La nostra storia - Cosa ci rende speciali

Dal mensile "Le Scienze", mumero speciale 555 del novembre 2014

MEGLIO IN DUE

L’unione di coppia potrebbe essere stata la migliore mossa evolutiva mai compiuta dai nostri antenati

Articolo di Blake Edgar, coautore di diversi libri, tra cui From Lucy to language e collabora con «Archeology Magazine»; è senior acquisitions editor per la University of California Press.

Anche nelle società umane in cui la poligamia è permessa, l’assetto riproduttivo più comune è la monogamia. Da questo punto di vista, l’essere umano è un animale eccezionale: solo meno del dieci percento dei mammiferi si lega in relazioni sessuali esclusive.

In che modo siamo arrivati a questa situazione è argomento di dibattito scientifico da decenni ed è ancora una questione aperta. Le nuove ricerche, tuttavia, stanno contribuendo a far luce sull'’argomento.

Oggi sappiamo che primi ominini, emersi più di sette milioni di anni fa, potrebbero essere stati monogami. Gli esseri umani sono rimasti (prevalentemente) tali per buone ragioni: questo ordinamento sociale ci avrebbe aiutati a evolvere nei conquistatori dal grande cervello che siamo oggi.

I mammiferi non sono grandi amanti della monogamia, l’accoppiamento esclusivo tra due esemplari è pratica comune in meno del dieci per cento delle specie e, tra questi, i primati sono solo leggermente più inclini all'unione di coppia. Tra il 15 e il 29 per cento delle specie di primati preferisce la vita di coppia, tuttavia sono assai meno quelle che si vincolano alla monogamia così come la conosciamo noi esseri umani, ovvero una collaborazione esclusiva di natura sessuale tra due individui.

Gli esseri umani hanno evidentemente la coscienza un po' sporca. La gente tradisce, divorzia e in alcune culture sposa più di un compagno. La poligamia in effetti è presente nella maggior parte delle società del mondo, ma, anche dove è ammessa, si tratta di un accordo minoritario. La maggior parte delle società umane ruota attorno all’assunto che una significativa parte della popolazione si impegnerà in una relazione di coppia duratura e sessualmente esclusiva. E sembra che la monogamia abbia giovato alla nostra specie. Il cosiddetto «legame di coppia», il nome dato dagli scienziati alla relazione monogama, è stato un adattamento cruciale realizzatosi tra i nostri più lontani antenati e diventato poi fondamentale per il sistema sociale dell’essere umano e per il suo successo evolutivo. «I legami di coppia ci hanno garantito un notevole vantaggio rispetto a molte altre specie», sostiene Bernard Chapais, antropologo dell’Università di Montreal.

La coppia inoltre forma la base di qualcosa di squisitamente umano: la vasta e complessa rete sociale in cui viviamo. Altri giovani primati stabiliscono legami di parentela solo tramite la madre; gli esseri umani riconoscono i legami di parentela di entrambi i genitori, ampliando i legami di famiglia a ogni generazione. Tra gli esseri umani, le reti sociali si allargano fino a includere altre famiglie e addirittura gruppi di non consanguinei, in ondate relazionali sempre più ampie. Secondo Chapais, questo tipo di legami sociali e la monogamia sono «due delle caratteristiche della società umana con il più chiaro rapporto di consequenzialità».

Da decenni gli scienziati cercano di comprendere le origini e le implicazioni della monogamia dell’essere umano. Le domande più importanti - quando abbiamo iniziato a scegliere un partner per tutta la vita, perché questa scelta si è rivelata vantaggiosa e in che modo la formazione di coppie potrebbe aver contribuito al successo della nostra specie - rimangono senza risposta e sono motivo di controversia. Alcune ricerche recenti, però, ci stanno portando più vicino alla soluzione del mistero.

Le origini della coppia

È sicuramente possibile che i nostri antenati più lontani fossero monogami. Secondo C. Owen Lovejoy, antropologo della Kent State University, le prove fossili suggeriscono che la monogamia risalirebbe addirittura a prima della comparsa di Ardipithecus ra- midus, la specie descritta da uno scheletro femminile parziale, soprannominato «Ardi» e datato 4,4 milioni di anni fa, scoperto nella regione del Medio Awash, in Etiopia. Secondo l’ipotesi di Lovejoy, poco dopo la separazione dall’ultimo antenato comune tra grandi scimmie e rami evolutivi umani, avvenuta oltre set te milioni di anni fa, i nostri predecessori hanno adottato tre comportamenti che hanno portato a grandi cambiamenti, il trasporto del cibo con le mani liberate dalla postura bipede, la formazione di legami di coppia e l’occultamento dei segnali esterni dell ovulazione femminile. Evolvendosi insieme, queste innovazioni hanno dato agli ominini, la tribù emersa quando i primi umani si sono separati dagli scimpanzé, un vantaggio riproduttivo rispetto alle grandi scimmie.

Secondo questa ipotesi, il precedente sistema riproduttivo poligamo è stato soppiantato dal legame di coppia nel momento in cui gli ominini maschi di basso rango gerarchico hanno dirottato le proprie energie dal combattimento alla ricerca di cibo da offrire alle femmine come incentivo all’accoppiamento. Le femmine avrebbero quindi privilegiato fornitori affidabili rispetto a competitori aggressivi, iniziando a legarsi ai migliori procacciatori di cibo. Alla fine le femmine avrebbero perso i segnali di ricettività sessuale che avrebbero potuto attrarre altri maschi mentre il partner era lontano, alla ricerca di cibo.

Le prove, secondo Lovejoy, si trovano nei denti di A. ramidus. Confrontato con grandi scimmie viventi e loro reperti fossili, A. ramidus mostra una netta riduzione della differenza tra le dimensioni dei canini sia nei maschi sia nelle femmine. L’evoluzione ha affilato i canini di molti primati maschi facendoli diventare formidabili armi da combattimento nella lotta per la conquista delle femmine. Non è stato così per i primi ominini. provate a immaginare i canini di un gorilla maschio e poi date un occhiata alla vostra bocca, gli esseri umani di entrambi i sessi hanno canini piccoli e tozzi, un tratto decisamente non minaccioso, unico degli ominini, inclusi i primissimi esemplari di Ardipithecus.

C’è inoltre una correlazione di massima tra il comportamento riproduttivo nei primati e il dimorfismo sessuale, cioè la differenza di massa corporea e dimensioni tra maschi e femmine della stessa specie. Più grande è il grado di dimorfismo di una specie, più elevate sono le probabilità che i maschi conquistino il diritto all’accoppiamento con il combattimento. Da un lato troviamo i gorilla, che sono poligami, in cui i maschi possono raggiungere una massa corporea pari al doppio di quella delle femmine, mentre all’estremo opposto abbiamo maschi e femmine di gibbone, principalmente monogami, la cui massa corporea è sostanzialmente simile. Sullo spettro del dimorfismo l’essere umano si trova più vicino ai gibboni, dal momento che il maschio può arrivare a una massa corporea fino al 20 per cento più grande rispetto a quella della femmina.

Quello che possiamo desumere dai fossili, tuttavia, si ferma qui. J. Michael Plavcan, paleoantropologo dell’Università dell’Arkansas, richiama alla cautela nel passaggio dalle ossa fossili degli ominini al loro comportamento sociale. Consideriamo Australopithecus afarensis, la specie di Lucy vissuta tra 3,9 e 3 milioni di anni fa. Come Ardipithecus, anche A. afarensis aveva canini piccoli, ma lo scheletro mostra un livello di dimorfismo che, se consideriamo ancora una volta lo spettro citato prima, si colloca tra gli scimpanzé moderni e i gorilla. «Il livello di dimorfismo relativo alle dimensioni del corpo suggerisce che i maschi di A. afarensis fossero in competizione per le femmine, ma la perdita del dimorfismo dei canini suggerisce il contrario. Un vero enigma», osserva Plavcan.

Diversi antropologi hanno inoltre messo in discussione la conclusione di Lovejoy secondo cui la monogamia promossa da maschi che procurano cibo alle proprie compagnie e ai piccoli sia stata la strategia adottata dagli ominini per milioni di anni. L’anno scorso, Chapais ha sostenuto sulla rivista «Evolutionary Anthropology» che le caratteristiche della famiglia e della struttura sociale dell’essere umano (monogamia, legami familiari estesi ai parenti di entrambi i genitori ed espansione delle cerehie sociali) siano emersi in sequenza. Prima del primo evento, sostiene Chapais, sia i maschi sia le femmine degli ominini erano promiscui, come gli scimpanzé. In seguito è arrivata la transizione verso la poligamia, come la troviamo nei gorilla. Avere più compagne, però, non è cosa da poco: implica dover sostenere svariati combattimenti con gli altri maschi e controllare le femmine. In questo senso, la monogamia potrebbe essersi affermata come modo migliore per ridurre lo sforzo richiesto dalla poligamia.

Chapais si rifiuta di speculare in merito a quando questa trasformazione sia avvenuta e quali specie abbia coinvolto. A riguardo, tuttavia, altre ricerche indicano il periodo che va da due a 1,5 milioni di anni fa, ovvero dopo l’origine del genere Homo e in coincidenza con le modifiche fisiche evidenti in Homo erectus, molto probabilmente la prima specie di ominini che emigrò fuori dai confini dell’Africa.

Rispetto ai predecessori, H. erectus aveva un corpo più massiccio, le cui proporzioni si avvicinano a quelle dell’essere umano moderno. Circa il doppio della specie di Lucy, H. erectus sembra inoltre meno dimorfico rispetto agli australopitechi e ai primi membri di Homo. Alcuni reperti fossili, sebbene in quantità limitata, indicano che le femmine di H. erectus avevano iniziato a raggiungere la statura fisica dei maschi e ad avere un grado di dimorfismo simile a quello dell’essere umano moderno, fenomeni che, presi assieme, potrebbero suggerire che lo stile di vita di questa specie era meno centrato sulla competitività rispetto ai suoi antenati. Dato che le specie di primati che mostrano dimensioni del corpo simili tra maschio e femmina tendono a essere monogame, questo cambiamento potrebbe segnalare uno spostamento verso un legame di coppia più esclusivo.

Un’alleanza strategica

Se gli scienziati non concordano su quando gli umani sono diventati monogami, difficilmente potremo aspettarci che concordino sul perché. Nel 2013, due gruppi di ricerca hanno pubblicato i risultati di altrettanti studi statistici indipendenti redatti sulla base della letteratura esistente per determinare quali comportamenti possano essere stati il fattore determinante della monogamia. L’obiettivo di entrambi gli studi era stabilire quale fosse la migliore spiegazione della monogamia fra tre ipotesi riguardanti rispettivamente la separazione spaziale tra le femmine, la prevenzione dell’infanticidio e le cure genitoriali paterne.

Secondo la prima ipotesi, la monogamia emerge dopo che le femmine iniziano a stabilirsi in territori più ampi per garantirsi un accesso migliore a risorse alimentari limitate e, in questo processo, ad aumentare le distanze l’una dall’altra. Con femmine sempre più lontane tra loro, i maschi hanno più difficoltà a trovare e mantenere più di una compagna. Stabilirsi con una sola partner avrebbe reso più facile la vita del maschio, riducendo il rischio di essere ferito durante il controllo del territorio e assicurandogli che la prole generata della compagna fosse la propria.

Dieter Lukas e Tim Clutton-Brock, zoologi dell'Università di Cambridge, hanno trovato prove a sostegno di questa idea grazie ai risultati di un’analisi statistica su 2545 specie di mammiferi, pubblicata in un articolo su «Science». Secondo i dati, in origine i mammiferi erano solitari, in seguito però, e per 61 volte, alcune specie sono passate alla monogamia. La monogamia è emersa più di frequente tra le specie carnivore e tra i primati, suggerendo che una specie sceglie una relazione di coppia quando la femmina necessita di una dieta ricca ma composta da alimenti rari (come le carcasse ricche di proteine o i frutti maturi) che di norma si possono procacciare solamente setacciando aree piuttosto vaste. Questi dati rappresentano la più solida base statistica a supporto dell’ipotesi che il progressivo aumento delle distanze e il conseguente isolamento delle femmine abbia portato i maschi a prediligere il legame con un’unica partner.

Lukas riconosce che sebbene l’ipotesi possa funzionare per i non umani, potrebbe non essere così appropriata per gli umani, è difficile combinare l’intrinseca socialità degli esseri umani con una teoria basata su una bassa densità di femmine disponibili. È probabile che i nostri antenati fossero troppo sociali per arrivare a una distribuzione spaziale dispersiva delle femmine come negli altri mammiferi. Questa teoria, però, potrebbe essere valida anche per noi se la monogamia fosse emersa negli ominini prima della tendenza a vivere in gruppi.

La seconda ipotesi sostiene che la monogamia abbia avuto origine dall’esistenza di una minaccia alla vita dei cuccioli. Quando in una comunità un rivale sfida o soppianta il maschio dominan te, l’usurpatore può uccidere i piccoli non suoi, in questo modo, le madri smettono di allattare e ricominciano a ovulare, dando al maschio predatore la possibilità di trasmettere i propri geni. Per evitare questo infanticidio, le femmine avrebbero quindi selezio
nato un alleato maschio in grado di difenderle insieme ai propri piccoli.

In uno studio pubblicato sui «Proceedings of the National Academy of Sciences», Kit Opie, antropologo dello University College di Londra, ha presentato alcune prove a sostegno di questa ipotesi. Insieme ai colleghi, Opie ha simulato al computer la storia evolutiva di 230 specie di primati, poi ha applicato al risultato della simulazione una cosiddetta analisi statistica Bayesiana per determinare quale delle tre ipotesi sull origine della monogamia avesse le maggiori probabilità di essere corretta. Opie e colleghi hanno identificato una correlazione significativa tra la monogamia nei primati e ciascuna delle tre ipotetiche cause, ma solo un aumento della minaccia di infanticidio precedeva in maniera consistente l’apparizione della monogamia in più linee evolutive.

Biologia e comportamento dei primati moderni contribuiscono a rendere ancora più plausibile la conclusione che la minaccia di infanticidio sia un incentivo alla monogamia. Questo rischio è particolarmente elevato tra i primati, il loro cervello, di notevoli dimensioni, ha bisogno di tempo per svilupparsi e questo lascia a lungo i cuccioli in uno stato di dipendenza e vulnerabilità. L’uccisione dei piccoli è stata osservata in oltre 50 specie di primati e vede in genere un maschio esterno al gruppo attaccare un piccolo nel tentativo di stabilire il dominio o l’accesso alle femmine. Queste prove, però, hanno un limite: quasi tutte le specie studiate hanno un sistema di accoppiamento promiscuo o poligamo, così la distribuzione dell’infanticidio nei primati viventi non concorda con la previsione che la monogamia debba necessariamente evolvere nei casi in cui l’infanticidio è una grande minaccia.

La terza ipotesi sull evoluzione della monogamia enfatizza il ruolo del maschio e del suo contributo alle cure parentali. Quando un piccolo diventa troppo oneroso in termini di calorie ed energia per una madre che deve crescerlo da sola, il padre che rimane con la famiglia e fornisce cibo e altre forme di attenzioni aumenta le probabilità di sopravvivenza della prole e incoraggia la creazione di legami più stretti con la genitrice.

Un’idea collegata, proposta da Lee Gettler, antropologo all’Università di Notre Dame, sostiene che il semplice trasporto dei cuccioli da parte del padre incoraggi la monogamia. Le madri devono soddisfare la significativa richiesta energetica dell’allattamento. Tuttavia per i primati e gli esseri uomini cacciatori-raccoglitori, trasportare un piccolo senza l’aiuto di una fascia o di altri mezzi di contenimento implica un dispendio di energia pari a quello dell’allattamento al seno. Il trasporto da parte dei padri potrebbe aver consentito alle femmine di soddisfare le proprie necessità energetiche permettendo loro di spostarsi liberamente alla ricerca di cibo.

La scimmia aoto di Azara (Aotus azarac) del Sud America potrebbe offrire alcuni indizi su come le cure paterne possano rafforzare la monogamia. Questa specie vive in piccoli gruppi familiari, composti da una coppia adulta (un maschio e una femmina) e un piccolo, più uno o due esemplari poco più grandi dell’ultimo nato. La madre trasporta il neonato subito dopo la nascita. Il padre del cucciolo, tuttavia, si fa carico della maggior parte delle cure - tra cui grooming, gioco e alimentazione - e del trasporto a partire da quando il piccolo ha due settimane di età. La coppia adulta rimane letteralmente in contatto con frequenti tocchi della coda e la vicinanza del maschio sia alla femmina sia al cucciolo potrebbe promuovere legami emotivi più profondi.

In effetti, uno studio pubblicato a marzo sui «Proceedings of the Royal Society B» ha presentato dati genetici che confermano il legame monogamo delle coppie di aoto di Azara, è stata la prima conferma genetica che riguarda un primate non umano. I campioni di DNA raccolti da diversi gruppi di ricerca hanno mostrato che tutte le femmine e tutti i maschi, tranne uno, di 17 coppie, erano i genitori più probabili di 35 cuccioli. «Ce la mettono tutta e si impegnano in una relazione monogama in termini genetici» ha commentato Eduardo Femandez-Duque, antropologo ora alla Yale University e coautore dello studio. Il legame di coppia tra le aoto di Azara dura in media nove anni e gli animali che rimangono con lo stesso partner hanno un maggior successo riproduttivo: il fine ultimo dell’evoluzione in qualsiasi sistema di accoppiamento.

Che cosa dicono i due recenti studi statistici in merito all’ipotesi delle cure paterne? Entrambi hanno concluso che queste cure sembrano il fattore che ha meno probabilità di innescare l’accoppiamento monogamo, ma, afferma Lukas, «le cure paterne potrebbero spiegare perché una specie rimane monogama».

Ci vuole un villaggio

Un coppia monogama di genitori non è sufficiente per crescere una scimmia sveglia e sociale come un umano, sostiene Sarah Hrdy, antropoioga dell’Università della California a Davies. Un cucciolo umano consuma circa 13 milioni di calorie durante il lungo viaggio che lo porterà dalla nascita alla maturità, un pesante fardello per una madre, anche con l’aiuto di un compagno. Questa esigenza potrebbe spiegare perché in molte società le madri si affidino ai cosiddetti «allogenitori» (come i familiari di ciascun genitore o altri membri del proprio gruppo sociale) per contribuire alle cure e all’alimentazione del bambino. «Le madri sono ben disposte a lasciare che altri individui prendano in braccio il proprio piccolo già dalla nascita - nota Hrdy - ed è incredibile, si tratta un comportamento diverso rispetto a quello delle grandi scimmie». L’allogenitorialità infatti non si osserva in nessuna specie di grande scimmia.

Hrdy sostiene che questo tipo di cure parentali cooperative, un sistema sociale in cui gli allogenitori contribuiscono alla cura dei giovani, si è evoluto tra i nostri antenati circa due milioni di anni fa, a partire da H. erectus. Questa specie aveva un corpo e un cervello molto più grandi di quelle che l’avevano preceduta, seconda una stima, H. erectus aveva bisogno del 40 percento in più di energia metabolica rispetto agli ominini precedenti. Se H. erectus ha dato inizio a un percorso di sviluppo ritardato e di prolungata dipendenza, come si osserva negli esseri umani moderni, l’allogenitorialità cooperativa potrebbe essere stata una scelta obbligata per far fronte alla richiesta energetica necessaria alla crescita di bambini con cervelli più grandi.

Senza cure parentali cooperative, concludono Karin Isler e Carel van Schaik, entrambi all’Università di Zurigo, i primi Homo non avrebbero potuto superare l’ipotetica «soglia di sostanza grigia» che limita il cervello delle scimmie a un volume massimo di circa 700 centimetri cubi.

Per sostenere il costo energetico di un cervello più grande, un animale deve ridurre il proprio tasso di natalità o di crescita, oppure entrambi. Ma gli esseri umani hanno raggiunto periodi di svezzamento più brevi e un successo riproduttivo maggiore rispetto a quanto sarebbe stato possibile per un animale dotato di un volume cerebrale tra i 1100 e i 1700 centimetri cubi. Isler e van Schaik attribuiscono questo successo all’allogenitorialità, che ha permesso a H. erectus di riprodursi con una frequenza maggiore e allo stesso tempo di garantire alla propria prole energia sufficiente per lo sviluppo di un cervello più grande.

È stata la cooperazione, quindi, in forma di coppie monogame, nuclei familiari e tribù, che ha permesso agli umani di avere successo mentre tutti i nostri cugini e antenati fossili si sono estinti. In effetti, la cooperazione potrebbe addirittura essere l’abilità migliore acquisita negli ultimi due milioni di anni, quella che ha permesso al nostro giovane genere di sopravvivere a periodi di cambiamento e stress climatico, e quella che potrebbe determinare il futuro di una specie «giovane» dal punto di vista geologico come la nostra.

   

PER APPROFONDIRE

Reexamining Human Origins in Light of Ardipithecus ramidus. Lovejoy C.O., in «Science», Voi. 326, pp. 74,74e1 74e8,2 ottobre 2009.

The Evolution of Social Monogamy in Mammals. Lukas D., Clutton-BrockT.H., in «Science», Voi. 341 pp. 526-530,2 agosto 2013.

Male Infanticide Leads to Social Monogamy in Primates. Opie C. e altri, in «Proceedings of the National Academy of Sciences», Voi. 110, n. 33, pp 13.328- 13.332,13 agosto 2013.

Monogamy, Strongly Bonded Groups, and the Evolution of Human Social Structure. Chapáis B., in «EvolutionaryAnthropology», Voi. 22, n. 2, pp. 52-65, marzo-aprile 2013.

L’evoluzione dell’andatura bipede nell’uomo. Lovejoy C.O., in «Le Scienze», n. 245, gennaio, 1989.


UNO PER TUTTI

La capacità degli  esseri umani di  organizzarsi in grandi  società ha profonde  radici evolutive.

Articolo di Frans de Waal, C.H. Candler Professor di comportamento dei primati alla Emroy University e direttore del Living Links Center allo Yerkes National Prime Research Center. Tra i suoi libri: La scimmia che siamo (Mondolibri, 2007) e II bonobo e l’ateo (Raffaello Cortina, 2013).

Gli esseri umani hanno una capacità eccezionale di cooperare all’interno di gruppi ampi e ben organizzati, e usano un complesso sistema di moralità basato sulla reputazione e il castigo.

Gran parte degli elementi alla base di questa cooperazione, tuttavia - tra cui l’empatia e l’altruismo - si osserva anche nei nostri cugini primati.

Le capacità di cooperazione uniche di Homo sapiens sono ciò che ci ha permesso di diventare la specie dominante sulla Terra.

La discussione su come l’umanità sia diventata la forma di vita dominante, con una popolazione in crescita oggi verso gli 8 miliardi di individui, ha posto quasi sempre l’accento sulla competizione: i nostri antenati hanno conquistato nuovi territori, si dice, hanno spazzato via altre specie - tra cui i nostri fratelli Neanderthal - e hanno dato la caccia ai grandi predatori fino a portarli all’estinzione. Abbiamo sconfitto la natura, «rossa di sangue e d’artigli».

Questo scenario, tuttavia, è piuttosto improbabile. I nostri antenati erano troppo piccoli e vulnerabili per dominare la savana, e devono aver vissuto nel terrore costante dei branchi di iene, di almeno dieci diversi tipi di grandi felini e di altre bestie feroci. Probabilmente il nostro successo come specie è dovuto più alla nostra abilità di cooperazione che alla nostra violenza.

La nostra propensione a collaborare ha radice evolutive antiche, eppure solo noi ci organizziamo in gruppi in grado di realizzare imprese colossali e solo noi abbiamo una moralità comples
sa che enfatizza le responsabilità verso gli altri ed è fatta rispettare attraverso la reputazione e il castigo. E a volte siamo capaci di imprese che smentiscono l’idea degli esseri umani come soggetti animati solo dall’interesse personale.

Prendiamo un episodio avvenuto l’anno scorso nella metropolitana di Washington. Un guasto al motore della carrozzina di un passeggero ha fatto sì che finisse in mezzo alle rotaie: entro pochi secondi varie persone sono saltate sui binari e l’hanno ri portato sulla banchina poco prima che arrivasse il treno. Ancora più spettacolare è ciò che è successo nel 2007 nella metropolitana di New York, quando Wesley Autrey, un muratore di 50 anni, ha salvato la vita di un uomo caduto sui binari davanti a un treno in arrivo. Dato che era troppo tardi per farlo risalire, Autrey si è lanciato tra i binari e si è sdraiato sull’uomo, mentre cinque vagoni passavano sopra di loro.

Il suo è stato senz’altro un gesto straordinario. Ma che cosa l’ha spinto a rischiare la vita per aiutare uno sconosciuto? Per rispondere a questa domanda e capire come siamo arrivati a cooperare in modo così particolare, dobbiamo prima osservare il comportamento dei nostri cugini evolutivi, e in particolare i nostri parenti più stretti, scimpanzé e bonobo.

Cooperazione tra primati

Alla Yerkes National Primate Research Center della Emoiy University assisto regolarmente a esempi meno spettacolari di cooperazione tra questi animali. Le finestre del mio ufficio danno su un ampio recinto erboso dove un’anziana femmina di scimpanzé, Peony, trascorre le giornate assieme ai compagni. Quando l’artrite si fa sentire, Peony cammina e si arrampica con difficoltà. Ma mentre sbuffa e ansima per salire sulla struttura metallica può capitare che una giovane femmina, senza legami di parentela con lei, arrivi alle sue spalle, appoggi entrambe le mani sul suo ampio didietro e la spinga in alto. Abbiamo osservato altri scimpanzé portare acqua a Peony, per la quale la passeggiata fino al rubinetto è estenuante: quando si incammina in quella direzione, alcuni scimpanzé la superano e vanno a raccogliere una boccata d’acqua, poi si mettono di fronte all’anziana signora, che apre la bocca per permettere loro di farvi zampillare un getto d’acqua.

Vari studi recenti hanno documentato con cura la cooperazione tra primati, giungendo a tre conclusioni principali. In primo luogo la cooperazione non richiede legami di famiglia, anche se questi animali favoriscono i parenti, non limitano la cooperazione alla famiglia. Il DNA estratto da feci di scimpanzé raccolte nella foresta africana ha permesso ai ricercatori di esaminare quali animali cacciassero e viaggiassero insieme. Le collaborazioni più strette nella foresta coinvolgono individui non legati da rapporti di parentela. Gli amici si spulciano reciprocamente, si avvisano della presenza di predatori e condividono il cibo. Sappiamo che lo stesso accade anche tra i bonobo.

In secondo luogo la cooperazione si basa spesso sulla reciprocità. Gli esperimenti indicano che gli scimpanzé si ricordano dei favori ricevuti. Una ricerca ha studiato l’attività di grooming reciproco in una colonia in cattività, prima dell ora del pasto. Introducendo del cibo che poteva essere condiviso, per esempio angurie, i pochi fortunati possessori erano accerchiati da questuanti che tendevano le mani piagnucolando e frignando. I ricercatori hanno osservato che chi in precedenza aveva fatto grooming a un compagno aveva poi maggiori probabilità di ricevere una parte del cibo da quest’ultimo.

La cooperazione, infine, potrebbe essere motivata dall’empatia, una caratteristica di tutti i mammiferi, dai roditori ai primati. Ci identifichiamo con gli altri nel momento del bisogno e del dolore, un’identificazione che suscita emozioni che spingono a intervenire in soccorso. Gli scienziati sono ora convinti che i primati in particolare vadano oltre, arrivando addirittura a preoccuparsi del benessere altrui. In un esperimento ormai tipico, due scimmie sono l'una accanto all’altra, una di loro sceglie un gettone in base al colore: un colore ricompensa solo la scimmia che sceglie, mentre un altro ricompensa tutte e due. Dopo alcuni tentativi, la scimmia che sceglie opterà più spesso per l’oggetto «prosociale», una preferenza che non si basa sulla paura dell’altro animale, poiché le scimmie dominanti (che non hanno da temere) sono le più generose.

In questo test l'altruismo non ha un costo, i primati si aiutano nel test appena descritto, ma sappiamo che queste si aiutano a vicenda anche in caso di perdite significative. È noto che in natura gli scimpanzé adottano i piccoli orfani o difendono i compagni dai leopardi, entrambe forme di altruismo estremamente costose.

Le radici profonde dell’altruismo

Queste tendenze all’aiuto nei primati si sono probabilmente evolute a partire dalle cure materne richieste a tutti i mammiferi. Che siano topi o elefanti, le madri devono rispondere ai segnali di fame, dolore o paura dei piccoli, pena la loro morte. Questa sensibilità (assieme ai processi neurali e ormonali che la supportano) si è poi allargata ad altre relazioni, contribuendo ad aumentare legami emotivi, empatia e collaborazione in contesti sociali più ampi.

La cooperazione porta con sé benefici significativi, perciò non sorprende che si sia ampliata in questo modo. Nel regno animale la forma più comune è la cooperazione mutualistica, e la sua ampia diffusione è probabilmente dovuta ai suoi vantaggi immediati, come procurare cibo o difendere dai predatori. A caratterizzarla è l’impegno comune verso un obiettivo chiaramente vantaggioso per tutti, quando le iene cacciano in branco uno gnu, per esempio, o quando una decina di pellicani si mettono in semicerchio e guidano con le zampe i pesci dove l’acqua è più bassa, e tutti possono riempirsi il becco di prede. Questo tipo di cooperazione si basa su azioni coordinate e vantaggi comuni.

A partire da essa si possono sviluppare comportamenti cooperativi più complessi, come la condivisione. Se una iena o un pellicano dovessero monopolizzare l’intero bottino, il sistema crollerebbe. La sopravvivenza dipende dalla condivisione, il che spiega come mai sia gli uomini sia gli animali siano estremamente sensibili all equità della spartizione. Gli esperimenti mostrano che scimmie, cani e alcuni uccelli sociali rifiutano una ricompensa inferiore a quella di un compagno impegnato nello stesso compito, scimpanzé ed esseri umani, inoltre, possono ridurre la propria quota di una ricompensa comune per evitare la frustrazione dei compagni. Dobbiamo il nostro senso di equità a una lunga tradizione di cooperazione mutualistica.

La differenza umana

Gli studi antropologici hanno fornito chiari esempi di come la condivisione sia legata alla sopravvivenza. I cacciatori dell’isola di Lamalera, in Indonesia, navigano nell’oceano in grandi canoe, su cui una dozzina di uomini cacciano le balene praticamente a mani nude. Gli uomini remano verso la balena, uno di loro le salta sulla schiena e vi affonda l’arpione, poi rimangono nelle vicinanze aspettando che muoia dissanguata. Dato che intere famiglie sono legate tra loro in un’attività rischiosissima, dove gli uomini si trovano letteralmente sulla stessa barca, l’equa distribuzione del bot tino è un aspetto estremamente importante. Non sorprende quindi che gli abitanti di quest’isola siano risultati campioni di equità in base al cosiddetto «gioco dell’ultimatum», un test usato da psicologi e antropologi per misurare la preferenza per le offerte eque. Nelle società dove l’autosufficienza è maggiore, per esempio dove ogni famiglia coltiva il proprio appezzamento di terreno, questo aspetto è meno importante.

Una differenza tra gli esseri umani e gli altri primati che viene spesso citata è che noi siamo l’unica specie che coopera con gli estranei e gli stranieri. Sebbene la nostra propensione a collaborare dipenda dalle circostanze (dopo tutto siamo anche capaci di uccidere chi non appartiene al nostro gruppo), il comportamento dei primati in natura è principalmente caratterizzato dalla competizione tra gruppi. Il modo in cui le comunità umane consentono agli estranei di attraversare il proprio territorio, condividono i pasti con loro, scambiano beni e regali o si alleano contro un nemico comune non è un modello di comportamento tipico dei primati.

Alcuni, tuttavia, obiettano che questa apertura verso gli estranei non richiede una speciale spiegazione evolutiva. La cosa più probabile è che la cooperazione tra estranei sia un’estensione delle tendenze che nascono a uso del gruppo. In natura non è insolito che alcune capacità siano applicate al di fuori del contesto originale, un po come i primati usano le mani (che si sono evolute per arrampicarsi sugli alberi) per tenersi aggrappati alle madri. Gli esperimenti in cui scimmie cappuccino e bonobo interagiscono con gli estranei hanno mostrato che questi animali sono capaci di scambiare favori e condividere il cibo, in altre parole, il potenziale per cooperare con gli sconosciuti è presente anche nelle altre specie persino se in natura incontrano di rado situazioni per farlo.

La vera unicità di noi esseri umani, tuttavia, potrebbe essere il carattere altamente organizzato della nostra cooperazione.


Siamo in grado di creare strutture gerarchiche per la realizzazione progetti di complessità e vastità che non sono paragonabili a nient’altro in natura. Pensiamo, per esempio, alle risaie terrazzate sul delta del Mekong o alla tecnologia utilizzata per costruire il Large Hadron Collider del CERN.

La maggior parte della cooperazione animale è auto-organizzata, e gli individui ricoprono ruoli a seconda delle proprie capacità e dei «posti» disponibili. Talvolta gli animali ripartiscono i ruoli e si coordinano strettamente come se si fossero messi d’accordo prima, per esempio quando le orche sincronizzano i propri movimenti per creare un onda in grado di far cadere una foca da un banco di ghiaccio, o quando durante la caccia a un gruppo di scimmie attraverso la foresta gli scimpanzé maschi si dividono in inseguitori e intercettatoli. Non sappiamo in che modo le intenzioni e gli obiettivi condivisi di questo tipo di cooperazione vengano stabiliti e comunicati, ma non sembrano essere diretti dall’alto da un capo, come nel caso degli uomini.

Gli esseri umani hanno inoltre metodi per far rispettare il patto di cooperazione che, fino a oggi, non sono stati documentati in altri animali. Attraverso interazioni ripetute ci costruiamo una reputazione come soggetti affidabili o inaffidabili, e possiamo essere puniti per l’inadeguatezza delle nostre azioni. Inoltre, il potenziale castigo scoraggia gli individui dal tentativo di frodare il sistema. Nei test di laboratorio, gli esseri umani tendono a punire, anche a costo di rimetterci, il comportamento di chi cerca il vantaggio personale: una pratica che, a lungo termine, tenderebbe a promuovere la cooperazione nella popolazione. Si discute su quanto questo tipo di castigo si rifletta nella vita reale, al di fuori del laboratorio, ma sappiamo che il nostro sistema morale si aspetta la cooperazione e che siamo ipersensibili all’opinione degli altri. In un esperimento, i volontari erano propensi a donare somme maggiori di denaro a una buona causa se il test si svolgeva in una stanza dove era stata appesa un’immagine che ritraeva due occhi, se ci sentiamo osservati, ci preoccupiamo della nostra reputazione.

Questa attenzione a ciò che gli altri pensano di noi potrebbe essere stata la colla primordiale che ha riunito i primi Homo sapiens in grandi società. Durante gran parte della preistoria umana, i nostri antenati hanno vissuto in comunità nomadi molto simili agli odierni cacciatori-raccoglitori, questi uomini moderni dimostrano grandi potenzialità per la pace e il commercio tra le comunità, cosa che suggerisce che i primi H. sapiens condividessero questi stessi tratti.

Senza voler negare la nostra potenzialità di violenza, sono convinto che sia stata la nostra attitudine alla cooperazione a portarci dove siamo ora. Grazie a essa, presente già nei primati non umani, siamo stati in grado di organizzare la nostra società in una complessa rete di individui che cooperano gli uni con gli altri nei modi più svariati.   

PER APPROFONDIRE

The Human Potential for Peace, Fry D.P., Oxford University Press, 2005.

L’età dell’empatia, De Waal F, Oscar Mondadori, 2011 Prosocial Primates: Selfish and Unselfish Motivations, De Waal Re Suchak M., in «Philosophical Transactions of the Royal Society B», Voi. 365, n. 1553,12 settembre 2010.

Perché aiutiamo gli altri. Nowak M.A., in «Le Scienze» n. 529, settembre 2012.


Il fattore X

La capacità di impegnarsi in attività condivise come la caccia grossa e la costruzione di città potrebbe essere ciò che ha separato l'uomo moderno dai suoi cugini primati

Articolo di Gary Stix, redattore esperto di «Scientific American»

Si è a lungo ritenuto che gli esseri umani si distinguessero da tutti gli altri animali per l’uso di strumenti e la loro complessiva superiorità in un’ampia gamma di abilità cognitive. Questa convinzione è stata smentita grazie all’osservazione

approfondita di scimpanzé e altre grandi scimmie.

Gli scimpanzé ottengono gli stessi punteggi dei bambini piccoli nei test di ragionamento generale, ma non hanno molte delle abilità sociali di cui sono naturalmente dotati i loro

cugini umani. A differenza di essi, gli scimpanzé non collaborano nei grandi gruppi indispensabili per costruire società complesse.

Il confronto tra la psicologia degli esseri umani e quella degli scimpanzé rivela che una ragione

fondamentale delle specificità degli esseri umani potrebbe essere l’evoluzione della capacità di intuire quello che sta pensando un altro individuo, che consente di lavorare insieme al raggiungimento di un obiettivo comune.

All’interno di un laboratorio di psicologia di Lipsia, in Germania, due bambini osservano con attenzione alcune caramelle gommose a forma di orsetto appoggiate su una tavola di legno fuori della loro portata. Per raggiungere i dolcetti, i bambini devono tirare l’estremità di una corda nello stesso momento. Se a tirare è solo uno dei due, la corda si stacca e nessuno ottiene la ricompensa.

A pochi chilometri di distanza, in una gabbia di plexiglass a Pongoland, la struttura che ospita i primati nello zoo di Lipsia, alcuni ricercatori ripetono lo stesso esperimento, ma stavolta con due scimpanzé. Se risolvono il test della corda, riceveranno entrambi della frutta.

Studiando in questo modo bambini e scimpanzé, gli scienziati sperano di risolvere un fastidioso dilemma, perché la nostra specie ha avuto tanto successo? Homo sapiens e Pan troglodytes condividono quasi il 99 percento del loro corredo genetico. Perché gli esseri umani sono riusciti a popolare praticamente ogni angolo del pianeta, costruendo tra l’altro la Torre Eiffel, i Boeing 747 e la bomba H? E perché gli scimpanzé vanno a caccia di cibo nelle fitte foreste dell Africa equatoriale esattamente come facevano i loro antenati sette milioni di anni fa o giù di lì, quando i primi uomini e le grandi scimmie si separarono in specie diverse?

Come per qualsiasi altro evento avvenuto alla scala temporale dell’evoluzione - centinaia di migliaia, o milioni, di anni - gli scienziati potrebbero non raggiungere mai un consenso su ciò che è successo realmente. Per anni l’idea più diffusa è stata che solo gli esseri umani fossero capaci di costruire e adoperare gli utensili e di ragionare in astratto usando numeri e simboli. La progressiva scoperta di quello che gli altri primati sono in grado di fare, però, ha cancellato l’idea, uno scimpanzé, addestrato adeguatamente, può fare addizioni, usare un computer e accendere una sigaretta.

Perché il comportamento umano sia così diverso da quello del le grandi scimmie, e in che misura, è ancora oggetto di dibattito. Esperimenti come quello di Lipsia, effettuato sotto gli auspici del Max-Planck-Institut per l’antropologia evolutiva, hanno però fatto emergere un’affascinante possibilità, identificando quella che potrebbe essere una caratteristica unica, ma facile da sottovalutare, dell’apparato cognitivo umano. Prima ancora di compiere un anno - in una fase cruciale che alcuni psicologi chiamano «rivoluzione del nono mese» - i bambini iniziano a mostrare un’atten


ta consapevolezza di quello che passa per la testa dei genitori, una nuova capacità che manifestano seguendone lo sguardo o osservando ciò che essi indicano. Anche gli scimpanzé riescono a immaginare in qualche misura quello che succede nella mente di un compagno, ma gli esseri umani vanno oltre: sono capaci di pensare in maniera collaborativa e far convergere i pensieri su quel che c’è da fare per svolgere per un compito comune. Il semplice atto di passarsi la palla tra un adulto e un bambino è reso possibile da questo sottile vantaggio cognitivo.

Secondo alcuni psicologi e antropologi, questa unione di menti potrebbe essere stata un evento cruciale avvenuto centinaia di migliaia di anni fa, che ha plasmato la successiva evoluzione umana. La capacità dei piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori di lavorare assieme in armonia ha dato il via a una cascata di cambiamenti cognitivi che hanno portato allo sviluppo del linguaggio e alla diffusione delle diverse culture umane sulla Terra.

Questa spiegazione dell evoluzione psicologica degli esseri umani, sintetizzata a partire da studi sui bambini e scimpanzé, è speculativa e c’è chi ne dubita. Tuttavia, offre lo scenario probabilmente più ampio e più affascinante sulle origini delle capacità cognitive che rendono speciali gli esseri umani.

L’effetto «ruota di trasmissione»

Il Max-Planck-Institut gestisce il più grande centro di ricerca del mondo dedicato allo studio delle differenze comportamentali tra umani e grandi scimmie, dove i ricercatori possono attingere a una banca dati di oltre 20.000 bambini e reclutare scimpanzé o esemplari di qualsiasi altra specie di grandi scimmie - orangutan, bonobo e gorilla - dal Centro di ricerca sui primati «Wolfgang Kòhler» dello zoo di Lipsia, a pochi chilometri di distanza.

L’istituto è nato 17 anni fa, sette anni dopo la riunificazione della Germania. Per cancellare il ricordo della pessima fama guadagnata dall’antropologia tedesca a causa dei suoi legami con le teorie razziali naziste, i responsabili dell’istituto si sono dati particolarmente da fare per ingaggiare scienziati di altre nazioni. Uno di loro è Michael Tomasello, 64 anni, psicologo e primatologo.

Tomasello ha iniziato la carriera accademica all’Università della Georgia negli anni settanta con una tesi sull’acquisizione del linguaggio nei bambini. All’epoca, linguisti e psicologi citavano spesso il linguaggio come la prova principale dell’eccezionaiità dell’uomo nel mondo animale. Per la sua tesi di dottorato, Tomasello documentò in maniera puntuale in che modo la figlia di circa due anni imparava a usare i verbi. L’emergere di proto-parole (come «gio gio» e «ni ni») rivelava la naturale inclinazione dei bambini a impegnarsi in esperimenti di prove ed errori degli elementi del linguaggio, un esercizio che si trasforma gradualmente nelle strut ture più convenzionali della grammatica e della sintassi.

Questo processo di apprendimento contrasta con le idee di linguisti come Noam Chomsky, secondo cui la grammatica è geneticamente pre-installata nel nostro cervello, idee che Tomasello giudica riduttive: «Il linguaggio è una cosa talmente complessa che non può essere evoluto come il pollice opponibile», dice.

Il lavoro sul linguaggio ha allargato le sue idee sui rapporti tra cultura ed evoluzione umana. Tomasello ha capito che le sole forze selettive applicate ai tratti fisici non sarebbero bastate a spiegare l’emergere di utensili complessi, linguaggio, matematica ed elaborate istituzioni sociali nell arco di tempo - relativamente breve da un punto di vista evolutivo - trascorso da quando le linee di esseri umani e scimpanzé si sono separate. Alcune capacità cognitive innate degli ominini (gli umani moderni e i nostri parenti estinti), assenti invece nei primati non umani, devono aver permesso ai nostri antenati di comportarsi in modi che ne hanno accelerato enormemente la capacità di alimentarsi, coprirsi e prosperare in qualunque ambiente, per quanto ostile fosse.

Negli anni ottanta, ottenuta una cattedra alla Emoiy University, Tomasello cominciò a servirsi del centro Yerkes di ricerca sui primati dell’università per trovare indizi di quelle capacità con studi che confrontavano il comportamento dei bambini e quello degli scimpanzé. Ha così iniziato un percorso di ricerca pluriennale che ha poi proseguito al Max-Planck Institut dal 1998 a oggi.

Nei suoi studi sull’apprendimento negli scimpanzé, Tomasello rilevò che questi animali non si imitavano l’un l’altro allo stesso modo degli esseri umani. Uno scimpanzé, seguito poi da altro dello stesso gruppo, può emulare un compagno che sta usando un bastoncino per estrarre formiche da un buco. Osservando con attenzione, Tomasello comprese che erano in grado di capire in che modo un bastoncino potesse essere usato per la «pesca delle formiche», ma non erano interessati a imitare una tecnica di caccia degli insetti piuttosto di un’altra. Ancora più importante, non facevano alcun tentativo di andare oltre la tecnica di base e apportare modifiche per creare un’esca nuova e migliore.

Al contrario, questo tipo di innovazione, che Tomasello chiama «effetto ruota di trasmissione», è un tratto distintivo delle società umane. Gli esseri umani modificano i loro strumenti per renderli migliori e trasmettono questa conoscenza ai discendenti, che a loro volta apportano altre modifiche, e così i miglioramenti si accumulano. Quello che all’inizio era un proiettile di pietra smussata costruito per uccidere un mammut, nel corso dei millenni è evoluto in una fionda, poi in una catapulta, in un proiettile di fucile e infine in un missile balistico intercontinentale.

Questa ruota di trasmissione culturale offre una generica spiegazione del successo della specie umana, ma allo stesso tempo porta a un’altra domanda, quali sono gli specifici processi menta-li coinvolti nella trasmissione di conoscenze agli altri? La risposta deve partire dalle speculazioni sui cambiamenti nella fisiologia e nel comportamento degli ominini che potrebbero essere avvenuti centinaia di migliaia di anni fa. Una di queste ipotesi - detta del cervello sociale e proposta dall’antropologo Robin Dunbar - sostiene che la dimensione dei gruppi e quindi la complessità sociale, aumenta con l’aumentare delle dimensioni del cervello. Ed è noto che 400.000 anni fa Homo heidelbergensis, probabilmente il nostro antenato diretto, aveva un cervello grande quasi come il nostro.

Tomasello ipotizza che, equipaggiati di un cervello più grande e dovendo affrontare la necessità di sfamare una popolazione in aumento, i primi ominini abbiano iniziato a elaborare strategie per inseguire e sorprendere le loro prede. Le circostanze esercitarono una forte pressione selettive verso la cooperazione: qualunque componente di un gruppo di cacciatori incapace di lavorare in squadra - assumendo un ruolo ben definito durante l’inseguimento e l’accerchiamento della preda - sarebbe stato escluso dalle spedizioni successive, e avrebbe avuto un magro futuro. Se un cacciatore non è un buon compagno, secondo Tomasello, il resto del gruppo deciderà di non farlo più partecipare. In questa prospettiva, quello che separa gli umani moderni dalle bande di ominini sarebbe un adattamento evolutivo a favore dell’ipersocialità.

La documentazione paleoarcheologica di ossa e manufatti è troppo scarsa per confermare l’ipotesi di Tomasello, il quale ne deriva la prova dalle comparazioni tra scimpanzé e bambini, mette a confronto il più stretto dei primati nostri parenti con bambini intorno ai due anni di età, che non hanno ancora un pieno controllo del linguaggio e non sono stati esposti a un’educazione scolastica formale. Un bambino di quella età permette ai ricercatori di valutare abilità cognitive non ancora completamente modellate da influenze culturali, e che si possono quindi considerare innate.

Gli studi condotti a Lipsia nell’ultimo decennio hanno evidenziato più somiglianze che differenze tra umani e scimpanzé, ma hanno anche messo in luce quello che Tomasello chiama «una piccola differenza che fa una grande differenza».

Un’idagine scientifica particolarmente impegnativa, diretta da Esther Herrmann del Dipartimento di psicologia evolutiva e comparata del Max-Planck-Institut sotto la tutela di Tomasello, è durata dal 2003 fino alla pubblicazione dei risultati su «Science» nel 2007 Lo studio ha previsto la somministrazione di vari test cognitivi a 106 scimpanzé in due riserve forestali dell Africa, a 32 orangutan in Indonesia e a 105 bambini di 2,5 anni a Lipsia.

L obiettivo dei ricercatori era determinare se il cervello più grande degli esseri umani implicasse una maggiore intelligenza dei bambini rispetto alle grandi scimmie e, in quel caso, che cosa significasse con esattezza essere più intelligenti. Le tre specie sono state sottoposte a test sul ragionamento spaziale (come cercare una ricompensa nascosta), sulla capacità di discriminare tra quantità grandi e piccole e sulla comprensione delle relazioni di causa ed effetto. È così risultato che in questi test bambini e scimpanzé (ma non orangutan) ottenevano grosso modo gli stessi risultati.

Passando alla valutazione delle capacità sociali, tuttavia, le cose cambiavano radicalmente i bambini superavano sia gli scimpanzé sia gli orangutan in tutti i test sulla capacità di comunicare (adattati per i primati non verbali), imparare dagli altri e valutare le percezioni e i desideri di un altro individuo. Secondo i ricercatori, questi risultati indicano che i bambini non nascono con un QI (capacità generale di ragionamento) più alto, ma piut tosto con un particolare gruppo di abilità - che nello studio pubblicato su «Science» è definito «intelligenza culturale» - che li prepara a imparare dagli adulti, dagli insegnanti e dai compagni di giochi. «Abbiamo dimostrato per la prima volta che sono le capacità socio-cognitive quelle cruciali abilità che ci rendono speciali rispetto agli altri animali», afferma Herrmann.

Per approfondire ulteriormente è stato necessario andare alla ricerca dei processi psicologici sottostanti alle tendenze ultrasociali degli esseri umani. Il lavoro di Tomasello ha mostrato che, intorno ai nove mesi di età, bambino e genitore si impegnano in una sorta di reciproca lettura della mente. Entrambi sono dotati di quella che gli psicologi chiamano «teoria della mente». Entrambi sono consapevoli di quello che sa Taltro quando guardano insieme una palla o un cubo e ci giocano insieme. Hanno entrambi un’immagine mentale di quegli oggetti, allo stesso modo in cui i componenti di un gruppo di H. Heidelberg ensis avrebbero immaginato tutti un cervo sotto forma di pasto. Questa capacità di impegnarsi con un altro individuo nel gioco o nel raggiungimento di un obiettivo comune è ciò che Tomasello chiama intenzionalità condivisa (termine che ha preso in prestito dalla filosofia).


Secondo Tomasello, si tratta di un adattamento evolutivo unico degli esseri umani, una differenza minima, ma dalle enormi conseguenze, radicata in una predisposizione ereditaria per un certo grado di interazioni sociali cooperative che è invece assente negli scimpanzé o in qualunque altra specie animale.

I vantaggi di leggere la mente

I  ricercatori dell’istituto hanno osservato che anche gli scimpanzé sanno leggere la mente altrui, almeno in certa misura, ma la loro naturale inclinazione è usare quello che imparano in questo modo per assicurarsi un vantaggio sugli altri nella ricerca di cibo o di partner. Sembra che la mente dello scimpanzé sia impegnata in qualche sorta di ragionamento machiavellico «Se io faccio questo, lui farà quello?», per dirla con le parole di Tomasello. «Vedere due scimpanzé che trasportano insieme un pezzo di legno è inconcepibile», afferma lo scienziato.

I ricercatori di Lipsia hanno dimostrato formalmente le differenze caratteristiche che separano le due specie nell’esperimen- to della corda e della tavola di legno, in cui due scimpanzé dello zoo di Lipsia potevano ottenere frutta solo se entrambi tiravano le estremità della fune. Se il cibo si trovava alle due estremità della tavola, ogni scimpanzé prendeva quello più vicino. Ma se la frutta era nel mezzo, lo scimpanzé dominante afferrava il cibo e, dopo un po di prove, quello subordinato smetteva di giocare. I bambini, invece, lavoravano insieme sia che i dolcetti si trovassero al centro della tavola sia che fossero alle estremità. E quando erano al centro, i bambini di tre anni si mettevano d’accordo in modo che ciascuno ne ottenesse una parte uguale.

Secondo Tomasello, tra i primi esseri umani la mutua comprensione di quello che serviva per arrivare a un risultato ha posto le basi per l’inizio delle interazioni sociali e di una cultura basata sulla cooperazione. Questo «terreno comune», come lo definisce, in cui ogni membro di un gruppo sa molto di quello che sanno gli altri, potrebbe aver aperto la strada allo sviluppo di nuove forme di comunicazione.

La capacità di ideare e percepire obiettivi comuni - e di intuire immediatamente il pensiero di un compagno di caccia - sembra aver permesso ai nostri antenati ominini di compiere significativi progressi cognitivi anche in altri modi, quali lo sviluppo di una complessità nell’uso dei gesti come forma di comunicazione maggiore di quella degli altri primati.

Il repertorio gestuale di base dei nostri antenati ominini potrebbe essere stato simile a quello delle grandi scimmie. Come gli scimpanzé odierni, forse anche gli esseri umani arcaici indicavano con le dita per esprimere dei comandi («Dammi questo» o «Fai quello»), una forma di comunicazione centrata sui bisogni dell’individuo. Ma gli scimpanzé non tentano in alcun modo di usare quei gesti per insegnare o trasmettere informazioni.

Per gli esseri umani, i gesti hanno assunto un nuovo significato con il progredire delle capacità di elaborazione cognitiva. Un cacciatore avrebbe indicato una radura in una foresta per segnalare un cervo al pascolo, un’azione che il compagno accanto avrebbe compreso immediatamente. Il modo in cui indicare può assumere nuovi significati è evidente nella vita moderna. «Se punto il dito per intendere “Andiamo lì a prendere un caffè” - spiega Tomasello - il significato di “quel bar” è affidato al dito, non al linguaggio».

I bambini piccoli comprendono questo tipo di indicazione, ma gli scimpanzé no. La differenza è risultata evidente in un esperimento in cui il ricercatore metteva dentro un contenitore, uno alla volta, mattoncini da costruzione, che un bambino piccolo prendeva via via per fame una torre. Quando a un certo punto il contenitore è rimasto vuoto, il bambino ha iniziato ad additarlo, indicando così che voleva altri mattoncini. Il bambino sapeva che l’adulto avrebbe formulato l’inferenza corretta, la capacità di riferirsi a un’entità assente è una caratteristica essenziale del linguag gio umano. Allo zoo, scimpanzé coinvolti in un esercizio simile - con cibo al posto di mattoncini - non hanno mai alzato un dito quando il contenitore era vuoto.

Per far avanzare le ricerche oltre il confronto tra la psicologia umana e quella delle grandi scimmie sarà forse necessario cercare le differenze nel corredo genetico di scimpanzé, esseri umani e forse persino dei nostri parenti evolutivi più prossimi: i Neanderthal

Questo tipo di gestualità - un’estensione della nostra capacità cognitiva di intenzionalità condivisa - potrebbe essere stata la base per comunicare le idee astratte indispensabili per costruire gruppi sociali più elaborati, che si tratti di tribù o nazioni. La pantomima avrebbe permesso di articolare una sorta di storia, per esempio, per comunicare che «l’antilope pascola sull’altro lato della collina», si sarebbero messe prima le mani a V sopra la testa per indicare un paio di coma e poi si sarebbero alzate e abbassate le mani per descrivere l’altura. Questi scenari derivano da esperimenti comparativi che hanno dimostrato che i bambini molto piccoli hanno una comprensione intuitiva dei gesti che simbolizzano attività familiari, e gli scimpanzé invece no.

Alcune di queste comunicazioni probabilmente non si limitavano al movimento delle mani, ma includevano anche in vocalizzazioni destinate a rappresentare azioni o oggetti specifici. Questi suoni gutturali potrebbero essere evoluti nel linguaggio, migliorando ulteriormente la capacità di gestire complesse relazioni sociali via via che le popolazioni continuavano a crescere ed emergevano le rivalità tra i gruppi tribali. Un gmppo capace di cooperare avrebbe superato quelli i cui membri litigavano tra loro.

L’espansione delle capacità cognitive umane potrebbe aver promosso l’adozione di pratiche specifiche di caccia, pesca, raccolta delle piante o matrimonio, che si sono poi trasformate in convenzioni culturali - il modo in cui «noi» facciamo le cose - che il gruppo nel suo complesso avrebbe dovuto adottare. Un insieme di norme sociali richiedeva che ciascun individuo fosse consapevole dei valori condivisi dal gruppo - una «mentalità del gruppo» in cui ciascuno si conforma a un determinato ruolo. Le norme sociali produssero poi un insieme di principi morali che finirono per costituire le fondamenta di una struttura istituzionale - governi, eserciti, sistemi legali e religiosi - per far rispettare le regole di convivenza del gruppo. Il percorso millenario iniziato con un particolare set cognitivo che serviva a bande di cacciatori portò allo sviluppo di intere società.


Gli scimpanzé e le altre grandi scimmie antropomorfe non hanno mai imboccato questa strada. Quando gli scimpanzé cacciano in gruppo le scimmie colobo in Costa d’Avorio, questa attività, secondo l’interpretazione di Tomasello, implica che ogni animale cerca di abbattere la preda per primo in modo da assicurarsi la maggior parte della carne: i cacciatori-raccoglitori invece, anche oggi, collaborano strettamente durante l’inseguimento della preda e ne dividono equamente il bottino. Secondo Tomasello, le comunità di grandi scimmie e di altri predatori, come i leoni, sembrano cooperare, ma le dinamiche in gioco all’intemo del gruppo sono fondamentalmente sempre di natura competitiva.

Il grande dibattito

La versione di Tomasello della storia evolutiva non è accettata da tutti, nemmeno nel suo stesso istituto. Un piano sopra il suo ufficio, nel Dipartimento di primatologia, Catherine Crockford mi mostra un video girato lo scorso marzo da Liran Samum, una sua studentessa. Il video mostra un giovane scimpanzé del Parco nazionale di Taï, in Costa d’Avorio, vicino al confine con la Liberia.

Lo scimpanzé, battezzato Shogun dai ricercatori, ha appena catturato un grosso colobo bianco e nero. Shogun ha un po’ di problemi nell’addentare la preda, che è ancora viva e si divincola, e lancia una serie di acute «urla di richiamo» per chiedere aiuto a due cacciatori più anziani, che si trovano sulla cima degli alberi. Uno dei due, Kuba, arriva quasi subito, Shogun si calma un po’ e stacca il primo vero boccone. Ma poi Shogun continua a urlare fino a quando non arriva l’altro cacciatore, Ibrahim. Il giovane scimpanzé infila allora un dito nella bocca di quest’ultimo, come «segno di rassicurazione», un manierismo che assicura che tutto va bene. Ibrahim concede il supporto emotivo richiesto non mordendo il dito di Shogun e i tre iniziano a condividere il pasto. «È interessante che Shogun richiami questi due maschi dominanti, che avrebbero potuto sottrargli tutta la preda», commenta Crockford. «Ma, come si può vedere, non gliela tolgono. Shogun ha ancora il permesso di mangiare».

Crockford ritiene che sia ancora troppo presto per trarre conclusioni sull’entità della cooperazione tra gli scimpanzé. «Non penso che conosciamo i limiti di ciò che stanno facendo gli scimpanzé», osserva la ricercatrice. «Le argomentazioni di Tomasello sono brillanti e chiare rispetto a quello che sappiamo attualmente, ma penso che i nuovi strumenti oggi a disposizione per la ricerca sul campo ci permetteranno di scoprire se quelli che sono stati identificati fino a ora sono davvero i limiti di quello che gli scimpanzé sono in grado di fare».

Crockford ha conseguito il dottorato al Max-Planck-Institut di Lipsia sotto la guida di Tomasello e di Christophe Boesch, capo del Dipartimento di primatologia dell’istituto. Boesch ha messo in discussione le conclusioni di Tomasello sottolineando che una propria approfondita ricerca nel Parco nazionale di Taï ha mostrato che gli scimpanzé hanno una struttura sociale altamente collaborativa, per esempio uno scimpanzé spinge la preda in una determinata direzione, dove gli altri scimpanzé la bloccheranno. Il punto di vista di Boesch sulla cooperazione tra scimpanzé è condiviso da Frans de Waal, dello Yerkes National Primate Research Center della Emory University [si veda l'articolo Uno per tutti a p. 78). Altre critiche alle tesi di Tomasello giungono invece da un punto di vista diametralmente opposto, secondo Daniel Povinelli, dell’Università della Louisiana a Lafayette, quando Tomasello suggerisce che gli scimpanzé hanno una qualche capacità di comprendere lo stato psicologico altrui, ne sta sopravvalutando le capacità cognitive.

Da parte sua, Tomasello sembra apprezzare di trovarsi nel mezzo di un battibecco accademico, e afferma. «Dal mio punto di vista, Boesch e de Waal antropomorfizzano gli scimpanzé, mentre Povinelli li tratta come se fossero ratti, mentre questi animali non sono né l’uno né l’altro». E aggiunge, scherzando. «Noi siamo nel mezzo. Dal momento che le critiche arrivano da entrambe le parti nella stessa misura, dobbiamo avere ragione per forza».

La condanna di alcuni è temprata dal grande rispetto di altri. «Ho sempre pensato che gli esseri umani fossero molto simili agli scimpanzé - dichiara Jonathan Haidt, sociologo della Stem School of Business della New York University - ma è stato soprattutto grazie al lavoro di Tomasello che nel corso degli anni sono giunto alla conclusione che la piccola differenza da lui studiata e divulgata, ovvero la capacità squisitamente umana di impegnarsi nella cosiddetta intenzionalità condivisa, sia stata ciò che ci ha portati dall’altra parte del fiume, su una sponda in cui la vita sociale è radicalmente diversa».

Risolvere questa diatriba richiederà nuove ricerche negli zoo, nei laboratori e sul campo, forse grazie a nuovi studi per accertare in che misura gli scimpanzé hanno una teoria della mente degli altri. Altre ricerche del gruppo di Tomasello ora in corso intendono chiarire se le conclusioni sul comportamento umano tratte dagli studi sui bambini tedeschi rimangano valide sottoponendo agli stessi test bambini africani o asiatici. L'obiettivo di uno di questi studi, per esempio, è stabilire se i bambini in età prescolare condividono il senso collettivo di quello che è giusto e sbagliato con i Sambum, un popolo semi-nomade del Kenya settentrionale.

Potrebbe esserci anche spazio per studiare più nel dettaglio le differenze tra esseri umani e grandi scimmie. Josep Cali, uno dei più stretti colleghi di Tomasello, dirige il Centro di ricerca sui primati «Wolfgang Köhler» dello zoo di Lipsia. Cali sostiene che l’intenzionalità condivisa non basta da sola a spiegare che cosa rende speciali gli esseri umani. Altre capacità cognitive potrebbero contribuire a distinguere l’uomo dagli altri primati, per esempio i «viaggi mentali nel tempo», cioè la nostra la capacità di immaginare quello che può succedere in futuro.

Nuova luce sulla sovrapposizione tra esseri umani e scimpanzé potrebbe arrivare guardando all’interno del cervello umano, un genere di indagine che si svolge anche al Max-Planck-Institut ma in un altro piano dell’edificio. Svante Pààbo, a capo del gruppo che nel 2009 ha completato il primo sequenziamento del genoma di Neanderthal, ha di recente sostenuto in un suo libro che le idee di Tomasello circa l’unicità del pensiero umano potrebbero essere messe alla prova con analisi genetiche.

Quando inizieranno questi studi, il punto di partenza più logico potrebbe essere una fusione tra gli studi comportamentali su scimpanzé ed esseri umani e la titanica impresa di comprendere le interazioni tra le centinaia di geni coinvolti nell’autismo. I bambini con questo disturbo, come gli scimpanzé, comprendono con difficoltà gli indizi sociali. Confrontando i geni dei bambini autistici con quelli dei bambini sani - e poi con il DNA degli scimpanzé e forse addirittura con quello dei Neanderthal, i nostri più stretti cugini evolutivi - si potrebbe giungere a una migliore comprensione delle basi genetiche della socialità umana.

Questi studi contribuirebbero inoltre a spiegare perché, nel corso di millenni, siamo passati dalle bande di foraggiamento alle società, che non solo sono in grado di procurare cibo e riparo in maniera molto più efficiente, ma che offrono anche continue opportunità di contatti sociali, come la possibilità di muoversi in qualsiasi angolo del pianeta in un giorno di viaggio o di spedire messaggi a Tucson o a Timbuctu alla stessa velocità con cui un pensiero nasce nella mente.  

PER APPROFONDIRE

Cultural Origins of Human Cognition. Tomasello M., Harvard University Press, 1999.

Humans Have Evolved Specialized Skills of Social Cognition: the Cultural Intelligence Hypothesis. Herrmann E., Call J., Hernandez-Lloreda M.V., Hare B. e Tomasello M., in «Science», Vol. 317 pp. 1360-1366,7 settembre 2007 A Natural History of Human Thinking. Tomasello M., Harvard University Press, 2014. Ualba della nostra mente. Wong K., in «Le Scienze», n. 444, agosto 2005.