questo intervallo di tempo sono stati scoperti strumenti litici molto simili a quelli prodotti nell'Africa meridionale e orientale in località come Blombos, Diepkloof e Enkapune Ya Muto. In uno di questi siti sono venuti alla luce frammenti di uova di struzzo con incisioni che formavano un disegno intrecciato simile a quello osservato nei reperti di Blombos e Diepkloof. Ancor più notevole è la presenza di prove (resti materiali, ma anche l'arte dei Cro-Magnon) che testimoniano la sensibilità del tutto moderna delle popolazioni giunte in Europa, una penisola relativamente remota e difficile da raggiungere, subito dopo il periodo in cui cominciamo a trovare resti di perline nei siti del Paleolitico superiore in Libano e in Turchia. Queste prove risalgono a oltre 40.000 anni fa e confermano che i predecessori dei Cro-Magnon a quel tempo si erano già diffusi a nord e a ovest.

I Cro-Magnon ci hanno lasciato tutte le possibili prove per affermare che, dal punto di vista cognitivo, erano uguali a noi. Questo è in larga misura una conseguenza accidentale delle loro espressioni culturali e della topografia dei luoghi da loro occupati. Decorare le profondità umide e pericolose delle grotte con favolose immagini di animali e con un intero vocabolario di simboli geometrici è un'impresa a dir poco insolita. Infatti, tutte le società umane storicamente documentate hanno rivelato capacità simboliche, sono però poche quelle che hanno espresso tali capacità in un modo così durevole. La maggior parte dell'arte dei Cro-Magnon si è conservata in grotte e fratture nelle regioni carsiche in cui questi uomini abitavano; in altri contesti geologici analoghe espressioni non avrebbero potuto conservarsi. Il caso è stato davvero fortunato e ci permette di individuare il momento in cui gli esseri umani hanno raggiunto una coscienza del tutto moderna. Secondo alcuni studiosi la sorprendente arte dei Cro-Magnon rappresenta una rottura talmente profonda con il passato da indurci a pensare che, in tempi molto recenti, si sia verificato un cambiamento a livello genetico nella loro linea di discendenza, senza il quale non si potrebbe spiegare tale creatività. Questo cambiamento avrebbe avuto effetti limitati al modo di elaborare l'informazione neurale, senza conseguenze leggibili nelle ossa fossili, che purtroppo rappresentano le sole tracce materiali in nostro possesso. Tuttavia, dal punto di vista biologico questa ipotesi sembra meno plausibile rispetto ad altre teorie. Gli indizi provenienti da Blombos e Pinnacle Point ci danno infatti un'eccellente ragione per credere che il pensiero simbolico, di cui l'arte dei Cro-Magnon è stata l'espressione precoce più fine ed esaustiva, fosse già emerso molto prima nella storia umana.

Peraltro, non abbiamo davvero motivo per pensare che tutte le potenzialità di questa capacità siano state scoperte in una volta sola da coloro che la sperimentarono per primi. La successiva storia tecnologica ed economica del genere umano può essere letta attraverso l'esplorazione di questa abilità relativamente giovane, di cui ancora oggi cerchiamo i limiti.

 

Capitolo 14

In principio era il verbo

La nascita di Homo sapiens dall'anatomia moderna, che precede di circa 100.000 anni la prima perlina prodotta usando una conchiglia di Nassarius, è stata un evento straordinario in termini biologici. Noi ci distinguiamo dai nostri più stretti parenti per diverse caratteristiche del cranio e dello scheletro post-cranico, per fattori importanti della crescita cerebrale e, quasi certamente, per particolari chiave dell'organizzazione cerebrale interna. Si tratta di differenze di grande rilievo. Le specie di primati non sono molto diverse (almeno ai nostri occhi) dai loro parenti più prossimi e le differenze sembrano in larga misura concentrate nei caratteri esterni: colore del pelo, dimensione delle orecchie o anche soltanto le vocalizzazioni; le differenze nella struttura ossea tendono ad avere minore importanza. Al contrario, perfino tenendo conto della scarsa documentazione in nostro possesso, Homo sapiens appare così diverso dagli altri da non avere precedenti. È evidente che l'insolita struttura anatomica e le capacità che ci caratterizzano sono comparse molto di recente: non abbiamo infatti prove per sostenere che il nostro fisico e il nostro intelletto attuali siano il risultato di tempi lunghi e di un percorso graduale. Come ho già osservato, questo particolare suggerisce che l'origine fisica della nostra specie sia da cercare in un eccezionale momento di rapida riorganizzazione dello sviluppo. Tale evento è stato probabilmente indotto da un'innovazione strutturale, più limitata e meno straordinaria, a livello del DNA. Un simile avvenimento è reso più plausibile dal fatto che le innovazioni genetiche da cui dipenderebbe la nostra origine si sarebbero "fissate" (sarebbero cioè diventate la norma) in popolazioni di dimensioni ridotte e isolate dal punto di vista genetico.

Gruppi simili sarebbero nati sotto la spinta delle variazioni climatiche che di tanto in tanto frammentavano e sparpagliavano le già ridotte popolazioni dei nostri progenitori africani. In altri termini, le condizioni che caratterizzarono la fine del Pleistocene devono aver favorito il tipo di evento alla base della nostra comparsa.

Per quanto ne sappiamo, Homo sapiens è unico nell'esprimere in modo significativo la capacità di manipolare simbolicamente l'informazione. Comprendere come abbiamo acquisito tale capacità è fondamentale per avere una conoscenza completa di noi stessi. Cominciamo con l'eliminare alcune teorie. Innanzitutto, la nostra innovativa modalità di elaborare l'informazione non è l'esito di una qualsivoglia tendenza identificabile in precedenza. E non è neppure un effetto soglia dell'acquisizione di un volume cerebrale via via più grande, dovuto alla maggiore riproduzione degli individui più intelligenti che hanno superato quelli meno intelligenti nella nostra ancestrale linea di discendenza. Possiamo escludere questa seconda ipotesi non soltanto perché i Neandertal, sprovvisti di pensiero simbolico, avevano un cervello in media più grande del nostro, ma in quanto il nostro cervello sembra addirittura essersi rimpicciolito del 10 per cento dai tempi dei Cro-Magnon: non per questo il nostro pensiero simbolico è diminuito rispetto ad allora. È del tutto evidente che c'è ben altro che non un semplice aumento della massa cerebrale per spiegare il nostro insolito stile cognitivo.

L'unica alternativa possibile prevede che la nostra peculiare capacità intellettuale sia frutto di una nuova conformazione mentale, un cambiamento nell'organizzazione interna e dei circuiti cerebrali. Simili mutazioni non sono senza precedenti. Dopotutto il cervello umano ha una lunga storia: un accrescimento iniziato mezzo miliardo di anni fa, e anche oltre, dal cervello dei più antichi vertebrati. Dunque, non c'è nulla di davvero nuovo in questo evento, ma i suoi risultati sono stati rivoluzionari. Utilizzando il linguaggio moderno, possiamo dire che si è trattato della comparsa di proprietà emergenti: un cambiamento casuale o l'aggiunta di qualcosa a una struttura preesistente hanno portato a un livello completamente nuovo di complessità funzionale.

Esaminando la documentazione fossile non possiamo dedurre con precisione quando sia stata acquisita per la prima volta la nostra straordinaria capacità. I paleoneurologi, che si occupano di ricostruire la forma dei cervelli fossili a partire dalle loro impronte all'interno della volta cranica, non si accordano neppure sull'eventuale attribuzione di un significato funzionale alle differenze della forma esterna del cervello tra esseri umani e Neandertal. Tutto ciò che sappiamo con sicurezza, considerando la documentazione archeologica, è che le due specie si comportavano in modo diverso. Sembra, insomma, che i Neandertal avessero una modalità "vecchio stile" di elaborare gli stimoli, basata sull'impiego di processi puramente intuitivi. La nostra specie, per contro, possiede un pensiero simbolico ed è capace di elaborare l'informazione in forme del tutto rivoluzionarie e mai viste prima, anche se il "vecchio stile" è ancora ben presente in alcune profondità del suo cervello.

Geni, linguaggio e laringi

Ho brevemente accennato al fatto che per alcuni studiosi il nostro nuovo modo di agire sarebbe frutto dell'acquisizione, molto recente, di un gene della capacità simbolica. Questa affascinante possibilità si è rivelata sempre più plausibile dopo la scoperta di una versione umana del gene FOXP2, correlata alla capacità di articolare un linguaggio. Le persone dotate di una forma mutata di questo gene sono incapaci di parlare correttamente, anche se non mostrano altri deficit a livello cognitivo. Inoltre, studi di neuroimaging hanno rivelato che gli individui con tale mutazione presentano una ridotta attività nell'area cerebrale di Broca. L'entusiasmo è cresciuto quando si è scoperto che diversi Neandertal sembrano aver posseduto la versione normale del gene umano FOXP2, dando il via a nuove speculazioni sull'eventualità di una qualche forma di linguaggio in Homo neanderthalensis. Se questa ipotesi fosse corretta, potrebbe avere importanti implicazioni sulla nascita di una coscienza complessa: il linguaggio infatti è un sistema simbolico, la cui esistenza dipende dalla creazione e dalla manipolazione di simboli mentali. Qualsiasi altro organismo in grado di sviluppare un linguaggio deve essere stato in grado di esibire tutti gli aspetti correlati del pensiero simbolico. Le cose, però, non sono semplici come sembrano: si è infatti scoperto che negli esseri umani i geni coinvolti nel determinare una normale elaborazione e produzione del linguaggio sono davvero numerosi (e tutti doverosamente attivi). In effetti, i geni che devono agire contemporaneamente nel pro- cesso sono così tanti da far apparire quasi un miracolo il normale sviluppo di un linguaggio in ciascuno di noi. Alla luce di tutto questo è evidente che il concetto di gene unico per il linguaggio (anche se fosse un genere regolatore, come FOXP2) è un'affascinante illusione. I Neandertal dunque possedevano una condizione necessaria per sviluppare il linguaggio, ma da sola non era sufficiente.

Al momento non abbiamo alcun dato genetico che si possa considerare come la causa responsabile della nostra unicità in termini cognitivi. È stata però formulata una spiegazione migliore sull'anatomia cerebrale in grado di favorire il pensiero complesso. Questa soluzione si accorda ancora meglio con quel poco che sappiamo sul comportamento della nostra specie al tempo in cui tale unicità sembra aver cominciato a esprimersi. I dettagli, peraltro, continuano a sfuggirci e non abbiamo ancora idea di quale riorganizzazione genetica abbia dato origine all'anatomia esclusiva di Homo sapiens. Di sicuro sappiamo che questo evento si è verificato e sembra decisamente probabile che (alla stregua di tutti gli altri caratteri strutturali esclusivi) la nostra nuova capacità cognitiva sia stata acquisita come un prodotto secondario del cambiamento genetico casuale e ramificato che ha avuto come risultato la comparsa di Homo sapiens in qualità di essere distinto. Per nostra fortuna, l'organismo risultante si è dimostrato capace di funzionare piuttosto bene.

Secondo la nuova spiegazione, l'aggiunta dell'ingrediente neurale che avrebbe predisposto la nostra specie al pensiero simbolico è stata semplicemente una conseguenza passiva della riorganizzazione dello sviluppo che ha dato origine circa 200.000 anni fa all'Homo sapiens anatomicamente riconoscibile. Non è sbagliato considerare quanto è accaduto come un processo simile alla costruzione in architettura di un arco, in cui nulla funziona finché non viene collocata al suo posto la pietra di volta. Inoltre, qualunque sia stata la nostra "pietra di volta", il nuovo potenziale simbolico a cui ha dato origine deve essere rimasto a riposo per un sostanziale intervallo di tempo finché non è stato "scoperto" da coloro che lo possedevano.

Anche se può sembrare strano, l'intervallo di tempo che separa l'acquisizione di una novità significativa e il suo utilizzo è un fenomeno assai comune nella storia evolutiva dei viventi. Tutte le innovazioni genetiche si verificano in modo casuale rispetto alle circostanze dell'esistenza dei loro portatori (anche se possono essere incanalate e concentrate nel corso della loro storia evolutiva): all'inizio devono quindi emergere non come adattamenti a un particolare stile di vita, ma come grattamenti, caratteri cioè che acquisiscono una nuova funzione a posteriori. Ho già brevemente accennato al classico esempio delle penne, derivati termici modificati già presenti negli antenati degli uccelli molti milioni di anni prima di diventare componenti essenziali per il volo. In modo simile, gli antenati dei vertebrati di terraferma avevano già acquisito i rudimenti delle zampe mentre conducevano un'esistenza completamente acquatica e la loro vita terricola era ancora parte di un futuro a venire. Le novità evolutive spesso si conservano anche se non vengono messe in pratica e, nel caso di Homo sapiens, la capacità di sviluppare un pensiero simbolico è rimasta nascosta, non riconosciuta, finché non è stata "rilasciata" grazie a uno stimolo che deve per forza essere stato di tipo culturale: la parte biologica, infatti, esisteva già.

Tale parte non comprende soltanto il potenziale cerebrale per generare il linguaggio e trasmettere le istruzioni per la sua produzione lungo le strutture vocali periferiche, ma anche le strutture stesse. Da tempo esiste un dibattito su quali siano le strutture del nostro tratto vocale superiore che ci permettono di parlare e senza le quali non potremmo rendere comprensibile il nostro linguaggio. Gran parte di questo dibattito si è concentrato sulla bassa posizione della laringe nella gola umana e su come fosse possibile riconoscere la collocazione di questa struttura nei fossili. Più la laringe è bassa, più la faringe sovrastante (il canale attraversato dall'aria) può essere modificata dai muscoli della gola per produrre le frequenze che percepiamo come suoni, dovuti alla vibrazione della colonna d'aria. Molti studiosi sono convinti che un insieme di crani fossili di Homo mostri la laringe in diverse posizioni, tutte più o meno abbassate. Questa osservazione li ha indotti a pensare che la capacità di sviluppare un linguaggio (e, per estensione, la consapevolezza di tipo umano) sia comparsa precocemente nell'evoluzione del nostro genere. Tuttavia, neppure la scoperta di ossa ioidi fossili (la parte ossea della laringe) ha contribuito a dirimere il dibattito su tale tema. Successivamente l'attenzione si è infatti spostata sulle proporzioni delle parti della bocca e della gola nel tratto vocale superiore e sull'idea per cui per produrre la necessaria gamma di frequenze sarebbe necessaria una faccia piatta. Possiamo quindi aspettarci che la discussione continui.

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Sezione trasversale della testa di un essere umano moderno (a sinistra) e di un Neandertal (ricostruzione a destra), che rivela le differenze della sommità del tratto vocale. Si notino il lungo palato e la lingua del Neandertal, oltre alla posizione più alta della sua laringe rispetto alle stesse strutture in Homo sapiens. Disegno di Diana Salles, da uno schizzo di Jeff Laitma

Nel frattempo, comunque, l'ipotesi secondo cui le basi dell'elaborazione del linguaggio, della capacità di parlare e del pensiero simbolico siano nate insieme a Homo sapiens anatomicamente moderno presenta risvolti interessanti. Possiamo infatti immaginare che tutte le caratteristiche necessarie fossero già presenti nel momento in cui sono state cooptate (indipendentemente) per il loro nuovo uso. Peraltro, in qualsiasi contesto funzionale si sia evoluta, la faccia alta e piatta di Homo sapiens non doveva c'entrare con il linguaggio e forse neanche con la capacità di parlare. E perfino difficile ipotizzare quale possa essere stato il contesto effettivo, soprattutto se si pensa che una faccia piccola e piatta porta anche significativi svantaggi.

Per cominciare, riduce la lunghezza delle file di denti, determinando un addensamento che porta spesso a malocclusioni; inoltre, l'abbassamento della laringe determina un incrocio delle vie aeree con il tratto alimentare che aumenta il rischio di soffocamento, un evento poco probabile se la laringe è posta più in alto. Questo effetto ha più di un inconveniente: nel solo Giappone, dove il cibo viene solitamente servito in piccole porzioni, oltre quattromila persone muoiono soffocate ogni anno. È difficile immaginare quali vantaggi avrebbe potuto avere la nuova forma del cranio per controbilanciare gli evidenti svantaggi. Forse gli svantaggi non erano abbastanza cospicui da fare una differenza significativa o forse la nuova struttura corporea slanciata era così economica in termini energetici da determinare una superiorità rispetto agli ominidi con struttura più massiccia e competitivi su breve distanza.

Di certo, ciò che si è rivelato vincente è stato il nuovo e insolito organismo umano nel suo complesso, e non aspetti specifici della sua anatomia innovativa.

I più antichi Homo sapiens non hanno subito vinto la competizione. Come abbiamo visto, l'arrivo nel Levante di forme presumibilmente non simboliche non è stato un successo duraturo. La rapida conquista del mondo da parte dei nostri progenitori ha dovuto attendere l'arrivo di schemi di comportamento simbolico. La documentazione sporadica in nostro possesso ci permette di avanzare almeno due possibilità sul modo in cui è avvenuto il suo sviluppo nel continente africano: considerato il potenziale biologico già presente, numerose popolazioni isolate di ominidi in varie parti dell'Africa possono avere cominciato a sperimentare la nuova capacità, oppure può esserci stato un unico punto d'origine. Per sapere esattamente come sono andate le cose ci servirebbero molte più informazioni di quelle attualmente a nostra disposizione, anche se l'ampia distribuzione dei primi indizi suggerisce perlomeno che l'elaborazione simbolica dell'informazione fosse già nell'aria circa 80.000 anni fa.

Il "risveglio" del pensiero simbolico

Anche se si tratta di una questione di straordinario interesse, lo stupefacente passaggio della mente all'elaborazione simbolica dell'informazione si può solo ipotizzare. Abbiamo già accennato che un qualche stimolo culturale deve aver dato una spinta al cervello umano, già predisposto a passare alla nuova modalità sim- bolica. Se si dovesse chiedere a un gruppo di scienziati quale sia lo stimolo, darebbero due tipi di risposte diverse.

Per alcuni lo stimolo è la cosiddetta teoria della mente. Noi esseri umani e i nostri più stretti parenti siamo animali profondamente sociali. La socialità della nostra specie però è davvero singolare, in quanto caratterizzata non soltanto dalla prosocialità (la preoccupazione per gli altri), che sembra mancare nelle scimmie antropomorfe, ma anche da una più distaccata socialità fondata sull'osservazione. Noi sappiamo che cosa stiamo pensando (gli psicologi parlano di intenzionalità di primo ordine), possiamo ipotizzare che cosa pensano gli altri (secondo ordine), possiamo anche sospettare che qualcun altro abbia un'idea a proposito di un terzo individuo (terzo ordine) e così via. Le scimmie antropomorfe sembrano aver acquisito un'intenzionalità di primo ordine e, unico esempio tra i primati non umani, si sono avviate verso il secondo livello. Gli esseri umani, d'altro canto, possono gestire fino a sei livelli di intenzionalità prima di non capirci più nulla (egli crede che lei pensa che loro intendano... e via dicendo).

Alcuni scienziati ritengono che l'evoluzione del nostro straordinario stile cognitivo sia stata guidata dallo sviluppo di una teoria della mente sempre più elaborata, necessaria per affrontare le dinamiche interazioni all'interno di società che diventavano sempre più complesse. In altre parole, la moderna capacità cognitiva umana si sarebbe sviluppata a causa delle pressioni di una socialità sempre più intensa, forse proprio intorno ai focolari degli antichi accampamenti.

Si tratta di un'idea davvero interessante, soprattutto considerando che i rituali sociali e le nostre reazioni sono connessi, da sempre, all'elaborazione delle informazioni sugli altri membri della società. Tuttavia, un meccanismo di questo tipo non spiega perché le scimmie antropomorfe, altamente sociali, non abbiano sviluppato una più complessa teoria della mente nel tempo in cui si sono evolute parallelamente a noi. Inoltre, non chiarisce perché la documentazione archeologica sembra indicare l'apparizione recente e inattesa della consapevolezza simbolica soltanto in una delle linee di discendenza degli ominidi dal grande cervello.

L'altro stimolo che tutti gli studiosi associano allo stile cognitivo degli esseri umani moderni è l'uso del linguaggio. In effetti, non si rischia di esagerare indicando il linguaggio come l'attività simbolica più spinta, dato che consente la produzione di un numero infinito di affermazioni a partire da un numero finito di elementi. Come il pensiero, il linguaggio prevede di suddividere il mondo che ci circonda in un vasto vocabolario di simboli da combinare per produrre affermazioni non soltanto riguardo al mondo come lo percepiamo direttamente, ma anche come dovrebbe essere. Ed è impossibile immaginare i meccanismi del pensiero slegati dal linguaggio, perché senza la sua mediazione tali processi dovrebbero essere del tutto intuitivi e non dichiarativi: la mente, cioè, si limiterebbe ad associare gli stimoli in entrata con i ricordi e a formulare risposte adeguate. Con ciò non voglio dire che le risposte di questo tipo siano necessariamente semplici. Associazioni molto complesse si possono compiere senza ricorrere all'astrazione che sta alla base del pensiero simbolico, come dimostra lo studio dei più antichi ominidi. Questi nostri predecessori non si sono limitati a questo livello di attività, ma hanno fatto progressi tecnologici davvero notevoli, tra cui la domesticazione del fuoco, l'invenzione degli strumenti composti e la costruzione di ripari. Il linguaggio però ha permesso al pensiero simbolico di sovrapporsi ai più antichi processi cognitivi. Questo processo ha dato agli ominidi un nuovo modo di vedere, e di reinventare, il mondo.

Che questa particolare fase sia avvenuta in Africa (il continente in cui abbiamo trovato la prima documentazione fossile di ominidi con il nostro aspetto e le prime prove archeologiche di un'attività simbolica) è provato da un recente studio dei suoni utilizzati nelle lingue parlate nel mondo. Lo studio linguistico comparativo permette di chiarire che le lingue si sono evolute come fanno gli organismi. Varianti più recenti delle lingue sono infatti derivate dalla ramificazione delle forme antiche e mantengono per un certo tempo la traccia della loro origine comune. Molti scienziati, di conseguenza, hanno adottato la diversificazione delle lingue come una guida per seguire la diffusione del genere umano sulla Terra. Nel farlo si sono concentrati sulle parole che formano le lingue. Tale compito si è rivelato però particolarmente arduo, perché le singole parole cambiano rapidamente con il passare del tempo: lo fanno così in fretta che, oltre un intervallo di tempo di 5000 anni circa, o al massimo di 10.000 anni, è impossibile rintracciare qualche traccia di parentela. Così, anche se le lingue si sono davvero rivelate utili per seguire il movimento dei popoli negli ultimi millenni, i lin- guisti non sono in grado di ricostruire le prime fasi dell'evoluzione del linguaggio.

Quentin Atkinson, studioso neozelandese di psicologia cognitiva, ha recentemente suggerito un'alternativa. Secondo Atkinson, studiando le origini del linguaggio è meglio concentrarsi non tanto sulle parole nel loro complesso, quanto sulle singole componenti sonore, i fonemi. Un simile approccio è alquanto sensato: i fonemi infatti sono più strettamente legati alla biologia di quanto lo siano le idee che le loro combinazioni rappresentano. Di conseguenza, quando Atkinson ha cominciato a studiare la distribuzione dei fonemi nelle lingue del mondo, ha scoperto modelli estremamente interessanti. Più ci si allontana dall'Africa, minore è il numero di fonemi usati per produrre le parole. Alcune delle lingue più arcaiche dell'Africa, ricche di consonanti clic e parlate da popoli con radici genetiche remote, presentano oltre un centinaio di fonemi. L'inglese moderno ne comprende soltanto quarantacinque mentre nelle Hawaii, tra gli ultimi luoghi sulla Terra a essere stati colonizzati, i fonemi sono soltanto tredici. Atkinson attribuisce questo modello al cosiddetto effetto del fondatore, un fenomeno ben noto agli studiosi di genetica delle popolazioni, dovuto alla drastica riduzione della dimensione della popolazione che si verifica ogni volta che un gruppo discendente si forma e si allontana da quello ancestrale.

Quando un nuovo gruppo si separa da quello di partenza la diversità genetica (e presumibilmente anche quella dei fonemi) si riduce, a causa dell'effetto collo di bottiglia citato precedentemente. La traccia di questo effetto nelle oltre cinquecento lingue analizzate da Atkinson è più debole di quella che si osserva nei geni, ma questo è probabilmente dovuto alla rapidità con cui le lingue evolvono. La questione fondamentale è che il modello dell'evoluzione genetica e dell'evoluzione dei fonemi è sostanzialmente lo stesso, e punta verso l'Africa. L'analisi di Atkinson suggerisce che il punto di convergenza si trovi nell'Africa sudoccidentale, un risultato a sua volta in linea con quello di un recente studio genetico. Queste scoperte implicano che Homo sapiens moderno abbia avuto origine in una singola località, e che lo stesso sia accaduto per il linguaggio (o almeno per la forma del linguaggio oggi sopravvissuta). Abbiamo dunque un argomento efficace per sostenere che sia avvenuta una fondamentale sinergia tra biologia e linguaggio nella rapida conquista del mondo da parte di una popolazione moderna e articolata.

La transizione

Ci sono molte ragioni per pensare che l'invenzione del linguaggio sia stata lo stimolo che ha permesso ai nostri antenati di superare la soglia della capacità simbolica. Anche se tutte le società moderne sono provviste da molto tempo di una lingua, sappiamo da osservazioni dirette che pidgin strutturati, cioè lingue in grado di sostituire i suoni con i segni, possono nascere rapidamente e senza particolari spinte esterne. L'esempio più famoso in questo senso è un linguaggio dei segni sviluppato spontaneamente da bambini sordi del Nicaragua, nel corso degli anni ottanta. Quando negli anni settanta venne fondata la prima scuola per sordi, vennero riuniti bambini che fino ad allora erano rimasti isolati a casa, tra parenti che parlavano e non usavano il linguaggio dei segni. Formando per la prima volta una comunità di sordi, i bambini hanno inventato in modo indipendente un proprio linguaggio dei segni: questo ha rapidamente sviluppato molte delle complessità della lingua parlata, anche se non aveva alcuna relazione con lo spagnolo utilizzato nell'ambiente in cui i bambini vivevano.

Si conosce anche l'incredibile caso di un essere umano adulto privo di linguaggio osservato mentre apprende una lingua. Questo processo di acquisizione ha richiesto lo sviluppo della consapevolezza che gli oggetti possono avere un nome (e i nomi sono i più semplici tra i simboli). Nel suo libro A Man Without Words, Susan Schaller, esperta del linguaggio dei segni, racconta con tenerezza il caso di uno studente sordo della sua classe non soltanto incapace di usare il linguaggio dei segni, ma anche privo della consapevolezza che le altre persone usassero nomi per definire gli oggetti. Questo giovane, che l'autrice chiama Ildefonso, era cresciuto in una casa di persone che udivano normalmente, isolato da qualsiasi stimolo adatto a cogliere l'idea che gli oggetti avessero un nome. Inoltre, non aveva avuto accesso ad alcun tipo di educazione speciale che potesse insegnargli a creare e a riconoscere mentalmente i segni. Ciononostante, il ragazzo è riuscito a inserirsi nella classe della Schaller, dove ha dato subito l'impressione di essere intelligente e curioso. Come si legge nel libro, la Schaller ha cominciato a insegnare a Ildefonso i rudimenti del linguaggio dei segni americano (ASL, american sign language), ma ben presto si è accorta che il giovane non coglieva neppure il concetto di segno. Modificando il suo approccio, la studiosa alla fine ha trovato una via percorribile. Ildefonso, con un'improvvisa intuizione, ha capito che tutto aveva un nome. «Improvvisamente si è alzato, rimanendo in piedi rigido [...] il bianco degli occhi espanso, come in preda al terrore. [...] Aveva superato la breccia. [...] Era entrato nell'universo dell'umanità, scoprendo l'unione delle menti». Per il giovane questa scoperta ha cambiato completamente la percezione del mondo: una volta superata la grande emozione ha sguinzagliato la sua emergente capacità di comprensione, diventando affamato di segni e chiedendo nuove parole.

Come si può immaginare, questa scoperta, dopo ventisette anni senza linguaggio e senza simboli, deve essere stata profondamente drammatica. La Schaller descrive in modo commovente il senso di afflizione provato da Ildefonso quando ha scoperto «la prigione in cui era esistito da solo, tagliato fuori dal genere umano». Nonostante successivamente abbia vissuto tutte le difficoltà e lo sconforto che ogni adulto prova nell'apprendimento del linguaggio, alla fine il ragazzo ha imparato a conversare usando l'ASL. L'esperienza della Schaller con Ildefonso è ciò che più si avvicina alla nascita della capacità simbolica negli esseri umani: un cervello accidentalmente preparato che, all'improvviso, scopre di che cosa è capace. La Schaller è convinta che l'esempio di Ildefonso sia più comune di quanto si possa immaginare e che «essere intelligenti, sani di mente, ma tuttavia incapaci di parlare» spesso sia considerato semplicemente un caso di sordità in cui gli individui sono incapaci di esprimersi con i segni. Ildefonso potrebbe dunque permetterci di dare uno sguardo indiretto alla condizione prelinguistica umana, anche se profondamente modificata dalla scomparsa dei primi sistemi di comunicazione e dei progressi cognitivi che li hanno accompagnati.

Sfortunatamente Ildefonso non è stato di grande aiuto per stabilire cosa significhi essere un normale Homo sapiens privo della funzione linguistica. Il giovane faceva parte di un piccolo gruppo di persone sorde e prive di linguaggio che comunicavano mimando invece di ricorrere al linguaggio dei segni. Questi individui non descrivevano le loro esperienze usando i segni al posto delle parole secondo regole condivise, ma lo facevano comportandosi più come ospiti a un dopo cena che giocano alle sciarade mimando le parole. Un simile metodo di comunicazione era davvero scomodo, al punto che, una volta afferrata l'idea di linguaggio, e dopo aver cominciato a costruirsi un ampio vocabolario di segni, Ildefonso non ha più avuto la pazienza di servirsi del vecchio metodo e ha smesso di passare il tempo con i suoi ex compagni. Il giovane, per giunta, si è rivelato molto restio a voler descrivere la propria vita interiore prima dell'acquisizione del linguaggio. Forse non aveva modo di esprimere la differenza e, in ogni caso, non ha mai voluto aprirsi pubblicamente.

Come e fino a che punto il linguaggio sia distinto o diverso da ciò che sperimentiamo come pensiero rimane così imponderabile, almeno sulla base di questo particolare episodio. Questo è un peccato, perché conoscere l'esatta differenza tra processi mentali con e senza le parole è fondamentale per comprendere la diversità cognitiva tra Homo sapiens dotato di pensiero simbolico e Homo sapiens senza questa capacità. I primi sapiens del Levante, privi di capacità simboliche, se la cavavano in modo eccellente e conducevano una vita simile a quella degli abili ed esperti Neandertal. E, anche se l'assenza di un linguaggio doveva rappresentare un limite rispetto alla condizione in cui ci troviamo noi oggi, è probabile che questi ominidi e i loro precursori non vivessero in un opprimente buio cognitivo come quello da cui Ildefonso è stato così felice di uscire. Insomma, stavano bene e avevano uno stile di vita molto più complesso di quello mai raggiunto prima da qualsiasi altro organismo.

Possiamo intuire che cosa volesse dire essere un sapiens prelinguistico esaminando l'esperienza di Jill Bolte Taylor, una neuroanatomista che dopo un grave ictus non ha più potuto parlare per diverso tempo. All'età di trentasette anni la Taylor, insieme alla capacità di parlare, ha perso anche tutti i suoi ricordi, riuscendo a vivere soltanto nel presente. Al contempo è stata pervasa da un senso di pace e di inconsueta connessione con il mondo che la circondava. La sua precedente capacità di usare il linguaggio, così sembrava, l'aveva in qualche modo obbligata a staccarsi dal mondo circostante. In effetti, questa è proprio l'essenza della facoltà simbolica degli esseri umani, grazie alla quale si ha la capacità di rendere concreti se stessi e di separarsi dal proprio universo. L'esperienza della Taylor, descritta dopo la sua completa guarigione, è davvero affascinante. Tuttavia questa vicenda non può spiegarci con chiarezza il funzionamento di un normale cervello umano prima della nascita del linguaggio. C'è però però un'altra possibilità per immaginare la condizione umana prelinguistica. Alcuni psicologi hanno suggerito che i bambini non ancora capaci di padroneggiare la lingua dei genitori pensano in modo diverso rispetto agli adulti. E quindi possibile che le loro elaborazioni mentali dell'informazione somiglino, per alcuni aspetti, a quelle di Homo sapiens prelinguistico. Tuttavia, pur essendo evidente che questi bambini non pensano come gli adulti dotati di linguaggio, il loro cervello è certamente immaturo (in particolare nella fondamentale parte della corteccia prefrontale, che si sviluppa assai più tardi) e non possono dunque compiere tutte quelle connessioni tra i vari tipi di informazione che fanno gli adulti. Per giunta non sono in grado di spiegarci in modo articolato il loro stato mentale e possono esprimersi soltanto mediante le loro sensazioni emotive. Questa difficoltà ci riporta indietro, al tentativo di comprendere gli scimpanzé con cui ho aperto questo libro.

Dall'analisi della documentazione archeologica risulta evidente che uno stile di vita complesso, una comprensione intuitiva e una chiarezza mentale fossero capacità già a disposizione degli ominidi ancora privi di un linguaggio simile al nostro. Nel giusto contesto, essere privi della capacità di parlare non significa essere anormali. Ciononostante, le parole sono un fattore cruciale per acquisire una capacità cognitiva complessa. Riuscire a manipolare le parole amplia e sviluppa la mente. Più sono le parole a disposizione, più è complesso il mondo che si è in grado di visualizzare. Quando si resta senza parole, invece, non si riesce più a esprimere concetti.

Considerato che le nostre capacità linguistiche si sono innestate sull'antico substrato cognitivo del primo Homo sapiens anatomicamente moderno, le nostra mente oggi è una sorta di funambolo che percorre di continuo il filo teso tra l'approccio simbolico e quello intuitivo. Le nostre capacità simboliche sono responsabili della possibilità di ragionare, ma la capacità intuitiva, che in sé rappresenta un curioso miscuglio di aspetti razionali ed emotivi, rende conto della nostra creatività. La fortuita combinazione di queste due capacità è ciò che ci ha resi un'inarrestabile, seppure imperfetta, forza della natura.

Il passaggio di Homo sapiens da specie non linguistica a specie dotata di linguaggio è una delle trasformazioni cognitive più sbalorditive che mai abbiano interessato un organismo. I dettagli di questa transizione probabilmente ci sfuggiranno sempre e qualsia- si ricostruzione è destinata a fornire una semplificazione eccessiva. Tuttavia, tenendo a mente gli esempi degli scolari del Nicaragua e di Ildefonso, forse non è difficile ipotizzare, almeno in linea di principio, il modo in cui il linguaggio emerse in una piccola comunità africana di Homo sapiens già biologicamente predisposti.

Personalmente sono molto affascinato dall'idea che la prima forma di linguaggio sia stata inventata dai bambini, molto più ricettivi rispetto alle novità di quanto lo siano gli adulti. I bambini usano sempre metodi propri per fare le cose e comunicano in modi che qualche volta lasciano i genitori disorientati. Seppur per ragioni estranee all'utilizzo del linguaggio, i piccoli sapiens erano già provvisti di tutto l'equipaggiamento anatomico periferico necessario per produrre l'intera gamma di suoni richiesti dalle lingue moderne. Essi inoltre dovevano possedere il substrato biologico necessario per compiere le astrazioni intellettuali richieste e anche la spinta a comunicare in maniera complessa. E quasi certamente appartenevano a una società che già possedeva un sistema elaborato di comunicazione tra individui: un sistema che implicava l'uso di vocalizzazioni, oltre che di gesti e di un linguaggio del corpo.

Dopotutto, come nel caso di qualsiasi innovazione comportamentale, il trampolino fisico necessario doveva già esistere. Riprendendo l'esempio del Nicaragua, è facile immaginare, almeno a grandi linee, in che modo una volta creato un vocabolario il feedback tra i vari centri cerebrali coinvolti abbia permesso ai bambini di creare il loro linguaggio e simultaneamente i nuovi processi mentali. Per questi bambini, ciò che gli psicologi hanno indicato come linguaggio privato deve aver agito da canale favorendo la trasformazione delle intuizioni in nozioni articolate, che potevano quindi essere manipolate simbolicamente.

Considerare il linguaggio come uno stimolo al pensiero astratto può essere vantaggioso, anche perché si tratta di una proprietà comune. Esattamente come un giocatore di poker non vuole far conoscere le proprie carte agli altri, a giudicare dalle apparenze dovrebbe essere svantaggioso per un individuo rivelare agli altri la propria capacità di leggere le loro menti o immaginare che cosa possano pensare. Se le cose stanno così, è dunque difficile considerare la teoria della mente come motore del cambiamento, anche se non si poteva evitare la diffusione di quella capacità all'interno della popolazione (poiché consisteva semplicemente in una delle espressioni di una generalizzata intelligenza). Certo, in questo caso ci troveremmo in una terra completamente sconosciuta, e il fatto che il linguaggio sia nato come mezzo di comunicazione diventerebbe una pura e semplice ipotesi (dopotutto, con un tipico paradosso umano, il linguaggio è anche il più grande ostacolo alla comunicazione). E possibile che la sua importante funzione come via che conduce al pensiero astratto sia stata cruciale fin dall'inizio. Ma il linguaggio inteso come mezzo di comunicazione deve essersi diffuso più facilmente e in fretta in una popolazione già in possesso della struttura biologica necessaria, fino a spingersi oltre quel piccolo gruppo iniziale e interessando un'intera specie (biologicamente predisposta) che, grazie al neonato intelletto, ben presto ha potuto conquistare il mondo.

Linguaggio, simboli e cervello

Avanzare ipotesi su ciò che è accaduto nel balzo dal non simbolico al simbolico sarebbe più semplice se avessimo nozioni migliori sul funzionamento del cervello umano: come fa a trasformare una massa di segnali elettrochimici strutturati in quello che noi percepiamo come consapevolezza? Le più recenti tecniche di imaging in tempo reale, che permettono di capire quanto accade nel cervello mentre svolge compiti cognitivi (cioè in quali parti questo organo utilizza l'energia) hanno decisamente ampliato le nostre conoscenze. Ma è ancora in gran parte sconosciuto il modo in cui il nostro organo di controllo genera ciò che soggettivamente pensiamo e proviamo. Questa carenza di informazioni rende problematico identificare le specifiche aree del cervello che, modificandosi all'inizio della nostra storia, hanno posto le basi per nuove abilità cognitive. Ciononostante, qualsiasi differenza possiamo riconoscere tra il cervello umano e quello dei nostri cugini più stretti rappresenta un valido punto di partenza. E nonostante i paleoneurologi siano ancora incerti sul significato delle differenze tra la forma esterna del cervello degli ominidi fossili e dei moderni esseri umani, il punto di partenza naturale per la nostra impresa è lo studio del cervello delle scimmie antropomorfe viventi. Dopotutto, sappiamo esattamente ciò che noi possiamo fare e ciò che le scimmie antropomorfe non sono in grado di fare, sebbene emergano diverse difficoltà pratiche quando si cerca di indurre una scimmia a svolgere determinati compiti all'interno di un dispositivo per la tomografia a risonanza magnetica. Questa constatazione, da sola, ci permette di enfatizzare ancora una volta l'ampiezza del varco cognitivo che separa noi da loro.

Al momento dobbiamo quindi limitarci agli aspetti statici del cervello, cercando i sostegni biologici di ciò che ci rende unici. E anche se sappiamo da molto tempo che sono poche (se davvero ne esistono) le caratteristiche nella struttura del cervello umano senza un equivalente in quello delle scimmie antropomorfe, alcune differenze significative stanno cominciando a emergere via via che i neurobiologi studiano il cervello dei primati a risoluzioni sempre maggiori. Una scoperta recente ha rivelato che, sebbene scimmie antropomorfe ed esseri umani siano gli unici animali dotati di neuroni fusiformi (o spinale) in parti del cervello connesse a complesse emozioni come la fiducia, l'empatia e la colpa, i secondi ne hanno molti di più. Gli scienziati non sanno ancora spiegare tale scoperta, ma una delle possibili funzioni dei neuroni fusiformi è muovere la conduzione ad altissima velocità degli impulsi da queste regioni a un'area posta nella parte frontale del cervello, attiva quando si compie una pianificazione di tipo avanzato. E possibile quindi che l'abbondanza di neuroni fusiformi aiuti gli esseri umani a dare risposte più rapide a situazioni sociali complesse e mutevoli. Con l'accumularsi di un numero sempre maggiore di scoperte di questo tipo, riusciremo a ricostruire un'immagine più completa di ciò che è accaduto nel cervello umano. Per il momento, dunque, avendo la certezza che il vantaggio comportamentale degli esseri umani non è stato una semplice emanazione della più grande massa cerebrale, il meglio che possiamo fare è proporre ipotesi approssimative.

L'ipotesi che prediligo rimane quella proposta negli anni sessanta dal grande neurobiologo Norman Geschwind. Per Geschwind l'identificazione dei singoli oggetti (cioè la capacità di dar loro un nome) rappresenta la base del linguaggio. Secondo quanto detto finora, questa capacità rappresenterebbe anche la base del pensiero simbolico. Per Geschwind il linguaggio nacque grazie alla capacità fisica di compiere associazioni dirette tra le varie aree della corteccia cerebrale, senza passare attraverso i più antichi centri emotivi interni. La corteccia è il sottile strato di neuroni che riveste la parte esterna del cervello e si è talmente accresciuta nel corso dell'evoluzione dei mammiferi (e in particolare della nostra) che, come ab biamo visto, si è raggrinzita e ripiegata per poter essere contenuta entro i confini della volta cranica. Le pieghe di maggiori dimensioni sono state usate per indicare le principali aree funzionali della corteccia, in particolare i lobi frontale, parietale (lato superiore), temporale (lato inferiore) e occipitale (lato posteriore). All'interno di ciascun lobo, altre pieghe demarcano le maggiori aree funzionali. Così l'area di Broca, la regione cerebrale che svolge un ruolo chiave nelle funzioni motorie (come il controllo dell'apparato fonatorio), si trova all'interno del lobo frontale sinistro. Le moderne tecniche di imaging hanno rivelato però che molte funzioni (tra cui quelle motorie) sono ampiamente distribuite nel cervello: nonostante questo, le principali aree di controllo già identificate dai grandi neurologi del diciannovesimo secolo vengono tuttora riconosciute.

La maggior parte dei neuroscienziati moderni, poi, condivide l'idea che la corteccia prefrontale, proprio all'estremità anteriore del cervello, sia di particolare importanza per l'integrazione dell'informazione proveniente da tutte le regioni del cervello. Si tratta evidentemente del punto di partenza delle funzioni "esecutive" elevate, capace di coordinare e regolare l'attività di parti filogeneticamente più antiche del cervello.

Per Geschwind, tuttavia, il candidato in grado di compiere la cruciale associazione tra oggetti e nomi sarebbe il giro angolare, una parte del lobo parietale adiacente sia alle aree temporali sia a quelle occipitali, e dunque in una posizione ideale per agire da mediatore di tutti questi lobi. Negli esseri umani il giro angolare è grande, mentre in tutti gli altri primati è piccolo o addirittura assente. Studi recenti condotti con le tecniche di imaging hanno inoltre dimostrato che questa struttura è attiva nella comprensione delle metafore, figure retoriche emblematiche del tipo di connessioni astratte alla base del linguaggio. Che Geschwind abbia ragione o meno, purtroppo è impossibile individuare il giro angolare nei calchi dei cervelli fossili degli ominidi, e dunque non possiamo sapere in quale momento della nostra storia questa struttura abbia cominciato a espandersi.

Nel tentativo di immaginare ciò che rende speciale il cervello umano, dobbiamo sempre ricordare che si tratta di una struttura piuttosto disordinata la quale, a partire da un'estrema semplicità, è cresciuta in modo opportunistico per un periodo di tempo straordinariamente lungo. Così forse non dovremmo cercare una singola acquisizione "cruciale". Anzi, è probabile che le eccezionali proprietà del cervello umano siano emerse in seguito ad aggiunte o modifiche relativamente piccole (e del tutto accidentali) di una complessa struttura che era già, per exattamento, quasi pronta a sviluppare il pensiero simbolico. Una minima modifica a una struttura già esistente (e indipendente) ha prodotto una nuova forma di interazione tra i componenti cerebrali, conferendo alla struttura di partenza una complessità senza precedenti.

Se non siamo in grado di indicare uno specifico componente cerebrale come punto di partenza della nostra attuale consapevolezza, possiamo comunque chiederci quali sistemi cognitivi potrebbero essere stati coinvolti. Uno dei sistemi che di recente è stato chiamato in causa è, usando il linguaggio degli psicologi, la nostra memoria operativa, cioè la capacità di conservare l'informazione nella mente conscia mentre si svolgono compiti pratici. Senza una consistente memoria operativa sarebbe impossibile svolgere un qualsiasi tipo di operazione che preveda l'associazione di parti diverse di informazione. Gli studiosi non escludono che anche gli antichi ominidi avessero bisogno di questo tipo di memoria, seppure a un differente livello. La differenza tra gli antichi ominidi e noi, benché sostanziale, sarebbe allora una questione di livelli, legati al crescente miglioramento delle funzioni esecutive della corteccia prefrontale che regola la capacità di prendere decisioni, scegliere obiettivi, pianificare e così via. Come abbiamo visto, le diverse tecnologie che gli ominidi hanno sviluppato da quando il primo produttore di strumenti ha battuto due rocce insieme sono diventate sempre più complesse, ma in modo sporadico. E questa peculiarità è stata considerata una prova che la memoria operativa si è accresciuta secondo un modello a tappe, le ultime delle quali risalgono a un periodo compreso tra 90.000 e 50.000 anni fa.

Questa ricostruzione coincide bene con la documentazione archeologica. Resta però ancora da chiarire se la memoria operativa sia soltanto una condizione necessaria, o anche sufficiente, per l'acquisizione di una coscienza moderna. Dobbiamo inoltre considerare che identificare la memoria operativa come ingrediente chiave può essere un processo analogo a quello secondo cui la capacità di termoregolare (o di vedere a grande distanza o di portare oggetti) fu il fattore in grado di indurre i primi ominidi bipedi a camminare eretti. La realtà è che, una volta sviluppata la capacità in questione, si acquisisce un intero pacchetto di vantaggi, a cui potrebbe eventualmente aggiungersi qualche svantaggio. Riguardo il bipedismo, mantenere una postura eretta quasi certamente fu un cambiamento che venne in modo naturale. Nel caso della coscienza simbolica, sembra probabile che il cambiamento casuale di un cervello già exattato, sommato all'opera di qualche bambino, abbia portato alla comparsa di un fenomeno che ha letteralmente cambiato il mondo intero.

Coda

Nulla di quanto ho scritto alla fine del Capitolo 14 implica necessariamente che la nostra specie abbia cambiato in modo intenzionale il pianeta in cui viviamo. All'inizio è possibile che non ci sia stata volontarietà, in un mondo dove i nostri progenitori erano cacciatori-raccoglitori, individui in larga misura, se non interamente, integrati nell'ecosistema in cui vivevano. Tuttavia è verosimile che fin dalle origini l'unica regola ferrea dell'esperienza umana (a parte l'ineluttabilità della morte) sia stata la legge delle conseguenze non previste. Il nostro cervello è un marchingegno straordinario e ci ha permesso di realizzare cose davvero uniche; ma ancora oggi siamo in grado di immaginare in anticipo soltanto le conseguenze più immediate (o quantomeno porre attenzione alle stesse). Siamo notoriamente poco abili nel prevedere i rischi, soprattutto quelli a lungo termine. Crediamo in cose folli: al fatto che i sacrifici umani possano propiziarci gli dei, che le persone vengano rapite dagli alieni o anche che in un mondo finito sia possibile una crescita economica infinita e che basti ignorare i cambiamenti climatici per non doverne affrontare le conseguenze. Per lo meno, agiamo come se fosse così.

Tutto ciò, come è ovvio, è perfettamente in accordo con il disordinato accrescimento del cervello umano verificatosi nel corso della nostra storia. All'interno del nostro cranio convivono cervelli da pesce, da rettile e da toporagno, a cui si aggiungono i centri più alti che ci permettono di integrare l'informazione nel nostro modo esclusivo. Alcune delle più recenti componenti cerebrali parlano una con l'altra attraverso strutture davvero molto antiche. Il nostro cervello è un complesso improvvisato, messo insieme con opportunismo dalla natura nel corso di centinaia di milioni di anni e in numerosi contesti ecologi diversi. Quando ci rendiamo conto che le capacità simboliche sono un'acquisizione molto recente (non la glassa sulla torta, ma la perlina di zucchero che sta in cima alla ciliegia sopra la glassa) appare chiaro che il nostro attuale cervello non è stato predisposto dall'evoluzione per fare alcunché. Abbiamo acquisito la nostra superiorità mentale soltanto perché una lunga sequenza di antenati, fin dai tempi più remoti, è riuscita per caso a cavarsela meglio degli altri concorrenti in gioco nelle stesse circostanze. Alla fine si è poi aggiunta incidentalmente un'ultima enigmatica acquisizione, quella che ha fatto la differenza. Se la storia fosse andata diversamente, in un qualsiasi momento durante un percorso così lungo, oggi non sareste qui a leggere questo libro.

Secondo qualcuno noi esseri umani talvolta agiamo in modo tanto bizzarro perché l'evoluzione del nostro cervello non è ancora riuscita a mettersi in pari con la rapida trasformazione della società, avviatasi quando i nostri antenati hanno adottato uno stile di vita sedentario, alla fine dell'ultima glaciazione. In base a questa teoria, la nostra mente risponde ancora (a volte inopportunamente) alle esigenze dell'antico ambiente dell'adattamento evolutivo. Questa idea possiede uno straordinario fascino riduzionista, ma il nostro cervello rappresenta il più tipico degli organi generalisti, dunque non è adattato per nulla in particolare.

Certo è possibile osservare alcune regolarità nel comportamento umano, ciascuna indubbiamente limitata da caratteristiche comuni presenti nella struttura del nostro organo di controllo. Ma tutte queste regolarità sono, a ben vedere, astrazioni statistiche, infatti tra gli individui non si nota alcuna uniformità a riguardo. Se proprio volessimo trovare un qualche fenomeno statistico in grado di governare la condizione umana, sarebbe la distribuzione normale, ovvero la curva a campana. Questa curva descrive la frequenza con cui espressioni diverse dello stesso carattere compaiono in una popolazione. Più alta al centro, dove si concentra la maggior parte degli individui, la forma a campana della curva sfuma più o meno simmetricamente alle due estremità, riflettendo il fatto che per ogni carattere la maggior parte delle osservazioni ricade vicino alla media, mentre le deviazioni diventano via via più rare allontanandosi da questa.

Per ogni caratteristica umana che si voglia analizzare nello specifico, che si tratti di un aspetto fisico o comportamentale, si può tracciare una curva a campana. Soltanto pochi di noi sono davvero molto intelligenti o molto stupidi: la maggior parte è in qualche punto nel mezzo. Lo stesso vale per caratteri come alto/basso, premuroso/indifferente, forte/debole, casto/promiscuo, credente/ non credente o qualsiasi altra variabile che possa venirci in mente. Questo, ovviamente, succede perché la condizione interiore umana è impossibile da definire mentre è facile trovare un singolo Homo sapiens in grado di esemplificare ciascun estremo di un qualsiasi spettro comportamentale si voglia immaginare. Per ogni santo, c'è un peccatore; per ogni filantropo, un ladro; per ogni genio, un idiota. Secondo questa prospettiva, avere persone cattive intorno è semplicemente il prezzo da pagare per avere anche quelle buone.

Da un altro punto di vista, non c'è bisogno di cercare particolari spiegazioni per giustificare l'altruismo quando questo carattere è bilanciato, all'altro estremo della curva, dall'egoismo. Gli stessi individui sono a loro volta tipici insiemi di paradossi; ognuno di noi è un miscuglio di tratti ammirevoli e di altri meno nobili: esprimiamo addirittura caratteristiche diverse in momenti diversi. Siamo governati dalla ragione, ma soltanto finché gli ormoni non prendono il sopravvento.

Allo stesso modo, nessuno crede a tutte le pazze idee in circolazione, anche se la maggior parte di noi è attratta da alcune di queste. Secondo una di tali idee la condizione umana può essere descritta da un lungo elenco di universali umani, cioè caratteristiche psicologiche e comportamentali esclusive, che tutti noi possediamo. In realtà, quasi sempre si scopre che questi universali non sono esclusivi del genere umano e neppure diffusi tra tutti noi. Infatti, con l'eccezione della capacità fondamentale, che tutti condividiamo, di ricreare il mondo all'interno della nostra mente, forse l'unico universale umano che tutti possediamo è la dissonanza cognitiva. A causa delle peculiari capacità cognitive della nostra specie, i singoli individui che ne fanno parte rappresentano entità diverse.

Se è vero che ogni essere umano è sostanzialmente (se non del tutto) il prodotto del suo particolare genoma, e dunque già alla nascita è all'incirca la stessa persona che sarà in età adulta, questo non si può dire per l'intera specie nel suo complesso. La condizione universale umana infatti rimarrà sempre elusiva (e fonte di incessanti dibattiti) in quanto si tratta di qualcosa di intrinsecamente non identificabile.

E dunque che cosa possiamo dire di noi stessi? Dopo una lunga storia evolutiva siamo arrivati al punto in cui la nostra accidentale abilità cognitiva ci permette di cambiare, anche senza volerlo, la superficie stessa del pianeta su cui viviamo. In quest'ottica è stato recentemente proposto (con la tipica arroganza umana) che dovremmo cambiare il nome dell'attuale epoca geologica da Olocene a Antropocene (vale a dire "età dell'uomo nuovo"). Molti geologi rabbrividiscono di fronte a questo suggerimento (frutto dell'iniziativa di un ecologo e di un esperto di chimica dell'atmosfera) perché le devastazioni prodotte da una singola specie non sono mai state usate come criterio per definire una fase della cronologia geologica. Tuttavia, è davvero allarmante il modo in cui l'azione umana sta influenzando un vasto insieme di processi, le cui ripercussioni si rispecchieranno nella documentazione a disposizione dei futuri geologi, se qualcosa rimarrà. Per citare soltanto un esempio tra tanti: con il passare degli eoni le forze naturali degli elementi hanno sempre determinato l'abbassamento delle superfici dei continenti, di solito di qualche decina di metri ogni milione di anni; una recente analisi ha rivelato che l'attività umana iniziata intorno all'inizio del primo millennio ha accelerato questa tendenza e ci ha portati all'attuale tasso di erosione, che è dieci volte più rapido.

Se questa fosse soltanto un'altra estrapolazione statistica, forse non preoccuperebbe molto i membri di una specie come la nostra, tanto brava a pensare soltanto a se stessa. Stiamo però già subendo le gigantesche conseguenze di questa rapida rimozione della crosta continentale, sia nell'erosione interna, sia nella sedimentazione costiera. Stiamo, insomma, letteralmente rimodellando il pianeta in cui viviamo. Comportamenti che un ambiente flessibile avrebbe assorbito quando Homo sapiens era distribuito in piccoli gruppi, oggi che siamo sette miliardi sono diventati molto dannosi per le popolazioni umane. Per giunta, gli effetti sono a doppio taglio: più l'impresa umana cresce e diventa complessa, più diventa fragile. Un'inondazione che avrebbe rappresentato un banale inconveniente per piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori è una tragedia umana di gigantesche proporzioni nelle terre sovraffollate del Bangladesh o della valle del Mississippi. Per molti motivi, talvolta non intenzionali, siamo ormai i signori del pianeta, ma questo non ci garantisce che la Terra non si ritorcerà contro di noi quando sarà messa alla prova oltremodo.

Senza dubbio subiamo già la minaccia di alcuni correlati delle doti che ci rendono tanto notevoli. E questo ci porta a domandarci se il "progetto" evolutivo del nostro cervello ci abbia condannati a seguire la via autodistruttiva. Per fortuna la risposta è "no", almeno in linea di principio. Per esempio, anche se è stato dimostrato che alcune tendenze a comportamenti violenti (frutto di un'attività cerebrale insolita) possono effettivamente essere ereditate, sappiamo che queste si possono modificare con l'esperienza e interagendo con l'ambiente. Inoltre, le società nel loro complesso non sono necessariamente soggette alle stesse imperfezioni degli individui (nonostante non si possa dire lo stesso per i loro leader). Le società complesse, infatti, con tutte le loro norme e regolamenti, le procedure bizzarre e talvolta gli strumenti draconiani di coercizione, compensano le molteplici carenze degli individui, in particolare di coloro i cui comportamenti si avvicinano agli estremi negativi di una delle molte curve a campana. Non è da sottovalutare il fatto che, grazie a rigide restrizioni sociali e legali, la maggior parte di noi si comporti in modo ragionevole e responsabile. E non è così poco realistico suggerire che, quando la gravità della nostra situazione risulta evidente, le società possono prendere le dure decisioni necessarie per mantenere un equilibrio con il pianeta.

Anche se abbiamo molti difetti siamo riusciti a compiere numerosi progressi negli ultimi 7 milioni di anni. Dunque possiamo aspettare passivamente che l'evoluzione completi il suo lavoro? Con un po' di pazienza l'operare della selezione naturale finirà per renderci più svegli e più consapevoli delle vaste conseguenze delle nostre azioni? Sfortunatamente la risposta è di nuovo "no" o, almeno, no se la crescita demografica attuale continuerà a essere tale. L'evoluzione dei nostri antenati è avvenuta quando gli ominidi erano molto sparpagliati nell'ambiente, divisi in popolazioni piccole e dunque geneticamente instabili, soggette a frequenti sconvolgimenti ambientali. Queste condizioni erano ideali perché potessero emergere nuove popolazioni e specie incorporando significative innovazioni genetiche e fisiche. È molto probabile che quelle circostanze instabili, sommate alle nostre tendenze culturali, abbiano determinato la velocità davvero insolita con cui si è compiuta l'evoluzione degli ominidi nel corso del Pleistocene. Ma ora le cose sono cambiate. Fin dal momento in cui hanno adottato uno stile di vita sedentario, alla fine dell'ultima glaciazione, i popoli umani sono cresciuti come funghi e ora in tutto il mondo lo spazio vitale è poco e prezioso. Queste nuove condizioni hanno cambiato completamente le regole del gioco. Le moderne popolazioni umane sono ormai troppo grandi e vicine tra loro perché possa fissarsi una qualche significativa novità genetica in grado di renderci più intelligenti e più capaci di proteggere i nostri interessi a lungo termine. Senza un profondo cambiamento della condizione demografica siamo destinati a rimanere incastrati nella nostra confusa essenza.

Molti troveranno una simile prospettiva davvero poco ottimistica ma, per fortuna, la storia non finisce qui. Se le prospettive di un miglioramento biologico sembrano infatti piuttosto remote, in assenza di un qualche cataclisma (facilmente immaginabile) che possa ristabilire le normali regole dell'evoluzione, l'innovazione umana nel senso più ampio non si trova invece di fronte a un muro. Non si può mettere in dubbio il fatto che i nostri sistemi cognitivi e anatomici siano ben lungi dall'essere perfetti in un'ampia varietà di contesti, ma le nostre capacità razionali e la nostra stravagante passione per le novità restano davvero notevoli. Fin dai primi entusiasmi dello spirito simbolico, la storia tecnologica e creativa del genere umano si è imperniata sull'energica esplorazione del potenziale innovativo derivato dal nostro nuovo modo di elaborare l'informazione sul mondo. E una cosa è certa: questa esplorazione della nostra reale capacità non è affatto esaurita. Anzi, si potrebbe addirittura sostenere che è appena iniziata. Così, se gli auspici sembrano non portare a un significativo cambiamento biologico nella nostra specie, dal punto di vista culturale il futuro non ha limiti.