Telmo Pievani

Homo sapiens e altre catastrofi

Meltemi, Roma 2006

1.

Telmo Pievani, filosofo della scienza, si è da tempo proposto come uno dei più acuti studiosi dell’evoluzionismo darwiniano, prendendo apertamente posizione a favore della sua revisione sulla base della teoria degli equilibri punteggiati di S. Gould e N. Eldredge. Il saggio in questione ha l’intento di argomentare analiticamente questa opzione, ma, fin dal titolo, rivela l’ambizione di portare avanti un discorso globale sulla storia biologica e culturale della specie umana.

Il significato di questa ambizione è esposto fin dalle prime pagine. Pievani scrive:

“Questo libro nasce dalla convinzione che non si può comprendere a pieno il significato dei processi di globalizzazione economica e culturale contemporanei senza una loro collocazione nel tempo profondo della planetarizzazione della specie umana. Essi sono infatti l'esito ultimo (e assai imprevedibile) di una lunga storia di migrazioni, di colonizzazioni, di derive e di ibridazioni. Questa "storia naturale della globalizzazione" comincia con la nascita, all'interno della famiglia delle scimmie antropomorfe, di una serie di "ominidi" con caratteristiche peculiari che si diversificano e occupano la zona orientale e meridionale del continente africano. Prosegue con la comparsa, all'interno del cespuglio lussureggiante dei nostri antenati, di una specie che esce dall'Africa e colonizza il Vecchio Mondo, seguita un milione e mezzo di anni dopo da una seconda specie "esploratrice", chiamata Homo sapiens, che percorrerà nuovi tragitti e colonizzerà tutti i continenti. La storia continua con la diffusione ramificata delle popolazioni di sapiens sulla Terra e con la loro coevoluzione con le nicchie ambientali eterogenee che incontreranno di volta in volta nei loro sentieri di scoperta. Più che una storia eroica di conquiste, apparirà come un tessuto di fili sottilissimi e multicolori, come una trama di interdipendenze inaspettate, di relazioni sconosciute, di radici intrecciate. Sarà una storia incompiuta, come incompiuto è il destino della nostra specie.

L'esplorazione dello spazio profondo dell'umanità ha cinquecento anni e va esaurendosi. I popoli europei hanno fatto visita a popolazioni antichissime che non desideravano affatto essere "scoperte", portandole sovente all'estinzione. Ora proviamo il senso di desolazione di un condottiero che arriva di fronte al mare e si rende conto che di là non c'è più nulla da conquistare e da esplorare. Possiamo giusto sperare in qualche spettacolare colpo di coda, in qualche mostro degli abissi o nello yeti. Oppure possiamo attendere speranzosi lo sbarco su Marte e nel frattempo interrogare le sonde catapultate ai confini del sistema solare.

L'esplorazione del tempo profondo dell'umanità, invece, è appena cominciata e promette rivelazioni imbarazzanti. L'impresa richiede il contributo di discipline molto diverse che da pochi anni dialogano l'una con l'altra: la paleoantropologia, la paleoecologia, l'archeologia, la biologia molecolare, la linguistica comparata, l'antropologia culturale, l'epistemologia. Gli esperti di queste discipline ci stanno rivelando che le vecchie e gloriose metafore del progresso lineare, dell'equilibrio, delle "vie maestre" e delle "devianze", delle tendenze graduali e dell'adattamento ottimale non reggono più alla sfida di comprendere realisticamente una storia intricata e ricca di discontinuità, di riadattamenti imprevedibili, di biforcazioni contingenti e di eventi accidentali. Dall'analisi ditali caratteristiche sta emergendo un'intera gamma di nuovi strumenti evoluzionistici, cioè di modelli predittivi e di "strutture emergenti" inedite, che potrebbero in parte integrare e in parte sostituire i precedenti. Tutto ciò è fondamentale per pensare in modo radicalmente nuovo, in modo evolutivo, la globalizzazione, cioè l'esito provvisorio di una lunga storia naturale di ramificazioni e di sovrapposizioni culturali, ecologiche e biologiche che possiamo leggere nel paesaggio geografico planetario.

Siamo cittadini di un pianeta che ci ha generato in modo contingente e che abbiamo trasformato irreversibilmente, mettendo a dura prova le sue capacita di resistenza ma non la sua sopravvivenza. La biosfera, autorganizzandosi come ha sempre fatto nei tre miliardi e mezzo di anni di esistenza che hanno preceduto il nostro arrivo, supererà brillantemente tutte le perturbazioni che le perversioni umane potranno immaginare. Tutto sta nel capire se la prossima soglia di autorganizzazione prevedrà o meno l'esistenza di un mammifero di grossa taglia, appartenente all'ordine dei primati, distribuito su tutto il pianeta. La questione ambientale, nell'ottica del tempo profondo della globalizzazione, diventa allora una questione radicale di autocoscienza da parte di una singola specie biologica: riuscirà Homo sapiens, figlio fortunato di una stupefacente sequenza di biforcazioni contingenti, a resistere alla tentazione di suicidarsi? Quando diverrà evidente la necessità di creare una coscienza di specie e una cittadinanza planetaria per tutti gli esseri umani senza distinzioni, sarà già troppo tardi?

Un mondo diverso è possibile soltanto se comprendiamo che già la storia di questo mondo è molto diversa da ciò che abbiamo pensato che fosse. Sfortunatamente, i principi che sorreggono le analisi più diffuse della planetarizzazione sono ancora imperniati su un'epistemologia evolutiva, cioè su un modo di concepire e di studiare il cambiamento, fortemente riduzionista e determinista. Quante volte, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, abbiamo dato definizioni delle civiltà e delle culture umane in modo statico, essenzialista, stereotipato, senza avere il coraggio di indagarne le sfumature storiche, le interconnessioni, le reciproche zone d'ombra. Quante volte abbiamo sentito pronunciare il termine "globalizzazione" accompagnato dall'aggettivo "inevitabile". Quante volte abbiamo annuito di fronte all'evidenza che i suoi effetti sono sia positivi che negativi. Per consolarci, ripetiamo a noi stessi che non si può tornare indietro.

Questo lavoro nasce dalla presunzione che invece si debba tornare indietro, molto indietro. La specie umana ha bisogno di ritrovare una prospettiva evoluzionistica profonda, uno sfondamento all'indietro che cambi radicalmente la percezione del futuro mettendo seriamente in discussione alcuni presupposti antropocentrici e progressionisti sopravvissuti alla rivoluzione darwiniana. Il passato non è stato affatto inevitabile, quindi non lo saranno nemmeno il presente e il futuro. Non esiste un "modello adulto di civiltà" che gradatamente illumina l'umanità derelitta e bambina, ma una trama avvincente e sconosciuta di civiltà interconnesse. La specie umana è un'emergenza recente, fragile e sublime: un glorioso accidente della storia. Come tutte le società e le culture che ha prodotto, essa è incompiuta e interdipendente: non può fare a meno di consegnarsi a un futuro incerto e non può fare a meno di dipendere da una rete di relazioni culturali e biologiche che va oltre l'orizzonte delle sue conoscenze.

La specie esploratrice ha raggiunto gli anfratti più nascosti del suo spazio ecologico profondo. Ora è tempo di metter mano al tempo.” (pp. 25-28)

L’ambizione è legittima perché la storicità dell’uomo è totale. Essa non fa riferimento solo agli eventi tradizionalmente ritenuti storici perché documentati, i quali rappresentano appena un ventesimo (all’incirca) delle vicissitudini della specie umana a partire dalla sua comparsa. Questa stessa comparsa, con i misteri che essa ancora implica, è un evento storico, anche se affonda le sue radici nel lontano paleolitico. Storica è la diffusione della specie umana sul pianeta, dovuta ad una capacità adattiva senza uguali, e storiche sono tutte le culture in virtù delle quali gli esseri umani hanno cercato di organizzare l’interazione con ambienti diversi e di vincere la sfida della sopravvivenza.

Il problema è che, al di là della storia propriamente detta, gli eventi si perdono nella nebbia dei tempi, e, anche adottando le tecniche più raffinate di paleoantropologia, genetica e biochimica molecolare, possono essere ricostruiti solo in maniera approssimata e incompleta. Ciò significa che i dati di cui si dispone vanno interpretati.

E’ quanto ha fatto arditamente Darwin, che, nell’elaborare la sua teoria, ha potuto praticamente contare solo sulla sua straordinaria capacità di osservazione e sulla sua intuizione, mettendo a fuoco un’interpretazione dell’origine delle specie fondata sulla selezione naturale e sul gradualismo.

Pievani riassume in questi termini l’impresa darwiniana:

“L'impianto centrale della teoria darwiniana scardinava alla base la visione creazionista ed essenzialista della natura e si riassumeva in questi termini: 1) l'evoluzione procede a partire da organismi singolarmente diversi l'uno dall'altro all'interno delle specie (intese non più come "essenze" atemporali inscritte dal Creatore nella natura, ma come popolazioni di individui unici); 2) queste singolarità individuali possono essere in qualche modo trasmesse alla discendenza (Darwin intuisce il meccanismo dell'ereditarietà senza conoscere la genetica, che si svilupperà ai primi del Novecento); 3) l'insufficienza delle risorse impedisce che tutti gli organismi sopravvivano a ogni generazione e scatena la lotta per la sopravvivenza; 4) l'esito di questa lotta è che gli organismi che presentano singolarità favorevoli alla sopravvivenza resisteranno, mentre i portatori di mutazioni svantaggiose rispetto all'ambiente soccomberanno senza lasciare discendenza; 5) i mutanti fortunati prolificano e trasmettono alla progenie le loro caratteristiche, che nel succedersi di numerose generazioni si fissano nella discendenza e si diffondono a tutta la specie. Il risultato di questo meccanismo trasformativo è che la selezione naturale (cioè la sopravvivenza differenziale del più adatto) filtra gradualmente gli organismi più adatti e permette alla specie di trasformarsi in funzione delle modificazioni dell'ambiente oppure di diversificarsi in due o più specie figlie.

La diversificazione graduale fa sì che la ricostruzione della storia naturale di ogni singola specie vivente sulla Terra sia rappresentata da un albero genealogico di discendenza con modificazioni. Alcune specie si estingueranno, quando non saranno più in grado di adeguarsi ai cambiamenti ambientali, ma in generale nell'albero della vita la diversità tenderà a crescere progressivamente, dando origine a forme sempre più complesse, ben adattate e diversificate. Ogni famiglia di specie avrà dunque un antenato comune e tutte le famiglie di esseri viventi, andando a ritroso nel tempo, avranno avuto un solo e antichissimo antenato comune.

La conclusione di Darwin a proposito della discendenza dell'umanità fu una semplice deduzione a partire da questo modello teorico e dalla valutazione delle analogie strutturali fra l'uomo e gli altri mammiferi, poiché non era in possesso di alcuna prova fossile diretta (il primo ritrovamento di un antenato umano era stato fatto nel 1856 vicino a Düsseldorf, ma non era stato comunicato in lingua inglese): i parenti più prossimi della specie umana, cioè le grandi scimmie antropomorfe africane come scimpanzé e gorilla, dovevano aver avuto un antenato in comune nella grande famiglia dei primati (cioè i mammiferi con un cervello relativamente grande rispetto alle dimensioni del corpo, il muso schiacciato, le orbite degli occhi frontali e le dita degli arti molto mobili, piatte e senza artigli). E bene notare che la condivisione di un antenato non significa per Darwin che siamo "figli" delle attuali scimmie antropomorfe, ma che entrambi discendiamo da una forma ancestrale di primate. Siamo cugini degli scimpanzé contemporanei.

Benché Darwin non avesse mai utilizzato il termine "anello mancante", l'idea di una discendenza dalle scimmie antropomorfe alimentò fin da subito la ricerca dei gradi intermedi che potessero collegare le scimmie all'uomo. Se era vero, come aveva scritto Darwin, che l'evoluzione procede per piccoli passi impercettibili, nella documentazione paleontologica si sarebbe dovuta rinvenire una sequenza completa di forme intermedie che colmasse il divario fra gli scimpanzé e l'uomo.” (pp. 32-33)

Il problema degli anelli mancanti ha trovato rapidamente eco nell’ambito della biologia evoluzionistica:

“Il primo a esplicitare questo ragionamento fu, nel 1868, il biologo darwiniano tedesco Ernst Haeckel, il quale ipotizzò che fra l'uomo e la scimmia esistesse un anello mancante denominato "Pithecanthropus alalus", letteralmente "uomo scimmia senza linguaggio". Haeckel tracciò molti alberi di discendenza delle specie animali e vegetali, raffigurati ancora oggi in molte pubblicazioni evoluzionistiche e da lui definiti "alberi filogenetici". Nell'albero dei primati indicò una di narrazioni sulla comparsa dell'uomo sulla Terra e sulla nascita dell'umanità. Ciò che ha contraddistinto maggiormente la paleoantropologia è stata la sua fedeltà a una modalità di narrazione univoca, quella della favola dell'eroe. Le ricostruzioni della storia naturale che hanno preceduto la comparsa della specie Homo sapiens sono state guidate da una permeante immagine progressionista, cioè da una metafora di progresso attraverso la quale si è cercato di interpretare il cammino evolutivo della specie umana come una sequenza lineare e cumulativa di stadi che mettessero in relazione, da antecedente a conseguente diretto, i primi antenati scimmieschi e l'uomo.” (p. 33-34)

Fin dalle sue origini la paleoantropologia sconta il peccato originario di aderire all’originaria concezione gradualista darwiniana:

“Da allora, il fine ultimo della ricerca paleoantropologIca sarebbe stato quello di confermare e di rafforzare l'idea di una progressione lenta e inarrestabile verso il raggiungimento di un sommo vertice evolutivo: la comparsa dell'intelligenza.

Del resto, ogniqualvolta si annuncia la scoperta di un nuovo "anello mancante" nell'evoluzione umana (quante volte lo abbiamo letto sui giornali o sentito in televisione...) non si fa altro che rinforzare implicitamente questa visione lineare dell'evoluzione umana, questa modalità profonda di concepire la nostra storia naturale come una grande catena ininterrotta di forme intermedie che portano dagli esseri più infimi alla perfezione umana.

Dietro questo modo di interpretare e di presentare le scoperte paleoantropologiche si nasconde un collaudato e rassicurante stile di pensiero, un paradigma cognitivo dominante e spesso implicito, una sorta di "epistemologia dell'anello mancante". Se la storia naturale di Homo sapiens consiste davvero in una lunga marcia di emancipazione progressiva dalla brutalità della condizione animale originaria, sarà facile dedurre che all'interno del processo di "ominizzazione" (termine che già in sé risente di una certa influenza dell'idea di progressione verso un esito ultimo) vi sia stata una ragione stringente, una necessità evolutiva, un ineluttabile destino. Deve esserci qualcosa di unico nel modo in cui siamo diventati uomini e le cose sono andate in questo modo perché una forza evolutiva invisibile e onnipresente, la selezione naturale degli esemplari più adatti, ci ha spinti inevitabilmente in questa direzione.” (p. 39)

Quella che Pievani definisce l’epistemologia dell'anello mancante è stata centrale nella definizione del neodarwinismo, che ha cercato di integrare darwinismo e genetica, giungendo ad un paradigma rimasto dominante sino a due decenni fa. L’epistemologia dell’anello mancante “presuppone: che il processo evolutivo sia stato lento e graduale in ogni sua fase; che il motore dell'evoluzione sia stata la selezione naturale operante sul corredo genetico e sull'intera estensione della popolazione di ciascuna specie; che vi sia stata, in ogni epoca, una sola specie ominide in graduale trasformazione; che la specie successiva sia in qualche modo più adattata e più intelligente della precedente; che la tendenza evolutiva sia stata fin dall'inizio indirizzata l raggiungimento dell'intelligenza simbolica, razionale e autocosciente; ma soprattutto, che il processo di "ominizzazione" sia oggi definitivamente compiuto nella forma Homo sapiens.

Benché l'effettivo meccanismo di "origine delle specie" non sia mai spiegato dettagliatamente nell'opera darwiniana omonima, il processo di selezione naturale dei più adatti comporta una trasformazione costante dell'intera popolazione di una specie, che lentamente sfuma nella specie successiva senza soluzione di continuità oppure dà origine lentamente a due o più specie discendenti. L'evoluzione è data dunque dall'accumulo regolare di piccoli cambiamenti ereditari nel corso di periodi di tempo così lunghi da permettere le ampie divergenze morfologiche fra specie che si osservano in natura.

Alcuni decenni più tardi, intorno agli anni Trenta e Quaranta del ventesimo secolo, la teoria darwiniana fu fatta propria dagli scienziati che negli anni precedenti avevano gettato le basi della scienza dell'ereditarietà, scoprendo i geni, i cromosomi e i meccanismi elementari di trasmissione dell'informazione genetica. L'idea forte di questa "Sintesi Moderna" fra evoluzionismo e genetica era che tutti i cambiamenti osservabili a livello macroscopico (cioè le grandi differenze fra specie, generi e famiglie diverse di organismi) fossero riconducibili a piccole innovazioni accumulatesi a livello microscopico, cioè nel corredo genetico, sotto la pressione della selezione naturale (Huxley 1942). Lo slogan della Sintesi fu che "la macroevoluzione è totalmente riconducibile alla microevoluzione".

Qualsiasi fenomeno evolutivo doveva essere il frutto di lente modificazioni del corredo genetico, indotte e fissate dalla selezione naturale. Di conseguenza, ogni proprietà che osserviamo nella morfologia e nel comportamento degli organismi viventi (noi compresi) doveva essere un adattamento ottenuto per selezione naturale attraverso lenti cambiamenti nelle frequenze geniche delle rispettive linee di discendenza. Negli anni Sessanta George Williams coniò il termine "gradualismo filetico", cioè gradualismo a base genetica, per definire questa visione forte del processo evolutivo (Williams 1966). Essa rappresentò il paradigma dominante della biologia evoluzionistica per buona parte del Novecento, almeno fino agli anni Settanta, e questo benché fosse evidente già ai fondatori della Sintesi Moderna (come Theodosius Dobzhansky, George Gaylord Simpson ed Ernst Mayr) che in natura esistono indizi di profonde discontinuità evolutive.

Negli anni Cinquanta, all'apice del suo successo, la Sintesi Moderna influenzò profondamente anche gli studi paIeoantropologici, a quel tempo alle prese con le prime raccolte consistenti di reperti fossili. Lo studio dell'evoluzione umana, tuttavia, mostrava una caratteristica peculiare rispetto al resto degli studi paleontologici, una caratteristica che segnerà il suo destino nei decenni successivi: essa aveva il compito di ricostruire le origini evolutive di una sola specie, la nostra, e non le diramazioni di un albero evolutivo come per tutti gli altri gruppi di organismi. La nostra evoluzione era in qualche modo speciale, perché priva di ramificazioni fra specie ancora viventi. Se mai c'era stato un "albero dell'evoluzione umana", esso doveva essere stato sfrondato così severamente dalla selezione naturale da lasciare alla fine un solo ramo isolato. Questa interpretazione non fu però accolta e si preferì sommare i concetti di linearità e di gradualità, introdotti dai teorici della Sintesi Moderna, all'immagine di un percorso evolutivo "speciale" culminato nella comparsa di Homo sapiens.

Ne derivò il modello scalare classico, cioè una sequenza di forme preumane che si sostituiscono l'una all'altra gradualmente sotto la spinta della selezione naturale e di adattamenti progressivi: la forma che viene dopo, in virtù di un miglior adattamento, sostituisce la precedente. In tal modo, l'influenza del gradualismo filetico sommata alla necessità di ricostruire la storia di una sola specie portò a una conseguenza paradossale: mentre tutti i gruppi di mammiferi studiati dai paleontologi presentavano un grafico evolutivo ad albero, con serie ordinate di specie che si diversificavano progressivamente, l'evoluzione umana seguiva un andamento del tutto eterodosso, di tipo lineare e scalare.

Il principio centrale di tale impostazione fu che, a differenza di quanto accade nell'evoluzione di ogni altro mammifero, nell'evoluzione umana non si trovano mai due specie ancestrali contemporaneamente: 1e forme si susseguono da una a una. Questo semplificò radicalmente il quadro complicato di denominazioni e di presunte specie ominidi che si era creato nei primi decenni del Novecento, quando ogni paleoantropologo tendeva ad affibbiare piuttosto arbitrariamente un'etichetta separata a ciascun fossile ominide. Nel 1944 e poi nel 1962 in Mankind Evolving, Dobzhansky diede autorevolmente questa impostazione metodologica affermando il principio secondo cui non sarebbe stato mai possibile rinvenire due forme ominidi allo stesso livello temporale (Dobzhansky 1962). Mayr confermò questa posizione, ipotizzando che dalle prime scimmie bipedi a Homo sapiens vi fossero stati soltanto due gradini intermedi della scala: Homo transvaalensis (la prima classificazione di Australopithecus africanus poi abbandonata) e Homo erectus (Mayr 1963). Dalla confusione iniziale si passò così in pochi anni a un'immagine ipersemplificata dell'evoluzione umana, con un lento gradiente scalare di cambiamento dall'australopiteco a Homo sapiens (Brace, Montagu 1977; Brace 1991).

Fu all'interno di questo contesto teorico che nacque e si diffuse la mitologia "eroica" dell'evoluzione umana che abbiamo visto all'inizio del capitolo: una sola specie per volta, che si perfeziona progressivamente e gradualmente di stadio in stadio (Gould 1989, 1998). La sceneggiatura, accademica e popolare, riguardo alle origini dell'umanità divenne quella di una progressiva conquista della perfezione, con la frontiera del progresso umano che avanza verso l'intelligenza e la coscienza affrancandosi dalla condizione animale: una marcia a tappe serrate, dettata dall'espansione continua delle capacità cerebrali, letta sempre attraverso lo sguardo del vincitore, cioè della sola specie sopravvissuta al filtro della selezione naturale.” (pp. 39-43)

In realtà, trattandosi di un orientamento di ricerca praticato da studiosi assolutamente rispettabili, il neodarwinismo non è stato monolitico. Esso ha riconosciuto al suo interno posizioni differenziate e inquietudini, che Pievani sintetizza nei seguenti termini:

“Le ricerche della Sintesi Moderna, il grande paradigma evoluzionistico del Novecento che abbiamo brevemente introdotto nel precedente capitolo, si erano fin dalle origini divise in due correnti di pensiero abbastanza eterogenee. Non era, in realtà, un paradigma scientifico monolitico come provvisoriamente lo abbiamo descritto. Certo, il gradualismo filetico era un dogma
fondamentale per ogni buon evoluzionista, un'immagine influente che ben pochi si permettevano di confutare. Tuttavia, fin dagli inizi, i fondatori della Sintesi Moderna
mostrarono alcuni dubbi sulla possibilità di far derivare in modo deterministico tutti gli aspetti macroevolutivi da quelli microevolutivi.

Se per genetisti puri come Ronald Fischer non vi erano dubbi sulla legittimità dell'assunto metodologico riduzionista (la loro posizione viene oggi definita "riduzionismo genetico",
secondo cui ogni proprietà esterna degli organismi può essere ridotta e spiegata a partire dalla sua determinazione genetica), a naturalisti come Ernst Mayr questa conclusione sembrava affrettata e, soprattutto, inefficace nello spiegare i meccanismi effettivi di separazione fra le specie. Il problema lasciato inevaso da Darwin, appunto "l'origine delle specie", non trovava una risposta adeguata nel riduzionismo genetico.

Ciò che maggiormente lasciava perplessi i naturalisti era la difficoltà di spiegare, attraverso la griglia interpretativa del gradualismo filetico, i frequenti episodi di discontinuità presenti
nella documentazione fossile. Già nel 1942, quindi ancora agli albori della Sintesi Moderna, Mayr ipotizzò che all'origine della separazione fra le specie vi fossero cause non soltanto
genetiche, ma anche ambientali e geografiche: in particolare, focalizzò l'attenzione sui processi di isolamento geografico delle popolazioni, a suo avviso determinanti nel produrre i
cambiamenti necessari alla nascita di nuove specie. Se per i genetisti l'evoluzione corrispondeva alla trasmissione del cambiamento "in verticale", dal livello microevolutivo a
quello macroevolutivo in ogni linea di discendenza, per i naturalisti l'evoluzione era influenzata anche da spostamenti "in orizzontale", cioè eventi di natura geografica che
portavano alla separazione fra specie.

Due anni più tardi, nell'opera Tempo and Mode in Evolution, il paleontologo George Gaylord Simpson notò che in molti alberi evolutivi, in particolare in quello dei mammiferi, non era sempre possibile riscontrare una sequenza di forme intermedie che giustificasse il graduale passaggio dalle specie ancestrali alle specie attuali. II lasso di tempo intercorso fra l'inizio della grande diffusione dei mammiferi (avvenuta dopo l'estinzione dei dinosauri, intorno a 65 milioni di anni fa) e l'apice di massima diversificazione era troppo breve per permettere un'evoluzione lenta e graduale. In una prospettiva gradualista, per creare un pipistrello, una balena, un leone e un primate, a partire da una famiglia di piccoli roditori notturni come modello base, ci vorrebbe molto più tempo!

La risposta tradizionale a questa anomalia era che la documentazione paleontologica fosse in qualche modo insufficiente o lacunosa: gli anelli intermedi non si trovavano perché i reperti
fossili erano incompleti e frammentari. Benché lo stesso Darwin avesse avallato questa interpretazione difensiva, Simpson preferì seguire un'altra strada: se non si trovavano gli anelli intermedi fra il pipistrello e la balena era perché il ritmo di diversificazione non era stato uniforme nel corso dell'evoluzione. In alcuni frangenti, l'evoluzione si mette a correre
e produce rapidamente una grande quantità di forme anche assai diverse (un fenomeno oggi definito "radiazione adattativa"). Simpson, in altri termini, fu il primo a sospettare che le
discontinuità presenti nella documentazione fossile corrispondessero a lacune reali e non fossero imputabili all'insufficienza dei reperti.

Nell'evoluzione si verificano, dunque, alcuni "salti" improvvisi. Ma qual è la causa di questi salti?” (pp. 59-62)

Una possibile risposta è maturata più di venticinque anni fa con la teoria degli equilibri punteggiati:

“La selezione naturale rafforza novità evolutive emerse attraverso dinamiche non necessariamente selettive, che coinvolgono non soltanto i geni e gli individui, ma anche le popolazioni e le specie intese come totalità integrate.

Adottando la terminologia proposta dai paleontologi Stephen J. Gould ed Elisabeth Vrba in un saggio del 1982 dal titolo Exaptation, a Missing Term in the Science of Form, potremmo allora affermare che qualsiasi novità evolutiva emersa nel contesto di cause e di livelli sovrapposti dell'evoluzione, e resasi in qualche modo utile, sia un attamento (una specie di "attitudine"). Fra tutti gli "attamenti" o "attitudini" possibili vi saranno alcuni caratteri che avevano la stessa funzione attuale fin dalla loro origine e che sono stati quindi fissati all'interno della specie nello stesso contesto in cui sono adoperati oggi: essi sono stati plasmati dalla selezione naturale per la funzione attuale. Si parlerà in tal caso di normali adattamenti.

Quando invece un carattere è emerso in una specie per nessuno scopo utile iniziale o per una certa utilità adattativa e successivamente, al mutare del contesto ecologico, viene riutilizzato per una funzione completamente diversa si parlerà di exattamento, cioè di un carattere adatto a una nuova funzione in virtù della sua forma preesistente. Gli exattamenti (o exaptations) sono dunque quei caratteri nati con una certa funzione e opportunisticamente cooptati per una funzione diversa nel corso dell'evoluzione (attamenti "ex forma", cioè a partire da una struttura precedente) (Gould, Vrba 1982; Vrba, Gould 1986).

Con questa semplice idea, erede del preadattamento darwiniano e in verità già introdotta lateralmente in alcune trattazioni della Sintesi Moderna, si opera una scissione fra la forma e la funzione di un organo: la funzione non precede sempre la forma, determinandola. Le funzioni adattative possono variare a parità di forma e di struttura. Così, l'evoluzione non appare più come il regno della necessità e di un'ottimalità adattativa di tipo finalistico, ma come il risultato polimorfo e imprevedibile di percorsi contingenti, di adattamenti secondari e subottimali, di bricolage imprevedibili. L'impiego adattativp attuale (più o meno soddisfacente) di una struttura non implica che questa sia stata costruita gradualmente e selettivamente per quell'impiego: l'utilità attuale e l'origine storica di un organo devono essere distinti. L'airone nero africano utilizza le ali (a loro volta un exaptation!) per creare in acqua un cono d'ombra nel quale attira i pesci: non un adattamento diretto dunque, ma un interessante effetto collaterale (Eldredge 1995).

La nozione di exaptation, cogliendo il nesso fra potenzialità morfologica e produzione della novità funzionale attraverso una sorta di "assemblaggio" opportunista, per cui l'imperfezione diventa il segno dell'azione dell'evoluzione, introduce nella storia naturale un importante principio di ridondanza come fondamento della creatività. L'evoluzione è un processo straripante di ridondanza e l'adattamento più che un'ottimizzazione diretta è spesso un effetto collaterale. La flessibilità funzionale è direttamente proporzionale alla capacità degli organismi di reagire creativamente
ai cambiamenti di regole ambientali e, dato che il cambiamento di regole è la norma in un processo contingente e discontinuo di trasformazione, la flessibilità è direttamente proporzionale alla possibilità di sopravvivenza: gli organismi complessi sopravvivono grazie all'imperfezione, alla molteplicità d'uso e alla ridondanza (Gould 1993).

Letta attraverso i processi di exaptation, la storia naturale appare come una coevoluzione fra organismi e ambienti, come una tessitura di interazioni fra sistemi flessibili, un bricolage opportunista e creativo per riorganizzare il materiale disponibile. Il fatto per noi interessante è che alcuni episodi cruciali di exaptation hanno condizionato profondamente anche la storia dell'evoluzione umana. Siamo qui di fronte non soltanto a un allargamento teorico del concetto di adattamento nell'evoluzione umana, ma anche a una modalità alternativa di raccontare la storia naturale che ha portato alla nostra specie.” (pp. 70-74)

La teoria degli equilibri punteggiati sormonta la visione “eroica” dell’uomo, lo restituisce del tutto alla natura, fa della sua comparsa un accidente della storia, e va al di là dell’adattemntismo, il quale presume che tutte le funzioni psichiche umane in tanto esistono in quanto sono state originariamente selezionate:

“Oggi molti dati convergono nel delineare un'immagine "puntuazionale" dell'evoluzione ominide del tutto simile a quella delle altre famiglie di mammiferi. Le specie sono emerse a causa della trasformazione di piccole popolazioni rimaste isolate in una nicchia ambientale anomala ai margini dell'areale di distribuzione delle specie madri. Questi eventi di ramificazione "punteggiano" le linee di discendenza che altrimenti tendono a rimanere stabilmente adattate ai loro habitat originari. Ne risulta un paesaggio di molteplici forme viventi organizzate "a cespuglio", senza un tronco principale, con specie più longeve e specie passeggere, con alcune linee stabili e poco prolifiche che convivono con linee di discendenza molto ramificate, con periodi di rapida diversificazione in tutte le linee e periodi di estinzione generale. Il fatto che numerose specie convivano durante la stessa epoca e anche sullo stesso territorio diventa una conseguenza normale del modello puntuazionale.

La funzione attuale può anche non essere la causa adattativa che ha prodotto una certa struttura o un certo comportamento. E’ una concezione decisamente non epica e non teleologica dell'evoluzione, poiché esclude che la selezione naturale debba ogni volta plasmare o addirittura "progettare" una struttura in funzione del suo utilizzo attuale. La forma organica, più che l'esito ottimale di una lunga storia di adattamento progressivo, diventa la promessa di nuove storie e di nuove trasformazioni. Il sistema evolutivo acquisisce più gradi di libertà e l'evoluzione assume un carattere meno esecutivo e più creativo, più artigianale, più ingegnoso.” (pp. 97-98)

2.

Molte pagine del libro sono dedicate a ricostruire il significato delle scoperte paleoantropologiche, le quali ormai, conteggiando almeno quattordici specie di ominidi suddivise in quattro generi, alcune delle quali sono convissute tra di loro, attestano che l’evoluzione dell’uomo non è avvenuta in virtù di una catena lineare, bensì di un “cespuglio” che ha comportato un’enorme diversificazione.

Non ritengo importante seguire le lunghe analisi paleoantropologiche riferite da Pievani. il risultato complessivo di esse è che l’Homo sapiens, alla fine, è rimasto solo, andando incontro, dopo decine di migliaia di anni dalla sua comparsa, al grande balzo in avanti di cinquantamila anni fa, che ha avviato lo sviluppo e il progresso culturale tuttora in atto. Il grande balzo in avanti rappresenta ancora oggi il mistero che le scienze umane e sociali devono risolvere per giungere ad un modello panantropologico che spieghi il passato e il presente dell’uomo, vale a dire il passaggio dalla Natura alla Cultura.

Anche a riguardo, però, non mancano diverse interpretazioni. Pievani scrive:

“Ma in cosa è consistita la svolta che ha portato alla nascita del genere Homo? Senz'altro la fabbricazione di strumenti non è iniziata con Homo habilis: è iniziata semmai la produzione di strumenti di pietra, reperibili nei siti archeologici. E assai probabile che gli australopitechi usassero un vasto armamentario di strumenti in legno, simile all'officina degli scimpanzé prima abbozzata, che non hanno purtroppo lasciato traccia di sé nei reperti. Non potremo mai sapere come fosse organizzato il loro "universo artigianale".

La svolta “cognitiva" dell'evoluzione umana si collocherebbe dunque in questa fase più recente e non all'inizio della diversificazione della famiglia ominide. Per più di quattro milioni di anni, cioè per quasi due terzi della loro storia naturale, le forme pre-umane che si sono diversificate all'interno del cespuglio ominide non hanno dato segni di una particolare predisposizione né allo sviluppo dell'encefalo né alle capacità cognitive che ne sarebbero conseguite. Lo studio dei crani di australopitechi ha evidenziato in anni recenti la loro stretta somiglianza con quelli delle scimmie antropomorfe (Falk 1992). La biforcazione cruciale verso la speciale (e dispendiosa) intelligenza umana interviene soltanto in tempi più recenti e probabilmente è connessa a un contesto di eventi ambientali, ecologici e climatici che poco hanno a che vedere con le mirabili perfomances adattive che l’intelligenza regalerà al genere Homo.” (pp. 123-124)

Gli eventi in questione sono molteplici. per ora, l’unico dato certo riguarda la parentela genetica con gli scimpanzé, che però rende misteriosa una diversità comportamentale eclatante, e il fatto che la diversificazione biologica e funzionale è avvenuta sulla base della neotenia:

“Alla luce di questa parentela strettissima con gli scimpanzé, come può allora esistere una diversità morfologica, intellettuale e comportamentale così profonda fra il genere Homo e gli altri primati superiori? Richard Leakey ha proposto un divertente elenco delle ipotesi che si sono susseguite al riguardo negli ultimi decenni e mostra come esse rispecchino fedelmente lo spirito dell'epoca in cui sono state formulate (Leakey 1994). Nelle diverse stagioni della ricerca paleoantropologica si sono succedute: l'ipotesi della costruzione di armi (etica vittoriana); l'ipotesi dell'espansione cerebrale (ottimismo eduardiano); l'ipotesi dello sviluppo tecnologico (anni Quaranta); l'ipotesi della "scimmia assassina" (secondo conflitto mondiale); l'ipotesi delle società fondate sulla caccia (ecologismo degli anni Sessanta); l'ipotesi delle società fondate sulla raccolta femminile dei frutti della terra (femminismo degli anni Settanta).

La risposta a questo interrogativo di straordinaria importanza potrebbe risiedere, secondo alcuni paleoantropologi, nella stretta parentela genetica. Uomo e scimpanzé non sono classificabili come "specie gemelle" né come "specie congeneri", eppure la percentuale di diversificazione genetica fra le due è inferiore ai valori medi riscontrati fra specie gemelle e fra specie congeneri. Tuttavia, una piccola variazione nel corredo genetico è in grado di innescare una differenziazione morfologica macroscopica: questo avviene soprattutto quando la mutazione riguarda i geni regolatori, e in particolare i geni regolatori dello sviluppo. Modificando le linee e i ritmi dello sviluppo si possono ottenere divergenze incolmabili a partire da sistemi genetici assai simili.

L'ipotesi è che questa modificazione dei meccanismi di sviluppo sia fondamentalmente costituita dal fenomeno conosciuto come neotenia: letteralmente "mantenimento dei caratteri giovanili". La diversificazione del genere Homo dal resto dei primati superiori potrebbe essere stata determinata da una mutazione nel sistema regolatore tale da prolungare lungo tutto l'arco della vita le caratteristiche giovanili che una scimmia antropomorfa normalmente mantiene soltanto nelle prime fasi della vita (Gould 1980, Montagu 1981). In altri termini, noi saremmo figli di una piccola mutazione genetica casuale intervenuta a livello dei geni regolatori dello sviluppo durante la fase di forte instabilità climatica che diede origine all'era glaciale e accelerata nel patrimonio genetico delle prime specie appartenenti al genere Homo grazie alle sue forti ricadute adattative (Stanley 1996). Il potenziale evolutivo necessario per lo sviluppo del nostro cervello ipertrofico e per tutti gli usi che ne abbiamo fatto, siano essi la Gioconda di Leonardo o la distruzione delle Torri Gemelle, sarebbero l'esito estremamente imprevedibile di una puntiforme mutazione genetica locale che ha innescato un processo senza precedenti in natura...

L'ipotesi della neotenia ha implicazioni profonde sulla concezione del rapporto fra specie umana e specie animali. Essa rappresenta innanzitutto un ribaltamento della cosiddetta "teoria della ricapitolazione", idea dominante nella biologia di fine Ottocento, secondo cui gli animali ripercorrerebbero gli stadi adulti dei loro predecessori nel corso dello sviluppo embrionale ("l'ontogenesi ricapitola la filogenesi"). L'ipotesi di un ritardo dello sviluppo come fattore dell'evoluzione umana era decisamente eccentrica rispetto a questo modello progressionista (Gould 1980). È bene ricordare che la teoria della ricapitolazione fu utilizzata per giustificare una molteplicità di teorie a sfondo razzista: il bambino bianco ricapitolerebbe i caratteri degli adulti delle "razze inferiori", l'adulto nero ricapitolerebbe i caratteri del suo antecendente scimmiesco, e così via (Gould 1981, red. 1996).

La spiegazione neotenica sembra rafforzata non solo dai molti caratteri in comune fra cuccioli di scimmia e uomo adulto, ma anche dall'aumento proporzionale dello spazio dedicato alla crescita quando si passa dagli altri mammiferi ai primati e dai primati all'uomo. Noi facciamo tesoro del più lungo periodo infantile rinvenibile in natura, sommato a un già lungo periodo di gravidanza, che va però diminuendo man mano che il volume cerebrale aumenta. I neonati di Homo sapiens sono praticamente embrioni, se misurati con il ritmo di sviluppo degli altri primati, come già nel 1961 aveva notato Ashley Montagu. Siamo animali "a lunga crescita" che necessitano di cure materne protratte nel tempo.

Dagli anni Sessanta sono in corso interessanti ricerche sulle cosiddette "strategie vitali": vale a dire quei particolari adattamenti che non si attuano mediante modificazioni della forma e delle dimensioni, bensì alterando e regolando i periodi e i ritmi di sviluppo (Gould 1977). Certo, non è facile capire quale sia il vantaggio adattativo immediato di un'infanzia prolungata in un primate, se non quello di una maggiore possibilità di apprendimento e di consolidamento dei rapporti familiari. In ogni caso, questo vantaggio deve essere stato molto forte per poter bilanciare la presenza di neonati così fragili, dipendenti e indifesi. E’ probabile che i primi rappresentanti del genere Homo abbiano trovato un onorevole compromesso subottimale fra i vantaggi offerti da un cervello più grande e i sacrifici da pagare per allevare più a lungo i propri cuccioli. Senza contare che questo organo espanso deve aver assorbito anche un notevole costo energetico, obbligando gli ominidi a una dieta più sostanziosa.

Konrad Lorenz, convinto assertore della neotenia umana, notò che i caratteri morfologici infantili innescano "meccanismi innati" di protezione e di accudimento nei soggetti adulti, con un'indiscutibile ricaduta adattativa. E’ probabile però che la ritenzione di caratteri giovanili abbia fornito all'uomo più che altro un prezioso serbatoio di "adattamenti possibili", tanto meglio utilizzabili quanto più lungo fosse stato il periodo di "apprendistato" biologico. La neotenia fornirebbe un pool potenziale di forme utili, un deposito primario di mutamenti possibili, sarebbe in un certo senso una "sorgente di exaptations"...

Le straordinarie potenzialità espresse successivamente da questo cervello "abnorme" andrebbero considerate tutte ricadute exattative a partire da quell'effetto collaterale. La selezione naturale avrebbe agito per fissare la mutazione neotenica in virtù dei suoi benefici effetti adattativi, ma non per produrre direttamente la crescita del cervello. La neotenia sarebbe cioè un adattamento, la crescita ipertrofica del cervello sarebbe un exaptation e le performances prodotte da questo cervello espanso sarebbero "exaptations di exaptation", una sorta di exaptation di secondo grado.

L'espansione del cervello non sarebbe dunque una conseguenza della pressione selettiva sugli individui di una specie sola, che gradualmente li trasforma in esseri sempre più intelligenti e quindi adattati. Diversamente, la selezione naturale agirebbe fra specie diverse, dotate di differenti capacità cerebrali, facendo prevalere di volta in volta la specie con le capacità leggermente migliori: una sopravvivenza differenziale fra specie, anziché fra individui (species sorting). In tal modo ciascuna specie può rimanere perfettamente stabile al proprio interno, mentre le relazioni ecologiche fra diverse specie all'interno di una linea di discendenza (per esempio, il genere Homo) possono dare vita a una tendenza graduale.” (pp. 126-132)

Nonostante le persistenti incertezze, la teoria degli equilibri punteggiati sembra integrare validamente la teoria darwiniana, anche se in una cornice molto più articolata rispetto al gradualimo darwiniano e neodarwiniano:

“Le caratteristiche principali dell'evoluzione umana, in particolare la presenza di ritmi spaiati e la disgiunzione fra valore adattativo e fissazione di un comportamento, potrebbero essere emerse da [una] geometria variabile di geni, di individui, di popolazioni locali, di specie e di habitat frammentati. Sono figlie delle interazioni, all'insù e all'ingiù, fra i livelli della doppia gerarchia economica e genealogica, e più in generale fra il mondo del vivente e il mondo fisico. Il genere Homo è dunque il diretto discendente dell'esplosione di equilibri punteggiati del Pleistocene, a sua volta un effetto collaterale dei complessi mutamenti ambientali provocati dall'era glaciale in Africa. Dentro questa esplosione di equilibri punteggiati le novità non emergono necessariamente in coincidenza con le speciazioni e il fatto che una specie locale adotti un comportamento di successo non implica che esso si diffonda automaticamente a tutto il cespuglio.

La morale di questa storia popolazionale e "puntuazionale" è difficile da accettare in un'ottica di progresso. Le linee di discendenza dei primati sarebbero rimaste stabili se non fosse intervenuto, come avviene di solito, un fattore esterno perturbatore che ha smosso l'acqua nel secchio dell'evoluzione. Non vi è stato dunque nulla di speciale nei meccanismi che hanno dato origine alla diversità interna del genere Homo, poiché si è trattato di una normale risonanza ecologica.

L'allargamento della teoria evoluzionistica a una visione gerarchica delle unità e dei livelli di evoluzione, innescata dalla teoria degli equilibri punteggiati, ha fornito a sua volta un contesto esteso per comprendere la stasi e il cambiamento discontinuo: le due teorie, equilibri punteggiati e teoria gerarchica, saldandosi in una concezione pluralista e puntuazionale dell'evoluzione si sono infatti rafforzate a vicenda e oggi rappresentano un'acquisizione fondamentale del pensiero biologico. Nella geometria variabile dell'evoluzione possono dunque succedere molte più cose di quante previste nello scenario di prevedibilità e di linearità del riduzioflismo genetico: la stabilità, la speciazione rapida, la gradualità, l'evoluzione a mosaico, la scoperta ripetuta di un adattamento, l'exaptation... sono tutti fenomeni resi plausibili e pertinenti da una concezione pluralista del processo evolutivo.

La paleoantropologia è diventata, insomma, una scienza ibrida: per comprendere il suo oggetto di studio deve ricorrere all'ecologia, alla climatologia, alla geologia, alla genetica. Steven Stanley ha proposto di definire questo nuovo statuto della disciplina come "paleontologia olistica", una paleontologia che rinunci alle sue gelosie "territoriali" e favorisca le connessioni interdisciplinari (Stanley 1996).

Secondo tale prospettiva epistemologica, l'evoluzione non è casuale né frutto di mere coincidenze: vi sono regolarità e strutture ricorrenti nei meccanismi di trasformazione degli organismi e delle specie, compreso il normale adattamento per selezione naturale. Non si rinuncia a nulla di ciò che prevedeva l'originaria teoria darwiniana, ma il campo delle possibilità si è esteso. La fenomenologia dell'evoluzione biologica è oggi più complessa e richiede nuovi strumenti interpretativi: l'evoluzione predilige alcuni "pattern" ricorrenti (Eldredge 1999), alcune configurazioni ripetute di eventi, ma i suoi sentieri-sono ogni volta imprevedibili e unici.

Alcuni di questi pattern cominciano a intravedersi: gli equilibri punteggiati, la coevoluzione fra le nicchie ambientali che si frammentano e le specie che si ramificano, gli exaptations, gli effetti farfalla di piccole mutazioni genetiche, l'evoluzione spaiata delle direttrici adattative, e così via. Ma il dato più sorprendente che emerge dalle ricerche in corso in campo paleoantropologico è che questi pattern evolutivi riguardano non soltanto il processo di o minizzazione, ma anche il processo di planetarizzazione delle specie ominidi.” (pp. 151-153)

3.

Anche sul processo di planetarizzazione sono maturati però due modelli epistemologici:

“Luogo e data di nascita della specie Homo sapiens sono oggetto di accese discussioni da molti anni. Si fronteggiano, in particolare, due grandi apparati teorici, due scuole di pensiero, due epistemologie evolutive opposte. La scelta dell'una o dell'altra reca con sé profonde conseguenze sui modi di concepire la diversità e l'uguaglianza fra le popolazioni umane contemporanee, e ciò inasprisce ulteriormente i toni della polemica.

I più radicali fautori della diversità delle popolazioni umane, come l'antropologo Carleton Coon, si spinsero a datare l'origine di queste fino all'Homo erectus: nel 1962 egli sostenne che le morfologie razziali erano antecedenti all'origine della nostra specie. Prima di lui, nel 1946, il paleoantropologo tedesco Franz Weidenreich aveva sviluppato un modello gradualista e progressionista che prevedeva il passaggio simultaneo delle popolazioni ominidi attraverso tre grandi fasi (la fase erectus, la fase neanderthal e la fase sapiens) divise fin dall'inizio nei diversi continenti. Secondo questo modello "a candelabro", in Europa, in Africa, in Asia e in Australia l'umanità avrebbe attraversa­to, separatamente e in parallelo, le stesse fasi lineari di progresso.

L' "ipotesi dell'evoluzione multiregionale", sostenuta dalla prima metà degli anni Ottanta fra gli altri da Milford Wolpoff, da Christopher Wills, da Fred Smith e da Alan Thorne, riprese questa idea originaria. Essa individua quattro rami paralleli dell'origine dell'uomo moderno. La trasformazione in Homo sapiens, per via di un "impulso evolutivo" comune, sarebbe avvenuta in tutta l'area di distribuzione di Homo erectus con evoluzioni parallele fino a oggi. In questo senso, vi sarebbero linee di continuità regionale in ogni continente: i popoli europei sarebbero discendenti diretti dell'uomo di Neanderthal, rinominato "Homo sapiens neanderthalensis"; le popolazioni dell'Asia moderna discenderebbero dall'Uomo di Pechino, cioè da gruppi di Homo erectus trasformatisi poi nel sapiens arcaico trovato a Dali; mentre le popolazioni indonesiane e australiane discenderebbero dall'Uomo di Giava. Questa continuità regionale sarebbe dimostrata anche da presunte analogie morfologiche fra le attuali popolazioni autoctone e i loro antenati fossili, analogie però fortemente criticate da molti paleoantropologi (Foley 1995).

La storia "multiregionale" è dunque questa: Homo er­gaster esce dall'Africa un milione e mezzo di anni fa, colonizza tutto il Vecchio Mondo e in ciascuna regione l'evoluzione attraversa in parallelo le stesse fasi, passando da ergaster a erectus, poi a sapiens arcaici e infine a sapiens sapiens (Thorne, Wolpoff 1992). Gli attuali aborigeni australiani, e così pure europei, asiatici e africani, sarebbero i discendenti diretti delle popolazioni di Homo erectus evolutesi lentamente e progressivamente nelle rispettive regioni.

Sul fronte opposto, molti ricercatori sostengono che Homo sapiens abbia avuto invece un'origine africana indipendente, non così lontana nel tempo come si è ritenuto precedentemente. Secondo gli antropologi William HowelIs, Paul Andrews e Christopher Stringer, fra i primi e più autorevoli esponenti della teoria della "migrazione dall'Africa" o dell-origine africana", la nostra specie sarebbe na­ta circa 200.000 anni fa, non necessariamente per un'evoluzione di tipo culturale e tecnologico, e non si sarebbe dispersa fuori dall'Africa prima di 100.000 anni fa. Il passaggio dalle forme arcaiche a Homo sapiens riguarderebbe quindi soltanto l'Africa.

Ne derivò una storia alternativa, proposta nel 1988: una speciazione puntiforme dà origine a Homo sapiens in Africa (forse a partire da una popolazione di beidelbergensis o comunque di discendenti di ergaster africani), non si sa se in Africa orientale o meridionale; la specie presenta una morfologia particolarmente adatta a climi aridi e a rapidi spostamenti; dopo alcune decine di migliaia di anni ha colonizzato il continente africano e si prepara a uscire dall'Africa; a partire da 100.000 anni fa si espande in tutto il vecchio mondo e il suo arrivo coincide, con diverse modalità e tempi da regione a regione, con la scomparsa delle forme di erectus e di neanderthal che abitavano il Vecchio Mondo da molto tempo prima. Fatta eccezione per l'Africa, non vi sarebbe dunque continuità fra le popolazioni attuali del vecchio continente e le forme antiche derivanti da erectus.

Le resistenze di molti scienziati a questa seconda immagine dell'origine dell'uomo moderno sono dipese in buona parte dal fatto che l'Europa avrebbe così perso il primato geografico tradizionalmente assegnatole: il vecchio continente non era più la culla dell'umanità attuale. Ma i soste nitori dell'ipotesi dell'uscita dall'Africa ("out of Africa") sottolinearono come la discontinuità anatomica e genetica fra le popolazioni umane arcaiche che avevano abitato il Vecchio Mondo centinaia di migliaia di anni fa e quelle moderne potesse essere spiegata soltanto ipotizzando una grande migrazione dall'Africa di Homo sapiens: in altri termini, una seconda diaspora planetaria dell'umanità.

L'opposizione fra le due teorie è frontale, anche perché esse sono nate originariamente, verso la fine degli anni Settanta, come due epistemologie evolutive radicalmente diverse. Si tratta di due visioni alternative del processo evolutivo che affondano le loro radici nella difesa, o nella messa
in discussione, dei postulati fondamentali della Sintesi Moderna. Da una parte troviamo una teoria in sintonia con i principi del gradualismo filetico, dall'altra una teoria di stampo popolazionale e puntuazionale.

Nella, teoria dell'evoluzione multiregionale, esposta compiutamente da Wolpoff, dal paleontologo cinese Wu Xin Zhi e dall'australiano Alan Thorne nel 1990, vi sarebbe una tendenza evolutiva generale di tipo adattativo verso l'uomo moderno in tutto il Vecchio Mondo, e non un "giardino dell'Eden" africano da cui l'uomo moderno sarebbe nato. Nel modello multiregionale non sono contemplate né speciazioni allopatriche né sostituzioni di popolazioni né migrazioni successive a quella originaria di Homo ergaster: le forme arcaiche si sarebbero trasformate gradualmente e simultaneamente in tutto il Vecchio Mondo, per un'evoluzione della tecnologia, della cultura e della vita sociale che avrebbe modificato lentamente l'anatomia complessiva, fino a generare l'uomo moderno. Traspare, dunque, una chiara idea di evoluzione graduale e progressiva. In effetti, se confrontiamo Africa ed Europa (tralasciando l'Asia, dove gli e rectus manifestano un'evoluzione chiaramente indipendente), notiamo che l'espansione del cervello e la diffusione della tecnologia musteriana avvengono simultaneamente, come se vi fosse stata una qualche condivisione genetica.

Nella teoria dell'origine africana vi sarebbe, al contra­rio, una speciazione locale africana recente, probabilmente emersa nel contesto di frammentazione degli habitat e di instabilità climatica dovuti al periodo glaciale che va da 200.000 a 125.000 anni fa, che genera il modello anatomico moderno. Quando gli effetti della glaciazione arretrano e il clima si fa più clemente, la specie migra in tutta l'Africa e poi negli altri continenti portando alla scomparsa (per sostituzione, non necessariamente disgiunta da un certo mescolamento iniziale) le forme arcaiche preesistenti. Si tratta dunque di un'ipotesi di tipo popolazionale in accordo con la teoria degli equilibri punteggiati e definita "migrazionista" (Howells 1976). In tal caso, la diffusione simultanea della tecnologia musteriana, con alcune varianti regionali, sarebbe derivata o da contatti di tipo culturale o da processi migratori, e non da un flusso genico costante e graduale di rimescolamento delle popolazioni.

Ne discendono due concezioni diametralmente opposte della storia delle popolazioni umane sulla Terra. Se fosse vera la prima, le cosiddette "razze" umane sarebbero separate da un'evoluzione di parecchie centinaia di migliaia di anni e dovrebbero quindi essere molto diverse sul piano genetico, al punto da essere quasi specie differenti. Per giustificare l'evidente incongruenza empirica ditale assunto, Wolpoff ipotizzò l'esistenza di una rete di connessioni genetiche antiche fra i diversi gruppi, tale da garantire una sostanziale unità tra tutte le popolazioni umane attuali. Affinché sia possibile nei diversi continenti un'evoluzione convergente che conduca a una specie unitaria come la nostra, occorre infatti ipotizzare un costante flusso genico fra tutte le popolazioni del pianeta, ma non è ben chiaro come questo incrocio globale di popolazioni possa essersi realizzato. Il fenomeno è ritenuto molto improbabile da autorevoli genetisti delle popolazioni come Shahin Rouhani (Rouhani 1989). Nel caso dei reperti asiatici, poi, appare evidente che né la tecnologia né l'anatomia seguono le fasi di sviluppo graduale da e rectus a sapiens. Quando arrivano i primi esemplari di Homo sapiens nei siti cinesi di Dali e di Jinniu si avverte nettamente la presenza di due specie separate e indipendenti, una specie giovane e una specie antica.

Se fosse vera l'ipotesi africana, le popolazioni terrestri sarebbero al contrario le discendenti "giovani" di un unico ceppo e quindi sarebbero poco differenti sul piano genetico, una previsione che coincide con il bassissimo livello di variabilità genetica presente fra le diverse popolazioni umane. In questo senso, Stringer ha seriamente posto in discussione le presunte continuità regionali individuate da Wolpoff riguardo alle linee di discendenza dell'uomo di Neanderthal, dell'uomo di Pechino e dell'uomo di Giava.

Le obiezioni al modello dell'origine africana si sono concentrate sulle possibili spiegazioni adattative dell'intero processo. Se la speciazione africana è avvenuta per un'evoluzione tecnologica e culturale, obiettarono gli antropologi Geoffrey Pope e Geoffrey Clark nel 1990, lo spostamento delle popolazioni moderne avrebbe assunto i caratteri di un'autentica invasione, la cui violenza e rapidità non è attestata dai dati archeologici. Queste critiche hanno spinto i sostenitori dell'origine africana a migliorare la loro teoria, integrandola con modelli di evoluzione demografica. Si è calcolato che l'espansione delle forme moderne (pochi chilometri per ogni generazione) deve essere avvenuta lentamente e forse in modo discontinuo, seguendo le nicchie ecologiche che di volta in volta si aprivano sul cammino.

Alcune prove archeologiche a favore della teoria mo­nogenista, presentata estesamente da Stringer nel 1982, sono emerse nei primi anni Novanta: l'esistenza nell'Africa subsahariana (e non altrove, fatta eccezione per il Medio Oriente dove i resti più antichi sono quasi contemporanei a quelli africani) di uomini anatomicamente moderni molto antichi è stata ulteriormente confermata, mentre i più antichi resti di uomo moderno rinvenuti in aree non africane presentano caratteristiche sub-ottimali rispetto all'ambiente, segno di una probabile migrazione da territori con un clima diverso. I neandertaliani presentano le caratteristiche di un buon adattamento ai climi rigidi dell'Europa glaciale, mentre Homo sapiens mantiene il fisico adatto a climi secchi e caldi.

Le datazioni dei reperti di uomo moderno, sempre più raffinate, confermano la cronologia di una seconda grande diaspora planetaria (avvenuta intorno ai 150-100.000 anni fa) dopo quella di Homo erectus. Se accettiamo invece l'ipotesi della doppia ondata migratoria degli uomini arcaici, dovremo parlare di una "terza ondata" migratoria per i sapiens: nella prima ondata gli ergaster colonizzano l'Asia e si trasformano in erectus; nella seconda ondata i "sapiens afro-euro­pei" colonizzano Africa ed Europa; nella terza ondata i sapiens riconquistano tutto il Vecchio Mondo. Da definire rimane il tasso di incrocio e di flusso genico fra le popolazioni umane moderne e quelle anticamente insediatesi nel Vecchio Mondo: si erano mescolate gradatamente o le forme moderne avevano sostituito completamente le precedenti?

La prova forse più decisiva è giunta però, a partire dal 1987, con l'applicazione delle tecniche di datazione attraverso la termoluminescenza e la risonanza elettronica ai fossili neandertaliani e sapiens rinvenuti, insieme, in alcuni siti israeliani. Precedentemente, in accordo con il modello monofiletico e gradualista di Schwalbe e sulla base di datazioni stratigrafiche, si era calcolato che i resti neandertaliani fossero tutti più antichi di quelli di Homo sapiens e che rappresentassero quindi gli antenati dell'uomo moderno. L'interpretazione venne diametralmente rovesciata con le nuove datazioni: i siti neandertaliani del Medio Oriente erano o più recenti (come quelli di Amud e di Kebara, risalenti a 50-60.000 anni fa) o contemporanei ai siti di uomini moderni di Skhul e di Qafzeh, risalenti a 92-100.000 anni fa. Due anni dopo si datò un sito neandertaliano (a Tabun) intorno ai 120.000 anni, segno di una presenza dell'uomo di Neanderthal che perdurava da più di 60.000 anni e a cui si affiancò, 20.000 anni dopo il suo arrivo, la presenza di uomini moderni.

Il periodo più lungo di convivenza fra le due specie oggi calcolato è di 40.000 anni: l'uomo di Neanderthal di Kebara è di 40.000 anni più giovane del primo uomo moderno rinvenuto a Skhul. Non essendoci segni apparenti di incrocio e di ibridazione fra le due specie, le ipotesi sulla loro coevoluzione e sulla successiva estinzione dei neandertaliani si sono moltiplicate in questi anni. Il paleontologo Fred Smith ha di recente avanzato l'ipotesi che la migrazione dell'uomo moderno abbia potuto innescare entrambi i processi a seconda delle zone: la sostituzione radicale delle popolazioni arcaiche in alcuni casi (come sembra essere accaduto effettivamente per l'uomo di Neanderthal); il parziale rimescolamento genetico delle popolazioni in altri casi, tesi sostenuta fra gli altri da c;unter Brauer. Comunque sia, le datazioni escludono palesemente che l'uomo di Neanderthal sia l'antenato diretto dei sapiens mediorientali, come presupporrebbe l'ipotesi dell'evoluzione multiregionale.

Anche sulle modalità di derivazione della specie Homo sapiens da Homo erectus i due modelli sono dunque divisi: da un lato, i teorici dell'evoluzione multiregionale propendono per un'evoluzione culturale e tecnologica graduale e su scala globale; d'altro lato, i fautori dell'ipotesi africana, come l'antropologo ed ecologo evoluzionista Robert Foley, propendono per un meccanismo di speciazione dovuto a fattori ecologici e climatici che avrebbe condotto a una radicale riorganizzazione anatomica e comportamentale in una piccola popolazione.

Questa seconda ipotesi ha portato alcuni antropologi, fra cui Ian Tattersall, a sostenere l'opportunità di escludere dalla specie Homo sapiens le numerose forme "arcaiche" scoperte sia in Africa sia nel Vecchio Mondo (fra le quali una forma africana chiamata "Homo rhodesiensis" e una asiatica chiamata "Homo soloensis") e a considerarle o come specie umane distinte o come variazioni di heidelbergensis.” (pp. 182-189)

Pochi dubbi, in realtà, si possono avere ormai sulla validità della teoria monogenetica, vale a dire sul carattere “cespuglioso” non solo della comparsa della specie umana, ma anche della sua diffusione a partire (come aveva ipotizzato Darwin) dall’Africa:

“Dunque il carattere "cespuglioso" ("bushy", come lo definiva Stephen J. Gould) dell'evoluzione umana non riguarda soltanto le prime tappe della diversificazione ominide, ma anche le fasi successive alla comparsa della nostra specie. Gli indizi di una transizione graduale da Homo e rectus asiatico a Homo sapiens sono diventati sempre più deboli, mentre la scoperta indonesiana del 1996 ha aperto il campo a un'interpretazione sconvolgente per il paradigma della linearità evoluzionistica: due specie diversissime e indipendenti hanno convissuto per 40.000 anni nell'allora penisola di Giava. La teoria della "continuità regionale" fra erectus e sapiens, perno centrale dell'ipotesi multiregionale di Wolpoff, ha dunque incassato un'ulteriore sconfitta.

Detto in altri termini, né l'ominizzazione né la planetarizzazione sono stati processi condotti da una sola specie ominide per volta. Se un ignaro extraterrestre fosse caduto sulla Terra 30.000 anni fa vi avrebbe trovato tre forme ominidi contemporanee, diffuse in tutto il vecchio mondo: Homo neanderthalensis in Europa, Homo erectus in Asia e Homo sapiens che convive con entrambe nel corso della sua inarrestabile espansione verso i più reconditi anfratti del mondo abitabile. Ciò significa che forse la tendenza a estrapolare dalla situazione attuale (la nostra solitudine sulla Terra) una legge generale dell'evoluzione (il principio della "singola specie" per volta) ha impedito di leggere correttamente i segnali che la paleoantropologia stava lanciando da alcuni anni agli scienziati. Ciò che noi oggi chiamiamo "umanità" è sempre stata rappresentata, in passato, da una molteplicità di specie conviventi. Il mondo attuale, globalizzato per la prima volta da una sola specie, è una peculiarità della storia, un'eccezione, non una conclusione inevitabile:

Una sola specie umana abita adesso questo pianeta, ma gran parte della storia ominide è stata caratterizzata dalla molteplicità, non dall'unità. Lo stato attuale dell'umanità come un'unica specie, massimamente diffusa sull'intero pianeta, è decisamente insolito (Gould 1998, p. 210).” (p. 206)

La estrema diversità culturale (ed economica) che si è realizzata storicamente non incide minimamente sullo statuto della specie umana, che è geneticamente (oltre che funzionelmente) unica:

“La diversità è frutto di storie uniche e contingenti, non espressione di essenze di qualsiasi natura o di evoluzioni necessarie. Questa unicità è frutto di una coevoluzione ogni volta differente fra le popolazioni e gli ambienti naturali, in altri termini di un'evoluzione ambientale delle società umane in cui hanno agito agenti prossimi e cause via via più remote. Questa storia planetaria appartiene alla stessa scienza dell'evoluzione umana che tenta di spiegare l'emergenza e il succedersi delle diverse forme ominidi: non vi è soluzione di continuità. E lo stesso, ininterrotto racconto di barriere ecologiche, di migrazioni e colonizzazioni, di dinamiche popolazionali, di difformità geografiche, di coevoluzione fra piante e animali, di modificazioni del clima e degli ecosistemi.

Il messaggio derivante da questa ricostruzione medita della storia naturale dell'umanità è duplice. La nascita africana recente di Homo sapiens, conseguenza di una speciazione allopatrica in un contesto di instabilità ecologica, svuota di contenuto il concetto di razza umana e mostra come l'uguaglianza biologica e genetica di tutti i popoli della Terra sia un evento contingente e irreversibile. Dentro questa matrice evolutiva comune, l'uomo anatomicamente moderno ha sviluppato un tessuto di diversità etniche e culturali che deriva da una storia intricata di derive, migrazioni, colonizzazioni e ibridazioni anch'esse immerse in un crogiolo ecologico instabile e contingente. Tali diversità si sommano all'infinita gamma delle differenze individuali potenziali presenti all'interno di ogni gruppo umano, anch'esse figlie della contingenza dei processi di sviluppo e carburante indispensabile, come intuì Charles Darwin, per qualsiasi cambiamento evolutivo. Dunque, sia l'uguaglianza umana sia le disuguaglianze e le differenze umane sono fatti contingenti della storia.

La matrice evolutiva dell'uguaglianza umana ci permette di apprezzarne l'unicità e l'incommensurabile valore etico che ne deriva: su di essa potremo sempre fondare la difesa dei diritti fondamentali di libertà e di dignità che spettano a ogni essere umano in quanto appartenente alla stessa specie, diritti oggi dolorosamente negati e calpestati in molte regioni del pianeta. Inoltre, è solo grazie a questa i nusuale e preziosa unità di specie che possiamo cogliere appieno la ricchezza delle sue affascinanti diversità culturali ed etniche (Gould 1998).” (216-217)

Risolti sul piano teorico gran parte dei problemi che pone la teoria evoluzionistica, rimane però il problema principale: spiegare il grande balzo in avanti intervenuto cinquantamila anni fa, o, per dirla, con il titolo del capitolo nono, l’irresistibile successo di una specie “exattativa”. E’ sicuramente questo il capitolo più denso e interessante del saggio. Esso mira a spiegare in virtù di cosa l’uomo, dopo circa centomila anni, è giunto ad utilizzare appieno le potenzialità funzionali intrinseche al suo singolare cervello.

5.

Il grande balzo in avanti è un dato ormai inconfutabile. Esso dà una nuova prospettiva alla storia della specie umana:

“I paleoantropologi hanno battezzato questo momento cruciale come "il grande balzo in avanti" dell'evoluzione umana, The Great Leep Forward. Oltre alla convergenza di prove fossili, archeologiche e genetiche a favore del modello monogenista, la fenomenologia dei reperti di Homo sapiens euroasiatici indica intorno al periodo che va all'incirca dai 45.000 ai 34.000 anni fa quella che molti archeologi, come Randall White e Richard Klein, considerano un'autentica "rivoluzione" adattativa: una nuova discontinuità dell'evoluzione biologica umana forse correlata, secondo l'ipotesi della dispersione multipla di Homo sapiens, a una seconda ondata migratoria di uomini moderni provenienti dall'Africa e transitati attraverso Egitto, Medio Oriente e Anatolia.

In questo periodo, dopo quasi 100.000 anni di relativa stabilità (il Paleolitico medio), uomini-dalla corporatura meno robusta e con capacità manipolatorie maggiori imparano a fabbricare strumenti che esprimono le proprietà di un'arte di grande perizia e complessità (la tecnologia "musteriana"). Si tratta di formidabili cacciatori, ben adattati al clima rigido dell'Europa glaciale, organizzati in grandi accampamenti divisi in clan e famiglie.

Compaiono le prime forme di decorazione corporea e di ornamento (con forti valenze simboliche), di arte rupestre e di scultura, tutte così raffinate tecnicamente (con effetti di prospettiva e di movimento, ritratti realistici, animali immaginari, produzione dei colori...) da rappresentare ancora oggi un enigma: gli espedienti prospettici dei dipinti delle grotte di Lascaux, di Aliamira e di Le Cap Blanc dovranno attendere più di 16.000 anni per essere "rí­scoperti". Essi sono così elaborati nella loro struttura simbolica da porre seriamente in discussione, come hanno rilevato gli antropologi Philip Chase e Harold Dibble, il modello di un'evoluzione graduale del comportamento umano moderno: non vi è nulla di comparabile in epoche precedenti né, in un certo senso, in epoche successive...

Il nostro pendolo epistemologico fra gli aspetti di continuità naturale e gli aspetti di discontinuità della specie umana, che finora aveva sostato maggiormente sui primi, sembra spostarsi decisamente nell'altra direzione. Il grande balzo in avanti (ma in avanti verso dove) rappresenta effettivamente uno stacco perentorio dalla fenomenologia degli altri ominidi.

Emergono capacità cognitive inedite e incommensurabili rispetto a quelle degli altri primati. I comportamenti sociali raggiungono livelli inusitati di complessità e di articolazione. A Qafzeh, in Medio Oriente, i sapiens seppellirono una giovane madre con il suo bimbo di sei anni, distesi l'uno accanto all'altra, in un commovente abbraccio ultraterreno. Siamo diventati una specie unica nel nostro genere. Un nuovo fenomeno, pur sempre naturale nella sua eccezionalità, ha fatto la sua comparsa sul pianeta: una specie dotata di linguaggio articolato e di spiccate capacità relazionali e simboliche, con forti tendenze all'elaborazione di concetti astratti. Da un ramoscello laterale dell'evoluzione nasce la prima specie biologica autocosciente in grado di porsi domande sul proprio destino e, qualche millennio a venire, sulla propria evoluzione.

Se proviamo a elencare, con l'aiuto della letteratura paleoantropologica più aggiornata, le caratteristiche che l'umanità manifesta nei siti europei in concomitanza con il Grande Balzo, gli elementi di discontinuità appaiono davvero straordinari. Madama Evoluzione bussa alla porta di Homo sapiens e gli consegna il "pacchetto modernità" tutto compreso:

- compaiono le prime forme di innovazione culturale, con rapida sostituzione delle tecnologie di lavorazione delle pelli, dei tessuti e dell'argilla nelle varie fasi che si susseguono rapidamente (Aurignaziano, fra 35.000 e 27.000 anni fa, Gravettiano, fra 27 e 22.000 anni fa, Solutreano, fra 22 e 18.000 anni fa, e Magdaleniano, fra 18.000 e 10.000 anni fa);

- le popolazioni umane si dividono in gruppi stabili e omogenei, con abitudini, sistemi simbolici e tradizioni proprie: nasce la diversità culturale (probabilmente accompagnata dalle prime diversificazioni linguistiche);

- esplode la produzione di rappresentazioni simboliche e artistiche, indizi di un nascente senso "estetico" e di un'organizzazione sociale che permetteva a un gruppo di "artisti" di non partecipare alle attività produttive del clan;

- si ritualizzano le pratiche di sepoltura, accompagnate da cerimonie religiose e inserite in un contesto interpretativo di tipo mitologico;

- compaiono i primi indizi di un interesse per la comprensione dei fenomeni naturali, prima scintilla di una curiosità "scientifica" (il primo calendario lunare, inciso su placchette di osso nel sito francese di Abri Blanchard, risale forse a 32.000 anni fa);

- l'organizzazione sociale di gruppi umani più numerosi e l'economia di caccia e raccolta si raffinano enormemente (nelle tecniche di caccia e di pesca, nella costruzione e organizzazione degli accampamenti, nell'architettura delle capanne, nell'utilizzo del fuoco, nei metodi di cottura dei cibi, e così via).

Dopo un lungo periodo di stabilità tecnologica e anatomica, caratterizzato dalla convivenza con altre specie urnane e da una prima fase di globalizzazione, una costellazione di abitudini e di innovazioni senza precedenti si materializza in pochi millenni, generando una seconda ondata potente di migrazioni e di colonizzazioni. Cosa può avere innescato questa esplosione di creatività, di mobilità, di immaginazione e di spiritualità? Dobbiamo ricorrere a una causa eccezionale e improvvisa, oppure a una lunga sequenza di progressi graduali? Certo, comunque sia andata, l'uomo anatomicamente moderno ha imboccato qui la sua strada verso la gloria terrena.

Il sogno di ogni buon paleoantropologo, confessò una volta Ian Tattersall seduto accanto a un bancone colmo di reperti fossili, è oggi quello di trovare la chiave di lettura esatta per decifrare l'enigma del grande balzo del Paleolitico superiore, capire cosa possa essere successo di tanto straordinario da trasformare una specie stabile, fino ad allora non molto diversa dalle precedenti, in un portento di creatività. Se si studiano siti archeologici più antichi, anteriori a 60.000 anni fa, non si trovano infatti tracce sistematiche di simboli, di credenze e, soprattutto, scarse tracce di una diversificazione culturale. La discontinuità sembra essersi realizzata in poco tempo, come se una nuova creatura, l'ominide dotato di intelligenza simbolica e capace di dipingere in una caverna buia i paesaggi della sua esistenza, avesse fatto la sua comparsa sulla Terra: una sorta di equilibrio punteggiato all'interno della stessa specie.

A uno sguardo più attento, tuttavia, continuità e discontinuità si compenetrano sempre più intimamente: è come se in questa fase cruciale una parte della natura, quale noi siamo, avesse tentato di emanciparsi dalla natura medesima, trascendendo se stessa e accentuando caratteristiche di assoluta unicità rispetto a qualsiasi altra forma animale. La specie umana è una proprietà emergente della natura, con la quale essa instaura un rapporto di continuità e di discontinuità al contempo: continuità perché il legame biologico non si interrompe mai, ma evolve insieme alla specie; discontinuità perché attraverso le molteplici soglie di contingenza che hanno punteggiato la nostra storia profonda, da quando il primo ominide si è staccato sei o sette milioni di anni fa dal cespuglio delle scimmie antropomorfe, un lungo cammino evolutivo ha creato una specie assolutamente senza precedenti in natura (Tattersall 1998).

E’ dunque la dimensione storica, contingente e planetaria di Homo sapiens a renderlo una creatura al contempo molto naturale e molto "innaturale". Questo processo, peraltro, è ben lontano dall'esaurirsi. Quaranta millenni dopo il grande balzo noi siamo la prima specie capace di studiare il proprio corredo genetico, di mappare per esteso il proprio genoma, di esercitarsi nella delicata pratica dell'ingegneria genetica su altre forme viventi e sulla propria. E questo è ancora una volta un problema di continuità con la propria biologia, con il proprio destino evolutivo: cosa succede quando una specie raggiunge questo livello di conoscenza? Può sopravvivere a lungo un primate di taglia larga, nato anatomicamente poco più di 100.000 anni fa e intellettualmente 40.000 anni fa, divenuto rapidamente capace di manipolare la propria identità biologica?

Uno sguardo al tempo profondo della specie umana cambia inevitabilmente la percezione della nostra collocazione nel mondo naturale. Nel gioco di rimandi infiniti fra il nostro attaccamento al pianeta e la nostra fuga in avanti ci accorgiamo di essere soltanto alle prime tappe di un'evoluzione che ha tempi lunghissimi dietro a sé e davanti a sé. Siamo il frutto di una sequenza eccezionale di grandi accelerazioni contingenti che hanno improvvisamente agitato l'oceano sterminato dei quattro miliardi di anni di vita precedente e che ci hanno proiettati su uno stretto sentiero evolutivo in bilico fra gli splendori della creatività e l'abisso dell'autodistruzione. In senso evoluzionistico, noi ancora oggi stiamo esplorando le potenzialità della rivoluzione paleolitica e ancora oggi facciamo i conti con la sua invenzione maggiore: la diversità culturale. In senso evoluzionistico, una definizione compiuta di cosa significhi essere "umani" e di cosa ci abbia resi così ambiguamente speciali ancora non ci è data. Sarebbe più preciso se, anziché "esseri umani" (human beings), usassimo il termine "divenienti umani" (human becomings).” (pp. 251-254)

Quando è successo? Gradualità o discontinuità?

La retrodatazione dei dipinti rupestri sembra mostrare che le popolazioni di Cro-Magnon raggiunsero e occuparono l'Europa quando già avevano sviluppato le loro straordinarie capacità di innovazione, di diversificazione culturale e di produzione simbolica. Il tempo intercorso fra il loro arrivo e i primi esempi di arte rupestre e di scultura,. che fin da subito rivelano grande cura e raffinatezza, è troppo breve per ipotizzare un'evoluzione lenta e graduale delle loro capacità cognitive.

A favore di una concezione non gradualista dell'evoluzione umana nel Paleolitico vi è poi la scoperta che anche in questo periodo i tempi di sviluppo delle tecnologie e delle invenzioni sono spaiati. Le innovazioni compaiono improvvisamente e sporadicamente, in zone diverse. Talvolta un'innovazione viene "dimenticata" per molto tempo prima di diventare d'uso comune: la cottura dell'argilla viene praticata per alcuni millenni nel periodo Gravettiano (da 28.000 a 22.000 anni fa, l'epoca delle "Veneri" di terracotta) e poi viene "sospesa" per quasi due millenni fino all'introduzione della ceramica.

Secondo i sostenitori dell"ipotesi dell'intelligenza sociale" come Randall White, l'uomo aveva rapidamente sviluppato capacita linguistiche e comunicative inedite ed era dotato, che fosse un adattamento funzionale o meno, di un grado elevato di autocoscienza. Il cambiamento tecnologico e culturale subì dunque un'improvvisa accelerazione. I siti occupati dall'uomo diventarono più grandi e articolati, come se in essi vi fosse praticata una chiara forma di coordinamento e di organizzazione.

La comparsa, lenta o improvvisa, di un'economia di caccia e raccolta e di una complessità sociale legata al linguaggio è oggetto di molte discussioni e vede ancora una parte consistente dei ricercatori, fra cui Geoffrey Clark e Alison Brooks, propendere per una transizione graduale dal Paleolitico medio al Paleolitico superiore, come sembrerebbe attestato dalle tracce di comportamenti umani moderni rinvenute in Africa già a partire da siti di 120.000 anni fa. Tuttavia, gli studi di Richard Klein sulle differenze fra le tecniche di caccia nelle due popolazioni che hanno abitato il sito costiero di Klasies River Mouth, la prima fra 120.000 e 60.000 anni fa e la seconda 20.000 anni fa, attestano una fortissima discontinuità nell'organizzazione sociale tra il primo e il secondo popolamento.

Nell'ambito delle ricerche sull'evoluzione biologica della mente umana moderna e del linguaggio, molti studiosi, fra cui Niles Eldredge e Ian Tattersall, sottoscrivono invece la tesi del neuroscienziato George Sacher, secondo cui il linguaggio sarebbe stata un'invenzione pressoché istantanea in termini evolutivi, legata alla circostanza che il cervello raggiunse un volume critico e che il cranio subì cambiamenti anatomici tali da consentirne l'attuale articolazione (teoria definita del "salto quantico neurale"). Come sostenne già nel 1976 Glynn Isaac, a fronte di un graduale processo di sviluppo anatomico che durava già da molte migliaia di anni, nel Paleolitico superiore si assiste a un vero e proprio "equilibrio punteggiato" nell'evoluzione culturale. Lo sviluppo graduale della morfologia moderna precedette lo sviluppo rapido del comportamento moderno. Secondo Richard Leakey e Dean Falk, viceversa, il linguaggio si sarebbe evoluto lentamente, per selezione naturale, a partire dalle prime specie di Homo, come rivelato dalla presenza dell'area di Broca e dell'asimmetria cerebrale già in esemplari di Homo habilis.

Forse anche in questo caso le due ipotesi alternative, di una discontinuità recente o viceversa di una graduale e antica evoluzione, non si escludono necessariamente. Lo studio dell'anatomia cerebrale e dell'apparato vocale delle diverse forme del genere Homo, introdotto fra gli altri da Terrence Deacon, da Ralph Holloway, da Jeffrey Laitman e da John Bradshaw, ha dato in questo senso un prezioso contributo. L'aumento del volume cerebrale, l'espansione della faringe e la comparsa delle aree preposte al linguaggio sono fenomeni strettamente intrecciati fin da tempi molto anteriori al Paleolitico e risalgono fino a Homo erectus.

I ritrovamenti più recenti sembrano confermare l'origine separata dell'anatomia moderna, comparsa intorno a 150.000 anni fa, e del comportamento moderno, che esplode soltanto 40.000 anni fa. Per tutto il periodo della convivenza con neanderthal in Medio Oriente, sapiens non rivela un'attitudine spiccata all'attività simbolica e anche la sua tecnologia non è più avanzata di quella della specie cugina. Solo quando l'uomo di Neanderthal scompare dalla zona cominciano a emergere modalità di comportamento sociale e simbolico che possiamo considerare "moderne". Possiamo davvero pensare che questa esplosione di creatività simbolica sia soltanto il frutto di una più elaborata organizzazione sociale, che ha permesso ad alcuni membri delle tribù di liberarsi dalle impellenze della caccia e di avere quindi "tempo libero" per l'arte (Falk 1992), oppure è avvenuta una trasformazione cognitiva all'interno di una popolazione della nostra specie che poi si è diffusa per migrazione?

Cosa è successo? Verso una storia naturale della coscienza

Come abbiamo visto, il linguaggio articolato, benché rappresenti la facoltà umana più importante per spiegare le nostre capacità cognitive, non è facilmente riscontrabile nella documentazione fossile. Non ci è dato sapere che tipo di linguaggio avessero le specie ominidi fino all'avvento di Homo sapiens. Anche la deduzione degli stadi di evoluzione del linguaggio a partire dall'evoluzione della complessità dell'organizzazione sociale nelle varie fasi dell'ominizzazione è poco sicura: è stato provato che si può istituire, nel corso di centinaia o migliaia di generazioni, una complessa articolazione sociale senza possedere il linguaggio articolato.

Charles Darwin credeva nell'emergenza graduale della mente umana e delle facoltà superiori dell'uomo nel corso dell'evoluzione: siamo diventati "umani" e "moderni" attraverso un'infinita serie di piccoli passi impercettibili. Alfred Wallace riteneva questa prospettiva troppo materialistica e francamente imbarazzante. D'accordo che la selezione naturale spieghi tutto, ma non l'intelligenza: la mente umana doveva essere sorta in un colpo solo, grazie a un'improvvisa discontinuità evolutiva favorita da un intervento divino.

Alcuni indizi del fatto che forse avevano ragione sia Darwin sia Wallace provengono dallo studio delle capacità linguistiche e di apprendimento nelle scimmie antropomorfe. Abbiamo visto che gli scimpanzé possiedono un abbozzo del substrato cognitivo necessario all'apprendimento del linguaggio, anche se le loro espressioni vocali, controllate ancora dal sistema limbico e dal tronco encefalico, sono strettamente connesse a particolari stati emotivi. Non vi è separazione fra lo stato emozionale e la produzione del suono cor­rispondente, non esistono regole di sintassi e di grammatica. In ogni caso la loro organizzazione sociale si basa su un ricco repertorio di espressioni facciali, di posture, di gesti, di versi e di richiami, in alcuni casi divisi addirittura in "dialetti non verbali" differenziati da gruppo a gruppo (una sorta di precultura non verbale sedimentata nell'esperienza).

Si può presumere, in via del tutto ipotetica, che lo stadio evolutivo raggiunto dalle scimmie antropomorfe attuali corrisponda allo stadio evolutivo dei primi ominidi, ma questo non significa che vi sia una scala di avvicinamento che conduca inevitabilmente al linguaggio articolato e che gli scimpanzé siano pertanto esseri "quasi umani" ancora fermi allo stadio prelinguistico. Ian Tattersali suggerisce una soluzione alternativa: nei primi ominidi erano presenti le medesime potenzialità per il linguaggio che si riscontrano oggi nelle scimmie antropomorfe, soltanto che i due rami evolutivi hanno intrapreso strade diverse (Tattersali 1998, p. 55). Negli ominidi è successo qualcosa di inedito che ha trasformato queste potenzialità neurali e anatomiche in una realtà evolutiva unica: la nascita della prima specie parlante, l'emergenza della "specie poetica".

Tuttavia, è bene non confondere l'efficacia attuale delle nostre facoltà "superiori" con la loro origine. Che tipo di storia ci racconta l'evoluzione del linguaggio? E stata forse una storia di accumuli lenti e graduali di competenze relazionali e comportamentali crescenti? In tal caso, dovremo supporre che la selezione naturale ha “visto" nel linguaggio una risorsa adattativa della massima importanza e l'ha favorita costantemente, facendo procedere l'evoluzione attraverso una sequenza di forme intermedie di comunicazione fino all'apice raggiunto da Homo sapiens. Questa spiegazione è in effetti molto plausibile, tenuto conto che anche piccoli miglioramenti nella comunicazione non verbale e poi verbale hanno senza dubbio offerto un vantaggio adattativo consistente ai loro possessori. Eppure qualcosa non quadra nella documentazione paleontologica.

Se la complessità della comunicazione verbale è cresciuta gradualmente, sospinta dalla selezione naturale, perché il grande balzo in avanti si è prodotto così tardi nel corso dell'evoluzione? Homo sapiens possedeva il corredo anatomico, neurale e comportamentale necessario già 100.000 anni prima: perché ha aspettato tanto? Perché non ci sono segni forti di un avvicinamento graduale e progressivo alla produzione simbolica, all'arte, alla spiritualità e alla diversità culturale?

La presenza di questa discontinuità è ancora più sconcertante se pensiamo che l'evoluzione cerebrale era cominciata nel genere Homo più di due milioni di anni prima e che il suo ritmo era stato molto graduale. In questo lasso di tempo il cervello ha raggiunto un volume (relativo alla massa corporea) tre volte maggiore rispetto a quello degli altri primati. Ma non è stata soltanto un'evoluzione quantitativa: le parti più giovani dell'encefalo (appartenenti alla cosiddetta "neocorteccia") si sono aggiunte in modo non meccanico alle parti più primitive (sistema limbico, cervelletto, tronco encefalico), creando un'architettura anatomica complessa nella quale talvolta la coordinazione delle parti "superiori" è mediata da strutture presenti nelle parti più antiche.

Ancora una volta continuità e discontinuità si miscelano: il nostro encefalo è un organo unico in natura (grazie, soprattutto, alle complicatissime circonvoluzioni della corteccia esterna, sede delle funzioni cognitive a noi proprie), ma non si è affatto emancipato dalla sua eredità evolutiva più antica. In un certo senso anche il nostro cervello ha un tempo profondo, la cui esatta considerazione potrebbe modificare profondamente l'immagine che ne abbiamo dato nei primi cinquant'anni di sviluppo delle scienze cognitive, dal secondo dopoguerra a oggi (cosa significa, per esempio, distinguere un'intelligenza razionale da un'intelligenza emotiva?).

Da un punto di vista evoluzionistico l'intelligenza di Homo sapiens è una peculiare "forma di vita", un sistema integrato la cui identità storica ne determina gli elementi di contiguità e di distacco da ogni altra forma di intelligenza presente in natura. Una linea di ricerca estremamente feconda nei prossimi anni potrebbe essere proprio quella di comprendere a fondo le implicazioni radicali che le recenti scoperte delle scienze evoluzionistiche e della paleoantropologia, da poco affacciatesi allo studio dell'evoluzione del linguaggio e delle facoltà intellettive umane, avranno sulle concezioni attuali della mente.

Purtroppo le informazioni sull'evoluzione cerebrale per ora non vanno molto oltre queste indicazioni generali. Nemmeno le ricerche sui calchi endocranici hanno dato i frutti sperati. Si sa che le aree del cervello si sono sviluppate diversamente nel genere Homo, anche se non vi è stata la comparsa di alcuna struttura che non fosse già presente nelle scimmie antropomorfe: è stata una questione di organizzazione, di connessione fra le parti e di crescita differenziale. In questa diversa organizzazione va senz'altro cercato il segreto della scintilla che ha generato la peculiare intelligenza umana.

Rimane però un indizio intrigante da considerare. Le capacità di elaboraione simbolica e di astrazione espresse dagli uomini di Cro Magnon sembrano in qualche modo connesse sia allo sviluppo del linguaggio articolato sia all'emergenza di una forma nuova di intelligenza, un'intelligenza pienamente autocosciente. Un campo di studio promettente è stato inaugurato pochi anni fa da alcuni "paleoneurologi" e paleoantropologi convinti che il grande balzo in avanti del Paleolitico superiore sia connesso all'innesco di un anello ricorsivo fra l'evoluzione del linguaggio articolato e l'evoluzione della coscienza introspettiva (Deacon 1997).

La questione cruciale è capire se l'evoluzione di un'intelligenza pienamente autocosciente sia strettamente dipendente dalla presenza del linguaggio articolato, come hanno sostenuto William Noble e Lain Davidson (Noble, Davidson 1996), oppure sia possibile che le forme ominidi più antiche possedessero comunque un embrione di pansiero cosciente, una sorta di "attenzione incosciente", come è stata definita da Stephen Toulmin. Secondo Toulmin sarebbe infatti possibile costruire arnesi attivando una forma di attenzione automatica, non cosciente. Questa si sarebbe poi evoluta, attraverso una serie di stadi, fino all'attenzione cosciente ("ecco, io sto costruendo un arnese e lo sto facendo secondo un determinato modello") e all'articolazione del comportamento autocosciente, organizzato secondo piani stabiliti e condiviso con altri attraverso il linguaggio articolato (Arsuaga 1999).

Tuttavia, il quadro si complica se pensiamo che la deduzione dell'origine evolutiva del linguaggio dalla sua utilità attuale è stata posta in discussione da ricerche recenti. Il neurologo Harry Jerison ha delineato un modello dell'evoluzione del cervello da questo punto di vista estremamente interessante: il linguaggio ha avuto naturalmente un ruolo decisivo nella comunicazione umana, ma questa potrebbe essere una conseguenza del suo sviluppo e non la sua causa. Secondo Jerison, il linguaggio è nato come effetto collaterale di una facoltà diversa che il cervello aveva cominciato a sviluppare come adattamento: la coscienza introspettiva e immaginativa. E nei dialoghi interiori dell'incipiente coscienza umana, impegnata a creare un modello e un'interpretazione attendibili della realtà, che il linguaggio trova la sua origine (Jerison 1991).

In questo processo coevolutivo, la coscienza introspettiva, il linguaggio e la complessità della dimensione intersoggettiva umana si alimentano reciprocamente e irreversibilmente la coscienza si evolve in un contesto sociale divenuto altamente competitivo; essa si sviluppa adattativamente al fine di prevedere, per proiezione di se stessi sugli altri, il comportamento degli altri. In questo contesto, già da sempre intersoggettivo, si evolve la capacità linguistica, che a sua volta accelera il processo di formazione di un'autocoscienza e di una vita sociale ulteriormente elaborate.

La colonizzazione di habitat vasti ed eterogenei richiede, inoltre, raffinate capacità di interpretazione dell'ambiente e di comunicazione intersoggettiva. Le proprietà adattative ed exattative del linguaggio emergono dunque in un contesto di diversificazione planetaria, mostrando la connessione imprescindibile fra l'ultima fase del processo di ominizzazione e la diffusione globale della specie umana. Se a un certo punto non fossimo diventati una specie "globalizzata", l'evoluzione delle nostre facoltà superiori forse avrebbe preso un'altra strada, e viceversa. Comunque sia, le conseguenze di questo processo co-evolutivo esponenziale e autoalimentato si sono spinte ben presto al di là dei loro scopi selettivi originari (Gamble 1994; Deacon 1997; Klein, Edgar 2002).

Soltanto da pochissimi anni, grazie al raffinamento degli strumenti di indagine paleontologica e all'ibridazione di indagini sperimentali appartenenti a campi disciplinari differenti (per esempio, fra neuropatologia e biologia evolutiva), gli scienziati cominciano ad avere alcune informazioni interessanti sull'evoluzione naturale dell'intelligenza, del linguaggio e della coscienza: Senz'altro questo programma di ricerca interdisciplinare, che potremmo intitolare "storia naturale della mente e della coscienza", ha in serbo molte sorprese. La sfida è alta: spiegare come possa essersi realizzato il salto quantitativo e qualitativo che ha portato alcuni primati, appartenenti alla famiglia degli ominidi, all'acquisizione (forse simultanea, forse spaiata) dell'intelligenza simbolica e del linguaggio articolato.

L'occhio interiore: un 'archeologia della coscienza superiore

Un contributo molto interessante è giunto negli anni Novanta dallo scienziato cognitivo inglese Nicholas Humphrey, ora docente presso la New School of Social Research di New York, che nel 1993 pubblicò un testo, A History of the Mind: Evolution and the Birth of Consciousness, nel quale si abbozzava un'ambiziosa ricostruzione evolutiva della nascita della coscienza sensoriale (Humphrey 1993). L'approccio di Humphrey è squisitamente evoluzionistico e pertanto decisamente eccentrico rispetto alle ricerche convenzionali sulla coscienza superiore. Scorrendo le sue pagine balza agli occhi la carica letteralmente eversiva che una prospettiva evoluzionistica (cioè voler considerare realmente le trasformazioni naturali che potrebbero aver condotto alla nascita della coscienza) comporta rispetto alle dicotomie tradizionali delle filosofie della mente (mente-corpo; immagine mentale­realtà oggettiva; ecc..). Per la prima volta non si tratta di dedurre l'evoluzione della mente a partire da un suo modello precostituito, ma di scavare nella sua origine storica effettiva, di inaugurare una sorta di "archeologia" della coscienza superiore.

L'evoluzione naturale dell'intelligenza deve in qualche modo radicarsi nel processo primario di contatto fra mondo interno e mondo esterno, cioè nell'esperienza sensoriale e nella reattività, anch'esse prodotti (ben più antichi della coscienza) dell'evoluzione naturale: tutto cominciò in superficie, nell'intersezione fra mondo interno e mondo esterno. In particolare, i processi affettivi e sensoriali sono considerati da Humphrey un canale cognitivo parallelo a quello della percezione oggettiva, e non antecedenti a esso: la sensazione riguarda eventi che stanno capitando sulla superficie del nostro corpo (è autocentrica); la percezione riguarda eventi che stanno capitando nel mondo esterno (è allocentrica). Nel caso della vista, per esempio, i primi organi visivi rudimentali dovevano svolgere una funzione di "sensazione visiva" (cioè "sentire" epidermicamente l'intensità della luce e del calore) e solo in seguito sono stati riutilizzati per una funzione percettiva (cioè individuare classi di oggetti, colori, forme, distanze nel mondo esterno). Tuttavia, la funzione primaria non si è persa (l'esperienza del colore, per esempio, conserva un forte carattere di sensazione corporea) e i due canali cognitivi sono rimasti attivi in parallelo, come dimostrano molti casi di disaccoppiamento fra sensazione e percezione riscontrati in sperimentazioni su esseri umani e su scimmie (vista cieca, vista cutanea, agnosia visiva, ecc...).

Secondo Humphrey, l'evoluzione avrebbe selezionato una strategia sistematica di controllo dell'attendibilità dell'immagine percettiva: il cervello ricostruirebbe per ogni percezione lo stimolo sensoriale corrispondente e lo invierebbe al centro sensoriale per verificarne la congruenza con lo stimolo reale. Se la ricostruzione non combacia con la sensazione effettiva viene scartata in quanto "errore" percettivo. L'immaginazione e il sogno nascerebbero dal canale percettivo (in assenza di alcuna sensazione reale) e produrrebbero comunque la ricostruzione di uno stimolo sensoriale corrispondente nei centri sensoriali del cervello. L'immaginazione e il sogno, dunque, se considerati dal punto di vista interno del cervello, sarebbero a tutti gli effetti "reali" quanto le sensazioni provenienti da uno stimolo esterno. Anche i pensieri coscienti, le idee e le credenze avrebbero un richiamo sensoriale (di tipo uditivo): intuitivamente, essi sarebbero come "immagini di voci" nella testa.

Davvero non vi è più nulla di aprioristico in questa concezione della coscienza: essere consapevoli di "cosa si prova a essere me", se inteso come proprietà emergente dalle dinamiche evolutive, è un problema di sensazioni e di accoppiamento strutturale fra interno ed esterno. La "storia naturale della coscienza" non è più una storia connessa alle tradizionali funzioni mentali "superiori", come la percezione, l'immaginazione, la credenza.

Ma se qualcuno volesse obiettare che la sensibilità è solitamente ritenuta la proprietà meno significativa dell'intelligenza, in quanto passiva registrazione di stimoli esterni, Humphrey ribatterebbe con una mossa teorica particolarmente spiazzante, attorno alla quale egli costruisce la sua specifica ipotesi evoluzionistica circa la nascita della coscienza. Egli rovescia infatti la teoria classica delle sensazioni. Non solo le percezioni ma anche le sensazioni, tradizionalmente intese come la sorgente di informazioni esogena per eccellenza, sono a suo avviso "modi di fare", sono "atti" del cervello.

Allora, se le sensazioni non sono soltanto una registrazione di stimoli ma anche una particolare forma di attività "quasi corporea" soggettiva e localizzata, la coscienza introspettiva potrebbe essersi evoluta come una chiusura dell'anello attivo/passivo innescato dall'esperienza sensoriale. In un essere vivente privo di sistema nervoso centrale come l'ameba, la sensazione inizia e finisce sulla membrana esterna, come in un anello cortissimo. In un animale dotato di sistema nervoso centrale la sensazione si realizza sotto forma di un anello allungato di afferenza (dalla periferia al cervello) ed efferenza (dal cervello alla periferia), dove per efferenza non si intende la risposta allo stimolo ma l'attivazione quasi istantanea dello stimolo stesso: le sensazioni, seguendo l'antico tracciato evolutivo dell'ameba, ritornano verso il punto della stimolazione. Il cervello non si limita ad ascoltare passivamente la musica delle sensazioni, le dirige come un maestro d'orchestra.

Nella specie Homo sapiens si avrebbe un terzo stadio evolutivo, corrispondente alla prima scintilla della coscienza introspettiva: l'efferenza sensoriale, questa attività quasi corporea di modulazione delle sensazioni, anziché ritornare verso l'area periferica del corpo interessata sarebbe gradualmente ricaduta all'interno del cervello medesimo. L'anello sensoriale attivo/passivo si sarebbe cioè chiuso su se stesso.

La sensazione è data dunque da un'afferenza sensoriale (in entrata) e da una simultanea efferenza sensoriale (un'attivazione in uscita): la specificità dell'apparato sensoriale di un essere cosciente è che questa efferenza in uscita non va ad attivare una parte del corpo ma la parte corrispondente nel "modello interiore di corpo" presente nella corteccia sensoriale di ogni essere umano (precisamente, nei punti terminali dei nervi sensoriali, afferenti dalle varie parti del corpo). Qui risiederebbe la radice evolutiva dell'incarnazione della conoscenza, in questa profonda intuizione di unità psicofisica peraltro già coltivata da molte pratiche meditative e mediche di origine non occidentale: fra le aree del cervello che accolgono i nervi sensoriali e le parti del corpo corrispondenti esisterebbe una stretta connessione, una continuità attivo-passiva. In questa rete psicosomatica senza soluzioni di continuità, una sensazione fantasma, che agisce sul modello corporeo interiore, e una sensazione reale sono a tutti gli effetti indistinguibili.

Le sensazioni non sono dunque eventi che ci accadono e che noi assimiliamo impotenti; sono anche attività cognitive a cui partecipiamo in prima persona, "attività che ricadono circolarmente su se stesse fino a creare la profondità dell'istante soggettivo" (P. 283). Ecco dunque la discontinuità evolutiva da cui trarrebbe origine l'esperienza cosciente, cioè la chiusura di un anello di retroazione sensoriale. Questa ricaduta all'interno, che Humphrey chiama suggestivamente "riverbero sensoriale", produrrebbe allora la sensazione di essere un corpo e la sensazione di essere un'identità soggettiva permanente. L'evoluzione della coscienza sarebbe, in altri termini, una riorganizzazione del sistema sensoriale nella quale il ritorno delle sensazioni si riverbera all'interno, come un "occhio interiore".

Latenza e innesco: gli exaptations dell'intelligenza umana

Questa ipotesi sull'origine della coscienza avrà senz'altro bisogno di nuove sperimentazioni e verifiche (peraltro molto delicate, difficili e necessariamente interdisciplinari, trattandosi di un'ipotesi storico-evoluzionistica). E però importante segnalare la particolarità metodologica di questo tentativo, che unisce in modo del tutto originale un punto di vista neurofisiologico sulla mente, un punto di vista clinico, un punto di vista fenomenologico sui diversi stati di coscienza e, soprattutto, un punto di vista evoluzionistico. Una domanda rimane tuttavia inevasa: quando ha avuto origine la coscienza? E più precisamente, l'emergenza della coscienza è stata un evento graduale o repentino?

L'opzione di Humphrey è nettamente discontinuista:

La coscienza non sarebbe potuta nascere a meno che e finché l'attività dell'anello di retroazione non avesse raggiunto il livello di attività riverberante, e una proprietà degli anelli di retroazione è quella del "tutto o niente": o l'attività riverberante è sorretta da un arco significativo di vita oppure muore sul nascere. Possiamo dunque arguire che nel corso dell'evoluzione, con l'accorciarsi degli anelli sensoriali e l'intensificarsi del loro grado di fedeltà, si sia toccata una soglia oltre cui è d'un tratto emersa la coscienza, proprio come c'è una soglia oltre cui si passa dal sonno alla veglia (p. 268).

In realtà il modello di Humphrey non esclude la gradualità: è un modello che potremmo definire per "latenza e innesco". Dopo una fase anche molto lunga di trasformazioni fisiche e anatomiche latenti, si raggiunge una soglia oltre la quale si innesca un processo di riorganizzazione repentina, un salto evolutivo. Il fatto sorprendente è che un modello simile, come abbiamo visto, sta avendo in questi anni riscontri importanti nel campo della paleoantropologia. La comparsa degli indizi tipici di un'intelligenza simbolica e cosciente sembra avvenire rapidamente intorno a 45-40.000 anni fa, nel punto terminale di un lunghissimo processo di espansione del cervello iniziato quasi due milioni di anni prima.

Gli strumenti di pietra e le morfologie anatomiche della fase "pionieristica" di Homo sapiens non preannunciano la rivoluzione comportamentale successiva, a cui seguirà un'ondata di nuove migrazioni. E come se l'intelligenza fosse a un certo punto "decollata", come se avesse improvvisamente acquisito la portanza necessaria per sollevarsi dopo una lunga rincorsa a terra. Nel cespuglio ramificato delle forme ominidi, portatrici senz'altro di molteplici "forme di intelligenza" a noi sconosciute, compare un nuovo modello, un nuovo modo di essere umani, una nuova "proprietà emergente", cioè una riorganizzazione mai sperimentata prima a partire dagli stessi elementi del sistema neurale (Tattersall 1998, p. 170).

Un altro fatto sorprendente è che un'ipotesi così ricca di implicazioni dirompenti rispetto ai paradigmi tradizionali come quella di Humphrey nasca nel contesto di un darwinismo ortodosso. Il titolo di un'opera precedente dello psicologo inglese è infatti The Uses of Consciousness, gli usi della coscienza: la sua storia naturale della coscienza implica una ragione funzionale e adattativa molto forte, poiché la coscienza emergerebbe per rispondere a un'esigenza ambientale imposta dalla selezione naturale. La coscienza è un adattamento e nasce come tale (Humphrey 1987). Ma come spiegare allora la discontinuità dell'emergenza della coscienza? Come spiegare il "decollo" che in­terrompe un lungo periodo di crescita graduale e lenta dell'anatomia cerebrale?

Tattersal propone un'interpretazione diversa, che a nostro avviso completa e integra in modo assai fecondo l'ipotesi di Humphrey. Ancora una volta il segreto è la miscela di continuità naturale e di discontinuità storica:

La coscienza è un prodotto del nostro cervello, il quale a sua volta è un prodotto dell'evoluzione. Ma le proprietà del cervello umano sono emergenti, sono il risultato di una serie di acquisizioni casuali (naturalmente basate sull'eccezionale risultato di una lunga storia evolutiva) le quali possono essere state favorite dalla selezione naturale solo dopo che il cervello si fu formato (Tattersail 1998, p. 171).

In quel “solo dopo" sta il nocciolo di una prospettiva evoluzionistica non adattazionista. La selezione naturale, nella maggior parte dei casi (e sicuramente nei casi più interessanti), interviene dopo l'emergenza della "forma", assegnando a essa una funzione, e non prima. Il cervello umano attuale non si sarebbe evoluto perché indispensabile a una qualche funzione biologica specifica (che neppure Humphrey identifica chiaramente, se non riferendosi genericamente a una certa capacità di "comprensione intersoggettiva" utile per un comportamento sociale elaborato e fortemente competitivo), ma per una riorganizzazione contingente a partire da una struttura anatomica ridondante prodotta da una lunga storia evolutiva. Questa riorganizzazione complessiva ha prodotto un "modello" di ominide che non si è limitato a raffinare le capacità precedentemente sviluppate all'interno dei diversi ramoscelli del cespuglio, ma ha inaugurato un modo totalmente nuovo di essere umani, una concezione qualitativamente distinta di "umanità".

L'espansione del cervello neotenico a partire dalle prime forme del genere Homo in Africa orientale e meridionale non può essersi sviluppata "in vista" delle sue utilizzazioni future. Se davvero le capacità introspettive garantivano un grande vantaggio riproduttivo conferito dalla selezione naturale, perché solo una delle linee di discendenza dei primati le ha sviluppate? Se davvero l'evoluzione della coscienza e della soggettività è stata "costruita" passo dopo passo dalla selezione naturale operante sul corredo generico, amplificando gradualmente i piccoli vantaggi comportamentali derivanti dall'esperienza cosciente, perché gli indizi certi della presenza di un'intelligenza simbolica e concettuale appaiono così tardivamente?

Nella storia naturale della coscienza vi è gradualità (anatomica) e discontinuità (funzionale): questi due tracciati evolutivi sono indipendenti dal punto di vista adattativo. Il primo è un effetto collaterale di una mutazione genetica, fissata poi dalla selezione naturale e probabilmente accentuata dalla competizione per le risorse fra le specie ominidi. Il secondo è un'emergenza evolutiva repentina, una riorganizzazione funzionale a partire dal riutilizzo creativo di strutture già formate, un "bricolage evolutivo" che abbiamo più volte definito exaptation (Gould, Vrba 1982). Anziché essere macchine genetiche plasmate dalla selezione naturale o dalla selezione di parentela (seducente metafora alla base del recente successo della psicologia evoluzionistica), gli organismi manifestano spesso la capacità di riorganizzare opportunisticamente i propri vincoli strutturali interni e di trascendere se stessi trasformando ciò che hanno a disposizione.

La storia naturale della mente è forse una storia di exaptations ben riusciti, una storia di possibilità emerse rapidamente piuttosto che di piccoli passi favoriti dalla selezione. Peraltro, molti comportamenti umani e molte proprietà del cervello umano potrebbero non essere adattamenti diretti, ma conseguenze collaterali, riadattamenti, cooptazioni funzionali, bricolage evolutivi. Si potrebbero studiare in una luce nuova, in particolare, i processi cognitivi di invenzione, di scoperta, di creazione di alternative inesplorate per la soluzione di un problema, di immaginazione e di innovazione.

Alcuni neurobiologi e scienziati della cognizione hanno accolto in questi anni l'invito a un'applicazione di exaptation all'evoluzione neurale, con risultati incoraggianti. La capacità dei circuiti neurali di acquisire con estrema flessibilità e rapidità funzioni per le quali non erano stati "programmati" nel corso dell'evoluzione, caratteristica che John Robert Skoyles ha definito "plasticità neurale", potrebbe essere da un lato un ottimo adattamento (la plasticità neurale, così come la plasticità di altri tessuti, garantirebbe una buona coordinazione dello sviluppo neurale, in sostanza la possibilità di espandere adattativamente alcune aree a scapito di altre nel corso dello sviluppo), dall'altro un'utilissima riserva di exaptations possibili. Nel corso dell'evoluzione circuiti inizialmente dedicati a determinate funzioni adattative (per esempio, di natura senso-motoria) vennero cooptati per funzioni differenti (utilizzo di strumenti, comunicazione, comprensione simbolica...) al mutare del contesto ecologico. Da queste ricerche sembra emergere un'immagine dell'evoluzione della psicologia umana intesa come continua apertura di possibilità nuove, non iscritte nel programma innato fissato adattativamente per selezione naturale (Skoyles 1999; Skoyles, Sagen 2000): il cervello sembra essere insomma un organo specializzato nel non avere specializzazioni.

L'emergenza della coscienza umana è dunque un altro risultato, straordinariamente unico e utile ma non dissimile da tutti gli altri, della sequenza di innovazioni episodiche e contingenti che punteggiano il cespuglio degli ominidi. Ecco che bricolage evolutivo, selezione naturale, speciazione ramificante e contingenza evolutiva contribuiscono, in una visione pluralista e antiriduzionista, alla storia naturale dell'intelligenza nella nostra specie. L'evoluzione delle capacità di introspezione, di astrazione simbolica e di comprensione delle menti altrui deve aver conferito alla nostra specie uno straordinario vantaggio riproduttivo, soprattutto nell'interpretazione consapevole dei segni della natura, ma questo sembra essere più l'effetto che non la causa del processo.

Nella sua interessante opera dal titolo The Prehistory of the Mind, Steven Mithen ha proposto una teoria dell'evoluzione della mente umana che riprende questi elementi di continuità e di discontinuità, nonché l'idea secondo cui l'emergenza dell'intelligenza simbolica in sapiens sia stata il frutto di una riorganizzazione di elementi o "moduli" cognitivi preesistenti (Mithen 1996). Rifacendosi alla teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner (Gardner 1993), Mithen ritiene che la preistoria della mente abbia attraversato quattro fasi, caratterizzate dall'avanzamento spaiato delle diverse "intelligenze": nella fase degli australopitechi riscontriamo una buona intelligenza generale (sviluppata per la soluzione di problemi di sopravvivenza quotidiana), unita all'intelligenza sociale e a una discreta curiosità per i fenomeni naturali (pur in assenza di una coscienza individuale); nel genere Homo viene integrata l'intelligenza tecnologica e gli ominidi producono strumenti in uno stato di "attenzione incosciente"; con Homo heidelbergensis e Homo neanderthalensis le quattro intelligenze (generale, sociale, ecologica e tecnologica)' vengono raffinate, ma restano disgiunte l'una dall'altra. In queste prime tre fasi il linguaggio e la coscienza si sviluppano gradualmente, mantenendo una funzione esclusivamente sociale, senza l'uso di simboli. Soltanto nella quarta fase, corrispondente alla versione avanzata di Homo sapiens, i quattro moduli cognitivi si intrecciano, si riorganizzano e producono una forma di intelligenza integrata nella quale il linguaggio e l'articolazione cosciente vengono per la prima volta estesi a tutte le funzioni intellettive.” (pp.256-273)

Sulla base dell’entrata in azione di potenzialità exattative rimaste a lungo latenti, si può ricostruire la colonizzazione culturale del pianeta:

“Le poche tribù di cacciatori-raccoglitori ancora esistenti (principalmente i pigmei in Africa equatoriale, gli aborigeni australiani e le popolazioni indigene artiche, in totale una trentina di popolazioni sulle quasi 5.000 del pianeta) rappresentano le preziosissime vestigia di una complessa organizzazione sociale paleolitica (piccoli gruppi interconnessi, senza gerarchie sociali, senza il concetto di proprietà privata e di moneta, con un'etica fondata sulla sacralità dell'ambiente che dona loro la vita), sono la mappa planetaria di uno dei molti mondi perduti che affiorano dalla trama della diversità umana e resistono all'uniformazione: mondi sopravvissuti nei quali la qualità della convivenza e della coevoluzione fra umani e habitat raggiunge livelli di eccellenza. In realtà, non è preciso definirli "mondi perduti" poiché la relazione co-evolutiva fra l'organizzazione sociale, la planetarizzazione e le facoltà intellettive e linguistiche di Homo sapiens ci insegna che quei mondi sono sempre dentro di noi, sono il contesto all'interno del quale siamo diventati propriamente "umani" (Gamble 1994).

Inoltre, anche la storia della nascita e della diffusione dell'agricoltura e dell'addomesticamento degli animali è punteggiata di eventi contingenti e di derive casuali che la rendono più complessa e in taluni casi più frammentaria di quanto non si pensasse (Diamond 1997; Tudge 1996). L'agricoltura si è diffusa sul pianeta a partire da cinque aree originarie, forse sei: dalla mezzaluna fertile in Medio Oriente, con la coltura del grano e dell'olivo (nell'8500 a.C. circa); dalla Cina, con la coltura del riso e del miglio (prima del 7500 aC.); dall'America centrale, con la coltura del mais e dei fagioli (prima del 3500 a.C.); dalle Ande e dall'Amazzonia, con la coltura della patata e della manioca (prima del 3500 a.C.); dalla fascia del Sahel e dall'Etiopia, con la coltura del sorgo e del caffè (prima del 5000 a.C.); e forse anche dalla Nuova Guinea, con la coltura della canna da zucchero e della banana (intorno al 7000 a.C.). In ogni luogo le trame della scoperta e della diffusione delle tecniche per la produzione del cibo sono state diverse. In molte regioni l'agricoltura è arrivata per via indiretta in tempi comunque antichissimi, seguendo sentieri imprevedibili, in altre regioni non è arrivata mai e in altre ancora è arrivata ma è stata successivamente abbandonata per ritornare alla società di cacciatori raccoglitori. Anche il puzzle della domesticazione degli animali, diversi da regione a regione, non è meno intricato.

Da queste asimmetrie e contingenze nello sviluppo dell'agricoltura, nata e rinata più volte sul pianeta, discendono per conseguenza le differenti densità abitative dei primi insediamenti urbani, le loro organizzazioni sociali con gruppi di persone per la prima volta non dedite alla produzione e al sostentamento della tribù (cioè artigiani, politici, sacerdoti, scriba, burocrati, soldati...), la nascita (anch'essa molteplice e complessa) della scrittura e delle differenti tecnologie. Al termine dell'ultima glaciazione, il pianeta si è dunque popolato di un mosaico di civiltà agricole e urbane che ha sospinto ai margini le antiche società di cacciatori, portandole in molti casi all'estinzione.

La specie umana, seguendo queste grandi direzioni, ha dunque colonizzato tutti i continenti. Ma la domanda iniziale richiederebbe una risposta evoluzionistica, non soltanto una ricostruzione storica di colossali eventi storici di cui abbiamo trovato traccia nelle comparazioni genetiche. Da dove nacque l'impulso allo spostamento che condusse le tribù umane ad adattarsi a ogni forma di ecosistema terrestre? Perché siamo diventati l'unico animale con una distribuzione pressoché globale?

Il paleoantropologo Clive Gamble ha proposto di non considerare la colonizzazione globale come una strategia a dattativa che ha generato poi i comportamenti umani moderni sviluppati da Homo sapiens, ma di rovesciare la prospettiva esplicativa e di pensare che forse il susseguirsi delle dinamiche migratorie è stato l'effetto collaterale di un mutamento nel comportamento umano:

Vorrei argomentare che il processo di colonizzazione globale, piuttosto che essere un adattamento, è un exaptation, una conseguenza imprevista di cambiamenti fondamentali nel comportamento umano e non la ragione che ha dato origine a tali cambiamenti (Gamble 1994, p. IX).

Nemmeno nei flussi migratori che hanno reso planetaria la nostra specie sarebbe dunque inscritta una necessità evoluzionistica stringente, una ragione adattativa primaria (per esempio, quella secondo cui ci saremmo spostati ogni volta a causa di cambiamenti climatici o altro), bensì una dinamica exattativa più complessa. Non si potrebbe spiegare altrimenti il fenomeno, decisamente poco "efficiente" da un punto di vista adattativo, di popolazioni che abbandonano i fiorenti Tropici e decidono di sfidare i climi rigidi della Siberia, specializzandosi sempre più a nicchie ambientali ristrette e ostili. Eravamo naturalmente "portati" per farlo? La selezione naturale ci ha plasmati in vista della possibilità che diventassimo la sola specie planetaria? Siamo l'unico primate "ottimizzato" per la migrazione e per la colonizzazione?

Rovesciando la prospettiva, potremmo ipotizzare che anche la colonizzazione globale di Homo sapiens, come le prime colonizzazioni degli ominidi, non sia soltanto la conseguenza di una predisposizione adattativa irresistibile, ma anche la causa exattativa della nostra natura attuale: "il fatto di essere arrivati ovunque è più importante degli strumenti tecnici che ci hanno permesso di farlo" (p. 6). A tal proposito Gamble propone di distinguere i processi di "radiazione adattativa", nei quali una rapida diversificazione di specie a partire da un antenato comune permette alle specie figlie di occupare le nicchie ecologiche libere e di adattarsi a esse localmente e gradualmente, dai processi di "radiazione exattativa", nei quali un cambiamento adattativo iniziale in una specie (di tipo comportamentale e forte­mente discontinuo) produce una diversificazione exattativa di popolazioni che vanno a colonizzare nuove nicchie ambientali. La cooptazione opportunistica di strutture comportamentali e fisiche sviluppate precedentemente produce così un mosaico di exaptations regionali.

Nel caso di una radiazione exattativa, il processo di colonizzazione del pianeta non sarebbe un adattamento diretto ai diversi habitat esplorati, ma l'effetto collaterale di un cambiamento adattativo a monte. Se questa ipotesi venisse confermata significherebbe che il modello evolutivo (il "pattern") valido per la nascita e per lo sviluppo dell'intero cespuglio ominide potrebbe essere esteso anche alla spiegazione del processo di planetarizzazione di Homo sapiens: ominizzazione e planetarizzazione sarebbero due processi evoluzionistici complementari aventi le stesse strutture emergenti.

Oltre alla sua natura "exattativa", la diffusione di Homo sapiens sul pianeta presenta infatti forti caratteristiche di discontinuità e di sfasamento fra i ritmi di sviluppo anatomici, comportamentali e tecnologici. L'evento migratorio appare come un equilibrio punteggiato che interrompe lunghe fasi di stabilità: si tratta di una sorta di colonizzazione a singhiozzo, prodotta da ondate successive intervallate da lunghi periodi di sedentarietà. Ricapitolando le cinque grandi fasi della planetarizzazione ominide, riscontriamo alcuni soglie di discontinuità "pionieristiche".

Prima fase. Fra 5 e i milione e 800.000 anni fa l'areale di distribuzione degli ominidi si estende in una fascia latitudinale piuttosto stretta che va dall'Africa orientale all'Africa meridionale, comprendendo forse le regioni dell'attuale fascia subsahariana (negli attuali Ciad e Sudan). Le nicchie ambientali occupate (cioè savana tropicale in formazione alternata a foreste oppure praterie erbose) presentano una grande ricchezza di piante e di animali, con risorse abbondanti e facilmente accessibili.

Seconda fase. Una prima discontinuità sancisce l'uscita dall'Africa di Homo ergaster e la sua diffusione nell'Asia meridionale (attraverso le tre penisole asiatiche), in Medio Oriente, nella regione indonesiana, in Cina e in Europa meridionale. Homo ergaster si insedia anche lungo la costa africana del Mediterraneo, nella fascia dell'attuale Maghreb. Le specie associate finora a questa stagione arcaica della planetarizzazione sono cinque: ergaster, erectus, antecessor, heidelbergensis e neanderthal. Viene aggirata la barriera geografica dei deserti sahariano e arabico, permettendo all'umanità di sfruttare una seconda tipologia di nicchie ambientali fertili e ricche di cibo: le vaste praterie erbose della fascia temperata del continente eurasiatico.

Terza fase. Dopo un lungo periodo di occupazione stabile del Vecchio Mondo da parte di queste cinque specie, una seconda discontinuità porta alla nascita in Africa e alla successiva diffusione fuori dall'Africa della specie Homo sapiens, intorno a 100.000 anni fa. Le forme arcaiche scompaiono, ma solo tardivamente. Rispetto all'areale delle forme precedenti, i sapiens si spingono più a settentrione, invadendo le steppe e le tundre asiatiche, habitat che nonostante la rigidità del clima presentano ancora una buona disponibilità di cibo. Altrove non raggiungono i territori occupati dai predecessori, mentre in alcune regioni temperate essi convivono lungamente con gli erectus e i neanderthal.

Quarta fase. Una nuova stagione di impetuose ondate migratorie di sapiens dall'Africa produce una terza grande accelerazione della planetarizzazione, intorno a 50.000 anni fa: tutto l'areale di distribuzione delle forme arcaiche è rioccupato, dalla Cina all'Europa, dal Giappone all'Africa meridionale. I sapiens colonizzano il continente australiano e, in seguito, le Americhe: la presenza umana si estende dunque su tutti i continenti, escluso l'Antartide, e su tutte le latitudini. Vengono rapidamente abitate anche nicchie ambientali adattativamente sfavorevoli per l'uomo, come la giungla equatoriale, le foreste tropicali, le macchie temperate, le foreste boreali, le zone subglaciali. Appaiono evidenti i segni di un'ulteriore modificazione comportamentale che permette ai sapiens di stabilirsi in qualsiasi tipo di ambiente terrestre dove vi sia una fonte, anche povera e poco accessibile, di cibo.

Quinta fase. Da 15.000 a 500 anni fa Homo sapiens completa l'occupazione di gran parte delle terre emerse, isole comprese, raggiungendo il Madagascar, l'Islanda, le isole dell'Oceano Indiano, la Polinesia, le isole dell'Oceano Atlantico. La regione artica, dal Canada settentrionale alla Groenlandia, viene abitata da pescatori di ceppo mongolo provenienti dall'Alaska a partire da 4.500 anni fa, in siti come Qeqertasussuk. Anche arcipelaghi molto remoti, come le Hawaii, o isole aride e lontanissime dalla terra ferma, come l'Isola di Pasqua, vengono colonizzati. La presenza umana si addentra nei deserti (nel Kalahari, o in Australia) e sulle montagne. Fino a prova contraria, l'Antartide rimane il solo continente non calpestato (almeno stabilmente) da piede umano. Nel frattempo, le esplosioni demografiche prodotte dall'introduzione simultanea dell'agricoltura in cinque o sei regioni del globo generano nuove ondate espansive di popoli e nuove colonizzazioni.

Il "set" di modelli evoluzionistici post-darwiniani (equilibri punteggiati, evoluzione spaiata, exaptation) si ripete a scale temporali differenti e fornisce agli scienziati una-griglia epistemologica estremamente interessante per le ricerche future. Caduta l'impalcatura del progressionismo e liberate le energie represse dagli approcci deterministi e riduzionisti alla storia naturale e umana, è come se nella molteplicità e nell'unicità irriducibile delle storie evolutive che hanno condotto alla biodiversità e all'umanità attuali cominciassero a emergere alcune "strutture ricorrenti", alcune forme emergenti di regolarità non prescrittiva e non deterministica capaci di descrivere la complessità del doppio processo di ominizzazione e di planetarizzazione. Questi modelli emergenti trascendono, al contempo, le barriere disciplinari e le barriere temporali, instaurando una relazione di continuità e di tessitura ininterrotta fra la storia della vita sulla Terra, la storia delle forme animali, la storia naturale dei mammiferi e dei primati, la storia degli ominidi e la storia di Homo sapiens fra questi.” (pp. 295-300)

In breve:
“Ciò che conta è però la possibilità di concepire, anche per l'evoluzione naturale recente di Homo sapiens nelle sue più diverse nicchie ambientali, un'epistemologia evolutiva di tipo pluralista e puntuazionista, cioè una modalità di ricostruzione dei cammini evolutivi contingenti del popolamento umano che tenga conto di una pluralità di ritmi temporali, di cause primarie e secondarie, di contesti ecologici singolari.” (p, 304)

7.

Il saggio si conclude con una serie di interessanti e inquietanti riflessioni:

“La durata media della sopravvivenza di una specie animale sulla Terra si aggira intorno ai quattro milioni di anni. Homo sapiens ne ha compiuti 150.000. Quindi abbiamo trascorso meno del 4% dell'esistenza media che la natura concede a specie come la nostra. Se la vita di una specie fosse come la vita di un essere umano, noi avremmo da poco compiuto il nostro terzo anno d'età. Agli occhi della biosfera Homo sapiens è quindi una specie bambina che ha cominciato appena a balbettare qualche parola ma che già procura danni irreparabili: un autentico monello. Saremo così previdenti da raggiungere l'età adulta?

Questa specie bambina si è rivelata prodigiosa nel conquistare gli spazi terrestri. Li ha sottomessi in una manciata di millenni. Da alcuni anni ha raggiunto anche l'orbita della Terra, fotografando il globo dall'esterno. Alcuni suoi fortunati e coraggiosi esponenti hanno raggiunto il nostro unico satellite e hanno visto sorgere l'alba della Terra all'orizzonte lunare. La specie bambina ha già fatto esperienza della propria compiutezza territoriale, del proprio limite per ora invalicabile, del proprio isolamento cosmico. Ha lanciato Pioneer IO ai confini del sistema solare. Ha deciso di costruire una stazione orbitante, abitata in modo permanente. Sta preparando la prima missione umana su Marte, il pianeta fratello lontano sei mesi di navigazione cosmica. Tuttavia, la Terra rimane la sola oasi di vita che sappiamo abitare. Per ora non c'è un pianeta di ricambio.

Mentre lo spazio esplorabile si esaurisce e il nostro habitat coincide con l'intero pianeta, il tempo profondo della storia naturale della specie umana rivela la natura fragile e preziosa della sua permanenza. Non ci siamo scelti un pianeta stabile e questo forse, come aveva intuito James Lovelock, è proprio il segreto della vita. Deriviamo da una serie di pulsazioni della biosfera che hanno sconvolto gli equilibri ecosistemici in più occasioni. Per di più, la funzione delle estinzioni di massa non è stata quella di eliminare i meno adatti, ma quella di regolare lo spazio disponibile per nuove speciazioni impedendo la saturazione degli ecosistemi. A seguito ditali ristrutturazioni radicali del biota terrestre, nuove proliferazioni di forme viventi hanno ripopolato tutte le nicchie ecologiche.

La natura ha un suo respiro millenario. Nello spazio ecologico lasciato libero dall'estinzione la vita sperimenta nuove strade, produce miriadi di specie dalla vita inizialmente breve e riaccende i motori della coevoluzione fra le popolazioni di organismi e gli habitat. Questa fase di instabilità e di proliferazione si esaurisce quando gli ecosistemi raggiungono equilibri accettabili.

Allora il numero di specie rimane standard, mentre le estinzioni di sfondo e la selezione naturale fanno il loro corso normale. Ma l'armonia e un privilegio che non regge in natura: ben presto imminenti perturbazioni appariranno minacciose all'orizzonte, aprendo nuovi campi di possibilità.” (pp. 343-344)

“Grazie a Homo sapiens, dunque, anche l'evoluzione ha avuto un'evoluzione. La nostra specie è andata in fuga, per i sentieri accelerati della trasmissione culturale e del progresso tecnologico. Sta bruciando le tappe verso una meta ignota. L'evoluzione biologica ha trasceso se stessa, permettendo a una sola specie di modificare la propria identità biologica, di fare ingegneria con i codici genetici proprio e di altre specie, di sfruttare e manipolare la natura nel tentativo disperato di fare convivere in un ecosistema finito una popolazione in crescita indefinita. Quali saranno le condizioni sociali, igieniche ed economiche dell'umanità quando saremo dieci miliardi?

Come abbiamo già accennato, alcuni scienziati si sono chiesti se non vi sia una sorta di "necessità evoluzionistica" autolesionista, una sorta di parabola a boomerang, in questo abbandono degli ormeggi naturali (Wills 1998). L'evoluzione biologica produce complessità, la complessità produce l'intelligenza autocosciente e libera, questa intelligenza trascende l'evoluzione biologica e mette a repentaglio la sopravvivenza di sé e della natura (Wilson 1992). Sarebbe dunque insita nel processo evoluzionistico una torsione potenzialmente suicida, un avvitamento su di sé che blocca prima o poi l'esperimento di coscienza superiore, indipendentemente dalla specie in cui esso si realizza? Si tratterebbe, in tal caso, di una forma di "principio antropico" alla rovescia applicato alla vita sulla Terra.

Alcuni anni fa alcuni cosmologi (Dyson 1985) fecero notare che le costanti fisiche universali dell'universo emerse dal Big Bang erano perfette per la nascita della vita. Se anche una sola di esse fosse stata leggermente diversa, per esempio il peso specifico del carbonio, la vita intelligente sulla Terra non sarebbe stata possibile. La deduzione logica fu che, in un certo senso, questo universo "prevedesse" fin dalla sua costituzione l'emergenza di una specie che lo osservasse, lo studiasse e si emozionasse davanti a un cielo stellato in estate. Nell'evoluzione cosmica sarebbe stata dunque inscritta una ragione teleologica, una finalità fisica: quella di giungere fino a noi. Freeman Dyson scrisse, in modo un po' altisonante, che "l'universo ci stava aspettando".

E piuttosto banale sottolineare come la visione evoluzionistica che abbiamo descritto nei capitoli precedenti sia divergente rispetto a questa forma di antropocentrismo cosmologico, a questa "iconografia della speranza" su scala universale. Il grande astronomo Dennis Sciama fece notare che se il nostro non fosse il solo universo esistente e possibile, ma ve ne fossero in numero infinito, allora il principio antropico sarebbe un'ovvia tautologia: è scontato che l'universo in cui noi siamo ci appaia perfettamente adattato alla nostra presenza. Ma le cose potevano andare diversamente e forse altrove, in un universo parallelo, sono andate davvero in un'altra direzione. In ogni caso, l'universo appare finora abbastanza indifferente ai nostri destini...

Ma il rischio maggiore del principio antropico è quello di non essere all'altezza del compito! Se l'universo ha fatto così grande affidamento sul nostro arrivo, la nostra sopravvivenza è una grande responsabilità. Non vorremo certamente deludere l'universo. Usiamo un "esperimento mentale" come prova e chiediamoci: perché nessuna civiltà extraterrestre viene a farci visita dal futuro? Se è probabile che esistano altre forme di vita, dato il numero elevatissimo di sistemi planetari simili al nostro che ruotano attorno a miliardi di stelle in altre regioni del cosmo, statisticamente alcune di queste saranno più avanzate della nostra. Quindi è presumibile che altre civiltà, avanti a noi di millenni, abbiano acquisito le tecnologie necessarie per superare grandi distanze cosmiche e quindi per raggiungerci.

Esclusa l'ipotesi che non vengano a trovarci perché non siamo interessanti (perché negherebbe l'idea che lo sviluppo dell'intelligenza proceda di pari passo con lo sviluppo della curiosità scientifica, ma una civiltà aliena "indolente" e indifferente è piuttosto irrealistica), non rimane altro che ipotizzare che le civiltà superiori non vengano a trovarci... perché già estinte! Vi sarebbe cioè una sorta di legge di "insostenibiità" dell'evoluzione culturale rispetto all'evoluzione biologica: ogni volta che una specie raggiunge questo livello di progresso tecnologico innesca meccanismi autodistruttivi (il catalogo è lungo: armi di distruzione di massa incontrollate, deterioramento irreversibile della biosfera, sovrappopolamento e disuguaglianze sociali planetarie...) che interrompono l'esperimento evolutivo.

In questa prospettiva virtuale decisamente pessimistica l'evoluzione culturale e tecnologica di una specie come Homo sapiens sarebbe per definizione insostenibile rispetto agli equilibri sedimentati nel tempo profondo dell'evoluzione biologica. L'intelligenza acquisita dal nostro eroe nella sua marcia trionfale di progresso sarebbe allora un regalo avvelenato, un dono perfido della sorte, il mezzo attraverso il quale l'evoluzione, come gli dei cannibali delle cosmogonie arcaiche, divora i suoi figli prediletti.

Secondo questa ipotesi suggestiva (ma non priva di difetti deterministici) principio antropico e principio negantropico sarebbero in un certo senso due direttrici tragicamente complementari: l'universo presenta sì le caratteristiche uniche per la nostra emergenza e per il nostro successo, ma esattamente nello stesso modo in cui "ha previsto" la nostra nascita, al fine di essere studiato e osservato da un essere cosciente, esso prevederebbe anche la nostra autodissoluzione, il nostro annientamento per ipertrofia tecnologica. Ecco perché nessuna civiltà superiore viene a farci visita e a illustrarci i suoi mirabolanti risultati tecnologici: perché non fanno in tempo (Eldredge 1998; Wilson 1992, 2002).

Qualcuno preferisce pensare che gli alieni non vengano a trovarci perché, nella loro saggezza incommensurabile, non vogliono interferire nel corso degli eventi terrestri. Ma la speranza di smentire lo scenario "negantropico" risiede nella comprensione dello stretto passaggio fra sviluppo e autodistruzione, con un occhio sempre molto attento alla lunga storia naturale della nostra specie: noi siamo solo la preistoria di infinite altre storie e i nostri successori fra diecimila anni vedranno la nostra epoca come uno sbiadito preambolo di altri eventi, di altri sconvolgimenti. Imbricate forse in una grande rete cognitiva globale, le loro menti penseranno di aver raggiunto un progresso incommensurabile nel comportamento e nella morale. Ma anche questa sarà una metafora rischiosa, una metafora sempre più pericolosa.

Il progresso contiene i semi della propria estinzione, perché produce generazioni di esseri umani sempre meno capaci di coesistere con la propria potenza. Il suo paradosso consiste nel fatto che più esso avanza più questi germi diventano prolifici: la forbice si allarga. Il progresso non ha dunque bisogno di "freni" quantitativi o di Cassandre inascoltate, ha bisogno di antidoti culturali che ne colgano le ambiguità radicali. La storia naturale di Homo sapiens, nelle sue evidenze squisitamente amorali e "negantropiche" (e proprio per questo genuinamente umanistiche), potrebbe insegnarci non a vivere meglio, né a vivere una volta per tutte in modo arcaico in mezzo a valli incontaminate, ma a prolungare il più possibile questa nostra permanenza insostenibile sul pianeta.

La cornice temporale dei milioni di anni, che ci ha accompagnato fin dall'inizio di questo libro, porta con sé una rivoluzione concettuale tanto semplice quanto profonda riguardo alla nostra coscienza di specie: per gran parte della storia naturale della Terra noi non c'eravamo; se le cose fossero andate in modo leggermente diverso noi oggi non ci saremmo, e, come ogni altra specie, verrà il giorno in cui comunque non ci saremo più.” (pp. 360-364)

8.

Il libro di Pievani conferma quello che ho avuto occasione di dire altre volte sulla dimensione filosofica della scienza. La scienza non può presumere di arrivare alla “verità”: essa, però, asseconda la pulsione umana della ricerca intellettuale, fornendo ad essa strumenti preziosi, tratti dall’osservazione o dalla sperimentazione, che minimizzano (senza estinguerlo) il pericolo che la mente umana proceda a ruota libera (circostanza che si è realizzata anche troppo spesso nel corso della storia della filosofia).

L’evoluzionismo ha illuminato alcuni aspetti della vicenda e della condizione umana di straordinario interesse. Dalla recensione risulta sufficientemente chiaro che, ciò facendo, ha anche prodotto una serie di problemi che non si possono ritenere del tutto risolti.

Nonostante gli sforzi degli studiosi, il grande balzo in avanti continua ad avere qualcosa di misterioso, soprattutto per quanto riguarda la “scintilla” che ha permesso all’uomo di utilizzare le enormi potenzialità cerebrali del cervello.

A riguardo, senza alcuna presunzione, ho avanzato un’ipotesi nella recensione del Il cammino dell’uomo di Ian Tattersal. Rimando ad esso per non ripetere cose già dette.