Steven Pinker

Come funziona la mente

Mondadori, Milano 2002

VII I valori della famiglia

 

Su, gente, sorridete ai vostri fratelli! Unitevi, cercate di amarvi gli uni gli altri, qui e ora. È l'alba dell'Era dell'Acquario: armonia e comprensione, comunanza di sentimenti e fiducia in abbondanza; non più falsità o derisione, ma sogni dorati a occhi aperti, mistiche visioni del futuro, e la vera liberazione della mente. Immaginate che non esista la proprietà; ci riuscite? Non ci sarà né avidità né fame, ma solo fratellanza tra gli uomini. Immaginate un mondo condiviso da tutti. Forse direte che sono un sognatore, ma non sono l'unico. Spero che un giorno vi unirete a noi, e allora il mondo sarà una cosa sola.

Per quanto incredibile possa sembrare, molti di noi credevano a questa melassa. Una delle idee dominanti negli anni Sessanta e Settanta era che la diffidenza, la gelosia, la competitività, la cupidigia e la manipolazione fossero istituzioni sociali da emendare. Alcuni vi vedevano dei mali non necessari, come la schiavitù o la negazione del voto alle donne. Altri pensavano che si trattasse di grette tradizioni la cui inefficienza era passata inosservata, come con quel genio che aveva immaginato di far pagare sui ponti a pedaggio un dollaro alle macchine che li percorrevano in un senso, piuttosto che cinquanta centesimi a quelle che li percorrevano nei due sensi.

Questi sentimenti non erano propri solo dei musicisti rock, ma anche di eminenti critici sociali statunitensi. In un libro del 1970, La nuova America, Charles Reich, docente di giurisprudenza a Yale, preannunciava una rivoluzione non violenta, guidata dalla generazione degli studenti universitari. La gioventù degli Stati Uniti, a suo dire, aveva sviluppato una nuova coscienza. Era meno segnata dalla colpa, meno ansiosa, non giudicava, non era competitiva né materialistica, ma amorevole e onesta, rifiutava le manipolazioni e l'aggressività, era propensa alla condivisione, e status e carriera non la interessavano. La nuova coscienza, che spuntava come fiori dal selciato, si esprimeva nella sua musica, nelle comuni, nei viaggi in autostop, nelle droghe, nella contemplazione della luna, nell'augurio di pace e persino nell'abbigliamento. I pantaloni a zampa d'elefante, sosteneva Reich, «danno alle caviglie una speciale libertà, come se invitassero a ballare lì per strada». La nuova coscienza prometteva «una ragione più alta, una comunità più umana, e un individuo nuovo e liberato. Le sue creazioni ultime saranno un'integrità e una bellezza nuove e durature, un nuovo rapporto dell'uomo con se stesso, con gli altri, con la società, con la natura e con la terra».

Il libro arrivò a vendere un milione di copie in pochi mesi. Fu pubblicato a puntate dal «New Yorker» e discusso in una dozzina di articoli sul «New York Times», oltre che in una raccolta di saggi degli intellettuali di primo piano dell'epoca. John Kenneth Galbraith lo recensì positivamente (anche se sotto un titolo che era una messa in guardia: Chi bada al negozio?). Recentemente, in occasione del venticinquesimo anniversario della prima edizione, è stato ripubblicato.

Reich lo scrisse nella mensa di Yale, basandosi sulle conversazioni con gli studenti che vi incontrava. Quegli studenti, è chiaro, erano tra gli individui più privilegiati della storia dell'umanità. Con mamma e papà che pagavano i conti, con attorno solo persone provenienti dalle classi superiori, e con le credenziali delle università più prestigiose pronte a lanciarli nell'economia in espansione degli anni Sessanta, era facile credere che tutto ciò che occorreva fosse l'amore. Dopo la laurea, la generazione di Reich si è trasformata nei professionisti urbani degli anni Ottanta e Novanta, che vestono Gucci, guidano Beemer, hanno un appartamento di proprietà e allevano bambini buongustai. L'armonia universale fu uno stile non meno effimero dei pantaloni a zampa d'elefante, uno status symbol che distingueva dai rozzi contadini, dai machi e dai giovanotti meno al passo con i tempi. Come chiedeva il musicista rock post anni Sessanta Elvis Costello: «E stato un miliardario a dire "immaginate che non esista la proprietà"?».

Quelli degli anni Sessanta e Settanta del nostro secolo non sono stati i primi sogni utopici a infrangersi. Le comuni improntate al libero amore dell'America del XIX secolo crollarono sotto il peso delle gelosie e dei risentimenti di membri di entrambi i sessi, per l'abitudine dei leader di fare incetta di giovani amanti. Le utopie socialiste del XX secolo sono divenute imperi repressivi, guidati da uomini che accumulavano Cadillac e concubine. In antropologia, un paradiso dei mari del Sud dopo l'altro si è rivelato orribile e disumano. Margaret Mead sosteneva che, grazie alla loro disinvoltura in materia sessuale, gli indigeni delle Samoa si sentivano appagati e non conoscevano il crimine; poi si è scoperto che i ragazzi si insegnavano l'un l'altro le tecniche dello stupro. La Mead definiva gli arapesh «dolci»: erano cacciatori di teste. A suo dire gli tshambuli avevano ruoli sessuali invertiti rispetto ai nostri: gli uomini portavano i boccoli e si truccavano. In realtà gli uomini picchiavano le mogli, massacravano le tribù vicine e consideravano l'omicidio una pietra miliare nella vita di un giovane, un atto che lo rendeva degno di dipingersi il volto in quel modo che alla Mead era parso tanto femmineo.

In Human Universals l'antropologo Donald Brown ha raccolto i caratteri condivisi, a quanto si sa, da tutte le culture umane. Fra di essi vi sono il prestigio e la posizione sociale, la distribuzione ineguale del potere e della ricchezza, la proprietà, l'eredità, la reciprocità, le punizioni, il riserbo sessuale, le normative sessuali, la gelosia sessuale, la preferenza degli uomini per le giovani donne come partner sessuali, la divisione del lavoro in base al sesso (con le donne più dedite alla cura dei figli e gli uomini più in primo piano nella vita pubblica), l'ostilità verso altri gruppi e i conflitti all'interno di ogni gruppo, inclusi violenza, stupro e assassinio. L'elenco non dovrebbe sorprendere chi conosca la storia, l'attualità o la letteratura. I tipi di trame che ricorrono nella narrativa e drammaturgia del mondo non sono molti, e lo studioso Georges Polti sostiene di averli elencati tutti, giungendo a un totale di trentasei. Per più dell'ottanta per cento si basano su conflitti fra avversari (spesso assassini) e su storie tragiche che vedono protagonisti parenti o innamorati, o entrambi. Nella realtà, le storie delle nostre vite sono in larga parte storie di conflitti: di offese, colpe e rivalità di cui si rendono responsabili genitori, fratelli, figli, coniugi, amanti, amici e concorrenti.

Questo capitolo ha per oggetto la psicologia dei rapporti sociali. Ciò significa che, nonostante l'Era dell'Acquario, si occuperà in larga misura dei moventi innati che ci mettono in conflitto l'uno con l'altro. Dal momento che i nostri cervelli sono stati plasmati dalla selezione naturale, difficilmente potrebbe essere altrimenti. La selezione naturale è mossa dalla competizione tra i geni per essere rappresentati nella generazione successiva. La riproduzione porta a un accrescersi geometrico dei discendenti, e in un pianeta finito non tutti gli organismi viventi in una generazione possono avere discendenti parecchie generazioni più tardi. Gli organismi quindi si riproducono, in una certa misura, a spese l'uno dell'altro. Se un organismo mangia un pesce, quel pesce non sarà più a disposizione dello stomaco di un altro organismo. Se un organismo si accoppia con un secondo, nega un'opportunità di accoppiamento a un terzo. Chiunque viva oggi è il discendente di milioni di generazioni di antenati che nella loro vita sono stati sottoposti a questi vincoli, ma, nondimeno, si sono riprodotti. Il che significa che ogni persona oggi deve la sua esistenza all'avere avuto come antenati dei vincenti, e ognuno oggi è destinato, almeno in certe circostanze, a competere.

Questo non significa che le persone (né qualsiasi altro animale) portino in sé un impulso aggressivo che ha bisogno di scaricarsi, un inconscio desiderio di morte, un'insaziabile pulsione sessuale, il bisogno imprescindibile di un territorio, la sete di sangue o altri spietati istinti cui spesso si fa corrispondere, a torto, il darwinismo. Nel Padrino, Sollozzo dice a Tom Hagen: «Non amo la violenza, Tom. Sono un uomo d'affari. Il sangue è una grossa spesa». Anche nella competizione più aspra, un organismo intelligente dev'essere uno stratega, e valutare se per raggiungere i suoi obiettivi non sia preferibile ritirarsi, cercare un accordo o vivere e lasciar vivere. Come ho spiegato nel capitolo V, sono i geni, e non gli organismi, che devono competere o morire; a volte la migliore strategia per i geni sta nel progettare organismi che cooperino e, sì, anche che sorridano ai loro fratelli e si amino gli uni gli altri. La selezione naturale non proibisce la cooperazione e la generosità; solo, le trasforma in difficili problemi d'ingegneria, come la visione stereoscopica. La difficoltà di costruire un organismo capace di visione stereoscopica non ha impedito alla selezione naturale di installarla negli esseri umani, ma non saremmo mai giunti a comprendere la visione stereoscopica se avessimo pensato che si trattasse di una semplice conseguenza dell'avere due occhi, e non ci fossimo messi a studiare i sofisticati programmi neurali che la realizzano. Allo stesso modo, la difficoltà di costruire un organismo che cooperi e sia generoso non ha impedito alla selezione naturale di installare negli esseri umani cooperazione e generosità, ma non cornprenderemo mai queste capacità pensando che vengano da sé per il semplice fatto di vivere in gruppo. I computer di bordo degli organismi sociali, e specialmente degli esseri umani, devono far girare sofisticati programmi che valutano le opportunità e i rischi sul tappeto e, a seconda dei casi, portano alla competizione o alla cooperazione.

L'esistenza di un conflitto d'interessi tra i membri di una stessa specie, inoltre, non va a sostegno di una politica di stampo conservatore, come spesso temono i giornalisti e gli scienziati sociali. Se a porci in conflitto gli uni con gli altri sono i nostri moventi intimi, pensano preoccupati alcuni, allora sfruttamento e violenza sono moralmente legittimi; e poiché sono invece deplorevoli, è meglio pensare che il conflitto non sia parte della natura umana. Il ragionamento, naturalmente, è fallace: che la natura debba essere buona non è scritto da nes­suna parte, e quello che si vuoi fare non è necessariamente quello che si dovrebbe fare. Altri pensano preoccupati che, se i moventi conflittuali sono inevitabili, è inutile cercare di ridurre violenza e sfruttamento, e che le strutture sociali oggi vigenti sono le migliori in cui si può sperare. Ma neanche questa è una conclusione corretta. Nelle società occidentali moderne, il tasso annuale di omicidi varia dallo 0,5 per milione di persone dell'Islanda della prima metà del XX secolo, al 10 della maggior parte dei paesi europei al giorno d'oggi, al 25 del Canada e al 100 degli Stati Uniti e del Brasile. C'è ampio spazio per misure concrete tese a ridurlo, prima di trovarsi di fronte all'interrogativo accademico se sarà mai possibile farlo scendere a zero. Inoltre, esistono altri modi per attenuare i conflitti, oltre al sogno di un futuro dorato di amore universale. Se la violenza è perpetrata in ogni società, in ogni società è anche deplorata. E ovunque, per ridurre i conflitti violenti, si prendono misure quali sanzioni, risarcimenti, censure, mediazioni, ostracismi e leggi.

Spero che questo discorso vi sembri trito e ritrito, così che possa andare avanti con il capitolo. Il mio scopo non è di convincervi che la gente non desidera sempre il bene reciproco, ma cercare di spiegarvi quando e perché ciò ha una giustificazione. A volte, però, le ovvietà vanno ribadite. L'osservazione che il conflitto è parte integrante della condizione umana, per quanto banale, contraddice convinzioni di moda. Una di esse trova espressione nella appiccicosa metafora dei rapporti sociali come attaccamento, legame e coesione. Un'altra consiste nel presumere che ognuno di noi svolga senza pensarci il ruolo che la società gli assegna, e che per riformare la società si tratti di riscrivere questi ruoli. A mettere alle strette molti accademici e critici sociali si scoprirebbero, temo, opinioni non meno utopiche di quelle di Charles Reich.

Se la mente è un organo di computazione strutturato dalla selezione naturale, i nostri moventi sociali dovrebbero essere strategie fatte su misura per i tornei in cui gareggiamo. Si dovrebbero avere tipi diversi di pensieri e sentimenti riguardo a parenti e non parenti, e a genitori, figli, fratelli, spasimanti, coniugi, conoscenti, amici, rivali, alleati e nemici. Esaminiamoli uno per volta.

Parenti

Sorridete a vostro fratello, cantava il gruppo rock degli Youngbloods; fratellanza tra gli uomini, cantava John Lennon. Quando parliamo di beneficenza, usiamo il linguaggio della parentela. Padre nostro che sei nei cieli; Dio padre; i Padri della Chiesa; Babbo Nata­le; figura paterna; patriottismo. La madrepatria; la madre Chiesa; madre superiora; spirito materno. Fratelli di sangue; black brothers; amore fraterno; confratelli e confraternite; fratello, mi dai cento lire? Sorellanza è bello; le Sorelle della Misericordia; nazioni sorelle; le sette sorelle. Città gemelle; anime gemelle. La famiglia umana; le famiglie mafiose; una grande famiglia felice.

Le metafore improntate alla parentela trasmettono un messaggio semplice: trattate queste o quelle persone con la stessa benevolenza con cui trattate i vostri parenti. E tutti capiamo che cosa vuol dire. L'amore per i parenti viene naturale, quello per i non parenti no. E un dato di fatto fondamentale del mondo sociale, che governa ogni cosa, da come cresciamo all'ascesa e caduta di imperi e religioni. La sua spiegazione è semplice: con i parenti si condividono geni in misura maggiore che con i non parenti, quindi se un gene fa sì che un organismo porti beneficio a un parente (per esempio nutrendolo o proteggendolo), ha buone probabilità di portare beneficio a una copia di se stesso. Grazie a questo vantaggio, in una popolazione, con il passare delle generazioni, i geni cui fanno capo i benefici portati a parenti aumenteranno. La stragrande maggioranza dei gesti di altruismo nel mondo animale vanno a vantaggio dei parenti di chi li compie. Gli esempi più estremi di altruismo verso i parenti si riscontrano tra insetti sociali quali formiche e api, in cui le operaie danno tutte se stesse alla colonia. Esse sono cronicamente sterili e difendono la colonia con tattiche da kamikaze, come esplodere per spruzzare sull'invasore sostanze chimiche velenose o pungerlo con un pungiglione a barbigli che, quando viene estratto, sventra il loro corpo. Tanta dedizione proviene in larga misura da un insolito sistema genetico che le rende più strettamente imparentate alle sorelle di quanto potrebbero esserlo alla loro progenie. Difendendo la colonia, aiutano le loro madri a generare delle sorelle invece che generare figli loro stesse.

I geni non possono parlarsi tra loro o manovrare il comportamento in modo diretto. Negli esseri umani, «altruismo verso i parenti» e «portare beneficio ai propri geni» sono abbreviazioni che stanno per due complessi di meccanismi psicologici, uno cognitivo e uno emozionale.

Gli esseri umani sono dotati del desiderio e della capacità di apprendere il proprio albero genealogico. La genealogia è una speciale forma di conoscenza. In primo luogo, le relazioni sono digitali. O si è la madre di qualcuno, o non la si è. Potreste essere sicuri all'ottanta per cento che il padre di John è Bill, ma questo non equivale a pensare che Bill è padre di John all'ottanta per cento. E se in inglese i fra­tellastri sono detti half-brothers, «mezzi fratelli», tutti sanno che si tratta solo di un'abbreviazione per dire che hanno la stessa madre ma padri diversi o viceversa. In secondo luogo, la parentela è una relazione. Nessuno è un padre o una sorella punto e basta; dev'essere il padre o la sorella di qualcuno. In terzo luogo, la parentela è topologica. Ognuno è un nodo in una rete le cui connessioni sono definite da genitori, generazione e sesso. I termini che denotano la parentela sono espressioni logiche leggibili in base alla geometria e alle etichette della rete: un «cugino parallelo», per esempio, è il figlio del fratello del padre o il figlio della sorella della madre. Quarto, la parentela è autosufficiente. Età, luogo di nascita, conoscenze, posizione sociale, occupazione, segno zodiacale e tutte le altre categorie in cui collochiamo le persone si situano su un piano diverso da quelle della parentela, e non occorre tenerne conto per stabilire quest'ultima.

L'Homo sapiens è ossessionato dalla parentela. In tutto il mondo, richiesti di parlare di sé, si inizia dai parenti e dai legami familiari, e in molte società, specialmente di cacciatori-raccoglitori, si snocciolano genealogie senza fine. Nei figli adottivi, nei profughi tali dall'infanzia o nei discendenti di schiavi, la curiosità riguardo ai propri consanguinei porta a volte a ricerche che durano tutta la vita. (E questa curiosità che certi imprenditori tentano di sfruttare quando spediscono quelle cartoline prodotte al computer in cui promettono di rintracciare gli antenati di «Steven Pinker» e scoprire lo stemma e il sigillo della famiglia «Pinker»). In genere, è chiaro, non ci si fa a vicenda il test del DNA; la parentela la si stabilisce indirettamente. Molti animali ricorrono per questo fine all'olfatto; gli esseri umani a numerosi tipi di informazioni: chi cresce insieme, chi assomiglia a chi, come si interagisce, che cosa dicono fonti attendibili, che cosa si può logicamente dedurre da altri rapporti di parentela.

Una volta che sappiamo che rapporti ci legano a questa o quella persona, entra in gioco l'altra componente della psicologia della parentela. Verso i nostri parenti proviamo una solidarietà, una comunione di sentimenti, una tolleranza e una fiducia che si aggiungono a qualunque altro sentimento possiamo avere nei loro confronti. (La «casa», dice una poesia di Robert Frost, è «qualcosa che non tocca meritarsela».) Il di più di benevolenza che proviamo verso i parenti è ripartito sulla base di un sentimento che riflette la probabilità che il comportamento amorevole aiuti un parente a propagare copie dei nostri propri geni. E tale probabilità dipende a sua volta da quanto il parente ci è vicino nell'albero genealogico, dalla fiducia che riponiamo in tale vicinanza e dall'influenza della nostra benevolenza sulle prospettive riproduttive del parente (il che dipende da età e bisogni). Per questo i genitori amano i figli più di quanto amino chiunque altro, i cugini si vogliono bene ma non tanto quanto i fratelli, e così via. Naturalmente nessuno macina dati genetici e attuariali per decidere quanto amare. Piuttosto, i programmi mentali per l'amore familiare sono stati calibrati nel corso dell'evoluzione in modo che l'amore fosse commisurato alla probabilità che, nell'ambiente ancestrale, un comportamento amorevole andasse a beneficio di copie dei geni addetti ai comportamenti amorevoli.

Si tratta solo, si potrebbe pensare, della banale osservazione che il sangue non è acqua. Ma nel clima intellettuale odierno tale osservazione è una tesi scioccante e radicale. Un marziano che volesse imparare qualcosa sulle interazioni umane da un manuale di psicologia sociale non giungerebbe neanche a sospettare che gli esseri umani si comportano con i parenti in modo diverso da come si comportano con gli estranei. Alcuni antropologi hanno avanzato la tesi che il nostro senso della parentela non ha niente a che fare con la parentela biologica. Il senso comune di marxisti, femministe accademiche e intellettuali da caffè include alcune tesi sconcertanti: la famiglia nucleare di marito, moglie e figli è un'aberrazione storica sconosciuta nei secoli passati e nel mondo non occidentale; nelle tribù primitive il matrimonio è un fenomeno raro, vige un'indiscriminata promiscuità e non si conosce la gelosia; nel corso della storia sposa e sposo non hanno avuto voce in capitolo sul proprio matrimonio; l'amore romantico è un'invenzione dei trovatori della Provenza medievale e consisteva nell'amore adulterino di un cavaliere per una dama sposata; i bambini erano visti come adulti in miniatura; nei tempi antichi i figli morivano con tale frequenza che le madri non provavano dolore per la loro perdita; la preoccupazione per i propri figli è un'invenzione recente. Tali idee sono false. Il sangue davvero non è acqua, e non c'è aspetto dell'esistenza umana che non sia condizionato da questa componente della nostra psicologia.

Le famiglie sono importanti in tutte le società, e il loro nucleo è costituito da una madre e dai suoi figli biologici. In tutte le società esiste il matrimonio. Un uomo e una donna danno vita a un sodalizio pubblicamente riconosciuto il cui scopo primario sono i figli; l'uomo ha il «diritto» esclusivo di accesso sessuale alla donna; ed entrambi sono tenuti a investire nei loro bambini. I dettagli variano, spesso a seconda dei modelli di relazioni di consanguineità esistenti nella società. In genere, quando gli uomini sono certi di essere i padri dei figli della moglie, si formano famiglie nucleari, di solito in­torno alla famiglia d'origine del marito. Nelle relativamente poche società in cui i mariti non possono avere tale certezza (per esempio perché si assentano per lunghi periodi di servizio militare o di lavoro nei campi), le famiglie vivono in prossimità dei parenti della madre, e i principali benefattori maschi dei bambini sono i loro più stretti consanguinei, gli zii materni. Anche in questi casi, comunque, la paternità biologica è riconosciuta e valorizzata. Della coppia e dei figli si interessano entrambi i rami della famiglia estesa, e con entrambi i bambini si sentono solidali, anche quando le regole ufficiali della discendenza ne riconoscono uno solo (come accade per i nostri cognomi, che fanno capo alla sola famiglia paterna).

Le donne se la passano meglio quando restano vicine ai propri parenti e sono gli uomini a spostarsi, perché sono circondate da padri, fratelli e zii che possono accorrere in loro aiuto nelle dispute con il marito. La dinamica è stata rappresentata in modo vivido nel film Il Padrino nella scena in cui il figlio del personaggio interpretato da Marlon Brando, Sonny Corleone, arriva quasi a uccidere il marito della sorella quando scopre che costui l'ha picchiata. La vita ha imitato l'arte due decenni dopo, quando il vero figlio di Marlon, Christian Brando, ha davvero ucciso il fidanzato di sua sorella dopo aver scoperto che la picchiava. Quando una donna deve lasciare la propria famiglia per vivere accanto a quella del marito, questi può impunemente trattarla con brutalità. In molte società i matrimoni tra cugini sono incoraggiati, e risultano abbastanza armoniosi, perché gli usuali bisticci tra marito e moglie sono mitigati dalla comprensione che essi hanno l'uno per l'altro in quanto consanguinei.

Di questi tempi è poco educato affermare che l'amore dei genitori ha qualcosa a che fare con la parentela biologica, perché sembra offensivo nei confronti dei molti genitori che hanno figli adottivi e figliastri. Le coppie amano i figli che adottano, è chiaro; tanto per cominciare, se non si fossero assunte l'eccezionale impegno di simulare l'esperienza di una famiglia naturale, non avrebbero adottato nessuno. Ma il caso dei figliastri è diverso. Il patrigno o la matrigna ha acquistato un coniuge, non un figlio; il figlio è un costo che va sostenuto come parte della transazione. Patrigni e matrigne hanno una cattiva reputazione; persino il Webster's Unabridged Dictionary definisce la matrigna come «chi manca di offrire cure o attenzioni adeguate». Gli psicologi Martin Daly e Margo Wilson commentano:

La caratterizzazione negativa di patrigni e matrigne non è affatto una prerogativa della nostra cultura. Il folclorista che consulti il poderoso Motif­ Index of Folk Literature di Stith Thompson vi troverà concisi riassunti quali «Matrigna cattiva ordina di uccidere la figliastra» (leggenda irlandese) e «Matrigna cattiva, in assenza del marito mercante, ammazza di fatica la figliastra» (India). Per comodità, Thompson suddivide i racconti sui patrigni in due categorie: «patrigni crudeli» e «patrigni lussuriosi». Dagli eschimesi agli indonesiani, in decine di racconti, il patrigno e la matrigna sono degli scellerati.

Daly e Wilson osservano che, secondo le teorie di molti scienziati sociali, le difficoltà che affliggono questi rapporti sono causate dal «mito del patrigno crudele». Ma perché, si chiedono, patrigni e matrigne dovrebbero essere oggetto delle stesse calunnie in tante culture? La loro spiegazione è più lineare:

L'onnipresenza di storie tipo Cenerentola ... è senza dubbio un riflesso di certe tensioni di fondo ricorrenti nella società umana. Le donne devono essere state spesso abbandonate con i bambini a carico nel corso della storia, e sia i padri sia le madri spesso restavano prematuramente vedovi. Se il sopravvissuto voleva intraprendere una nuova vita matrimoniale, il destino dei figli diveniva problematico. [Tra i tikopia e gli yanomamö il marito] chiede la morte dei figli precedenti della nuova moglie. Altre soluzioni prevedevano l'affidamento dei figli a parenti materne ormai in menopausa e il levirato, un costume diffuso per il quale una vedova e i suoi bambini erano ereditati dal fratello o da altri parenti stretti del defunto. In assenza di queste soluzioni, i bambini erano costretti ad aggregarsi alla nuova famiglia come figliastri, sotto le cure di non parenti che non avevano alcun particolare interesse alloro benessere. Di certo avevano buone ragioni per allarmarsi .

In uno studio su famiglie emotivamente sane della classe media negli Stati Uniti, solo metà dei patrigni e un quarto delle matrigne dichiarava di provare «i sentimenti di un genitore» verso i figliastri, e ancora meno affermavano di «amarli». L'immensa mole di libri divulgativi di psicologia dedicati alle famiglie ricostituite è dominata da un unico tema: far fronte agli antagonismi. Molti professionisti consigliano oggi a simili famiglie dilaniate da conflitti di abbandonare l'idea di replicare una famiglia biologica. Daly e Wilson hanno scoperto che essere un patrigno o una matrigna è il più alto fattore di rischio mai identificato in relazione agli abusi sui minori. Nel caso dell'abuso peggiore, l'omicidio, un genitore di questo tipo ha da quaranta a cento probabilità in più di un genitore naturale di uccidere un bambino piccolo, anche a tenere conto di fattori influenti quali la povertà, l'età della madre o i tratti caratteriali tipici delle persone che tendono a risposarsi.

Patrigni e matrigne non sono certo più crudeli di chiunque altro. Il rapporto fra genitori e figli non ha equivalenti tra le relazioni umane per la sua unidirezionalità: i genitori danno, i figli prendono. Per evidenti ragioni evoluzionistiche, siamo programmati a desiderare di compiere simili sacrifici per i figli, ma solo per loro. Peggio ancora: come vedremo, i figli sono programmati per chiedere questi sacrifici agli adulti che li accudiscono, il che può renderli una vera e propria seccatura per coloro che non sono loro genitori o parenti stretti. La scrittrice Nancy Mitford ha detto: «Io amo i bambini, specialmente quando piangono, perché allora qualcuno li porta via'>. Ma se il padre o la madre di questi bambini l'avete sposato, nessuno li porterà via. L'indifferenza, o addirittura l'antagonismo, di matrigne e patrigni verso i figliastri è semplicemente la reazione standard di un essere umano a un altro essere umano. E l'infinita pazienza e generosità del genitore biologico che è speciale. Il che non deve farci apprezzare di meno i molti patrigni e matrigne amorevoli; se mai, dovrebbe farceli apprezzare di più: sono persone particolarmente generose e disposte al sacrificio.

Si dice spesso che è più facile essere fatti fuori da un parente in casa che da un teppista per strada. L'affermazione suona sospetta a chiunque sappia qualcosa della teoria dell'evoluzione, e infatti è falsa.

Le statistiche sugli omicidi sono un elemento di prova importante per le teorie sui rapporti umani. Come spiegano Daly e Wilson, «uccidere il proprio antagonista è la tecnica estrema di risoluzione di un conflitto, e i nostri antenati l'hanno scoperta ben prima di divenire esseri umani».12 Gli omicidi non si possono liquidare come prodotti di una mente malata o di una società malsana. Nella maggior parte dei casi un assassinio non è premeditato né desiderato; è l'apice disastroso di una escalation in cui la politica del rischio calcolato è stata spinta troppo oltre. Per ogni omicidio devono esserci innumerevoli litigi che finiscono nel nulla e innumerevoli minacce non portate a compimento. Questo fa dell'assassinio un eccellente saggio del conflitto e delle sue cause. A differenza dei conflitti minori, che possono essere scoperti solo attraverso narrazioni che le persone coinvolte possono falsare, un omicidio si lascia alle spalle uno scomparso o un cadavere, difficili da ignorare, e gli omicidi sono oggetto di indagini e documentazioni meticolose.

A volte, è vero, qualcuno uccide propri parenti. Ci sono infanticidi, uccisioni di figli, parricidi, matricidi, fratricidi, uxoricidi, omicidi dell'intera famiglia e diversi altri tipi di uccisioni di familiari privi di denominazione specifica. In una tipica statistica di una città statunitense, un quarto degli omicidi sono commessi da estranei, metà da conoscenti e un quarto da «parenti». Ma la maggior parte dei parenti non sono consanguinei. Sono coniugi, parenti acquisiti, patrigni, matrigne, figliastri e simili. Solo dal due al sei per cento delle vittime di omicidi vengono uccisi da consanguinei. E si tratta indubbiamen­te di una stima per eccesso. Si vedono più spesso i propri consanguinei degli altri, quindi i propri consanguinei sono più spesso a portata di tiro. A prendere in esame solo persone che vivono insieme, quindi con le stesse occasioni di interazione, si riscontra che il rischio di essere uccisi da un non parente è almeno undici volte superiore, e probabilmente anche molto di più, a quello di essere ucciso da un consanguineo.

La minore intensità dei conflitti tra consanguinei è parte di un più ampio schema di solidarietà tra parenti, il nepotismo. Nell'accezione comune questo termine indica l'elargizione di favori a parenti (letteralmente «nipoti») da parte di chi detiene un incarico pubblico o una posizione sociale. Sebbene sia largamente praticato, il nepotismo istituzionale è ufficialmente illecito nella nostra società, cosa di cui i membri della maggior parte delle altre società si sorprendono. In molti paesi un funzionario fresco di nomina licenzia pubblicamente tutti gli impiegati pubblici alle sue dipendenze e li rimpiazza con parenti. I parenti sono alleati naturali, e prima dell'invenzione dell'agricoltura e delle città le società erano organizzate intorno a clan di familiari. Uno degli interrogativi fondamentali dell'antropologia è in che modo i cacciatori-raccoglitori si suddividano in bande o villaggi, composti in genere da una cinquantina di membri, anche se con differenze da luogo a luogo e da periodo a periodo. Napoleon Chagnon ha registrato le meticolose genealogie che legano migliaia di yanomamò, il popolo di cacciatori-raccoglitori e orticoltori della foresta pluviale amazzonica che per trent'anni è stato oggetto dei suoi studi, e ha messo in luce come il cemento che tiene insieme i villaggi sia la parentela. I parenti stretti si combattono a vicenda meno spesso e nei conflitti accorrono in aiuto l'uno dell'altro più di frequente. Ma quando la popolazione di un villaggio cresce, i legami di parentela tra i suoi abitanti si fanno meno forti, essi entrano sempre più facilmente in conflitto fra loro, e il villaggio si spezza in due. Scoppia una battaglia, le fazioni si schierano a seconda dei legami di sangue, e una delle due emigra con i parenti più stretti per fondare un nuovo villaggio.

L'esempio più comune di falso parente è il coniuge: una persona con cui non si è legati geneticamente ma che è chiamata parente e che rivendica le emozioni normalmente dirette ai parenti. Il biologo Richard Alexander fa notare che se i coniugi sono fedeli, se ognuno dei due agisce nell'interesse dei figli nati dalla loro unione anziché degli altri consanguinei, e se il matrimonio dura per l'intera vita di entrambi, gli interessi genetici dei membri di una coppia sono iden­tici. I loro geni giacciono all'interno dello stesso involucro, i figli, e ciò che è un bene per uno dei coniugi lo è anche per l'altro. In queste condizioni ideali, l'amore coniugale dovrebbe essere più forte di qualsiasi altro.

Nella realtà, i consanguinei esigono la loro parte di dedizione, e non si può mai essere certi che un coniuge sia fedele al cento per cento, e ancor meno che in futuro non se ne vada o non muoia. In una specie meno complessa della nostra, la forza dell'amore coniugale potrebbe essere regolata su un valore medio ottimale che rifletta la probabilità complessiva del nepotismo, dell'infedeltà, dell'abbandono e della vedovanza. Ma gli esseri umani sono sensibili alle peculiarità dei loro matrimoni e modulano finemente le proprie emozioni di conseguenza. Non è sorprendente per un biologo che i suoceri, l'infedeltà e i figliastri siano le principali cause di liti coniugali.

Siccome in una coppia i geni sono in una stessa barca, e ognuno dei coniugi condivide dei geni con i propri parenti, questi hanno un interesse (in entrambi i sensi della parola) nel loro matrimonio. Se tuo figlio sposa mia figlia, le nostre fortune genetiche sono in parte legate nel nostro comune nipote, e in questa misura ciò che è vantaggioso per te lo è anche per me. Il matrimonio fa dei parenti acquisiti alleati naturali, e questa è una delle ragioni per cui in ogni cultura i matrimoni sono alleanze tra clan, non solo tra gli sposi. L'altro motivo è che quando i genitori hanno un potere sui figli adulti, co­me è avvenuto in tutte le culture fino a tempi recenti, i figli sono eccellenti merci di scambio. Dato che i miei figli non sono disposti a sposarsi tra loro, tu hai qualcosa di cui io ho bisogno: un coniuge per mio figlio. Per questo la dote e il pagamento di un prezzo per una sposa sono onnipresenti nelle culture umane, anche se beni come la posizione sociale e l'alleanza nei conflitti con terze parti hanno anch'essi un peso nella trattativa. Come in tutte le transazioni d'affari, una vendita o uno scambio di figli andati a buon termine provano la buona fede delle parti in causa e fanno sì che, in futuro, esse si fidino con più facilità l'una dell'altra. I parenti acquisiti, insomma, sono sia partner genetici sia soci d'affari.

Dei genitori previdenti devono scegliere con molta attenzione i loro potenziali nuovi parenti. Non solo devono valutarne i beni e l'affidabilità, ma anche calcolare se quel p0' di buona disposizione che si accompagna ad avere nei nipoti un interesse genetico comune potrà essere impiegata al meglio. Con un alleato già sicuro o un nemico implacabile potrebbe andare sprecata, mentre potrebbe essere decisiva per modificare i rapporti con un clan il cui atteggiamento è una via di mezzo. La pianificazione strategica degli accoppiamenti è un effetto della psicologia della parentela; un altro sono le regole che stabiliscono chi può sposare chi. Molte culture incoraggiano i matrirnoni tra cugini trasversali, mentre vietano quelli tra cugini paralleli. Un cugino trasversale è il figlio del fratello della madre o della sorella del padre; un cugino parallelo è il figlio del fratello del padre o della sorella della madre. Perché questa distinzione? Pensate alla situazione più comune, in cui le figlie sono scambiate tra clan di maschi imparentati fra loro, e immaginate di dover scegliere tra diversi cugini quello da sposare (non importa che siate maschio o femmina). Se sposate un cugino trasversale, concludete uno scambio con un partner d'affari di provata affidabilità: un clan dal quale la vostra famiglia (presieduta dal vostro nonno paterno) ha acquistato una moglie in passato (vostra madre o vostra zia). Se sposate un cugino parallelo, i casi sono due: o vi sposate all'interno del clan (se vostro padre e quello del vostro fidanzato sono fratelli), che dunque non acquisisce alcun bene esterno, o sposate un membro di un clan estraneo (se vostra madre e quella del vostro fidanzato sono sorelle).

Tali intrighi hanno dato vita a due dei moderni miti sulla parentela: quello per cui nelle società tradizionali l'individuo non avrebbe voce in capitolo nella scelta del coniuge, e quello per cui la parentela non avrebbe nulla a che fare con il legame genetico. Il granello di verità che c'è nel primo mito consiste nel fatto che ovunque i genitori esercitano tutta l'autorità di cui dispongono per influenzare le scelte matrimoniali dei figli. Questi ultimi, però, non accettano passivamente le decisioni dei genitori. Ovunque si provano intense emozioni (amore romantico, insomma) nei confronti di chi si intende sposare, e i fidanzamenti sono spesso aspre battaglie tra la volontà dei genitori e quella dei figli. E anche quando ad avere l'ultima parola sono i primi, i figli lottano instancabilmente per far conoscere i loro sentimenti, sentimenti che quasi sempre hanno un peso nella decisione finale. La trama di La storia di Tevye il lattivendolo, di Sholem Aleichem (da cui sono stati tratti il musical e il film Il violinista sul tetto), si svolge su questo campo di battaglia, e trame simili si ritrovano un po' in tutto il mondo. La fuga d'amore di un figlio è una catastrofe per i genitori: può significare buttar via l'affare o l'occasione strategica di tutta una vita. Peggio ancora: se i genitori hanno dato in pegno il figlio anni prima (come spesso accade, quando i figli nascono in momenti diversi e la seconda metà dello scambio deve attendere che la prima raggiunga l'età del matrimonio), si trovano a essere inadempienti, alla mercé degli strozzini. O può accadere che per comprare uno sposo o una sposa al figlio in fuga i genitori si siano indebitati fino al collo. Il mancato rispetto degli accordi matrimoniali è una delle principali cause di ostilità e guerre nelle società tradizionali. Con interessi così alti in gioco, non c'è da meravigliarsi che la generazione dei genitori insegni sempre ai figli che l'amore romantico è frivolo o non esiste affatto. Gli intellettuali che giungono alla conclusione che esso è un'invenzione recente, dei trovatori medievali o degli sceneggiatori di Hollywood, prendono per buona quella che è solo propaganda dell'establishrnent.

Anche chi considera la falsa parentela una prova che la parentela non ha nulla a che fare con la biologia prende per buona una dottrina ufficiale. Un grosso problema delle regole matrimoniali, come quella che impone il matrimonio tra cugini trasversali, è che la composizione di un gruppo per età e per sesso fluttua, quindi a volte non ci sono partner idonei per il figlio. Come con tutte le regole, si tratta allora di aggirarle senza ridurle a una farsa. Una soluzione ovvia è di ridefinire chi è imparentato con chi. Uno scapolo appetibile può essere definito un cugino trasversale anche se l'albero genealogico dice qualcosa di diverso: si evita così che una figlia resti zitella, senza con questo stabilire un precedente che autorizzerebbe altri figli a sposare chi vogliono. Ma, nel profondo, queste misure intese a salvare la faccia non ingannano nessuno. Un'ipocrisia analoga vale per altri falsi parenti. Dal momento che le emozioni legate alla parentela sono così potenti, succede che si cerchi di sfruttarle per ottenere la solidarietà di non parenti chiamandoli parenti. E una tattica che è stata riscoperta più e più volte, da capi tribù come da predicatori dei nostri giorni e da fatui musicisti rock. Ma anche nelle tribù in cui le etichette fittizie di parentela sono prese con la massima serietà in pubblico, quando qualcuno è incalzato in privato riconosce che il tal dei tali non è davvero suo fratello o suo cugino. E quando le persone si mostrano per quel che sono in una disputa, la loro vera natura li fa schierare con i consanguinei e non con i falsi parenti. Molti genitori moderni invitano i figli a rivolgersi agli amici di famiglia chiamandoli zio o zia. Quando ero piccolo, io e i miei amici li chiamavamo finti zii e finte zie. E una resistenza ancora più forte i bambini la mostrano verso le pressioni che giungono loro da ogni parte perché chiamino mamma e papà la matrigna o il patrigno.

Le emozioni legate alla parentela plasmano le società, anche le più grandi, da millenni. Tramite doni ed eredità, la portata dell'amore dei genitori può travalicare le generazioni. Esso è all'origine del paradosso fondamentale della politica: nessuna società può essere al contempo equa, libera ed egualitaria. Se è equa, chi lavora di più accumula di più. Se è libera, i suoi membri lasciano i propri beni ai figli. Ma allora non può essere egualitaria, perché alcuni ereditano ricchezze che non hanno guadagnato. Fin da quando Platone, nella Repubblica, richiamò l'attenzione su queste incompatibilità, la maggior parte delle ideologie politiche possono essere definite in base alla posizione che assumono su quale di questi ideali debba cedere il passo.

Un'altra conseguenza sorprendente della solidarietà parentale è che la famiglia è un' organizzazione sovversiva: una conclusione che sembra contraddire sia la visione di destra, secondo cui Chiesa e Stato sono sempre stati tenaci sostenitori della famiglia, sia quella di sinistra, secondo cui la famiglia è un'istituzione patriarcale borghese concepita per reprimere la donna, indebolire la solidarietà di classe e produrre consumatori docili. Il giornalista Ferdinand Mount ha documentato come ogni movimento politico e religioso della storia abbia cercato di minare la famiglia. I motivi sono evidenti. Non solo la famiglia è una coalizione rivale che compete per accaparrarsi la fedeltà delle persone, ma gode di un vantaggio che rende la sua concorrenza sleale: i parenti sono congenitamente portati a prendersi cura l'uno dell'altro più di quanto vi siano portati i compagni. Elargiscono favori nepotistici, passano sopra gli attriti quotidiani che in altre organizzazioni provocano tensioni, e non hanno scrupoli quando si tratta di vendicare un torto subito da un membro. Il leninismo, il nazismo e le altre ideologie totalitarie hanno sempre preteso una nuova lealtà «superiore», e opposta, ai legami familiari. Altrettanto hanno fatto le religioni, dal cristianesimo delle origini alla setta di Moon («Adesso siamo noi la tua famiglia!»). In Matteo 10,34-37, Gesù dice:

Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me.

Quando Gesù dice «lasciate che i bambini vengano a me», dice che non devono andare dai loro genitori.

Le religioni e gli stati che hanno successo finiscono per accettare l'idea di dover convivere con le famiglie, ma fanno quel che possono per contenerle, in particolare le più minacciose. L'antropologa Nancy Thornill ha scoperto che nella maggior parte delle culture le leggi sull'incesto non sono state introdotte in risposta al problema dei matrimoni tra fratelli e sorelle; tanto per cominciare, fratelli e sorelle non provano il desiderio di sposarsi. Anche se l'incesto tra fratello e sorella può essere incluso nel divieto e contribuire a legitti­mario, i veri bersagli di queste leggi sono i matrimoni che minacciano gli interessi dei legislatori. Esse proibiscono le nozze tra parenti più lontani, come i cugini, e sono promulgate dai governanti di società stratificate per evitare che all'interno di famiglie che potrebbero divenire future rivali si accumulino ricchezza e potere. L'antropologa Laura Betzig ha mostrato che le regole della Chiesa medievale su sessualità e matrimonio erano anch'esse armi contro le dinastie familiari. Nell'Europa feudale i genitori non lasciavano in eredità le loro proprietà in parti uguali a tutti i figli. Le terre non potevano essere suddivise a ogni generazione, perché si sarebbero ridotte a dimensioni tali da divenire inservibili, e un titolo può essere trasmesso a un solo erede. Nacquero così i diritti di primogenitura: ogni bene veniva lasciato al figlio maggiore, e gli altri se ne andavano in cerca di fortuna, spesso nell'esercito o nella Chiesa. La Chiesa era piena di figli minori diseredati, che a un certo punto modificarono le leggi sul matrimonio per rendere più difficile a proprietari terrieri e detentori di titoli generare eredi legittimi. Se costoro morivano senza figli, proprietà e titoli tornavano ai fratelli diseredati o alla Chiesa in cui essi militavano. Secondo le loro leggi, un uomo non poteva divorziare da una moglie senza figli, risposarsi finché costei era in vita, adottare un erede, procreare un erede con una parente più stretta di una cugina di settimo grado, o avere rapporti sessuali in una serie di giorni speciali che, nel loro insieme, ammontavano a oltre metà dell'anno. Le vicende di Enrico VIII ci ricordano che gran parte della storia europea ha ruotato intorno a battaglie tra potenti che, mediante matrimoni strategici e sforzi per avere eredi, cercavano di far leva sui sentimenti familiari per trarne vantaggi politici, e altri potenti che cercavano di sventare i loro piani.

Genitori e figli

Per un organismo progettato dalla selezione naturale, lasciare discendenti è la ragion d'essere e lo scopo di ogni sforzo e di ogni lotta. L'amore di un genitore per suo figlio dev'essere grande, e infatti lo è. Ma non dev'essere sconfinato. Robert Trivers ha scoperto un'implicazione sottile ma profonda della genetica per la psicologia della famiglia.

Nella maggior parte delle specie sessuate, i genitori trasmettono a ogni figlio il cinquanta per cento dei propri geni. Una strategia per massimizzare il numero di geni nella generazione successiva consiste nello sfornare quanti più figli possibile il più in fretta possibile. E ciò che fa la maggior parte degli organismi. Gli organismi neonati, tuttavia, sono più vulnerabili di quelli adulti perché sono più piccoli e hanno meno esperienza, e in quasi tutte le specie la maggioranza di essi non sopravvive fino all'età adulta. Tutti gli organismi si trovano dunque di fronte alla «scelta» tra dedicare tempo, calorie e rischi alla cura della prole esistente e accrescere le sue probabilità di sopravvivenza, o produrre a getto continuo nuovi figli e lasciare che si arrangino da soli. A seconda delle peculiarità dell'ecosistema in cui vive la specie e del suo schema corporeo, può essere genetica­mente conveniente l'una o l'altra strategia. Gli uccelli e i mammiferi hanno optato per la cura dei piccoli, i mammiferi fino al punto estremo di evolvere organi che prelevano sostanze nutritive dal loro stes­so corpo e le confezionano per i figli sotto forma di latte. Gli uccelli e i mammiferi investono calorie, tempo, rischi e logorio corporeo nella progenie, e sono ripagati dall'aumento della sua aspettativa di vita.

In teoria, un genitore potrebbe giungere all'estremo opposto e, finché non muore di vecchiaia, prendersi cura del solo primogenito, per esempio allattandolo. Ma avrebbe poco senso, perché a un certo punto le calorie che si trasformano in latte potrebbero essere investite con più profitto nella procreazione e nell'allattamento di un nuovo figlio. Man mano che il primogenito cresce, ogni ulteriore litro di latte è sempre meno essenziale per la sua sopravvivenza e il piccolo è sempre più in grado di procurarsi il cibo da solo. Un altro figlio diviene un investimento migliore, e per il genitore è il momento di svezzare il primo.

Un genitore dovrebbe trasferire l'investimento da un figlio più grande a uno più piccolo quando il beneficio per il piccolo supera il costo per il grande. Il calcolo si basa sul fatto che i due figli hanno lo stesso grado di parentela con il genitore. Ma si tratta di un calcolo dal punto di vista di quest'ultimo; il primo figlio la vede diversamente. Egli condivide il cinquanta per cento dei geni con il fratello minore, ma condivide il cento per cento dei geni con se stesso. Dal suo punto di vista, il genitore dovrebbe continuare a investire su di lui finché il beneficio per il fratello minore non superi il doppio del costo per lui. Gli interessi genetici del genitore e del figlio divergono. Ogni figlio dovrebbe volere più cure dal genitore di quante quest'ultimo è disposto a dargli, perché i genitori vogliono investire in parti uguali in tutti i figli (in relazione ai loro bisogni), mentre ogni figlio vuole una parte maggiore per sé. La tensione è detta conflitto genitore-figlio. In sostanza è una rivalità tra fratelli: i fratelli competono tra loro per l'investimento dei genitori, mentre i genitori sa­rebbero felici se ognuno accettasse una quota proporzionale alle sue esigenze. Ma la rivalità tra fratelli può essere giocata anche con i ge­nitori. In termini evoluzionistici, la sola ragione per cui un genitore rifiuta di investire qualcosa su un figlio è per risparmiare per i successivi. Il conflitto di un figlio con i genitori è in realtà una rivalità con i fratelli non ancora nati.

Un esempio tangibile è il conflitto dello svezzamento. Le calorie che una madre converte in latte non sono disponibili per allevare un nuovo figlio, quindi l'allattamento inibisce l'ovulazione. A un certo punto, perciò, le madri dei mammiferi svezzano i figli, in modo che l'organismo possa prepararsi a procreare i figli successivi. Quando questo avviene, il giovane mammifero fa il diavolo a quattro, perseguitando la madre per settimane o per mesi per avere accesso alle mammelle, prima di rassegnarsi.

Quando ho citato la teoria del conflitto genitore-figlio per consolare un collega il cui bambino di due anni era diventato una peste dopo la nascita del fratellino, è saltato su: «Stai dicendo soltanto che la gente è egoista!». Insonne da settimane, poteva ben essere perdonato per non avere capito il nocciolo della questione. E chiaro che i genitori non sono egoisti; sono gli esseri meno egoisti del mondo. Ma non sono neanche infinitamente altruisti, perché altrimenti i piagnucolii e le bizze sarebbero musica per le loro orecchie. E la teoria predice che neanche i figli sono completamente egoisti. Se lo fossero, ucciderebbero ogni fratello appena nato per accaparrarsi tutti gli investimenti dei genitori e chiederebbero di essere allattati a vita. La ragione per cui non lo fanno è che sono parzialmente legati ai loro fratelli presenti e futuri. Un gene che spingesse un bambino a uccidere la sorella neonata avrebbe una probabilità del cinquanta per cento di distruggere una copia di se stesso, e nella maggior parte delle specie questo costo supera il beneficio dell'avere il latte materno tutto per sé. (In alcune specie, come le iene maculate e alcuni uccelli da preda, il costo non supera il beneficio e i fratelli si uccidono tra loro.) Un gene che facesse desiderare a un quindicenne di essere allattato precluderebbe alla madre di quest'ultimo la possibilità di produrre nuove copie di se stesso all'interno di fratelli. Il costo supererebbe di due volte il beneficio, quindi la maggior parte degli organismi hanno a cuore l'interesse dei propri fratelli, anche se non quanto il proprio. Ciò che questa teoria afferma, in sostanza, non è che i figli vogliono prendere o che i genitori non vogliono dare, ma che i figli vogliono prendere più di quanto i genitori sono disposti a dare.

Il conflitto genitore-figlio ha inizio nell'utero. Una donna che porta in grembo un bambino sembra un'immagine di armonia e dedizione, ma, sotto quest'apparenza radiosa, dentro di lei è in corso un'aspra battaglia. Il feto cerca di estrarre sostanze nutritive dal corpo della madre a scapito della capacità di quest'ultima di generare altri figli. La madre è una conservatrice, cerca di tenere in serbo il proprio corpo per il futuro. La placenta è un tessuto fetale che invade il corpo della madre e attinge al suo sangue. Attraverso di essa il feto secerne un ormone che limita i livelli di insulina materna, facendo crescere nel sangue il tasso di zuccheri che poi può prelevare. Ma il diabete che ne consegue compromette la salute della madre, la quale nel corso dell'evoluzione ha controbattuto secernendo più insulina, il che ha indotto il feto a produrre in maggior misura gli ormoni che limitano l'insulina, e così via, finché quegli ormoni non hanno raggiunto una concentrazione superiore di un migliaio di volte a quella normale. Il biologo David Haig, che per primo ha osservato il conflitto prenatale genitore­figlio, fa notare che l'aumento dei livelli ormonali equivale ad alzare la voce: è un segno di conflitto. In un braccio di ferro analogo, il feto fa aumentare la pressione sanguigna della madre, accaparrandosi più sostanze nutritive a spese della salute materna.

La battaglia continua una volta che il bambino è venuto alla luce. La prima decisione della maternità è se lasciar morire il neonato. L'infanticidio è stato praticato in tutte le culture del mondo. Nella nostra è sinonimo di depravazione, uno dei crimini più ripugnanti che si possano immaginare. Si potrebbe pensare che sia una forma di suicidio darwiniano e una prova che i valori delle altre culture non sono paragonabili ai nostri. Daly e Wilson mostrano che nessuna delle due affermazioni è vera.

In tutte le specie i genitori devono decidere se continuare a investire in un neonato. L'investimento genitoriale è una risorsa preziosa, e se un neonato ha buone probabilità di morire non vale la pena sprecare ulteriori risorse per allevarlo o allattarlo: meglio spendere tempo e calorie per allevare i suoi compagni di nidiata, ricominciare con nuovi figli o aspettare tempi migliori. Perciò la maggior parte degli animali lasciano morire i figli troppo minuti o malaticci. Calcoli simili entrano in gioco anche nell'infanticidio umano. Nelle popolazioni di cacciatori-raccoglitori le donne hanno il primo figlio nella tarda adolescenza, lo allattano ogni volta che vuole per quattro anni in cui restano sterili, e ne vedono molti morire prima dell'età adulta. Se è fortunata, una donna può far crescere fino alla maturità due o tre figli. (Le frotte di figli dei nostri nonni sono aberrazioni storiche dovute all'agricoltura, che ha fornito i surrogati del latte materno.) Per far giungere anche solo un piccolo numero di neonati fino all'età adulta, le donne devono compiere scelte difficili. In varie culture del mondo li lasciano morire, quando le loro probabilità di sopravvivenza sono scarse: per esempio quando il bambino è deforme, è un gemello, è orfano di padre o ha per padre un uomo che non è il marito della donna, quando la madre è giovane (e avrà quindi l'opportunità di riprovarci), è priva di sostegno sociale, ha avuto il bimbo poco dopo un altro, è sovraccaricadi figli più grandi, o è per altri versi in gravi difficoltà, per esempio per una carestia. L'infanticidio nell'Occidente moderno è simile. Le statistiche mostrano che le madri che lasciano morire i figli sono giovani, povere e nubili. Di ciò vi sono molte spiegazioni, ma è difficile che il parallelismo con il resto del mondo sia una coincidenza.

Le madri infanticide non sono senza cuore, e anche quando la mortalità infantile è diffusa le giovani vite non vengono mai trattate con noncuranza. Le madri vivono l'infanticidio come una tragedia inevitabile. Provano pena per il figlio e lo ricordano con dolore per il resto della loro vita. In molte culture esiste la tendenza a mantenere una certa distanza emotiva dal neonato finché non si ha la certezza che sopravvivrà. Non si può toccarlo, attribuirgli un nome o una personalità giuridica finché non è terminato un periodo di pericolo, pratica che ha molte analogie con le nostre abitudini riguardo al battesimo e alla circoncisione (praticata ai bambini ebrei all'età di otto giorni).

E possibile che le emozioni delle neomadri, suscettibili di influire sulla decisione se tenere un bambino o lasciarlo morire, siano state plasmate da queste circostanze demografiche. La depressione post partum è stata liquidata come un delirio ormonale, ma, come per hitte le spiegazioni di emozioni complesse, bisogna chiedersi perché il cervello è costruito in modo da permettere agli ormoni di sortire i loro effetti. Per gran parte della storia dell'evoluzione umana la neomadre ha avuto ottime ragioni per prendersi una pausa e fare il punto della situazione: era di fronte alla scelta tra una sicura tragedia subito e la possibilità di una tragedia ancora più grande qualche anno dopo, una scelta da non prendere alla leggera. Ancora oggi, il tipico rimuginare di una neomadre depressa (come me la caverò con un fardello così?) è un problema autentico. La depressione è più grave in quelle circostanze che spingono le madri di altre parti del mondo a commettere l'infanticidio, quali la povertà, i conflitti coniugali e la condizione di ragazza madre.

La risposta emotiva al cui riguardo si parla di «legame madre-figlio» è anch'essa senza dubbio più sofisticata dello stereotipo secondo cui una donna, se interagisce con il figlio in un arco di tempo critico dopo la sua nascita, è presa da un attaccamento al bambino che durerà per l'intera vita, come le vittime del folletto Puck che, in Sogno di una notte di mezza estate, cadono infatuate della prima persona che vedono al risveglio. Le madri sembrano passare da una fredda valutazione del neonato e delle loro nuove prospettive alla percezione del bambino come individuo unico e meraviglioso dopo circa una settimana, fino al graduale svilupparsi di un amore profondo negli anni successivi,

Il neonato è parte in causa e lotta per i suoi interessi con la sola arma di cui dispone: la tenerezza. I neonati rispondono precocemente alle madri: sorridono, entrano in contatto con loro tramite gli occhi, alzano la testa alle loro parole, giungono persino a mimarne le espressioni facciali. Questi annunci pubblicitari di un sistema nervoso in funzione possono sciogliere un cuore materno e far pendere la bilancia nella imminente decisione se tenere o meno il bambino. L'etologo Konrad Lorenz ha fatto notare che la geometria dei neonati (testa grossa, cranio a bulbo, occhi grandi e bassi sul volto, guance tonde e arti corti) suscitano tenerezza e affetto. Tale geometria è frutto del processo di assemblaggio del neonato: l'estremità cefalica cresce più in fretta nell'utero, e l'altra estremità si mette alla pari dopo la nascita; i neonati devono crescere per corrispondere al loro cervello e ai loro occhi. Lorenz ha messo in rilievo come gli animali con una geometria di questo tipo, quali le anatre e i conigli, suscitino tenerezza negli esseri umani e, nel saggio «Omaggio di un biologo a Topolino», Stephen Jay Gould rileva come i creatori di cartoni animati sfruttino tale geometria per rendere più attraenti i propri personaggi. È plausibile che anche i geni la sfruttino, esaltando i caratteri infantili di un neonato, in particolare quelli che segnalano buona salute, per renderlo più attraente alla madre.

Anche una volta che il bimbo è stato lasciato vivere, la battaglia tra le generazioni continua. Come può un figlio tenere duro in questa lotta? Come nota Trivers, i neonati non possono sbattere per terra la madre e poppare a volontà; devono usare tattiche psicologiche. Devono manipolare la genuina preoccupazione dei genitori per il loro benessere per indurli a dare di più di quanto altrimenti sarebbero disposti a dare. Ma poiché i genitori possono imparare a ignorare le grida di «al lupo», le tattiche devono essere subdole. Un neonato conosce le proprie condizioni meglio di un genitore, perché il suo cervello è collegato a sensori dislocati in tutto il suo corpo, e sia i genitori sia il neonato hanno interesse a che i bisogni di quest'ultimo, essere nutrito quando ha fame e preso in braccio quando ha freddo per esempio, siano soddisfatti. Questo dà al piccolo la possibilità di strappare più attenzioni di quelle che il genitore vorrebbe dargli: può piangere anche quando non è molto affamato o infreddolito, o continuare a negare un sorriso finché non ottiene ciò che vuole. Non è necessario che finga in senso stretto. Dato che i genitori dovrebbero evolvere la capacità di riconoscere i pianti simulati, la tattica più efficace per il bambino potrebbe risultare quella di sentirsi davvero infelice, anche quando sul piano biologico non ne avrebbe motivo. L'autoinganno può cominciare molto presto.

E anche possibile che il bambino ricorra al ricatto, per esempio mettendosi a strillare di notte o scalmanandosi in pubblico, situazioni in cui i genitori sono restii a lasciare che lo strepito continui e facilmente capitolano. Peggio: l'interesse dei genitori per il benessere del figlio permette a quest'ultimo di utilizzare se stesso come un ostaggio, dimenandosi in un violento attacco di collera o rifiutando di fare qualcosa che, come entrambe le parti sanno, gli farebbe piacere. Thomas Schelling osserva che i bambini sono in una posizione eccellente per impiegare tattiche paradossali (capitolo VI). Possono coprirsi le orecchie, strillare, evitare gli sguardi dei genitori o tirarsi indietro, tutti comportamenti che evitano loro di percepire o comprendere le minacce dei genitori. E l'evoluzione del monello.

La teoria del conflitto genitore-figlio è un'alternativa a due idee diffuse. Una è il complesso di Edipo freudiano, l'ipotesi che i figli maschi nutrano il desiderio inconscio di avere rapporti sessuali con la madre e di uccidere il padre, e temano pertanto che il padre intenda castrarli. (Analogamente, nel complesso di Elettra, le bambine vogliono rapporti sessuali con il padre.) Qualcosa da spiegare, in effetti, c'è. In tutte le culture i bambini piccoli sono a volte possessivi nei confronti della madre e freddi verso il suo compagno. Il conflitto genitore­figlio ne offre una spiegazione semplice. L'interesse del papa per la mamma distoglie l'attenzione di quest'ultima da me e, peggio ancora, minaccia di dar vita a un fratellino o una sorellina. I bambini possono benissimo avere evoluto delle tattiche per ritardare questo triste giorno, riducendo l'interesse della madre per il sesso e tenendo il padre lontano da lei. Sarebbe un'estensione diretta del conflitto dello svezzamento. La teoria spiega perché i cosiddetti sentimenti edipici sono altrettanto comuni nelle bambine e nei bambini, ed evita l'idea assurda che i bambini piccoli desiderino fare l'amore con la madre.

Daly e Wilson, che hanno proposto questa alternativa, ritengono che l'errore di Freud sia stato di mettere insieme due tipi diversi di conflitto genitore-figlio. I bambini piccoli sono in conflitto con il padre per l'accesso alla madre, ma non si tratta di una rivalità di natu­ra sessuale. E i figli più grandi possono avere un conflitto di tipo sessuale con i genitori, specialmente con i padri, ma senza che la rivalità riguardi la madre. In molte società i padri competono con i figli per i partner sessuali, in modo esplicito o implicito. Nelle società in cui vige la poliginia, e un uomo può quindi avere più mogli, possono letteralmente competere per le stesse donne. E nella maggior parte delle società, poliginiche o monogamiche, un padre deve sovvenzionare la ricerca di una compagna da parte del figlio a discapito degli altri figli o delle sue stesse aspirazioni. Il figlio può essere impaziente che il padre inizi a stornare risorse verso di lui, e un padre ancora in forze è un impedimento alla sua carriera. I parricidi e le uccisioni dei figli nella maggior parte del mondo sono scatenati da questa competizione.

Inoltre i genitori combinano i matrimoni, modo elegante per dire che vendono e commerciano i figli. Anche in questo caso gli interessi possono essere in conflitto. I genitori possono faticosamente giungere a un accordo complessivo in cui un figlio ci guadagna e un altro ci perde. Nelle società poliginiche un padre può cedere le proprie figlie in cambio di mogli per se stesso e, se una figlia viene barattata con una nuora o con una moglie, il suo valore dipende dalla sua verginità: gli uomini non vogliono sposare una donna che potrebbe portare in grembo il figlio di un altro. (L'efficace controllo delle nascite è un acquisizione recente e ancora tutt'altro che universale.) Pertanto i padri si interessano alla sessualità delle figlie, una simulazione del complesso di Elettra, ma senza che nessuna delle due parti provi desiderio per l'altra. In molte società gli uomini prendono misure orripilanti per garantire la «purezza» della figlia: accade che la tengano segregata, l'avvolgano dalla testa ai piedi in un mantello o le tolgano qualunque interesse per il sesso mediante le orribili pratiche della clitorideclomia e dell'infibulazione. Quando queste precauzioni falliscono, possono giungere a giustiziare una figlia non casta a salvaguardia di quello che, per ironia, chiamano «onore» familiare. (Nel 1977 una principessa saudita fu pubblicamente lapidata a morte per aver disonorato il nonno, fratello del re, intessendo a Londra un'imprudente relazione.) Ii conflitto genitore-figlio è un caso particolare del conflitto sulla «proprietà» della sessualità femminile, tema su cui torneremo.

L'altra teoria diffusa che il conflitto genitore-figlio sovverte è quella basata sulla distinzione tra biologia e cultura: i neonati sarebbero un fascio di rozzi istinti, e i genitori li renderebbero membri competenti e ben adattati della società. La personalità, secondo que­sta concezione convenzionale, viene forgiata negli anni della formazione dal rapporto fra genitori e figli. Che i figli abbiano successo in società lo desiderano anche i genitori, e siccome i bambini non sono nella condizione di plasmarsi da sé, l'integrazione sociale rappresenta una convergenza degli interessi delle due parti.

Trivers ha osservato che, secondo la teoria del conflitto genitore-figlio, non necessariamente i genitori hanno a cuore l'interesse della prole quando cercano di integrarla nella società. Come essi agiscono spesso contro l'interesse di un figlio, così possono cercare di addestrare quest'ultimo ad agire contro il proprio interesse. I genitori vogliono che ogni figlio si comporti verso gli altri fratelli in modo più altruista di quanto egli vorrebbe; e questo perché a loro conviene che il figlio sia altruista quando il beneficio per i fratelli supera il costo che l'altruismo comporta per il figlio stesso, mentre al figlio conviene essere altruista solo quando quel beneficio supera il doppio del costo che comporta. Per parenti più lontani come fratellastri e cugini, la differenza tra l'interesse del genitore e quello del figlio è ancora maggiore, perché il primo è imparentato più strettamente al fratellastro o al cugino di quanto non lo sia il secondo. Allo stesso modo, i genitori possono cercare di persuadere il figlio che restare a casa ad aiutare la famiglia, accettare di essere venduto in matrimonio e altre soluzioni vantaggiose per i genitori (e dunque per i futuri fratelli del figlio) sono in realtà vantaggiose per il figlio stesso. Come in tutti i conflitti, i genitori possono ricorrere all'inganno e, siccome i figli non sono stupidi, all'autoinganno. Per questo anche se i figli, essendo più piccoli e non avendo altra scelta, lì per lì sottostanno a premi, punizioni, esempi ed esortazioni dei genitori, non dovrebbero, secondo questa teoria, lasciare che la loro personalità venga plasmata da simili tattiche.

Facendo questa previsione, Trivers si è messo in una posizione difficile. L'idea che i genitori plasmino i figli è così radicata che per lo più non ci si rende neppure conto che si tratta di un'ipotesi da verificare e non di una verità autoevidente. Ora l'ipotesi è stata sottoposta a verifica e il risultato è tra i più sorprendenti della storia della psicologia.

Le personalità differiscono sotto almeno cinque aspetti principali: vi sono persone socievoli o solitarie (estroversione-introversione), sempre preoccupate o calme e soddisfatte di sé (nevroticismo-stabilità), gentili e fiduciose o rudi e sospettose (amabilità o antagonismo), premurose o incuranti (coscienziosità o superficialità) e audaci o conformiste (apertura­chiusura). Da dove provengono questi tratti? Se sono genetici, i gemelli monozigotici dovrebbero condivi­derli, anche quando sono stati separati fin dalla nascita, e i fratelli di sangue dovrebbero condividerli in misura maggiore dei fratelli adottivi. Se sono un prodotto dell'integrazione sociale realizzata dai genitori, i gemelli adottivi dovrebbero condividerli, e i gemelli e i fratelli di sangue dovrebbero condividerli maggiormente se sono cresciuti nella stessa famiglia che se sono cresciuti in famiglie diverse. Decine di studi hanno sottoposto a test questo tipo di previsioni su migliaia di persone in numerosi paesi, prendendo in esame non solo questi tratti della personalità, ma anche esiti concreti prodottisi nel corso della vita, quali il divorzio e l'alcolismo. I risultati sono chiari e replicabili, e contengono due grosse sorprese.

Un risultato è ormai ben noto. Gran parte delle varianti personologiche, circa il cinquanta per cento, hanno cause genetiche. Gemelli monozigotici separati alla nascita sono simili; fratelli di sangue cresciuti insieme sono più simili fra loro di quanto lo siano dei fratelli adottivi. Il che significa che l'altro cinquanta per cento deve provenire dai genitori e dalla famiglia, giusto? Sbagliato! Il fatto di crescere in una famiglia piuttosto che in un'altra è responsabile, al massimo, del cinque per cento delle differenze di personalità tra gli individui. I gemelli monozigotici separati alla nascita non sono soltanto simili; sono praticamente simili quanto due gemelli monozigotici cresciuti insieme. I fratelli adottivi di una stessa famiglia non sono soltanto diversi; sono diversi quasi quanto due bambini presi a caso tra la popolazione. La più grossa influenza che i genitori esercitano sui figli è al momento del concepimento.

(Mi devo affrettare ad aggiungere che i genitori hanno scarsa importanza solo per quanto riguarda le differenze tra loro e le differenze tra i figli che hanno allevato. Quello che fanno tutti i genitori normali e che influenza i figli non viene misurato da questi studi. I bambini piccoli hanno senz'altro bisogno dell'affetto, della protezione e degli insegnamenti di un buon genitore. Come ha detto la psicologa Judith Harris, gli studi implicano solo che i bambini, a lasciarli nelle loro case e nel loro ambiente sociale ma scambiando a casaccio tutti i genitori, si trasformerebbero nello stesso genere di adulti.)

Nessuno sa da dove provenga il restante quarantacinque per cento della variabilità. Forse la personalità è forgiata da eventi unici che influiscono sul cervello in crescita: la posizione che ha il feto nell'utero, quanto sangue materno si accaparra, che pressioni subisce durante il parto, se il bambino nei primi anni picchia la testa o contrae certi virus. Forse sono determinanti esperienze uniche di altro genere, come venire inseguiti da un cane o essere oggetto di una gentilez­za da parte di una maestra. Forse i tratti dei genitori e quelli dei figli interagiscono in modi complessi, per cui due bambini che crescono con gli stessi genitori vivono in realtà in due ambienti diversi. Un tipo di genitore può premiare un bambino turbolento e punirne uno placido; un altro tipo di genitore può fare il contrario. Non esistono prove attendibili a sostegno di queste ipotesi, e a mio parere ve ne sono altre due più plausibili; entrambe vedono nella personalità un adattamento che nasce dalla divergenza di interessi tra genitori e figli. Una riguarda il piano di battaglia del figlio per competere con i suoi fratelli, che tratterò nel paragrafo seguente; l'altra il piano di battaglia del figlio per competere nel gruppo dei suoi coetanei.

Judith Harris ha documentato come ovunque i figli vengano introdotti in società dai loro coetanei, non dai genitori.32 A ogni età si aggregano a svariati gruppi, combriccole, bande, cerchie e salotti, al cui interno si destreggiano per farsi una posizione. Ognuno di essi è una cultura che assorbe alcune abitudini dall'esterno e ne crea molte proprie. Il patrimonio culturale dei bambini (le regole per giocare a nascondino, la melodia e i testi delle nenie, la convinzione che per legge chi uccide una persona deve pagare la sua lapide) si trasmette da bambino a bambino, a volte per migliaia di anni. Crescendo, i figli passano a gruppi di età sempre superiore, finché non si aggregano in gruppi di adulti. II prestigio conquistato a un dato livello funge da trampolino di lancio al livello successivo; è molto significativo che i leader dei gruppi di giovani adolescenti siano i primi ad avere rapporti con l'altro sesso.33 A tutte le età i figli sono portati a calcolare cosa occorre per avere successo tra i coetanei e a dare a queste strategie la precedenza su qualsiasi insegnamento che i genitori cerchino di inculcare loro. I noiosi genitori sanno di non poter tenere testa ai coetanei del figlio, e sono giustamente assillati dalla preoccupazione di avere il miglior vicinato possibile in cui farlo crescere. Molte persone di successo sono immigrate negli Stati Uniti da bambini e non sono state minimamente ostacolate dall'avere genitori culturalmente inabili, che non hanno mai imparato la lingua o le usanze locali. Come studioso dello sviluppo del linguaggio, sono sempre rimasto colpito da come i bambini acquisiscono in breve tempo il modo di parlare dei loro compagni (specialmente l'accento), pur trascorrendo più tempo con i genitori.

Perché i figli non sono come creta nelle mani dei genitori? Come Trivers e Harris, sospetto che sia perché i loro rispettivi interessi genetici coincidono solo in parte. I figli prendono calorie e protezione dai genitori perché essi sono i soli disposti a fornirle, ma traggono le informazioni dalle migliori fonti che hanno a disposizione ed elabo­rano in prima persona le proprie strategie per affrontare la vita. I genitori possono non essere gli adulti più saggi e più ricchi di cultura a portata di mano e, peggio ancora, le regole domestiche congiurano spesso contro i figli a favore dei fratelli già nati o di quelli che verranno. Per quanto riguarda la riproduzione, la famiglia è un binario morto. Il figlio dovrà competere per i partner, e prima ancora per lo status necessario a trovarli e conservarli, in altri campi di battaglia, dove vigono regole diverse. Gli conviene padroneggiarle.

Nei nostri discorsi pubblici sui figli, il conflitto d'interessi tra di essi e i genitori non viene riconosciuto. Quasi ovunque e quasi sempre, i genitori si sono trovati in vantaggio, e hanno esercitato il loro potere da crudeli tiranni. In questo secolo il vento è cambiato. Gli esperti di benessere infantile inondano le librerie di manuali del bravo genitore, e il governo è prodigo di consigli in materia. Tutti i politici dipingono se stessi come amici dei bambini, e gli avversari come loro nemici. Una volta i manuali sulla crescita dei figli davano consigli alle mamme su come arrivare alla fine della giornata. Con il dottor Spock, i riflettori si sono spostati sul bambino e la madre è divenuta una nonpersona, utile soltanto a garantire la salute mentale del figlio e a prendersi la colpa se quest'ultimo diventa uno sbandato.

La rivoluzione del benessere infantile è stato uno dei grandi movimenti di liberazione della storia, ma, come ogni ridistribuzione di potere, rischia di andare troppo in là. Le critiche sociali femministe hanno sostenuto che i guru degli interessi dei bambini hanno cancellato gli interessi delle madri. Parlando del suo libro The Myths of Motherhood, Shari Thurer ha osservato:

Il mito più pervasivo è la negazione dell'ambivalenza materna: del fatto che davvero le madri amano e odiano i loro figli allo stesso tempo. C'è un silenzio totale sui sentimenti ambivalenti ... averli equivale a essere una cattiva madre. [Nella mia esperienza clinical rabbia e moti di collera sono normali. I bambini non fanno che chiedere, fino a prosciugarti. Le donne non dovrebbero essere indotte a sentire che quello che ci sì aspetta da loro è che soddisfino tutte le necessità dei figli. Ma il mito vuole che l'amore materno sia naturale e sempre attivo.

Persino i sostenitori dei diritti della madre spesso si sentono in dovere di formulare le loro argomentazioni nei termini degli interessi del bambino (una madre sovraffaticata è una cattiva madre), anziché in quelli dell'interesse della madre stessa (una madre sovraffaticata è infelice).

Che gli interessi dei genitori e quelli dei figli possono divergere hanno iniziato a constatano anche critici sociali più conservatori.

Barbara Dafoe Whitehead ha fatto notare, dati alla mano, che l'educazione sessuale ha fallito lo scopo per il quale viene propagandata, di ridurre cioè le gravidanze fra le adolescenti. Gli adolescenti di oggi sanno tutto sul sesso e i suoi rischi, ma le ragazze restano ugualmente incinte, probabilmente perché l'idea di avere un bambino non le preoccupa. Se preoccupa i loro genitori, forse essi farebbero meglio a imporre i propri interessi controllando le loro figlie (con accompagnatori e orari di rientro), e non limitandosi a educarle.

Cito queste discussioni non per prendere posizione, ma per richiamare l'attenzione sulla portata che può avere il conflitto genitori-figli. Il pensiero evoluzionistico è spesso liquidato come «un approccio riduzionista» mirante a ridefinire tutte le problematiche sociali e politiche come problemi tecnici di biologia. Questa critica capovolge la realtà. Sono le concezioni da decenni prevalenti, cui l'evoluzionismo è estraneo, che considerano la crescita dei figli alla stregua di un problema tecnologico, quello di stabilire quale pratica produce i figli migliori. L'intuizione di Trivers è che le decisioni riguardanti la crescita dei figli sono intrinsecamente decisioni riguardanti l'allocazione di risorse scarse (il tempo e gli sforzi dei genitori) nei cui confronti diverse parti avanzano legittime pretese. In quanto tale, la crescita dei figli sarà sempre in parte una questione di etica e di politica, non solo di psicologia e di biologia.

Fratelli e sorelle

Da quando Caino uccise Abele, i fratelli sono al centro di un groviglio di emozioni. In quanto membri della stessa generazione che si conoscono bene a vicenda, reagiscono l'uno all'altro come individui: possono piacersi o non piacersi, competere se sono dello stesso sesso o provare attrazione sessuale se di sesso opposto. In quanto parenti stretti, provano un grande surplus di affetto e solidarietà. Ma, se ogni fratello condivide con l'altro il cinquanta per cento dei geni, con se stesso ne condivide il cento per cento; l'amore fraterno ha quindi i suoi limiti. Essendo figli degli stessi genitori, i fratelli sono in concorrenza per i loro investimenti, dallo svezzamento alla lettura del testamento. E sebbene la parziale identità del patrimonio genetico renda un fratello e una sorella alleati naturali, li rende anche genitori innaturali, alchimia genetica che mitiga i loro sentimenti sessuali.

Se le persone generassero singole figliate di n gemelli intercambiabili, il conflitto genitori­figli sarebbe un'aspra lotta tra fratelli, ognuno dei quali chiederebbe di più della sua parte. Ma ogni bambino è diver­so, se non altro perché è nato in un momento diverso. Può darsi che i genitori preferiscano non investire un ennesimo della loro energia in ognuno dei loro n figli, ma, come avveduti gestori di un portafoglio azionario, cerchino di indovinare i vincenti e i perdenti e investire di conseguenza. Le decisioni sull'investimento non sono coscienti previsioni del numero di nipoti che ci si può aspettare da ogni figlio, ma reazioni emotive modulate dalla selezione naturale perché diano esiti destinati a massimizzare quel numero nell'ambiente in cui siamo evoluti. Anche se i genitori illuminati cercano con ogni sforzo di evitare favoritismi, non sempre ci riescono. In uno studio condotto su madri britanniche e statunitensi, più di due terzi di esse hanno confessato di amare maggiormente uno dei loro figli.

Come fanno i genitori a compiere la Scelta di Sophie e sacrificare un figlio quando le circostanze lo impongono? La teoria dell'evoluzione prevede che il criterio principale debba essere l'età. L'infanzia è un campo minato, e quanto più un bambino cresce tanto più il genitore è fortunato ad averlo ancora vivo, e tanto più insostituibile diventa il bambino, come fonte di futuri nipoti, fino alla maturità sessuale. (Da quel momento in poi gli anni fertili iniziano a essere consumati e il numero di nipoti che ci si può aspettare dal figlio decresce.) Per esempio, le tavole attuariali indicano che in una società di cacciatori-raccoglitori un bambino di quattro anni darà in media al genitore 1,4 volte più nipoti di un neonato, un bambino di otto anni 1,5 e uno di 12 anni 1,7. Quindi se i genitori hanno già un figlio nel momento in cui ne arriva un altro, e non sono in grado di sfamani entrambi, dovrebbero sacrificare il neonato. In nessuna società umana i genitori sacrificano un figlio più grande quando ne nasce uno nuovo. Nella nostra società la probabilità che un genitore uccida un figlio decresce costantemente con il crescere dell'età del bambino, soprattutto nel corso del pericoloso primo anno. Quando si chiede a dei genitori di immaginare la perdita di un figlio, essi dichiarano che proverebbero più dolore per un figlio grande, fino all'adolescenza. La crescita e il calo del dolore previsto sono correlati quasi perfettamente con l'aspettativa di vita dei figli di cacciatori-raccoglitori.

D'altra parte un bambino piccolo, essendo più indifeso, trae maggior vantaggio dall'assistenza quotidiana dei genìtori. E questi ultimi affermano di provare sentimenti di maggior tenerezza verso i figli più piccoli, anche se sembrano dare più valore ai più grandi. I calcoli iniziano a cambiare quando i genitori invecchiano e diventa probabile che un nuovo figlio sia l'ultimo. A quel punto non c'è niente per cui valga la pena risparmiare, e il neonato ha buone pro­babilità di essere viziato. I genitori mostrano un debole inoltre per i figli che, cinicamente, si potrebbero definire gli investimenti migliori: i più vigorosi, più belli, più dotati.

Visto che i genitori tendono a fare favoritismi, i figli dovrebbero essere inclini per selezione naturale a condizionare a proprio favore le loro scelte di investimento. I figli sono straordinariamente sensibili ai favoritismi, anche in età adulta e dopo la morte dei genitori. Devono calcolare come ottenere il meglio dalle carte che la natura ha distribuito loro e dalle dinamiche della partita a poker in cui sono nati. Lo storico Frank Sulloway ha avanzato l'ipotesi che l'elusiva componente non genetica della personalità sia un set di strategie per contendere ai fratelli gli investimenti dei genitori, e che sia per questo che i bambini di una stessa famiglia sono così diversi. Ognuno si sviluppa in un ambiente familiare diverso ed elabora un piano diverso per uscire vivo dall'infanzia. (L'idea è un'alternativa a quella proposta da Harris, secondo cui la personalità è una strategia per cavarsela in gruppi di coetanei, anche se potrebbero essere vere entrambe.)

Un primogenito parte con diversi vantaggi. Per il solo fatto di essere sopravvissuto fino alla sua età, è più prezioso per i genitori, e naturalmente è più grande, più forte e più capace di ragionare del fratello minore, e lo resterà finché quest'ultimo sarà un bambino. Ma dopo averla fatta da padrone per un anno o più, egli vede il nuovo arrivato come un usurpatore. Perciò dovrebbe identificarsi nei genitori, che hanno fatto coincidere i propri interessi con i suoi, e opporsi ai cambiamenti dello status quo che lo ha sempre soddisfatto così bene. Dovrebbe inoltre imparare il miglior modo per esercitare il potere che il destino gli ha offerto. Un primogenito, insomma, dovrebbe essere un conservatore e un prepotente. Il secondogenito deve competere in un mondo che vede la presenza di un simile servile caporalmaggiore, e dato che non può farsi strada con la delinquenza e il servilismo deve coltivare le strategie opposte: apparire conciliante e propenso alla cooperazione. E avendo meno interesse allo status quo, dovrebbe essere recettivo al cambiamento. (Queste dinamiche dipendono anche dalle componenti innate delle personalità dei fratelli, oltre che dal loro seso, dalle loro dimensioni corporee e dagli anni che li separano; la situazione può variare a seconda dei casi.)

Chi nasce dopo dev'essere più elastico anche per un'altra ragione. I genitori investono nei figli che promettono maggior successo nella vita. Il primogenito ha già avanzato pretese su tutte le abilità tecniche e personali in cui eccelle. Non ha senso per chi viene dopo competere su questo terreno; qualsiasi successo sarebbe ottenuto a spese del fratello più grande e più esperto, e il piccolo obbligherebbe i ge­nitori a scegliere un vincitore, con spaventose probabilità che la scelta sia contro di lui. Il secondogenito deve invece cercare una nicchia diversa in cui eccellere. Questo dà ai suoi genitori l'opportunità di diversificare i loro investimenti: egli fa da complemento alle capacità del fratello maggiore nella competizione all'esterno della famiglia. I fratelli in una stessa famiglia esaltano le reciproche differenze per lo stesso motivo per cui le specie in uno stesso ecosistema si evolvono in forme distinte: in ogni nicchia c'è posto per un singolo occupante.

I terapeuti della famiglia discutono di queste dinamiche da decenni, ma che prove concrete ci sono? Sulloway ha analizzato i dati relativi a 120.000 persone raccolti in 196 studi, adeguatamente controllati, sulla relazione tra ordine di nascita e personalità. Come prevedeva, i primogeniti risultano meno aperti (più conformisti, tradizionalisti e strettamente identificati con i genitori), più coscienziosi (più responsabili, orientati al risultato, seri e organizzati), più antagonisti (meno amabili, disponibili, benvoluti e accomodanti) e più nevrotici (meno equilibrati, più ansiosi). Sono inoltre più estroversi (più assertivi, più leader), anche se le indicazioni al riguardo sono confuse perché sono più seri, il che li fa apparire più introversi.

La politica della famiglia non esercita la sua influenza solo sulle risposte ai test, ma anche sul comportamento nel mondo quando sono in ballo forti interessi. Sulloway ha analizzato i dati biografici di 3894 scienziati che avevano preso posizione su rivoluzioni scientifiche radicali (quali la rivoluzione copernicana e il darwinismo), di 893 membri della Convenzione nazionale francese durante il Terrore del 1793-1794, di oltre 700 protagonisti della Riforma protestante e dei leader di 62 movimenti riformatori statunitensi quale quello per l'abolizione della schiavitù. È risultato che in ognuno di questi sconvolgimenti era più probabile che i non primogeniti fossero a favore della rivoluzione e i primogeniti reazionari. E tali effetti non sono un sottoprodotto del peso della famiglia, delle sue tendenze, della classe sociale o di altri potenziali fattori di disturbo. E risultato che, quando la teoria dell'evoluzione fu proposta per la prima volta ed era ancora un'idea sovversiva, i non primogeniti avevano dieci volte più probabilità di esserne sostenitori rispetto ai primogeniti. Le altre presunte cause di radicalismo, come la nazionalità e la classe sociale, hanno solo effetti di piccola entità. (Darwin stesso, per esempio, apparteneva a un ceto elevato ma era un non primogenito.) Gli scienziati non primogeniti sono anche meno specializzati, e si cimentano in un maggior numero di discipline scientifiche.

Se la personalità è un adattamento, perché le strategie che hanno assolto il loro ruolo nella stanza dei giochi dovrebbero essere conservate fino all'età adulta? Una possibile risposta è che i fratelli non escono mai del tutto dall'orbita dei genitori, ma competono per tutta la vita. Questo è senz'altro vero nelle società tradizionali, inclusi i gruppi di cacciatori-raccoglitori. Un'altra possibilità è che tattiche come l'assertività e il conservatorismo sono capacità come le altre. Dopo avere investito risorse su risorse per affinarle, un giovane diviene sempre più restio a ripercorrere la curva dell'apprendimento per coltivare nuove strategie con cui rapportarsi agli altri.

La scoperta che i bambini cresciuti nella stessa famiglia non sono più simili di quanto sarebbero se fossero cresciuti su pianeti diversi ci dimostra quanto poco capiamo dello sviluppo della personalità. Tutto ciò che sappiamo è che le idee predilette riguardo all'influenza dei genitori sono sbagliate. Le ipotesi più promettenti, ho l'impressione, verranno dal riconoscere che l'infanzia è una giungla e che il primo problema che i bambini affrontano nella vita è come cavarsela in mezzo a fratelli e coetanei.

La relazione tra fratello e sorella ha un risvolto in più: uno è un maschio, l'altra una femmina, e questi sono gli ingredienti di un rapporto sessuale. Si hanno rapporti sessuali e ci si sposa con coloro con i quali si interagisce di più, come i colleghi o il ragazzo o la ragazza della porta accanto, e che ci sono più simili, quelli della nostra stessa classe sociale, religione, razza o aspetto.39 Le forze dell'attrazione sessuale dovrebbero attirare i fratelli l'uno verso l'altra come calamite. Anche se la confidenza porta irriverenza, se solo una minuscola frazione dei fratelli andasse d'accordo dovrebbero esserci milioni di fratelli e sorelle desiderosi di andare a letto insieme e sposarsi. Non ce n'è pressoché nessuno. Né nella nostra società, né in alcuna società umana ben studiata, né tra la maggior parte degli animali in natura. (I bambini in età prepubere a volte si dedicano a giochi sessuali; qui sto parlando di veri rapporti sessuali tra fratelli maturi.)

Fratelli e sorelle evitano di far l'amore perché dissuasi dai genitori? Quasi certamente no. I genitori cercano di abituare i figli a essere più affettuosi l'uno con l'altro («Su, dai un bacio alla sorellina!»), non meno. E se scoraggiassero pratiche sessuali, sarebbe il primo caso nella storia dell'umanità in cui una proibizione sessuale funziona: i fratelli e le sorelle adolescenti non si imboscano nei parchi o sui sedili posteriori delle macchine.

Il tabù dell'incesto, la proibizione pubblica di rapporti sessuali o matrimoni tra parenti stretti, ossessiona gli antropologi da un secolo, ma non spiega che cosa tenga lontani i fratelli. L'assenza dell'incesto è universale, i tabù contro l'incesto no. E la maggior parte di questi tabù non riguardano il sesso nell'ambito della famiglia nucleare. Alcuni vietano rapporti sessuali tra falsi parenti e non fanno che rafforzare la gelosia sessuale. Gli uomini poliginici, per esempio, possono approvare leggi per tenere lontani i figli dalle proprie mogli più giovani, ufficialmente loro «matrigne». Come si è visto, la maggior parte dei tabù proibiscono il matrimonio (non i rapporti sessuali) tra parenti più distanti, come i cugini, e sono stratagemmi utilizzati da chi è al potere per evitare che si accumuli ricchezza in famiglie rivali. A volte i rapporti sessuali tra membri della stessa famiglia ricadono sotto l'ombrello di norme antincesto più generali, ma non ne sono mai l'obiettivo."

Fratelli e sorelle semplicemente non si trovano attraenti come partner sessuali. E questo è un understatement: in realtà il solo pensare l'uno all'altro in questi termini li fa sentire acutamente a disagio o li riempie di disgusto (emozione che chi è cresciuto senza fratelli dell'altro sesso non capisce.) Freud sosteneva che proprio tale intensa emozione è prova di un desiderio inconscio, specialmente quando un maschio dichiara repulsione al pensiero di avere rapporti sessuali con la madre. Secondo questo modo di ragionare potremmo concludere che esiste in noi il desiderio inconscio di mangiare gli escrementi dei cani o conficcarci aghi negli occhi.

La ripugnanza verso rapporti sessuali con fratelli è così forte negli esseri umani e altri vertebrati mobili a lunga vita che è una buona candidata al titolo di adattamento. La sua funzione è probabilmente di evitare il costo dell'endogamia: la riduzione della fitness (capacità riproduttiva e di sopravvivenza) della progenie. Dietro la credenza popolare che l'incesto «guasta il sangue» e gli stereotipi del montanaro subnormale e del cretinismo nelle famiglie reali c'è un briciolo di verità biologica. Nel pool genico (insieme dei geni presenti in un dato momento in una data popolazione) piovono continuamente mutazioni dannose. Alcune sono dominanti, pregiudicano i loro portatori e vengono rapidamente eliminate dalla selezione. Ma per la maggior parte sono recessive e non fanno alcun danno finché, accumulatesi nella popolazione, non incontrano copie di se stesse, cosa che avviene quando due loro portatori si accoppiano. Poiché i parenti stretti condividono parte dei loro geni, accoppiandosi corrono un rischio molto più alto che nella loro prole si incontrino due copie di un gene recessivo dannoso. Dato che tutti noi portiamo l'equivalente di uno o due geni letali recessivi, quando un fratello e una sorella si accoppiano hanno forti probabilità, sia in teoria sia in base a studi che hanno misurato questi rischi, di generare figli compromessi. Lo stesso vale per gli accoppiamenti madre-figlio e padre-figlia (e, in misura minore, per quelli tra parenti più lontani). È ragionevole che nella nostra specie (e in molte altre) si sia evoluta un'emozione che distoglie dall'idea di rapporti sessuali con familiari.

L'inibizione dell'incesto mette in mostra il complesso software sotteso alle emozioni che proviamo per gli altri. Noi sentiamo legami affettivi più forti verso i familiari che verso i conoscenti o gli estranei. Percepiamo chiaramente l'attrattiva sessuale dei membri della famiglia, e ci fa persino piacere guardarli. Ma l'affetto e l'apprezzamento della bellezza non si traducono nel desiderio di rapporti sessuali, anche se le stesse emozioni, suscitate da un non parente, ispirerebbero un desiderio irresistibile. Il modo in cui una sola informazione può trasformare la lussuria in orrore è stato utilizzato con grandi effetti drammatici in decine di trame che Polti classifica come «crimini d'amore involontari», la più famosa delle quali è quella dell'Edipo re di Sofocle.

L'inibizione dell'incesto ha due risvolti. Uno è che accoppiamenti diversi all'interno della famiglia hanno costi e benefici genetici diversi, sia per i protagonisti sia per coloro che li circondano. Ci si può aspettare che la repulsione sessuale sia modulata di conseguenza. Tanto per i maschi quanto per le femmine, il beneficio di avere un figlio con un familiare stretto sta nel fatto che il bambino contiene il settantacinque per cento dei geni di ciascun genitore, anziché l'usuale cinquanta (il venticinque per cento in più viene dai geni che, condivisi dai genitori in quanto parenti, si trasmettono al figlio). I costi sono il rischio di un figlio deforme e la perdita dell'opportunità di fare un figlio con qualcun altro. Le opportunità perdute, tuttavia, non sono le stesse per maschi e femmine. Inoltre, i figli sanno sempre con certezza chi è la loro madre, non sempre chi è il loro padre. Per entrambe queste ragioni i costi dell'incesto devono essere valutati separatamente per ognuno dei possibili accoppiamenti nella famiglia.

Dall'accoppiamento di una madre con un figlio, invece che con il padre di quest'ultimo, nessuno dei due trae un vantaggio così grande da superare i rischi genetici. E dato che in genere un uomo non è attratto da una donna dell'età di sua madre, il risultato è che questo tipo di incesto è pressoché inesistente.

Per l'incesto tra padri e figlie e tra fratelli e sorelle i calcoli danno risultati diversi a seconda che si assuma il punto di vista di uno o dell'altro. Un'ipotetica ragazza ancestrale messa incinta da un fratello o da un padre si vedrebbe preclusa la possibilità di avere un figlio da un non parente per i nove mesi della gravidanza e, tenendo il bambino, per i due-quattro anni dell'allattamento. Sprecherebbe quindi un'opportunità preziosa di riprodursi per un bambino che rischia di essere deforme. L'incesto, in questo caso, dovrebbe risultare assolutamente ripugnante. Ma un maschio che mettesse incinta la sorella o la figlia potrebbe accrescere il numero di figli che fa venire al mondo, perché la gravidanza di una donna non gli impedisce di ingravidarne un'altra. C'è il rischio che il bambino nasca deforme, ma, se ciò non accade, il figlio non è altro che un guadagno (più precisamente, il guadagno è la quota extra di geni paterni presente nel figlio). La ripugnanza per l'incesto potrebbe essere in questo caso più debole, rendendo meno difficile al maschio varcare il confine. Si tratta di un caso particolare del minor costo della riproduzione per i maschi e del carattere meno discriminante del loro desiderio sessuale, argomenti su cui torneremo.

Un padre, inoltre, non può mai essere certo che una figlia sia sua, quindi il costo genetico per lui potrebbe anche essere nullo. È possibile quindi che il desiderio incestuoso incontri in un padre meno resistenza che, per esempio, in un fratello, sempre certo di essere imparentato con la sorella perché hanno la stessa madre. Per i patrigni e i fratellastri non c'è alcun costo genetico, e non meraviglia quindi che dalla metà ai tre quarti di tutti i casi di incesto di cui si ha notizia si consumino tra patrigni e figliastre, quasi sempre su iniziativa dei primi. La maggior parte degli incesti restanti avvengono tra padri e figlie, e praticamente tutti sono imposti con la forza dal padre. Alcuni hanno luogo tra ragazze e altri parenti maschi più anziani, e anch'essi sono per lo più imposti con la violenza. Una madre non trae alcun beneficio genetico da un accoppiamento tra il marito e la figlia (rispetto a un accoppiamento tra la figlia e il genero), mentre subisce il costo di nipoti tarati, quindi i suoi interessi sono in sintonia con quelli della figlia, e dovrebbe perciò rappresentare una forza di opposizione all'incesto. Lo sfruttamento incestuoso delle ragazze potrebbe essere ancora più frequente se non ci fossero con loro le madri. Queste battaglie sono mosse da forti emozioni, ma le emozioni non sono in alternativa all'analisi genetica; l'analisi spiega perché hanno luogo. E naturalmente, nella scienza come nelle indagini poliziesche, cercare di immaginarsi il motivo del crimine non scusa il crimine.

Non è possibile percepire direttamente, tramite i sensi, se si hanno geni in comune con un'altra persona; come per le altre percezioni, il cervello, per fare congetture intelligenti, deve combinare le informazioni sensoriali con presupposti riguardanti il mondo circo­stante. Nel capitolo IV abbiamo visto che, quando il mondo viola i presupposti, si cade in preda a illusioni, ed è esattamente ciò che accade nella percezione della parentela. Edward Westermarck, antropologo del XIX secolo, ha ipotizzato che crescere in stretta intimità con una persona nei primi anni di vita sia l'informazione chiave che il cervello utilizza per inserire la persona in questione nella categoria «fratelli e sorelle». Analogamente, quando un adulto alleva un bambino dovrebbe percepirlo come «figlio» o «figlia», e il bambino percepire l'adulto come «madre» o «padre». E tali classificazioni negano il desiderio sessuale.

Questi algoritmi presuppongono un mondo in cui i bambini cresciuti insieme sono fratelli biologici e viceversa, cosa senz'altro vera per le popolazioni di cacciatori-raccoglitori. I figli di una madre crescono con lei e di solito anche con il padre. Ma quando quest'ipotesi è falsa, essi dovrebbero rimanere vittime di un'illusione di parentela. Se crescono con una persona che non è un parente, dovrebbero provare nei suoi confronti, dal punto di vista sessuale, indifferenza o repulsione. Se crescono separati da una persona che è un loro parente, la repulsione non dovrebbe manifestarsi. Sentirci dire che il ragazzo o la ragazza con cui usciamo è in realtà nostro fratello o sorella può bastare a rovinare l'atmosfera romantica, ma un meccanismo di imprinting inconscio che agisce in un periodo critico della prima infanzia è senz'altro ancora più potente.

Entrambi i tipi di illusione sono stati documentati. I kibbutz israeliani furono fondati all'inizio del XX secolo da pianificatori utopisti decisi a disgregare la famiglia nucleare. Bambini e bambine della stessa età condividevano i medesimi spazi da poco dopo la nascita fino all'adolescenza, e venivano allevati insieme da bambinaie e insegnanti. Quando raggiungevano la maturità sessuale, raramente coloro che erano cresciuti insieme si sposavano o avevano rapporti sessuali, anche se simili matrimoni non venivano affatto scoraggiati. In alcune zone della Cina le spose usavano trasferirsi in casa della famiglia del marito, dando luogo ad attriti facilmente immaginabili. I genitori escogitarono perciò la brillante idea di adottare per il figlio una sposa ancora bambina, assicurandosi così che sarebbe stata per sempre alla mercé della suocera. Quello di cui non si resero conto è che in questo modo simulavano gli indizi psicologici che facevano credere ai due bambini di essere fratelli. Accadeva quindi che, crescendo, i due non si sentissero attratti e, rispetto alle coppie convenzionali, ne nascevano matrimoni infelici, infedeli, infecondi e di breve durata. In alcune zone del Libano i cugini paralleli paterni crescono insieme come fratelli. 1 genitori li spingono a sposarsi tra loro, ma ne nascono coppie sessualmente apatiche, relativamente infeconde e inclini al divorzio. Le pratiche non convenzionali di allevamento dei figli, si è osservato, sortiscono esiti analoghi in ogni continente, e che di ciò si possano dare spiegazioni alternative è da escludere.

Viceversa, coloro che commettono un incesto spesso non sono cresciuti insieme. Da uno studio su fratelli incestuosi condotto a Chicago è risultato che gli unici tra di essi che avessero concepito l'idea di sposarsi erano quelli cresciuti separati. I padri che abusano sessualmente delle figlie sono spesso quelli che hanno passato meno tempo con loro da piccole. I patrigni che hanno avuto con le figliastre ancora piccole tanti contatti quanti un padre biologico non sono più propensi di quest'ultimo ad abusarne. Infine, circolano aneddoti secondo cui i figli adottivi, dopo avere a lungo cercato i loro genitori e fratelli biologici, spesso se ne sentono sessualmente attratti; non sono a conoscenza tuttavia di nessuno studio controllato al riguardo.

L'effetto Westermarck spiega l'incesto più famoso: quello di Edipo. Laio, re di Tebe, era stato avvisato da un oracolo che suo figlio lo avrebbe ucciso. Quando Giocasta, sua moglie, ebbe un figlio, egli legò il bambino e lo abbandonò su una montagna. Edipo fu ritrovato e allevato da un pastore e poi adottato dal re di Corinto, che lo crebbe come un figlio. Durante una visita a Delfi, Edipo apprese che era destinato a uccidere suo padre e a sposare sua madre, per cui abbandonò Corinto giurando di non farvi mai più ritorno. Sulla strada di Tebe incontrò Laio e in una disputa lo uccise. Quando poi risolse l'enigma della sfinge, la sua ricompensa fu il trono di Tebe e la mano della vedova sua regina, Giocasta, la madre biologica con cui egli non era cresciuto. Ebbero quattro figli prima che ricevesse la brutta notizia.

Ma il trionfo definitivo della teoria di Westermarck è stato confermato da un'osservazione di John Tooby. L'idea che i bambini vogliono andare a letto con la madre colpisce la maggior parte degli uomini come la maggiore sciocchezza che abbiano mai sentito. Fa eccezione, com'è noto, Freud, il quale scrisse che da bambino aveva avuto una reazione erotica guardando la madre mentre si vestiva. Ma Freud era stato allattato da una balia, e forse non aveva provato quell'intimità precoce che avrebbe rivelato al suo sistema percettivo che la signora Freud era sua madre. La teoria di Westermarck ha battuto Freud sul suo stesso terreno.

Uomini e donne

Uomini e donne. Donne e uomini. Non funzionerà mai. ERICA JONG

A volte invece, come sappiamo, funziona. Un uomo e una donna possono innamorarsi, e l'ingrediente cruciale è un'espressione di impegno, come abbiamo visto nel capitolo VI. Un uomo e una donna hanno bisogno dei rispettivi DNA e dunque possono trarre piacere dal sesso. Un uomo e una donna hanno un comune interesse per i figli, e il loro amore duraturo si è evoluto per proteggere tale interesse. Un marito e una moglie, inoltre, possono essere i migliori amici l'uno dell'altra e godere di quella lealtà e di quella fiducia destinate a durare un'intera vita che stanno alla base della logica dell'amicizia (ne parleremo più estesamente oltre). Queste emozioni hanno la loro radice nel fatto che se un uomo e una donna sono monogami, uniti per la vita, e non nepotisti verso le rispettive famiglie, i loro interessi genetici sono identici.

Sfortunatamente, questo è un grande «se». Anche le coppie più felici possono litigare come cani e gatti e al giorno d'oggi, negli Stati Uniti, metà dei matrimoni finiscono in un divorzio. George Bernard Shaw ha scritto: «Quando vogliamo leggere di gesti compiuti per amore, dove volgiamo lo sguardo? Alla cronaca degli omicidi». Il conflitto tra uomini e donne, a volte mortale, è universale, e fa pensare che nelle vicende umane il sesso non sia una forza che lega, ma che divide. Ancora una volta, è una banalità che va detta, perché il senso comune la nega. Uno degli ideali utopici degli anni Sessanta, ripetuto da allora in poi da guru del sesso come il dottor Ruth, è quello del legame di coppia monogamo che dura tutta la vita, emotivamente aperto, caratterizzato da un intenso erotismo, dal piacere reciproco, e in cui non esistono sensi di colpa. L'alternativa proposta dalla controcultura era l'orgia collettiva emotivamente aperta, caratterizzata da un intenso erotismo, dal piacere reciproco, e in cui non esistessero sensi di colpa. Entrambi i modelli venivano attribuiti ai nostri antenati ominidi, ai primi stadi della civiltà o a tribù primitive ancora esistenti da qualche parte. Entrambi sono dei miti come il Giardino dell'Eden.

La battaglia tra i sessi non è semplicemente una scaramuccia nella guerra tra individui non imparentati; essa si combatte in un campo di battaglia diverso, e per ragioni spiegate per la prima volta da Donald Symons. «Riguardo alla sessualità umana» ha scritto Symons «c'è una natura umana femminile e una natura umana maschile, e queste nature sono straordinariamente diverse ... Gli uomini e le donne differiscono nella loro natura sessuale perché durante la lunghissima fase di cacciatori-raccoglitori della storia evoluzionistica umana i desideri e le inclinazioni sessuali che risultavano adattivi per uno dei sessi rappresentavano per l'altro passaporti per l'oblio riproduttivo».

Molti negano che ci sia una qualsiasi differenza di rilievo tra i due sessi. Nella mia università, agli studenti di psicologia del genere si insegnava che la sola differenza accertata tra uomini e donne è che agli uomini piacciono le donne e alle donne piacciono gli uomini. Le due nature umane di Symons sono liquidate quali «stereotipi di genere», come se questo bastasse a dimostrarne la falsità. La convinzione che i ragni tessono la tela e i maiali no è anch'essa uno stereotipo, ma non per questo risponde meno a verità. Come vedremo, alcuni stereotipi di genere sono stati verificati al di là di ogni ragionevole dubbio. Anzi, gli studiosi delle differenze sessuali hanno scoperto che molti stereotipi di genere sottostimano le differenze documentate tra i sessi.

Per cominciare, perché esiste il sesso? Lord Chesterfield osservava che nel sesso «il piacere è momentaneo, la posizione ridicola e la spesa tremenda". Sul piano biologico i costi sono davvero tremendi; ma allora perché quasi tutti gli organismi complessi si riproducono sessualmente? Perché le donne non danno verginalmente alla luce figlie che siano loro doni, anziché sprecare metà delle gravidanze in figli maschi privi dell'attrezzatura per produrre nipoti e destinati a non essere altro che donatori di sperma? Perché gli esseri umani e altri organismi scambiano metà dei propri geni con quelli di un altro membro della specie, generando varietà nella progenie per il puro gusto della varietà? Non è per evolvere più in fretta, perché gli organismi sono selezionati per la loro fitness lì e ora. Non è per adattarsi alle variazioni ambientali, perché un mutamento casuale in un organismo già adattato ha più probabilità di essere un mutamento in peggio che in meglio, essendoci molti più modi di essere male adattati che ben adattati. La teoria migliore, proposta da John Tooby, William Hamilton e altri, a cui sostegno esistono oggi diversi tipi di prove, è che il sesso è una difesa contro parassiti e agenti patogeni (microrganismi che causano malattie).

Dal punto di vista di un germe, ognuno di noi è una grossa e deliziosa torta alla panna montata, pronta per essere mangiata. Il corpo la vede diversamente, e ha evoluto una batteria di difese, dalla pelle al sistema immunitario, per impedire ai germi di entrare o per farli fuori una volta dentro. Tra gli anfitrioni e gli agenti patogeni si svol­ge una corsa agli armamenti evoluzionistica, anche se un'analogia migliore potrebbe essere quella dell'escalation in una guerra tra fabbricanti di casseforti e scassinatori. I germi sono piccoli ed evolvono stratagemmi diabolici per infiltrarsi nei meccanismi delle cellule e deviarne la rotta, per carpirne le materie prime e per camuffarsi da tessuti propri dell'organismo e sfuggire così alla sorveglianza del sistema immunitario. Il corpo risponde con migliori sistemi di sicurezza, ma i germi hanno un vantaggio di partenza: sono di più e possono riprodursi milioni di volte più in fretta, il che permette loro di evolvere più velocemente: sono in grado di andare incontro a mutamenti evoluzionistici di rilievo anche nell'arco della vita di chi hanno invaso. Gli agenti patogeni possono evolvere chiavi per aprire qualsiasi catenaccio molecolare che il corpo abbia evoluto.

Ora, se un organismo fosse asessuato, una volta che gli agenti patogeni avessero scassinato i sistemi di sicurezza del suo corpo, avrebbero scassinato anche quelli dei suoi figli e fratelli. La riproduzione sessuale è una tecnica per cambiare la serratura a ogni generazione. Scambiando metà dei propri geni con una metà diversa, un organismo dà alla sua prole un vantaggio di partenza nella gara contro i germi locali. Le nuove serrature molecolari avranno una combinazione diversa, quindi il germe dovrà ricominciare da zero ed evolvere nuove chiavi. Un agente patogeno maligno è la sola cosa al mondo che ricompensi il cambiamento attuato per il gusto del cambiamento.

Il sesso pone un secondo rompicapo. Perché esistono due sessi? Perché produciamo un grosso uovo e moltitudini di piccoli spermatozoi, invece che due grumi uguali che si fondano come mercurio? La risposta è perché la cellula destinata a divenire il neonato non può essere solo una valigia di geni; ha bisogno del restante armamentario metabolico di una cellula. Una parte dell'armamentario, i mitocondri, possiede geni propri, il famoso DNA mitocondriale, così utile per datare le separazioni evoluzionistiche. Come tutti i geni, quelli dei mitocondri sono selezionati per replicarsi senza posa. Ed è per questo che una cellula formata dalla fusione di due cellule uguali andrebbe incontro a dei guai. I mitocondri di un genitore e quelli dell'altro ingaggerebbero una feroce lotta per la sopravvivenza al suo interno, in cui gli uni e gli altri ucciderebbero le loro controparti, lasciando la cellula frutto di fusione pericolosamente a corto di energia. I geni necessari al resto della cellula (quelli del nucleo) soffrirebbero della menomazione, e hanno evoluto quindi un modo per prevenire la guerra intestina. In ogni coppia di genitori, uno «acconsente» al disarmo unilaterale: procura una cellula che non fornisce armamentario metabolico, ma solo DNA nudo per il nuovo nucleo. La specie si riproduce tramite la fusione tra una grande cellula che contiene metà del corredo genetico più l'intero armamentario necessario e una piccola cellula che contiene metà del corredo genetico e nient'altro. La grande cellula si chiama uovo, quella piccola spermatozoo.

Una volta che un organismo ha compiuto questo primo passo, la specializzazione delle sue cellule sessuali può solo crescere. Uno spermatozoo è piccolo ed economico, quindi l'organismo può fabbricarne molti senza difficoltà e dotarli di motori fuoribordo per raggiungere in fretta l'uovo e di un organo per lanciarli sulla loro strada. L'uovo è grande e prezioso, quindi all'organismo conviene dargli un vantaggio dotandolo di sostanze nutritive e di un involucro protettivo. Questo lo rende ancor più costoso, quindi per proteggere l'investimento l'organismo evolve organi che permettono all'uovo fecondato di svilupparsi all'interno del corpo e di assorbire ancora più nutrimento, e che lasciano andare i nuovi figli solo quando sono abbastanza grandi da sopravvivere. Queste strutture sono gli organi riproduttivi maschile e femminile. In alcuni animali, ermafroditi, in ogni individuo sono presenti entrambi i tipi di organi; nella maggior parte, però, la specializzazione si spinge fino alla suddivisione in due generi, ognuno dei quali destina tutto il tessuto riproduttivo a un tipo di organo oppure all'altro. Si chiamano maschi e femmine.

Trivers ha spiegato come tutte le differenze di rilievo tra maschi e femmine derivino dalla differenza nell'entità minima del loro investimento nella progenie. Per investimento, ricordiamolo, s'intende qualsiasi cosa un genitore faccia per accrescere le probabilità di sopravvivenza di un figlio, riducendo al contempo la propria capacità di produrre altri figli. L'investimento può essere costituito da energia, sostanze nutritive, tempo o rischi. La femmina, per definizione, inizia con un investimento maggiore (la cellula sessuale più grande), e nella maggior parte delle specie il suo impegno continua e anzi si accresce. Il maschio fornisce un misero pacchetto di geni e di solito si ferma lì. Siccome ogni figlio richiede un investimento da parte di ognuno dei due, il fattore che limita il numero di figli generabii è il contributo della femmina: a ogni uovo che essa crea e nutre può corrispondere al massimo un figlio. Da questa differenza scaturiscono due serie di conseguenze.

In primo luogo, un solo maschio può fecondare numerose femmine, il che toglie ad altri maschi la possibilità di accoppiarsi. Questo scatena una competizione tra i maschi per l'accesso alle femmine. Un maschio può aggredirne fisicamente altri per impedire loro di arrivare una femmina, o può competere per le risorse necessarie all'accoppiamento, o corteggiare una femmina per essere da lei prescelto. I maschi hanno quindi un successo riproduttivo variabile. Un vincitore può mettere al mondo molti figli, un perdente non ne procrea nessuno.

In secondo luogo, il successo riproduttivo dei maschi dipende dal numero di femmine con cui si accoppiano, mentre l'inverso non vale per le femmine. Il che rende queste ultime più selettive. I maschi corteggiano le femmine e si accoppiano con tutte quelle che lo consentono. Le femmine esaminano i maschi e si accoppiano solo con i migliori quelli che hanno i migliori geni, quelli più capaci di nutrire e proteggere la prole e più disposti a farlo, o quelli che le altre femmine tejidono a preferire.

La competizione tra maschi e la selezione da parte delle femmine sono olinipresenti nel regno anìmale. Su questi due fenomeni ha richiamato l'attenzione anche Darwin, che li definisce «selezione sessuale», chiedendosi tuttavia perché mai debbano essere i maschi a competere e le femmine a scegliere e non viceversa. La teoria dell'investimento genitoriale risolve l'enigma. Il sesso che investe di più sceglie, quello che investe meno compete. La causa delle differenze sessuali è insomma l'investimento relativo. Tutto il resto, testosterone, estrogeni, peni, vagine, cromosomi X, cromosomi Y, è secondario. I fliaschi competono e le femmine scelgono solo perché quell'investimento leggermente maggiore l'uovo - che definisce l'essere femmina viene moltiplicato da tutte le altre abitudini riproduttive dell'animale

In alcune specie l'animale nel suo insieme rovescia la differenza d'investimento iniziale tra uovo e sperma, e in questi casi dovrebbero essere le femmine a competere e i maschi a scegliere. Infatti queste eccezioni confermano la regola. In alcuni pesci il maschio cova il piccolo in una sorta di tasca. In alcuni uccelli il maschio si siede sull'uovo e nutre il piccolo. In queste specie le femmine sono aggressive e cercano di corteggiare i maschi, i quali scelgono con attenzione le partner.5°

Nel mammifero tipico, tuttavia, l'investimento è quasi tutto della femmina. I mammiferi hanno optato per uno schema corporeo per il quale la femmina porta il feto dentro di sé, lo nutre con il proprio sangue, e lo allatta e protegge dopo la nascita finché non è abbastanza grande da cavarsela da solo. Il maschio contribuisce con pochi secondi di copulazione e una cellula di spermatozoo che pesa un decimillesimo di miliardesimo di grammo. Non c'è da meravigliarsi che i mammiferi maschi competano per la possibilità di avere rapporti sessuali con i mammiferi femmine. I dettagli dipendono dagli altri aspetti del modo di vivere dell'animale. Le femmine vivono sole o in gruppo, in gruppi piccoli o grandi, stabili o temporanei, in base a criteri ragionevoli quali maggiore disponibilità di cibo, maggiore sicurezza, dove è possibile partorire e far crescere la prole con facilità, e se hanno bisogno della forza rappresentata da un gruppo. I maschi vanno dove sono le femmine. Le femmine dell'elefante marino, per esempio, si radunano su strisce di sabbia che un maschio può facilmente sorvegliare. Un singolo maschio può conquistare il monopolio sul gruppo, e per un bottino del genere i maschi combattono battaglie sanguinose. I combattenti più grossi sono i migliori, per cui i maschi si sono evoluti in modo da essere fino a quattro volte più grossi delle femmine.

Le scimmie mostrano un'ampia varietà di organizzazioni sessuali. Il che significa, tra l'altro, che non esiste nessun «retaggio scimmiesco» con cui gli esseri umani sarebbero condannati a convivere. I gorilla vivono ai margini delle foreste in piccoli gruppi formati da un maschio e numerose femmine; i maschi si battono per il controllo delle femmine e si sono evoluti fino a essere due volte più grandi di loro. Le femmine di gibbone sono solitarie e vivono molto sparse; il maschio trova il territorio di una femmina e si comporta da consorte fedele. Poiché gli altri maschi sono lontani, in altri territori, i maschi non combattono più delle femmine e non sono più grandi di loro. Le femmine di orango sono anch'esse solitarie, ma vivono abbastanza vicine perché un maschìo possa monopolizzare due o più delle loro aree, e i maschi sono circa 1,7 volte più grandi delle femmine. Gli scimpanzé vivono in gruppi numerosi e instabili che nessun maschio può dominare. I gruppi di maschi vivono insieme alle femmine e i maschi competono tra loro per il dominio, che conferisce maggiori opportunità di accoppiamento. I maschi sono circa 1,3 volte più grandi delle femmine. Con tanti maschi attorno, una femmina è incentivata ad accoppiarsi con molti di loro; in questo modo un maschio, non potendo mai essere certo che un piccolo non sia suo figlio, non ricorre alla tattica di ucciderlo per rendere la femmina disponibile a partorire un figlio suo. Le femmine di scimpanzé nano sono quasi indiscriminatamente promiscue e i maschi combattono meno e sono circa delle stesse dimensioni delle femmine. La loro competizione avviene su un altro terreno: all'interno del corpo della femmina.

Gli spermatozoi possono sopravvivere nella vagina per diversi giorni, quindi una femmina promiscua può avere al suo interno gli spermatozoi di svariati maschi in competizione per la possibilità di

fecondare l'uovo. Quanti più spermatozoi produce un maschio, tanto maggiore sarà la possibilità che uno di essi arrivi all'uovo per primo. Questo spiega perché gli scimpanzé hanno testicoli enormi in rapporto alle dimensioni del corpo. Testicoli più grandi producono più spermatozoi, facendo crescere le probabilità di fecondazione all'interno di femmine promiscue. Un gorilla pesa quattro volte di più di uno scimpanzé, ma i suoi testicoli sono quattro volte più piccoli. Le femmine del suo harem non hanno alcuna possibilità di accoppiarsi con altri maschi, quindi i suoi spermatozoi non devono competere. I gibboni, che sono monogami, hanno anch'essi testicoli piccoli.

In quasi tutti i primati (anzi, in quasi tutti i mammiferi) i maschi sono padri fannulloni, che non danno al figlio nient'altro che DNA.

Altre specie sono più paterne. I maschi della maggior parte degli uccelli, di molti pesci e insetti, e di carnivori sociali come i lupi, proteggono o nutrono i piccoli. All'evoluzione dell'investimento genitoria.le maschile hanno contribuito diversi fattori. Uno è la fecondazione esterna, che caratterizza la maggior parte dei pesci: la femmina depone le uova e il maschio le feconda in acqua. Il maschio ha la certezza che le uova fecondate contengono i suoi geni e, siccome quando si schiudono i piccoli sono ancora immaturi, ha la possibilità di dare una mano. Ma nei mammiferi per lo più tutto congiura contro una paternità premurosa. L'uovo è nascosto all'interno della madre, dove altri maschi possono fecondarlo, e quindi un maschio non è mai sicuro che un figlio sia suo. Rischia dunque di sprecare il proprio investimento a vantaggio dei geni di un altro. Inoltre l'embrione compie la maggior parte della crescita all'interno del corpo materno, dove il padre non può arrivare per aiutarlo in modo diretto. Infine un padre può facilmente andare via e cercare di accoppiarsi con un'altra femmina, mentre la femmina, lasciata con il suo fardello, non può sbarazzarsi del feto o del figlio senza dover ripercorrere daccapo tutto il lungo processo di allevamento dell'embrione, che la riporta al punto di partenza. Le cure paterne trovano un incentivo quando lo stile di vita di una specie fa sì che i loro benefici superino i loro costi: quando senza il padre i figli sarebbero vulnerabili, quando egli può facilmente fornire loro un cibo concentrato come la carne, e quando i piccoli sono facili da difendere.

Quando i maschi divengono padri premurosi, le regole del gioco dell'accoppiamento cambiano. Una femmina può scegliere un compagno in base alla sua capacità e alla sua disponibilità a investire nella prole, nella misura in cui riesce a valutarle. Perciò anche le femmine, e non solo i maschi, competono per i compagni, anche se i premi sono diversi: i maschi competono per femmine fertili disposte ad accoppiarsi, le femmine per maschi generosi disposti a investire. La poligamia non è più questione di un maschio che batte tutti gli altri o di femmine che ambiscono tutte a farsi inseminare dal maschio più feroce o di aspetto più attraente. Quando i maschi investono più delle femmine, come si è visto, la specie può essere poliandrica, con femmine rudi che coltivano harem di maschi. (Lo schema corporeo dei mammiferi ha precluso questa opzione.) Quando un maschio ha da investire molto più di altri (perché, per esempio, controlla un territorio migliore), alle femmine può convenire condividerlo (poliginia), piuttosto che avere ognuna un proprio partner: una frazione di una risorsa abbondante può essere meglio di una risorsa intera ma piccola. Quando i contributi dei maschi sono più equiparabili, l'attenzione esclusiva di uno di essi diviene preziosa e la specie si assesta sulla monogamia.

Molti uccelli sembrano essere monogami. In Manhattan, Woody Allen dice a Diane Keaton: «Penso che la gente dovrebbe restare accoppiata per tutta la vita, come i piccioni e i cattolici». Il film uscì prima che gli ornitologi iniziassero a sottoporre gli uccelli al test del DNA, che ha rivelato, con loro grande sorpresa, che neanche i piccioni sono poi così fedeli. In alcune specie di uccelli un terzo dei figli contiene il DNA di un maschio diverso dal consorte della femmina. L'uccello maschio è adultero perché cerca di allevare i figli di una sola femmina e accoppiarsi con altre, sperando che la prole di queste ultime sopravviva per conto proprio o, meglio ancora, sia allevata dal consorte cornificato. L'uccello femmina è adultero perché ha la possibilità di avere la botte piena e la moglie ubriaca: i geni del maschio meglio adattato e l'investimento del più volenteroso. Per la vittima dell'adulterio è peggio che se non fosse riuscito affatto ad accoppiarsi, perché ha dedicato i suoi sforzi materiali ai geni di un concorrente. Nelle specie in cui i maschi investono, perciò, la gelosia maschile è rivolta non solo verso i maschi rivali, ma verso la femmina. Il maschio può sorvegliarla, seguirla, accoppiarsi a ripetizione ed evitare femmine che mostrino i segni di essersi accoppiate di recente.

Il sistema di accoppiamento umano non assomiglia a quello di nessun altro animale. Il che non significa tuttavia che sfugga alle leggi che regolano i sistemi di accoppiamento, leggi documentate in centinaia di specie. Un gene che predisponesse un maschio a essere tradito, o una femmina a ricevere meno aiuto delle altre dal suo compagno, sarebbe rapidamente scartato dal pool genico. Un gene che permettesse a un maschio di inseminare tutte le femmine, o a una femmina di partorire i figli più benaccetti del maschio migliore, prenderebbe rapidamente il sopravvento. Queste pressioni della selezione non sono da poco. La sessualità umana, se fosse una «costruzione sociale» indipendente dalla biologia, come vuole la concezione accademica popolare, sarebbe dovuta non solo sfuggire (miracolosamente) a queste potenti pressioni, ma anche resistere a pressioni altrettanto potenti di un altro genere. Se una persona si attenesse a un ruolo costruito socialmente, altri potrebbero plasmare quel ruolo per prosperare a sue spese: i potenti, per esempio, potrebbero sottoporre gli altri a un lavaggio del cervello per convincerli a trovare piacevoli il celibato o il tradimento, lasciando così le donne a loro. Qualsiasi disponibilità ad accettare ruoli di genere costruiti socialmente sarebbe eliminata dalla selezione, e i geni per resistere a questi ruoli prenderebbero il sopravvento.

Che tipo di animale è l'Homo sapiens? Siamo mammiferi, quindi l'investimento genitoriale minimo di una donna è molto maggiore di quello di un uomo. Il contributo della prima è nove mesi di gravidanza e (in un ambiente naturale) da due a quattro anni di allattamento, quello del secondo pochi minuti di sesso e un cucchiaino di sperma. Le dimensioni dell'uomo sono circa 1,15 volte quelle della donna, il che ci dice che nella storia dell'evoluzione gli uomini sono stati in competizione fra loro: alcuni si accoppiavano con più donne e altri non si accoppiavano affatto. A differenza dei gibboni, che vivono isolati, sono monogami e hanno un'attività sessuale relativamente scarsa, e dei gorilla, che vivono in piccoli gruppi, formano harem e, anch'essi, hanno un'attività sessuale relativamente scarsa, noi siamo esseri sociali: gli uomini e le donne vivono insieme in grandi gruppi e hanno continue occasioni di accoppiamento. Gli uomini, in proporzione alle loro dimensioni, hanno testicoli più piccoli di quelli degli scimpanzé, ma più grandi di quelli di gorilla e gibboni, il che indica che le donne ancestrali non erano sfrenatamente promiscue, ma nemmeno rigorosamente monogame. I bambini nascono inermi e, probabilmente a causa della grande importanza che hanno conoscenze e capacità per il nostro modo di vivere, restano dipendenti dagli adulti per una parte non indifferente dell'arco della vita umana. I figli hanno quindi bisogno dell'investimento genitoriale e gli uomini, grazie alla carne che ricavano dalla caccia e ad altre risorse, hanno qualcosa da investire. Il loro investimento minimo è di gran lunga maggiore di quello al quale, per la loro anatomia, potrebbero tranquillamente limitarsi: essi nutrono i piccoli, li proteggono e li istruiscono. Il tradimento dovrebbe quindi essere un motivo di preoccupazione per gli uomini, e la capacità e disponibilità dell'uomo a investire nei figli un motivo d'interesse per le donne. Dato che uomini e donne vivono insieme in grandi gruppi, come gli scim­panzé, ma i maschi investono nella prole, come gli uccelli, si è svi­luppato il matrimonio, in cui un uomo e una donna stabiliscono un'alleanza riproduttiva volta a limitare i tentativi di terzi di ottenere accesso sessuale e investimento genitoriale.

Questi aspetti della vita non sono mai cambiati, ma altri sì. Fino a epoca recente l'uomo cacciava e la donna raccoglieva. Le donne si sposavano poco dopo la pubertà. Non esisteva la contraccezione, né l'adozione istituzionalizzata da parte di non parenti, né l'inseminazione artificiale. Sesso significava riproduzione e viceversa. Non c'erano alimenti provenienti da piante e animali domesticati, quindi non c'era il latte in polvere; tutti i bambini erano allattati al seno. Non c'erano neppure baby sitter a pagamento, né mariti casalinghi; i neonati e i bambini piccoli ronzavano attorno alle madri e ad altre donne. Tali condizioni sono rimaste immutate per il novantanove per cento della nostra storia evoluzionistica e hanno plasmato la nostra sessualità. I nostri pensieri e sentimenti sessuali sono adattati a un mondo in cui i rapporti sessuali davano figli, li si volesse o meno. E sono adattati a un mondo in cui i figli erano un problema della madre più che del padre. Quando userò termini come «dovrebbe», «migliore» e «ottimale», si tratterà di abbreviazioni per indicare le strategie che portavano al successo riproduttivo in quel mondo, senza alcuna implicazione riguardo a che cosa è più giusto sul piano morale o ottenibile nel mondo moderno, o riguardo a che cosa porta a una maggiore felicità: questi sono problemi completamente diversi.

La prima domanda strategica è a quanti partner ambire. Ricordiamo che quando l'investimento minimo nella prole è maggiore per le femmine, un maschio può avere più figli se si accoppia con più femmine, ma una femmina non ha più figli se si accoppia con molti maschi: è sempre e soltanto uno per concepimento. Supponiamo che un uomo cacciatore­raccoglitore con una sola moglie possa aspettarsi da lei dai due ai cinque figli. Una relazione pre o extramatrimoniale da cui nascesse un figlio accrescerebbe il suo rendimento riproduttivo dal venti al cinquanta per cento. Se il figlio morisse di fame, tuttavia, o, non avendo il padre vicino, venisse ucciso, il vantaggio genetico andrebbe perduto. La relazione ottimale, quindi, è con una donna sposata il cui marito allevi il figlio. Nelle società di cacciatoriraccoglitori le donne fertili sono quasi sempre sposate, quindi avere rapporti sessuali con una donna significa in genere avere rapporti sessuali con una donna sposata. E anche quando la donna non è sposata, i figli senza padre che sopravvivono sono di più di quelli che muoiono, quindi anche una relazione con un partner non sposato può accrescere il successo riproduttivo. Nessuno di questi calcoli vale per la donna. Una parte della mente maschile, quindi, dovrebbe ambire a una varietà di partner sessuali per il puro piacere di avere una varietà di partner sessuali.

Pensate che la sola differenza tra uomini e donne sia che agli uomini piacciono le donne e alle donne gli uomini? Qualsiasi barista o nonna, interrogata, aggiungerebbe che gli uomini tendono di più a guardarsi attorno, ma forse è solo uno stereotipo stantio. Lo psicologo David Buss ha cercato di verificano dove più ci si poteva aspettare di vederlo confutato: nelle liberali università statunitensi d'élite una generazione dopo la rivoluzione femminista, al culmine del politically correct. I metodi che ha usato sono stati piacevolmente diretti.

I questionari confidenziali ponevano una serie di domande. Con quanto impegno cerchi un marito o una moglie? Le risposte degli uomini e delle donne sono state nella media le stesse. Con quanto impegno cerchi un rapporto occasionale? «Non molto» hanno risposto le donne; «parecchio» hanno risposto gli uomini. Quanti partner sessuali ti piacerebbe avere nel prossimo mese? E nei prossimi due anni? E nella vita? A questa domanda le donne hanno risposto che nel mese successivo otto decimi di partner sessuale sarebbero andati bene, per i due anni successivi ne volevano uno, e nella vita quattro o cinque. Gli uomini ne volevano rispettivamente due, otto e diciotto. Prenderesti in considerazione l'idea di fare l'amore con un partner desiderabile che conosci da cinque anni? E con uno che conosci da due? E da un mese? E da una settimana? Le donne hanno risposto «probabilmente sì» nel caso di un uomo conosciuto da un anno o più, «non so» nel caso di uno conosciuto da sei mesi e «no senz'altro» nel caso di uno che conoscessero da una settimana o meno. Agli uomini, per rispondere «probabilmente sì», bastava conoscere la donna da una settimana. Da quanto tempo, come minimo, un uomo deve conoscere una donna per non desiderare di andare a letto con lei? Buss non lo ha mai saputo; la sua scala non scendeva al di sotto di «un'ora». Quando lo psicologo ha presentato questi risultati in un'università e li ha spiegati in termini di investimento genitoriale e selezione sessuale, una giovane ha alzato la mano: «Professore, ho una spiegazione più semplice per i suoi dati». «Sì, quale?» «Gli uomini sono dei porci».

Gli uomini sono davvero dei porci o cercano solo di sembrarlo? Forse, rispondendo a dei questionari, tendono a darsi un'aria da macho, e le donne a evitare di apparire facili. Gli psicologi R.D. Clark ed Elaine Hatfield hanno incaricato alcuni uomini e donne attraenti di avvicinare estranei di sesso opposto, nel campus di un college, dicendo: «Ti ho notato in giro per il campus. Mi piaci molto». Dopo di che dovevano porre all'oggetto dell'approccio una di queste tre domande: a) «Esci con me stasera?»; b) «Vieni a casa mia stasera?»; c) «Vieni a letto con me stasera?». L'appuntamento è stato accettato da metà delle donne e metà degli uomini. A casa dell'adescatore o adescatrice hanno accettato di andare il sei per cento delle donne e il sessantanove per cento degli uomini. Ad andare a letto non ha acconsentito nessuna donna, mentre hanno detto di sì il settantacinque per cento degli uomini. Del restante venticinque per cento, molti si sono scusati chiedendo di rimandare o spiegando che non potevano perché la loro fidanzata era in città. Gli stessi risultati sono stati ottenuti in diversi stati. Quando sono stati condotti questi studi, la contraccezione era alla portata di tutti e le pratiche per avere rapporti sessuali sicuri godevano di un'ampia pubblicità, quindi i loro esiti non possono essere liquidati semplicemente invocando i maggiori timori delle donne di rimanere incinte o di contrarre malattie a trasmissione sessuale.

Il fatto che un nuovo partner risvegli il desiderio sessuale maschile è stato chiamato effetto Coolidge. Un giorno il presidente statunitense Calvin Coolidge e la moglie stavano visitando, separatamente, una fattoria governativa. La signora Coolidge, quando le fu mostrato il pollaio, chiese se il gallo si accoppiasse più di una volta al giorno. «Decine di volte» rispose la guida. «Diteglielo, al presidente, per favore» disse allora la first lady. Quando, durante la visita al pollaio, glielo dissero, il presidente chiese: «Con la stessa gallina tutte le volte?». «No, presidente, ogni volta con una diversa.» «Diteglielo, alla signora Coolidge» disse il presidente. Molti mammiferi maschi sono instancabili quando, dopo un accoppiamento, si presenta una nuova femmina disponibile, e non si lasciano ingannare da uno sperimentatore che cerchi di camuffare una vecchia partner o mascherarne l'odore. Il che dimostra, per inciso, che il desiderio sessuale maschile non è propriamente «indiscriminato». Ai maschi non importa con che tipo di femmina si accoppiano, ma riguardo a quale femmina è sono ipersensibili. E un altro esempio della distinzione logica tra individui e categorie di cui ho sostenuto l'importanza, nel capitolo II, criticando l'associazionismo.

Gli uomini non hanno il vigore sessuale dei galli, ma su più lunghi periodi il loro desiderio mostra una sorta di effetto Coolidge. In molte culture, inclusa la nostra, i mariti confessano che il loro trasporto sessuale per la moglie si affievolisce nei primi anni di matrimonio. E questo non avviene a causa del suo aspetto o di altre qualità, ma per via che si tratta di quello specifico individuo. Il gusto per nuovi part­ner non è solo un esempio del proverbio per cui il mondo è bello perché è vario, non è come stufarsi della fragola e voler provare la stracciatella. In un racconto di Isaac Bashevis Singer un sempliciotto del mitico villaggio di Cheim si mette in viaggio, ma si perde e, senza accorgersene, ritorna a casa pensando di essere giunto in un altro villaggio che per una straordinaria coincidenza ha tutta l'apparenza del suo. Lì incontra una donna che ha tutta l'apparenza della moglie di cui si era ormai stancato, e la trova irresistibile.

Un altro aspetto della mente sessuale maschile consiste nella capacità di eccitarsi facilmente di fronte a un possibile partner sessuale, anzi, di fronte al più piccolo indizio di un possibile partner sessuale. Gli zoologi hanno scoperto che i maschi di molte specie tendono a corteggiare un'enorme varietà di oggetti che ricordano vagamente la femmina: altri maschi, femmine della specie sbagliata, femmine della specie giusta impagliate e inchiodate a una tavola, parti di femmine impagliate come una testa sospesa a mezz'aria e persino parti di femmine impagliate prive di componenti importanti come gli occhi e la bocca. Il maschio della specie umana è eccitato dalla vista di una donna nuda, non solo in carne e ossa, ma anche in film, fotografie, disegni, cartoline, bambole e immagini a puntini prodotte da un tubo catodico. Tali erronee identificazioni gli danno piacere, alimentando un'industria pornografica mondiale che nei soli Stati Uniti ha un fatturato di dieci miliardi di dollari l'anno, quasi quanto quelli degli spettacoli sportivi e del cinema messi insieme.60 Nelle culture di cacciatori-raccoglitori, i giovani maschi tracciano disegni a carboncino di vulve e seni sulle rocce, li incidono sui tronchi e li scavano nella sabbia. La pornografia si assomiglia in tutto il mondo, e un secolo fa era sostanzialmente uguale a oggi: essa consiste nel raffigurare in vividi dettagli fisici una serie di anonime donne, nude desiderose di rapporti sessuali casuali e impersonali.

Non avrebbe senso per una donna eccitarsi facilmente alla vista di un maschio nudo. Una donna fertile non è mai a corto di partner sessuali disponibili, e in questo mercato può cercare il miglior marito, i geni migliori o altre remunerazioni per i suoi favori sessuali. Se si eccitasse alla sola vista di un maschio nudo, gli uomini potrebbero indurla a rapporti sessuali esponendo il proprio corpo, e il suo potere contrattuale ne risulterebbe compromesso. Le reazioni dei sessi alla nudità sono ben diverse: gli uomini vedono in una donna nuda una sorta di invito, le donne in un uomo nudo una sorta di minaccia. Nel 1992 uno studente di Berkeley, divenuto poi noto nel campus come «il Nudo», decise, per protesta contro le tradizioni repres­sive della società occidentale in ambito sessuale, di fare jogging, andare a lezione e mangiare in mensa nudo. Fu espulso in seguito alle proteste di alcune studentesse, secondo cui il suo comportamento andava considerato una molestia sessuale.

Le donne non cercano di vedere estranei di sesso maschile nudi o rappresentazioni di atti sessuali anonimi: un mercato femminile della pornografia praticamente non esiste. («Playgirl», presunto controesempio, è palesemente rivolto a uomini omosessuali. Non contiene pubblicità di nessun prodotto che una donna comprerebbe e, a fare a una donna uno scherzo regalandole un abbonamento, la si inserirebbe automaticamente nelle mailing lists di prodotti pornografici e giochi sessuali per maschi gay.) Da alcuni dei primi esperimenti condotti al riguardo in laboratorio sembrava risultare che l'eccitazione fisiologica di uomini e donne di fronte a un pezzo di pornografia fosse la stessa. Gli uomini, tuttavia, reagivano al pezzo neutro che fungeva da test di controllo di più di quanto le donne reagissero alla pornografia. Nel cosiddetto pezzo neutro, scelto dalle ricercatrici, un uomo e una donna chiacchieravano dei possibili pro e contro di un indirizzo di studi antropologico come propedeutico a studi di medicina. Gli uomini lo trovavano altamente erotico! Non è che a una donna non possa capitare di eccitarsi, una volta che ha accettato di vedere scene di rapporti sessuali, ma semplicemente non ne va alla ricerca. (Symons sottolinea che le donne sono più selettive degli uomini nell'acconsentire a rapporti sessuali, ma, una volta che hanno acconsentito, non c'è ragione di credere che siano meno sensibili agli stimoli sessuali.) Gli equivalenti più stretti della pornografia, sul piano del consumo di massa, sono rappresentati per le donne dalle storie d'amore e di erotismo, in cui la sessualità è presentata nel contesto di emozioni e rapporti, invece che come una sequenza di corpi che si azzuffano.

Il desiderio di varietà sessuale è un adattamento insolito perché è insaziabile. Nella maggior parte degli adattamenti esiste un livello ottimale o un punto oltre il quale la remunerazione diminuisce. Nessuno cerca di procurarsi enormi quantità di aria, cibo o acqua, e non si desidera avere troppo caldo o troppo freddo, ma la temperatura giusta. Quante più sono le donne con cui un uomo ha rapporti sessuali, invece, tanti più sono i figli che avrà; il troppo, in tal caso, non stroppia. Questo rende l'uomo insaziabilmente affamato di partner sessuali occasionali (e forse di quei beni che, negli ambienti ancestrali, avrebbero permesso di avere molteplici partner, come la ricchezza e il potere). La vita quotidiana offre alla maggior parte degli uomini poche opportunità di toccare il fondo del desiderio, ma ogni tanto capita che un uomo sia abbastanza ricco, famoso, avvenente e privo di scrupoli da provarci. Georges Simenon e Hugh Hefner dichiaravano di avere avuto migliaia di donne; Wilt Chamberlain calcolava di averne avute ventimila. Facciamo la tara e ammettiamo che, per millanteria, Chamberlain abbia gonfiato la sua stima di un fattore dieci. Significa che comunque millenovecentonovantanove partner sessuali non erano ancora abbastanza.

Symons osserva che a far luce sui desideri dei due sessi sono i rapporti omosessuali. Quelli eterosessuali rappresentano un compromesso tra i desideri di un uomo e i desideri di una donna, e tendono quindi a minimizzare le differenze tra i sessi. Gli omosessuali, invece, non hanno bisogno di giungere a compromessi, e la loro esperienza mette in mostra la sessualità umana in una forma più pura (per lo meno nella misura in cui il resto del loro cervello sessuale non è configurato come quello del sesso opposto). In uno studio sugli omosessuali di San Francisco condotto prima dell'epidemia di AIDS, il ventotto per cento degli uomini gay ha riferito di avere avuto più di mille partner sessuali, e il settantacinque per cento di averne avuti più di un centinaio. Nessuna donna omosessuale ha parlato di un migliaio di partner, e solo il due per cento di esse ha dichiarato di averne avuti un centinaio. Anche altri desideri degli uomini gay, come quelli riguardanti la pornografia, la prostituzione e l'attrazione per partner giovani, rispecchiano o portano all'eccesso i desideri degli uomini eterosessuali. (Tra parentesi, il fatto che i desideri sessuali degli uomini siano gli stessi a prescindere dal fatto che siano rivolti alle donne o ad altri uomini confuta la tesi che si tratti di strumenti di oppressione della donna.) Non è che gli uomini gay siano sessualmente più calorosi: sono semplicemente uomini i cui desideri maschili si incontrano con altri desideri maschili anziché con desideri femminili. «Gli eterosessuali» scrive Symons «avrebbero possibilità di ottenere sesso da persone estranee, di partecipare a orge anonime in bagni pubblici, di fare una sosta di cinque minuti in un dormitorio pubblico, tornando a casa dal lavoro, per farsi praticare la fellatio, se le donne avessero interesse a pratiche del genere. Ma le donne non hanno affatto quell'interesse.»

Tra gli eterosessuali, se gli uomini desiderano la varietà più delle donne, quello che dovrebbe conseguirne può dircelo un qualunque corso di economia. L'accoppiamento dovrebbe essere considerato un'elargizione femminile, un favore che le donne possono decidere se concedere o negare. Fiumi di metafore parlano del rapporto sessuale con una donna come di una merce preziosa, sia che assumano il punto di vista di lei (concedersi, dargliela, sentirsi usata), sia che assumano quello dell'uomo (averla, favori sessuali, farcela). E le transazioni sessuali, come i cinici di ogni genere hanno scoperto da tempo, obbediscono spesso a logiche di mercato. La teorica femminista Andrea Dworkin ha scritto: «Un uomo desidera ciò che una donna ha: il sesso. Può rubarlo (stupro), convincerla a darglielo (seduzione), affittarlo (prostituzione), prenderlo in usufrutto per un lungo periodo (matrimonio negli Stati Uniti), o farlo proprio in tutto e per tutto (matrimonio nella maggior parte delle società)». In tutte le società sono soprattutto o esclusivamente gli uomini che corteggiano, fanno approcci, seducono, ricorrono a filtri d'amore, fanno regali in cambio di rapporti sessuali, pagano la futura moglie (anziché ricevere la dote), pagano prostitute e stuprano.

L'economia sessuale, naturalmente, dipende anche dalla desiderabilità dei singoli individui, non solo dai desideri medi dei sessi. Si «paga» per il sesso (in denaro, impegni o favori) quando il partner è più desiderabile di noi. Dato che le donne discriminano più degli uomini, l'uomo medio deve pagare per avere rapporti sessuali con la donna media. Un uomo medio può attrarre una moglie di qualità superiore a quella di una partner occasionale (presumendo che l'impegno matrimoniale sia una forma di pagamento), mentre una donna può attrarre un partner occasionale (che non pagherebbe niente) di qualità superiore al marito. Con gli uomini di qualità più alta, in teoria, dovrebbero essere disposte ad avere rapporti sessuali un gran numero di donne. Una vignetta di Dan Wasserman mostra una coppia che lascia il teatro dopo aver visto Proposta indecente. Il marito chiede: «Tu andresti a letto con Robert Redford per un milione di dollari?». Lei risponde: «Sì, ma dovrebbero darmi un po' di tempo per mettere insieme i soldi».

Quello che il vignettista sfrutta qui, però, è l'effetto sorpresa. Noi non ci aspettiamo, infatti, che nella realtà le cose vadano in questo modo. Anche gli uomini che le donne trovano più attraenti non si prostituiscono, anzi, può accadere che essi stessi paghino delle prostitute. Nel 1995 l'attore Hugh Grant, forse l'uomo più bello del mondo, è stato arrestato perché scoperto a fare sesso orale con una prostituta nel sedile anteriore della sua macchina. La semplice analisi economica in questo caso non funziona perché denaro e sesso non sono completamente fungibili. Come vedremo, parte dell'attrattiva degli uomini viene dalla loro ricchezza, quindi gli uomini più attraenti non hanno bisogno di soldi. E il «pagamento» cui la maggior parte delle donne ambiscono non è un pagamento in denaro, ma un impegno a lungo termine, che è una risorsa scarsa anche per l'uomo più piacente e più ricco. La logica economica della storia di Hugh Grant è ben riassunta da una scena di un film basato sulla vicenda di Heidi Fleiss, la maItresse di Hollywood. Una ragazza squillo chiede a un'amica perché mai i suoi avvenenti clienti debbano pagare per fare sesso. «Non ti pagano per fare sesso» spiega l'amica. «Ti pagano perché tu dopo vada via.»

È possibile che desiderare la varietà sessuale sia per gli uomini un comportamento appreso? Forse si tratta di un mezzo per raggiungere un fine, e questo fine è il prestigio nella nostra società. Il dongiovanni è ammirato in quanto ardito conquistatore; la bella donna al suo fianco è un trofeo. Certo, tutto ciò che è desiderabile e raro può divenire uno status symbol, ma questo non vuol dire che tutto ciò che è desiderabile sia ambito perché è uno status symbol. Se a un uomo si offrisse l'ipotetica alternativa tra fare l'amore di nascosto con molte donne attraenti e la fama di essere l'amante di molte donne attraenti, ma senza passare ai fatti, credo che opterebbe per la prima possibilità. Non solo perché il sesso è un incentivo sufficiente, ma perché la fama di dongiovanni è un disincentivo. I dongiovanni non ispirano ammirazione, specialmente nelle donne, mentre possono suscitare invidia negli uomini, una reazione ben diversa e non sempre gradita. Osserva Symons:

L'uomo sembra esser strutturato in modo tale da opporre resistenza ad imparare a non desiderare la varietà, nonostante poi tutti i condizionamenti del cristianesimo e della dottrina del peccato, dell'ebraismo e della dottrina del Mensch, della sociologia con le sue teorie dell'omosessualità repressa e dell'immaturità psicosessuale, delle teorie evoluzionistiche del legame monogamico di coppia, delle tradizioni giuridico-culturali, che sostengono ed esaltano la monogamia, del fatto che il desiderio di varietà è virtualmente non suscettibile d'esser soddisfatto, del tempo, dell'energia e degli innumerevoli tipi di rischio, fisico ed emotivo, che la ricerca di varietà comporta, ed infine per contro dell'ovvio vantaggio potenziale connesso con l'imparare ad appagarsi sessualmente di una sola donna.

La tendenza a guardarsi attorno, appresa o meno, non è l'unica componente della mente maschile. Se il comportamento è spesso guidato dal desiderio, altrettanto spesso non lo è, perché altri desideri sono più forti o perché si mettono in atto tattiche di autocontrollo. I gusti sessuali maschili possono venire regolati e governati dall'attrattiva del singolo uomo, dalla disponibilità di partner e dalla valutazione dei costi che amoreggiare comporta.

Mariti e mogli

In termini evoluzionistici, un uomo che ha una relazione di breve durata scommette che il figlio illegittimo sopravvivrà senza il suo aiuto o conta su un marito tradito che allevi il bambino come figlio proprio. Per un uomo che può permetterselo, un modo più sicuro per massimizzare il numero di discendenti è procacciarsi parecchie mogli e investire in tutti i loro figli. Gli uomini dovrebbero desiderare molte mogli, non semplicemente molti partner sessuali. E, in effetti, gli uomini al potere hanno consentito la poliginia in oltre l'ottanta per cento delle culture umane. Gli ebrei l'hanno praticata fino all'era cristiana e l'hanno messa fuorilegge solo nel X secolo. I mormoni l'hanno incoraggiata fin quando non è stata dichiarata illegale dal governo statunitense, alla fine del XIX secolo, e ancora oggi si ritiene che nello Utah e in altri stati dell'Occidente degli Stati Uniti vi siano decine di migliaia di matrimoni poliginici clandestini. Ovunque la poliginia è consentita, gli uomini cercano di procurarsi mogli in più e mezzi per attrarle. Coloro che godono di ricchezza e prestigio hanno più di una moglie; gli spiantati non ne hanno nessuna. In genere un uomo sposato da qualche tempo cerca una moglie più giovane, che diviene l'oggetto del suo interesse sessuale, mentre la più anziana rimane la sua confidente e compagna e si occupa della gestione della casa.

Nelle società di cacciatori-raccoglitori non si può accumulare ricchezza, ma uomini particolarmente vigorosi, capi abili e buoni cacciatori possono avere da due a dieci mogli. Con l'invenzione dell'agricoltura e la comparsa di grandi diseguaglianze, la poliginia ha potuto raggiungere proporzioni grottesche. Laura Betzig ha documentato che in una civiltà dopo l'altra uomini dispotici hanno realizzato il massimo sogno del maschio: harem di centinaia di attraenti giovinette, strettamente sorvegliate (spesso da eunuchi) per impedire a qualunque altro uomo di avvicinarle. Sistemi simili hanno visto la luce in India, in Cina, nel mondo islamico, nell'Africa subsahariana e nelle Americhe. Re Salomone aveva un migliaio di concubine. Gli imperatori romani le chiamavano schiave, e i re dell'Europa medioevale damigelle di servizio.

La poliandria, al confronto, è quasi inesistente. Qualche volta accade che gli uomini condividano una moglie quando vivono in habitat così difficili che un uomo non può sopravvivere senza una donna, ma al migliorare delle condizioni la struttura crolla. Gli eschimesi hanno sporadicamente conosciuto matrimoni poliandrici, ma i co-mariti erano sempre gelosi e spesso si uccidevano l'un l'altro. Come sempre la parentela mitiga l'inimicizia, e tra gli agricoltori tibetani a volte due o più fratelli sposano contemporaneamente una stessa donna nella speranza di costituire una famiglia che, in quelle terre desolate, riesca a sopravvivere. Il più piccolo dei fratelli, però, aspira ad avere una moglie propria.

Le strutture matrimoniali sono in genere descritte dal punto di vista dell'uomo, non perché i desideri della donna siano irrilevanti, ma perché di solito gli uomini potenti riescono a imporre la loro volontà. Gli uomini sono più grandi e più forti perché sono stati selezionati per combattere l'uno contro l'altro, e possono formare clan potenti perché nelle società tradizionali i figli maschi restano accanto alla famiglia e sono le figlie a trasferirsi. I poligini più floridi sono sempre despoti, uomini che possono anche uccidere senza paura di essere puniti. (Secondo il Guinness dei primati, l'uomo con il maggior numero di figli di tutta la storia, 888, è stato un imperatore del Marocco dal nome evocativo di Moulay Ismail il Sanguinano.) L'iperpoligino non deve solo guardarsi dalle centinaia di uomini che ha lasciato senza mogli, ma anche opprimere il suo harem. I matrimoni comportano sempre almeno un briciolo di reciprocità, e nella maggior parte delle società poliginiche un uomo può rinunciare a nuove mogli per via delle loro richieste emotive e finanziarie. Ma un despota può tenerle imprigionate e nel terrore.

Tuttavia, strano a dirsi, in una società più libera la poliginia non è necessariamente un male per le donne. Dal punto di vista finanziario, e in ultima analisi da quello evoluzionistico, una donna può preferire di condividere un marito ricco piuttosto che disporre dell'attenzione esclusiva di uno povero, e può preferirlo persino sul piano emotivo. Laura Betzig ne ha riassunto così la ragione: preferiresti essere la terza moglie di john F. Kennedy o la prima moglie del clown Bozo? Le co-mogli spesso vanno d'accordo e mettono in comune le loro competenze e i compiti connessi alla cura dei figli, anche se molte volte tra le sottofamiglie insorgono gelosie, più o meno come avviene fra patrigni, matrigne e figliastri, ma con più fazioni e più attori adulti. Se il matrimonio fosse un mercato autenticamente libero, in una società poligama la maggiore domanda da parte degli uomini rispetto alla limitata offerta di partner e la loro spietata gelosia sessuale dovrebbero porre in vantaggio le donne, e le leggi che obbligano alla monogamia opererebbero a svantaggio di queste ultime. L'economista Steven Landsburg lo spiega in questi termini:

Oggi, se mia moglie e io litighiamo per chi deve lavare i piatti, partiamo da posizioni di potere più o meno uguali; se la poligamia fosse legale, mia moglie potrebbe farmi capire di aver pensato di lasciarmi per sposare Alan e Cindy, che abitano nell'altro isolato, e io finirei sicuramente con le mani affondate nel lavandino della cucina

Le leggi antipoligamia sono un esempio scolastico della teoria del cartello. I produttori inizialmente in concorrenza tra loro, si riuniscono per cospirare ai danni del pubblico o, più specificamente, del consumatore. L'accordo prevede che le imprese contraggano l'offerta in modo da mantenere i prezzi elevati. Ma i prezzi alti sono un forte incentivo alla frode, nel senso che ogni impresa tenta di espandere la propria offerta al di là del limite consentito dall'accordo. In questo caso, il cartello crolla, a meno che non sia supportato da sanzioni legali; anche in quest'ultimo caso, però, le violazioni sono la norma.

Questa storiella, ripresa da tutti i manuali di economia politica, si può applicare anche ai maschi produttori sul mercato dell'amore. Dopo un esordio caratterizzato da un'aspra concorrenza, si riuniscono per cospirare ai danni del «consumatore», le donne alle quali offrono il matrimonio. L'accordo collusivo si fonda sull'impegno di ogni maschio a dedicare le proprie attenzioni romantiche a una sola femmina, nel tentativo di migliorare la posizione contrattuale dell'intera categoria. Ma il miglioramento della posizione maschile incentiva la frode, nel senso che ogni uomo tenta di corteggiare più donne di quante gliene consenta l'accordo che ha tacitamente sottoscritto. Tale accordo sopravvive soltanto perché sancito dalla legge, tuttavia le violazioni rappresentano pur sempre la norma.

La monogamia legale è stata nella storia un accordo tra uomini più e meno potenti, non tra uomini e donne. Il suo scopo non è tanto di sfruttare i clienti dell'industria sentimentale (le donne), quanto di minimizzare i costi della competizione tra i produttori (gli uomini). Dove vige la poliginia l'interesse in gioco nella rivalità fra gli uomini è, dal punto di vista darwiniano, altissimo (molte mogli contro nessuna), e la competizione è letteralmente all'ultimo sangue. Molti omicidi e la maggior parte delle guerre tribali sono legati direttamente o indirettamente alla concorrenza per le donne. I capi hanno messo fuorilegge la poliginia quando hanno avuto bisogno di farsi alleati uomini meno potenti e quando hanno avvertito la necessità che i loro sudditi combattessero contro un nemico anziché tra loro. Se il cristianesimo delle origini faceva appello agli uomini poveri è anche perché la promessa della monogamia li teneva in gioco nella competizione matrimoniale, e da allora, nelle società, egualitarismo e monogamia vanno a braccetto con la stessa naturalezza di dispotismo e poliginia.

Ancora oggi l'ineguaglianza permette il prosperare di una sorta di poliginia. Gli uomini ricchi mantengono una moglie e un'amante, oppure divorziano dalle mogli a intervalli di vent'anni, pagano loro gli alimenti e le spese per i figli e si risposano con donne più giovani. Il giornalista Robert Wright ha ipotizzato che la possibilità di divorziare facilmente e tornare a sposarsi, al pari della poliginia mani­festa, accresca la violenza. Le donne in età fertile sono monopolizzate da uomini benestanti e la carenza di potenziali mogli si ripercuote sui ceti inferiori, costringendo i giovani più poveri a una competizione disperata.

Tutti questi intrighi nascono da un'unica differenza tra i sessi: l'uomo ha un maggior desiderio di partner molteplici. Ma gli uomini non si accoppiano in modo del tutto indiscriminato e le donne non sono mai ridotte al silenzio, se non nelle società più dispotiche. Ciascun sesso utilizza determinati criteri per scegliere i partner con cui intrecciare relazioni e sposarsi. Come altre radicate inclinazioni umane, anch'essi sembrano essere degli adattamenti.

In entrambi i sessi esiste il desiderio di sposarsi, e gli uomini desiderano avere relazioni più delle donne, ma questo non significa che le donne non ne desiderino mai. Se fosse così, la tendenza al dongiovannismo non avrebbe potuto evolversi, perché non sarebbe mai stata ricompensata (a meno che il donnaiolo non riuscisse sempre a raggirare la sua preda facendole pensare di corteggiarla con l'intenzione di sposarla; ma, anche in questo caso, una donna sposata non avrebbe mai dovuto corteggiare un altro uomo o essere oggetto di corteggiamento). I testicoli dell'uomo non si sarebbero evoluti fino a proporzioni maggiori di quelli del gorilla, perché gli spermatozoi non avrebbero mai corso il rischio di essere superati in numero da quelli di un altro uomo. E i sentimenti di gelosia nei confronti della moglie non esisterebbero; mentre, come vedremo, esistono eccome. Le testimonianze etnografiche mostrano che in tutte le società entrambi i sessi commettono adulteri, e non sempre le donne prendono l'arsenico o si gettano sotto il treno delle 5,02 da San Pietroburgo.

Quale guadagno potevano trarre le donne ancestrali dalle relazioni adulterine, tale da permettere che il loro desiderio di intrecciarne si evolvesse? Uno è costituito dalle risorse. Se gli uomini hanno un desiderio così insaziabile di rapporti sessuali, le donne possono farseli pagare. Nelle società di cacciatori-raccoglitori esse chiedono apertamente doni agli amanti, di solito sotto forma di carne. L'idea che le nostre progenitrici si concedessero per una bistecca può dar fastidio, ma per le popolazioni di cacciatori-raccoglitori, in tempi di magra, quando le proteine di alto valore nutritivo sono una risorsa scarsa, la carne è un assillo. (Nel Pigmalione, quando Doolittie cerca di vendere la figlia Eliza a Higgins, Pickering grida: «Non ha principi morali, lei?». Doolittle risponde: «Non posso permettermeli, governatore. Né potrebbe lei, se fosse povero come me».) Visto da lontano, questo comportamento sembra una forma di prostituzione, ma le persone coinvolte possono percepirlo più come una normale questione di etichetta, un po' come nella nostra società una donna si sentirebbe offesa se un amante più ricco non la portasse mai fuori a cena o non le facesse dei regalini, anche se entrambe le parti negherebbero che si trattasse di uno scambio. Nei questionari le studentesse dei college dichiarano che uno stile di vita spendereccio e la disponibilità a fare regali sono qualità importanti nella scelta di un amante a breve termine, anche se non in quella di un marito.

Inoltre, al pari di molti uccelli, una donna può cercare di procacciarsi i geni dal maschio di migliore qualità e l'investimento dal marito, perché è poco probabile che si tratti della stessa persona (specialmente se vige la monogamia e se la donna ha scarsa voce in capitolo nel suo matrimonio). La bellezza e il vigore, dichiarano le donne, contano più in un amante che in un marito; come vedremo, la bellezza è un indice di qualità genetica. Quando intrecciano una relazione extramatrimoniale, in genere le donne scelgono uomini di condizione sociale superiore a quella del marito; e le qualità che portano alla posizione sociale sono quasi certamente ereditabili (nella preferenza per amanti di alto livello può avere un peso, tuttavia, anche il primo movente, quello di trarne risorse). Le relazioni con uomini di classe superiore possono inoltre dare a una donna l'occasione di saggiare la propria abilità negoziale nel mercato del matrimonio, come preludio allo sposalizio o per aumentare la propria forza contrattuale nei confronti del marito. Symons sintetizza le differenze tra i sessi nell'adulterio dicendo che una donna intreccia una relazione perché sente che l'uomo è in qualche modo superiore o complementare a suo marito, mentre l'uomo perché la donna non è sua moglie.

Gli uomini vogliono qualcosa, in un partner sessuale occasionale, oltre a due cromosomi X? A volte si direbbe di no. L'antropologo Bronislaw Malinowsky ha riferito che alcune donne dell'isola di Trobriand erano considerate così repellenti da essere assolutamente escluse dallo scambio sessuale. Tuttavia erano ugualmente riuscite ad avere svariati figli, fatto che gli abitanti dell'isola interpretavano come prova definitiva della partenogenesi (concepimento senza fecondazione).74 Ma ricerche più sistematiche hanno mostrato che gli uomini, almeno gli studenti universitari americani, mostrano una qualche preferenza nella scelta di un partner a breve termine. Dichiarano che è importante la bellezza; e, come vedremo, la bellezza è un segnale di fertilità e di buona qualità genetica. Sono considerati dei pregi, inoltre, la promiscuità e l'esperienza sessuale. Come ha spiegato Mae West: «Agli uomini piacciono le donne con un passato perché sperano che la storia si ripeta». Ma questi pregi si trasformano in debolezze quando si interrogano gli uomini circa i loro criteri di scelta per rapporti duraturi. Essi sottoscrivono la famigerata dicotomia madonna-puttana, che suddivide il mondo femminile in donne leggere, liquidabili come facili conquiste, e donne schive, degne di considerazione quali potenziali mogli. Questa mentalità è spesso additata come sintomo di misoginia, ma rappresenta la strategia genetica ottimale per i maschi di qualsiasi specie che investono nella progenie: accoppiarsi con tutte le femmine che lo permettono, ma assicurarsi che la consorte non si congiunga con nessun altro maschio.

Che cosa dovrebbe cercare una donna in un marito? Su un adesivo degli anni Settanta era scritto: «Una donna senza un uomo è come un pesce senza bicicletta». Ma, almeno per le donne delle società di cacciatori-raccoglitori, le cose non stanno proprio così. In queste società quando una donna è incinta, allatta e alleva i figli, lei e i bambini sono vulnerabili alla fame, alla carenza di proteine, alla predazione, allo stupro, al rapimento e all'assassinio. Qualunque uomo che faccia da padre ai suoi figli sarebbe un aiuto prezioso, per la donna, in termini di protezione e nutrimento. Dal punto di vista della donna non c'è niente di meglio che l'uomo possa fare, anche se dal proprio punto di vista l'uomo ha un'alternativa: competere per altre donne e corteggiarle. Gli uomini sono diversi l'uno dall'altro quanto a capacità e disponibilità a investire nei figli, quindi una donna deve scegliere con avvedutezza. Deve farsi influenzare dalla ricchezza e dalla posizione sociale o, nel caso di uomini ancora troppo giovani per disporre di questi beni, dai segni che lasciano presagire che li otterranno, quali l'ambizione e l'operosità. Questi beni però sono del tutto inutili se l'uomo non resta accanto alla donna dopo che è rimasta incinta, e gli uomini, indipendentemente dalle loro reali intenzioni, hanno tutto l'interesse a dichiarare che non se ne andranno. Scrive Shakespeare: «I giuramenti degli uomini sono i traditori delle donne». Una donna quindi deve cercare segni che indichino stabilità e sincerità. Anche l'attitudine a fare da guardia del corpo sarebbe utile.

Che cosa dovrebbe cercare un uomo in una moglie? A parte la fedeltà, che gli garantisce di essere il padre dei suoi figli, la donna dovrebbe avere la capacità di partorire quanti più bambini possibile. (Come sempre, così è probabile che siano stati modellati i nostri gusti; il che non implica che un uomo desideri effettivamente innumerevoli figli.) Quindi dovrebbe essere fertile, ovvero in buona salute e oltre la pubertà, ma non ancora in menopausa. Ma la fertilità di una donna in un dato momento è più importante ai fini di un rapporto occasionale che di un matrimonio destinato a durare l'intera vita. Quello che conta è il numero di figli che ci si può aspettare sul lungo termine. Dato che una donna può generare e allattare un solo figlio ogni due-quattro anni, e gli anni fertili sono limitati, quanto più giovane è la sposa tanto più grande sarà la futura famiglia. Questo è vero, anche se le spose più giovani, ancora adolescenti, sono un po' meno fertili di quelle che hanno da poco passato i vent'anni. Ironicamente per la teoria secondo cui «gli uomini sono dei porci», la preferenza per le ragazzine si è forse evoluta al servizio del matrimonio e della paternità, non delle storielle di una notte. Tra gli scimpanzé, dove il ruolo del padre si esaurisce con la copula, le femmine più sexy si trovano tra quelle rugose e cascanti.

Queste previsioni sono forse solo stereotipi stantii? Buss ha predisposto un questionario in cui si chiedeva di valutare l'importanza, in un partner, di diciotto qualità, e lo ha distribuito a diecimila persone di trentasette paesi distribuiti fra sei continenti e subcontinenti e cinque isole, paesi monogami e poliginici, tradizionalisti e progressisti, comunisti e capitalisti. Ovunque gli uomini e le donne hanno attribuito il valore più alto all'intelligenza, alla gentilezza e alla comprensione, ma in ogni paese si sono registrate differenze tra uomini e donne riguardo alle altre qualità. Le donne apprezzano la capacità di guadagnare più degli uomini; l'entità della differenza varia da un terzo in più a una volta e mezzo in più, ma la discrepanza c'è sempre. In pressoché tutti i paesi le donne attribuiscono più valore degli uomini alla posizione sociale, all'ambizione e all'operosità. E nella maggior parte dei casi apprezzano affidabilità e stabilità più degli uomini. In ogni paese, gli uomini attribuiscono alla giovinezza e alla bellezza un valore più alto delle donne. In media, gli uomini vogliono una sposa 2,66 anni più giovane; le donne vogliono un uomo 3,42 anni più anziano. Gli stessi risultati sono stati ottenuti in più occasioni.

La medesima storia la raccontano i comportamenti. Stando alle inserzioni pubblicate dai giornali, gli uomini cercano donne giovani e belle, mentre le donne cercano uomini benestanti, d'alta statura e sinceri. Il proprietario di un'agenzia matrimoniale ha osservato: «Le donne leggono a fondo le nostre schede con i profili; gli uomini guardano solo le foto». Tra le coppie sposate, il marito in media è 2,99 anni più anziano della moglie: un compromesso, si direbbe, tra le rispettive preferenze. Nelle culture di cacciatori-raccoglitori tutti convengono che alcune persone sono più sexy di altre, e le più gettonate sono di norma le donne giovani e gli uomini di prestigio. Gli uomini yanomamò, per esempio, dichiarano che le donne più desiderabili sono moko dudei, un'espressione che quando è applicata alla frutta significa matura a puntino e quando è riferita alle donne indica un'età compresa tra i quindici e i diciassette anni. A mostrarle loro in diapositiva, gli osservatori occidentali di entrambi i sessi convengono con gli uomini yanomamo che le donne moko dudei sono le più attraenti. Nella nostra società il miglior predittore della ricchezza di un uomo è la bellezza della moglie, e il miglior predittore della bellezza di una donna è la ricchezza del marito. Politici di alto livello bassi e grassocci come Henry Kissinger e john Tower sono considerati sex symbol e donnaioli. Magnati del petrolio ottuagenari come J. Paul Getty e J. Howard Marshall sposano donne che potrebbero essere le loro bisnipoti, come la modella Anna Nicole Smith. Rockstar non particolarmente avvenenti come Billy Joel, Rod Stewart, Lyle Lovett, Rick Ocasek, Ringo Starr e Bill Wyman sposano splendide attrici e supermodelle. Ma una ex parlamentare del Congresso degli Stati Uniti, Patricia Schroeder, ha osservato che una parlamentare di mezza età non irradia verso il sesso opposto lo stesso magnetismo animale di un parlamentare di mezza età di sesso maschile.

Una controreplica ovvia è che le donne apprezzano la ricchezza e il potere negli uomini perché sono gli uomini a detenere ricchezza e potere. In una società sessista, le donne sono costrette a sposarsi per ottenerli. Questa possibilità è stata verificata e confutata. Donne con stipendi elevati, titoli di studio post laurea, professioni prestigiose e grande autostima attribuiscono un maggior valore alla ricchezza e alla posizione sociale del marito di quanto non facciano le altre donne. Altrettanto vale per le leader delle organizzazioni femministe. Gli uomini poveri non attribuiscono più valore degli altri alla ricchezza o alla capacità di guadagno della moglie. Tra i bakweri del Camerun le donne sono più ricche e più potenti degli uomini, ma continuano a prediligere uomini ricchi.

L'umorista Fran Lebowitz ha detto in un'intervista: «Chi si sposa perché è innamorato commette un ridicolo errore. Ha molto più senso sposare il proprio migliore amico. Il tuo migliore amico ti piace di più di qualsiasi persona di cui tu possa innamorarti. Il tuo migliore amico non lo scegli perché ha un naso grazioso, mentre è proprio questo che si fa quando ci si sposa; si dice "passerò il resto della mia vita con te per via del tuo labbro inferiore" ».

In effetti qui c'è un enigma, la cui soluzione, è chiaro, va cercata nel fatto che con il proprio migliore amico non si fanno figli, mentre li si fanno con il proprio coniuge. Se ci preoccupiamo tanto di qualche millimetro di carne qua e là, è forse perché lì c'è un segnale percettibile di qualche caratteristica più profonda che non può essere misurata direttamente: la migliore o peggiore attrezzatura di cui dispone un corpo per fungere da secondo genitore dei propri figli. L'idoneità a fecondare e concepire è simile a qualsiasi altro carattere esistente al mondo; non è scritta su un cartellino, ma va dedotta dalle apparenze servendosi di presupposti su come funziona il mondo.

E possibile che siamo dotati di un gusto innato per la bellezza? Che dire allora dei nativi che compaiono sul «National Geographic», che si umano i denti, si allungano il collo con pile di anelli, si imprimono a fuoco cicatrici sulle guance e si deformano le labbra inserendovi delle piastre? E delle donne grasse dei dipinti di Rubens, e di Twiggy negli anni Sessanta? Non dimostrano che gli standard di bellezza sono arbitrari e variano a capriccio? No, non è così. Chi ha detto che tutto ciò che si fa al proprio corpo è volto a renderlo sexy? E questo il tacito presupposto sotteso all'argomento «National Geographic», ma è in tutta evidenza sbagliato. Ci si decora il corpo per molte ragioni: per apparire ricchi, ben introdotti, forti, «in», per guadagnarsi l'appartenenza a un gruppo d'élite sopportando una dolorosa iniziazione. L'attrattiva sessuale è un'altra cosa. Membri di culture diverse di solito concordano nel giudicare chi è bello e chi no, e ovunque si desiderano partner piacenti. Persino i bambini di tre mesi preferiscono volgere lo sguardo verso una faccia graziosa.

Quali fattori contribuiscono all'attrattiva sessuale? Entrambi i sessi vogliono un coniuge che abbia avuto uno sviluppo normale e non abbia infezioni. Non solo uno sposo sano è vigoroso, non contagioso e più fertile, ma la sua resistenza ereditaria ai parassiti locali si trasmetterà alla prole. Non abbiamo evoluto stetoscopi e abbassalingua, ma il gusto per la bellezza svolge un po' la stessa funzione. La simmetria, l'assenza di deformità, la pulizia, la pelle senza macchie, gli occhi limpidi e i denti intatti sono attraenti presso ogni cultura. Gli odontoiatri hanno scoperto che un volto di bell'aspetto ha i denti e le mascelle allineati nel modo ottimale per la masticazione. Una folta chioma è sempre piacevole, forse perché non testimonia solo la buona salute del momento, ma registra lo stato di salute degli anni precedenti. Malnutrizione e malattie indeboliscono il capello mentre spunta dal cuoio capelluto, lasciandolo in quel punto fragile. I capelli lunghi attestano un lungo passato di buona salute.

Un indizio più sottile di buoni geni è l'essere nella media. Non nella media in quanto ad attrattiva, naturalmente, ma a dimensioni e forma di ogni parte del volto. La misura media di un lineamento in una popolazione locale è una buona stima del disegno ideale favorito dalla selezione naturale. A formare un volto composito mettendo insieme quelli delle persone di sesso opposto che ci circondano, si otterrebbe un'immagine ideale del partner meglio adattato, con la quale confrontare quella di ogni candidato. Non c'è bisogno di immettere l'esatta geometria facciale della razza o del gruppo etnico locale. In effetti i volti compositi, che siano costruiti sovrapponendo i negativi in un ingranditore o per mezzo di sofisticati algoritmi di computer graphics, sono più piacenti dei singoli visi che concorrono a formarli.

I volti medi sono un buon punto di partenza, ma alcuni visi sono ancora più attraenti di quelli medi. Quando i ragazzi raggiungono la pubertà, il testosterone fa crescere le ossa delle mandibole, delle arcate sopraccigliari e della regione nasale. I volti delle ragazze crescono in modo più uniforme. La differenza nella geometria tridimensionale permette di distinguere una testa maschile da una femminile anche se sono completamente calve e rasate. Se la geometria di un volto femminile è simile a quella di un volto maschile, la donna è bruttina; se è meno simile, è più carina. La bellezza in una donna è data da una mandibola breve, delicata e dalla curvatura poco pronunciata, da mento, naso e mascella superiore piccoli, e da una fronte liscia con arcate sopraccigliari non sporgenti. Gli «zigomi alti» di una bella donna non sono ossa, ma tessuti molli, e contribuiscono alla bellezza perché le altre parti di un bel viso (le mascelle, la fronte e il naso) al confronto sono piccole.

Perché le donne mascoline sono meno attraenti? Se il viso è divenuto mascolino, probabilmente la donna ha un eccesso di testosterone nel sangue (sintomo di molte malattie); se ha troppo testosterone, ha buone probabilità di non essere fertile. Un'altra spiegazione è che i sensori della bellezza sono in realtà rilevatori di volti femminili, progettati per distinguerli da qualsiasi altro oggetto al mondo e tarati per minimizzare il rischio di un falso allarme di fronte a un volto maschile, che è l'oggetto più simile a un volto femminile. Quanto più un volto è diverso da quello maschile, tanto più forte suona il segnalatore. Una progettazione analoga potrebbe spiegare perché gli uomini con volti non femminei sono più piacenti. Un uomo con la mandibola ampia e angolosa, il mento pronunciato, la fronte e le arcate sopraccigliari prominenti è indubbiamente un maschio adulto con ormoni maschili normali.

Secondo i freddi calcoli della selezione naturale, le mogli , migliori sono le donne giovani che non hanno mai partorito, perché hanno davanti a sé la carriera riproduttiva più lunga e non hanno i figli di un altro uomo da trascinarsi dietro. I segni della giovinezza e quelli che indicano che non è mai stata incinta dovrebbero rendere una donna più attraente. Le adolescenti hanno gli occhi più grandi, le labbra più rosse e carnose, la pelle più liscia, umida e tesa e seni più turgidi, tutti elementi riconosciuti da tempo quali ingredienti della bellezza. Con l'età le ossa facciali della donna si allungano e si fanno più grossolane, e lo stesso accade con le gravidanze. Pertanto un volto con la mandibola piccola e le ossa facciali leggere è indizio di quattro virtù riproduttive: essere femmina, avere gli ormoni giusti, essere giovane e non essere mai stata incinta. Spesso l'equazione tra giovinezza e bellezza è addebitata come una colpa all'ossessivo giovanilismo della nostra società, ma se le cose stessero così bisognerebbe dire che tutte le culture sono ossessivamente giovanilistiche. Se mai, l'America contemporanea è meno orientata verso i giovani. L'età delle modelle di «Playboy» è cresciuta nei decenni, mentre nella maggior parte delle culture e delle epoche le donne tra i venti e i trent'anni erano considerate ormai in fase calante. La bellezza maschile non declina con l'invecchiamento con la stessa velocità di quella femminile non perché nella nostra società viga una doppia misura, ma perché la fertilità maschile non cala con l'invecchiamento con la stessa rapidità di quella femminile.

Con la pubertà i fianchi di una ragazza si allargano perché la pelvi cresce e sui fianchi si deposita grasso, che funge da riserva calorica utilizzabile durante la gravidanza. Il rapporto tra la misura della vita e quella dei fianchi cala nella maggior parte delle donne fertili fino a valori tra 0,67 e 0,80, mentre per gran parte degli uomini, dei bambini e delle donne dopo la menopausa questo valore si situa tra 0,80 e 0,95. Nelle donne, è stato riscontrato, un basso rapporto vitafianchi è correlato a giovinezza, salute, fertilità, al non essere gravide e al non esserlo mai state. La psicologa Devendra Singh ha mostrato a centinaia di persone di entrambi i sessi e di diverse età e culture fotografie e immagini generate al computer di corpi femminili, differenti per dimensioni e conformazioni. Tutti hanno trovato il rapporto vita-fianchi di 0,70 il più attraente. Tale rapporto, tra l'altro, rispecchia vecchi luoghi comuni come quelli che parlano di corpi tutti curve, di vite da vespa e di 90-60-90 come misure ideali. Singh ha anche preso le misure delle donne raffigurate nei pieghevoli di «Playboy» e delle vincitrici dei concorsi di bellezza per oltre sette decenni. Il loro peso è calato, ma il rapporto vita-fianchi è rimasto lo stesso. Anche la maggior parte delle statuine di veneri del paleolitico superiore, scolpite decine di migliaia di anni fa, hanno le proporzioni giuste.

Un tempo la geometria della bellezza era indice di giovinezza, salute e assenza di gravidanze, ma non necessariamente è così anche oggi. Oggi le donne hanno meno bambini, li mettono al mondo in età più avanzata, sono meno esposte agli agenti atmosferici e sono meglio nutrite e meno tormentate dalle malattie rispetto alle loro antenate. Così possono somigliare a un'adolescente ancestrale quando hanno raggiunto da un pezzo la mezza età. Inoltre hanno a loro disposizione tutta una tecnologia per simulare o accentuare i segni di giovinezza, femminilità e salute: il trucco per gli occhi (che li fa apparire più grandi), il rossetto, l'uso di strapparsi le sopracciglia (per ridurre l'aspetto mascolino dell'arcata sopraccigliare), il trucco per il volto (per sfruttare gli effetti delle ombre sulle forme, come abbiamo visto nel capitolo IV), i prodotti che esaltano lucentezza, spessore e colore dei capelli, i reggiseni e gli indumenti che simulano seni giovani, e centinaia di pozioni che pretendono di conservare alla pelle un aspetto giovanile. La dieta e l'esercizio fisico possono assottigliare la vita e abbassare il rapporto vita-fianchi, e illusioni si possono ottenere con busti, corsetti, crinoline, fasce, pieghe, strozzature e larghe cinture. La moda femminile non ha mai previsto niente di simile a quelle voluminose fasce di seta che gli uomini usavano indossare con lo smoking.

Al di fuori della letteratura scientifica, l'aspetto della bellezza su cui si è scritto di più è il peso della donna. In Occidente, nei decenni passati, le immagini femminili hanno ritratto donne sempre più magre; e in questo si è voluto vedere una dimostrazione dell'arbitrarietà della bellezza e dell'oppressione che si esercita sulle donne, dalle quali si pretende che si adeguino a questi standard per quanto irragionevoli possano essere. Alle esili modelle si dà generalmente la colpa dell'anoressia delle adolescenti, e un libro recente è stato intitolato Il grasso è una questione femminista. Il peso, tuttavia, è forse l'aspetto meno importante della bellezza. Singh ha scoperto che le donne molto grasse e quelle molto magre sono giudicate meno attraenti (e infatti sono meno fertili), ma che esiste tutta una gamma di pesi considerati attraenti, e che la conformazione (il rapporto vitafianchi) è più importante della taglia.88 Il gran baccano che si fa attorno alla magrezza ha più a che vedere con donne che posano per altre donne che con donne che posano per gli uomini. Twiggy e Kathe Moss sono indossatrici di moda, non pin-up; Marilyn Monroe e Jayne Mansfield erano pin-up, non indossatrici di moda. Il peso gioca un ruolo soprattutto nella competizione tra donne per la posizione sociale in un'epoca in cui, rovesciando il rapporto tradizionale, è più facile che sia magra una donna ricca che una povera.

Tuttavia le donne che posano per entrambi i sessi sono oggi più magre delle loro colleghe nel corso della storia, e forse non semplicemente perché sono cambiati i segni di status. La mia ipotesi è che le magrissime top-model e pin-up dei nostri giorni non avrebbero avuto difficoltà a trovare un partner in nessuna epoca storica, perché non somigliano alle donne macilente da cui si rifuggiva nei secoli passati. Le parti del corpo non variano in modo indipendente l'una dall'altra. Gli uomini alti tendono ad avere grandi piedi, chi ha la vita larga tende ad avere il doppio mento e così via. Le donne malnutrite possono tendere ad avere un corpo più mascolino e quelle ben nutrite più femminile, quindi nella storia le donne più attraenti possono essere state tendenzialmente più pesanti. Nessun tipo di donna ha la conformazione più bella immaginabile (alla Jessica Rabbit, per esempio), perché i corpi reali non si sono evoluti come esche sessuali da esibire sulle copertine delle riviste. Essi sono un compromesso tra le esigenze di essere attraenti, correre, sollevare pesi, partorire, allattare e sopravvivere alle carestie. Un'esca sessuale l'ha fabbricata forse la tecnologia moderna, non con il pennello del disegnatore, ma con la selezione artificiale. In un mondo di cinque miliardi di persone devono esserci donne con i piedi larghi e la testa piccola, uomini con le orecchie grandi e il collo scheletrico e qualsivoglia altra combinazione di parti del corpo. E ci sarà qualche migliaio di donne con combinazioni fuori dal comune di vita piccola, addome piatto, seni grossi e turgidi e fianchi curvi ma di taglia media: illusioni ottiche che fanno balzare ai massimi livelli gli aghi degli indicatori di fertilità e assenza di figli. Quando si rendono conto che possono sfruttare i loro insoliti corpi per ottenere fama e denaro, queste donne vengono allo scoperto ed esaltano i loro doni con il trucco, la ginnastica e le foto seducenti. Corpi come quelli che compaiono nelle pubblicità della birra forse non si sono mai visti prima nella storia.

La bellezza non è, come hanno sostenuto alcune femministe, una cospirazione degli uomini per trasformare le donne in oggetti e opprimerle. Le società veramente sessiste avvolgono le donne in chador dalla testa ai piedi. A farsi critici della bellezza, nel corso della storia, sono stati uomini potenti, capi religiosi, a volte donne anziane e medici, sui quali si può sempre contare perché dichiarino che la mania del momento in fatto di bellezza è pericolosa per la salute delle donne. Le donne stesse, invece, della bellezza sono entusiaste. La spiegazione è semplice in termini economici e politici (anche se non per l'analisi femminista ortodossa, peraltro alquanto offensiva per le donne, secondo cui queste ultime sono delle credulone che, con un lavaggio del cervello, sono state convinte a fare ogni sforzo per qualcosa che in realtà non vogliono). Le donne nelle società aperte vogliono apparire belle perché questo dà loro un vantaggio nella competizione per il marito, per la posizione sociale e per l'attenzione dei potenti. Gli uomini nelle società chiuse detestano la bellezza perché rende indiscriminatamente attraenti per gli altri uomini le loro mogli e figlie, consentendo loro un certo controllo sui profitti derivanti dalla propria sessualità e sottraendoli dunque agli uomini (e, nel caso delle figlie, alle madri). Una logica economica simile fa sì che anche gli uomini tengano ad apparire belli, ma in questo caso la pressione del mercato è più debole o diversa, perché la bellezza maschile importa alle donne meno di quanto la bellezza femminile importi agli uomini.

Anche se l'industria della bellezza non è una cospirazione contro le donne, non per questo è innocua. Il nostro gusto estetico si calibra sulle persone che vediamo intorno a noi, compresi i nostri illusori vicini nei mass media. Un'abbuffata quotidiana di persone virtuali di inusitata bellezza può tarare le scale su nuovi valori e farci apparire brutti gli individui reali, compresi noi stessi.

Per gli esseri umani, come per gli uccelli, la vita è complicata a causa di due caratteristiche riproduttive. I maschi investono nella prole, ma la fecondazione avviene fuori dalla loro vista, all'interno del corpo femminile, per cui un maschio non sa mai con certezza quale figlio sia suo. Una femmina, al contrario, può essere certa che qualsiasi uovo o bambino che esca dal suo corpo contiene i suoi geni, Un maschio tradito è in condizioni peggiori di uno celibe nella lotta evoluzionistica, e contro questo rischio gli uccelli maschi hanno evoluto delle difese. Altrettanto hanno fatto gli uomini. La gelosia se;suale è presente in ogni cultura.

Entrambi i sessi possono provare un'intensa gelosia al pensiero di un compagno che flirta, ma le loro emozioni differiscono sotto due aspetti. La gelosia delle donne sembra essere sotto il controllo di un software più sofisticato, che permette loro di valutare le circostanze e stabilire se il comportamento del partner mette a rischio i loro intere8si di fondo. La gelosia dell'uomo è più grezza e scatta più facilmente. (Una volta che si è scatenata, comunque, la gelosia femminile sembra raggiungere la stessa intensità di quella maschile.) Nella maggior parte delle società vi sono donne che condividono senza difficoltà un marito, ma in nessuna il marito condivide senza problemila moglie. Una donna che ha rapporti sessuali con un altro è sempm una minaccia per gli interessi genetici del suo partner, perché potrebbe raggirano e farlo lavorare per i geni di un concorrente; un uomo che ha rapporti sessuali con un'altra, invece, non è necessariamente una minaccia per gli interessi genetici della sua partner, perché il suo eventuale figlio illegittimo sarà un problema di un'altra donna. Diviene una minaccia soltanto se l'uomo dirotta il proprio investimento da lei e dai suoi bambini verso l'altra e i bambini di quest'ultima, temporaneamente o, nei caso dell'abbandono, per sempre.

Quindi gli uomini e le donne dovrebbero essere gelosi di cose diverse. Gli uomini dovrebbero agitarsi al pensiero che la moglie o fidanzata faccia l'amore con un altro; le donne al pensiero che il marito o fidanzato dedichi tempo, risorse, attenzione e affetto a un'altra. Naturalmente a nessuno fa piacere pensare che il proprio compagno offra sesso o affetto a qualcun altro, ma anche a tale riguardo le ragioni possono essere diverse; gli uomini potrebbero essere turbati da un tradimento sul piano dell'affetto perché potrebbe sfociare nel sesso; le donne da un tradimento sessuale perché potrebbe portare all'affetto. Buss ha riscontrato che uomini e donne si ingelosiscono tanto al pensiero di un tradimento sessuale quanto a quello di un tradimento affettivo, ma quando si è chiesto loro di scegliere tra i due mali la maggior parte degli uomini hanno dichiarato di essere più turbati dal pensiero che il partner fosse infedele sessualmente piuttosto che sentimentalmente, mentre la maggior parte delle donne ha avuto la reazione opposta. (Le stesse differenze si riscontrano quando gli uomini e le donne immaginano che il partner sia infedele sia sessualmente sia emotivamente e si chiede loro quale dei due aspetti del tradimento li turbi di più. Questo dimostra che la differenza tra i sessi non sta solo nel fatto che un uomo e una donna si aspettano e temono cose diverse dal comportamento del partner, l'uomo che una donna che ha rapporti sessuali debba essere anche innamorata, e la donna che un uomo innamorato debba anche avere rapporti sessuali.) Buss ha poi applicato ai suoi soggetti degli elettrodi e ha chiesto loro di immaginare i due tipi di tradimento. Gli uomini sudavano, si accigliavano e palpitavano di più per immagini di tradimento sessuale; le donne sudavano, si accigliavano e palpitavano di più per quelle di tradimento sentimentale. (Ho citato questo esperimento nel capitolo IV per illustrare il potere delle immagini mentali.) Risultati simili sono stati ottenuti in diversi paesi europei e asiatici.

Per commettere un adulterio bisogna essere in due e gli uomini, che sono sempre il sesso più violento, hanno diretto la loro rabbia contro entrambe le parti. La più frequente causa di violenza e omicidio all'interno di una coppia è la gelosia sessuale, quasi sempre del­l'uomo. Gli uomini picchiano e uccidono le mogli e le fidanzate per punirle di infedeltà reali o immaginarie e per dissuaderle dal tradirli o abbandonarli. Le donne picchiano e uccidono i mariti come autodifesa o dopo anni di abusi. I critici del femminismo hanno dato grosso peso all'occasionale dato statistico secondo cui gli uomini statunitensi sono vittima di violenze e omicidi da parte del coniuge in numero quasi pari alle donne. Ma questa non è la realtà nella maggior parte delle comunità umane, e anche nelle poche in cui lo è la causa sta quasi sempre nella gelosia e nell'intimidazione da parte del marito. Capita spesso che un uomo affetto da una gelosia morbosa segreghi in casa la moglie e interpreti ogni telefonata che arriva come una prova della sua infedeltà. Il rischio diviene massimo quando la donna minaccia di lasciare il compagno o lo lascia effettivamente. L'uomo abbandonato può darle la caccia, scovarla e ucciderla sempre in base allo stesso ragionamento: «Se non posso averla io, non l'avrà nessuno». Il crimine è insensato, ma è l'esito indesiderato di una tattica paradossale, una macchina della fine del mondo. Per ogni assassinio di una moglie o fidanzata che se n'è andata devono esserci migliaia di minacce rese credibili da segni che indicano che l'uomo è abbastanza folle da portarle a compimento senza curarsi del loro costo.

Molti sapientoni, negli Stati Uniti, addossano la colpa della violenza perpetrata contro le donne a questo o quell'aspetto della società, dalla circoncisione alle armi giocattolo, a James Bond o al calcio. Ma il fenomeno si verifica in ogni parte del mondo, anche nelle società di cacciatori-raccoglitori. Tra gli yanomamö un uomo che sospetta la moglie di infedeltà può sfregiarla con un machete, colpirla con una freccia, ustionarla con un tizzone ardente, mozzarle le orecchie o ucciderla. Anche tra gli idilliaci !Kung San del deserto del Kalahari, nell'Africa meridionale, gli uomini picchiano con violenza le mogli quando hanno il sospetto che li tradiscano. Per inciso, nessuna di queste osservazioni «giustifica» la violenza o significa che «non è colpa dell'uomo», come a volte si sostiene. Conclusioni indebite del genere potrebbero venire applicate a qualsiasi spiegazione, compresa la diffusa teoria femminista secondo cui gli uomini subiscono un lavaggio del cervello da parte dei media con le loro immagini che esaltano la violenza contro le donne.

In tutto il mondo gli uomini commettono violenze e omicidi anche contro gli uomini con i quali le loro partner li hanno o essi ritengono che li abbiano traditi. Si ricordi che la competizione per le donne è la causa principale di violenze, omicidi e conflitti armati nelle popolazioni di cacciatori-raccoglitori. Come è scritto nei Proverbi, 6,34: «... la gelosia accende lo sdegno del marito, che non avrà pietà nel giorno della vendetta».

A differenza degli uccelli, tuttavia, gli esseri umani innestano la loro gelosia sessuale in una macchina cognitiva barocca. Noi pensiamo per metafore, e la metafora che gli uomini hanno sempre usato per le mogli è la proprietà. Nel saggio The Man Who Mistook His Wife for a Chattel («L'uomo che scambiò sua moglie per un bene mobile»), Wilson e Daly mostrano che gli uomini non mirano semplicemente a tenere sotto controllo le mogli e lontani i rivali, ma rivendicano su di esse, e specialmente sulla loro capacità riproduttiva, un titolo di proprietà identico al diritto del possessore di un bene inanimato. Un proprietario può vendere, scambiare o cedere ciò che gli appartiene, apportargli delle modifiche senza ostacoli di sorta e chiedere un risarcimento per eventuali furti o danni. Questi diritti sono riconosciuti dal resto della società e possono essere fatti rispettare tramite rappresaglie collettive. In una cultura dopo l'altra gli uomini, nel concepire il loro rapporto con le mogli, hanno dispiegato l'intero apparato cognitivo della proprietà, e fino a tempi recenti hanno formalizzato questa metafora in codici legislativi.

Nella maggior parte delle società il matrimonio è un palese trasferimento della proprietà di una donna dal padre al marito. Nella nostra cerimonia nuziale il padre della sposa la «dà in moglie», ma altrove più spesso la vende. Nel settanta per cento delle società, quando due persone si sposano c'è qualcuno che paga. Nel novantasei per cento dei casi lo sposo o la sua famiglia pagano la famiglia della sposa, a volte in denaro o con una figlia, altre volte con un lavoro svolto dallo sposo per il padre della futura moglie per un periodo prefissato. (Nella Bibbia, Giacobbe lavora per Labano per sette anni per avere il diritto di sposare sua figlia Rachele, ma al matrimonio Labano sostituisce Rachele con l'altra figlia, Lia, per cui Giacobbe deve lavorare altri sette anni per acquistare Rachele come seconda moglie.) Le doti, a noi più familiari, non sono un'immagine speculare del pagamento per la moglie, perché vanno agli sposi e non ai genitori della sposa.94 Il marito notifica agli altri uomini la sua proprietà con modalità che persistono in molte coppie attuali. La donna, non l'uomo, porta al dito l'anello di fidanzamento, e prende il cognome del marito.

Chi detiene una proprietà ne ha il controllo, e i mariti (e, prima di loro, i padri e i fratelli) hanno assunto il controllo della sessualità delle donne attraverso dame di compagnia, veli, parrucche, chador, la separazione per sesso, la segregazione, catene alle caviglie, mutilazioni genitali e tanti ingegnosi modelli di cinture di castità. I de­spoti non solo avevano degli harem, ma li tenevano sotto stretta sorveglianza. Nelle società tradizionali «proteggere una donna» era un eufemismo per «farla restare casta». («Gli uomini dicono sempre che ti proteggono, ma non dicono mai da che cosa» ha osservato Mae West.) Solo le donne fertili erano soggette a questi controlli; le bambine e le donne dopo la menopausa godevano di maggiore libertà.

Il termine «adulterio» è correlato ad «adulterare», e significa rendere una donna impura tramite l'introduzione di una sostanza impropria. L'ignominioso uso di due pesi e due misure, per cui il tradimento di una moglie viene punito più severamente di quello di un marito, è comune nei codici legali e morali di ogni tipo di società. La sua spiegazione razionale è sintetizzata in questo scambio di battute fra James Boswell e Samuel Johnson: «C'è una grande differenza tra il reato di infedeltà commesso da un uomo e quello di sua moglie» osservò Boswell; «la differenza è immensa» rispose Samuel Johnson. «L'uomo non impone alla moglie dei bastardi.»95 Sia la donna sposata sia il suo amante sono normalmente punibili per legge (spesso con la morte), ma la simmetria è illusoria, perché è lo stato coniugale della donna, non quello dell'uomo, a rendere la relazione un crimine, e specificamente un crimine contro il marito. Fino a epoca recente la maggior parte dei sistemi legali nel mondo trattavano l'adulterio come un reato contro la proprietà. II marito aveva diritto al risarcimento danni, alla restituzione del prezzo pagato per la sposa, al divorzio o alla vendetta violenta. Lo stupro era un reato contro il marito della donna, non contro di lei. La fuga d'amore era considerata una sottrazione della figlia al padre. Fino a pochissimo tempo fa lo stupro di una donna da parte del marito non era un crimine, anzi, non era neppure concepibile: i mariti avevano il diritto a rapporti sessuali con le mogli.

In tutti i paesi anglofoni la common law riconosce tre attenuanti all'omicidio: l'autodifesa, la difesa di parenti stretti e la reazione a contatti sessuali della propria moglie con altri. (Wilson e Daly osservano che si tratta delle tre più serie minacce alla fitness darwiniana.) In diversi stati degli Stati Uniti, e in Texas ancora nel 1974, un uomo che coglieva la moglie in flagrante e uccideva il suo amante non era colpevole. Ancora oggi, in molti paesi, omicidi del genere non vengono perseguiti, o l'assassino è giudicato con clemenza. Il violento scoppio di gelosia alla vista dell'adulterio commesso dalla moglie è citato come uno dei comportamenti che ci si possono attendere da «un uomo ragionevole».

Mi sarebbe piaciuto poter parlare di psicologia evoluzionistica della sessualità senza digressioni sulla teoria femminista, ma nel cli­ma intellettuale odierno è impossibile. L'approccio darwiniano alla sessualità è spesso tacciato di antifemminismo, ma è un errore. Anzi, è un'accusa sconcertante, specialmente da parte delle molte femministe che hanno sviluppato e messo alla prova quella teoria. Al cuore del femminismo c'è senz'altro l'obiettivo di porre fine alla discriminazione e allo sfruttamento sessuali, una posizione etica e politica il cui valore non può essere inficiato da alcuna teoria o scoperta scientifica prevedibile. Neanche lo spirito con cui è condotta la ricerca minaccia gli ideali femministi. Le differenze fra i sessi che sono state documentate riguardano la psicologia della riproduzione, non i valori economici o politici, e mettono in cattiva luce gli uomini, non le donne. Tali differenze dovrebbero renderci più coscienti di fronte a incesti, sfruttamenti, molestie, pedinamenti, maltrattamenti, stupri (compreso quello da parte del proprio ragazzo o marito) e alle leggi discriminatorie nei confronti delle donne. Se esse mostrano come gli uomini siano particolarmente tentati di commettere determinati crimini contro le donne, ne discende che bisogna adottare deterrenti più efficaci e severi, non che i crimini sono in qualche misura meno odiosi. Anche le spiegazioni evoluzionistiche della tradizionale divisione del lavoro tra i sessi non implicano che essa sia immodificabile, «naturale» nel senso di buona, o che dovrebbe essere imposta agli uomini e alle donne che non la vogliono.

A venire messi in discussione dalla psicologia evoluzionistica non sono gli obiettivi del femminismo, ma alcuni aspetti della moderna ortodossia riguardo alla mente fatti propri dall'establishment intellettuale del femminismo. Uno è l'idea che le persone siano designate a realizzare gli interessi della propria classe e del proprio sesso, anziché ad agire secondo i propri desideri e convincimenti. Un altro è la tesi che le menti infantili siano plasmate dai genitori, e che quelle degli adulti siano plasmate dal linguaggio e dalle immagini dei media. Un terzo è la dottrina romantica per cui le nostre inclinazioni naturali sono buone e i nostri moventi ignobili provengono dalla società.

Dietro molte delle obiezioni alla teoria darwiniana della sessualità umana c'è la tacita premessa che la natura sia buona. Una vita sessuale spensierata è naturale e buona, si presume, quindi se qualcuno afferma che gli uomini la desiderano più delle donne ciò dovrebbe implicare che gli uomini sono sani di mente e le donne nevrotiche e represse. Tale conclusione è inaccettabile, quindi la tesi secondo cui gli uomini più delle donne vogliono rapporti sessuali spensierati non può essere vera. Analogamente, si presume che il desiderio sessuale sia buono, quindi se gli uomini stuprano le donne perché le desiderano (anziché per esprimere la propria rabbia verso di esse), lo stupro non è un male. E invece lo stupro lo è; pertanto la tesi secondo cui gli uomini stuprano mossi dal desiderio sessuale non può essere vera. Più in generale, si pensa che ciò che piace per istinto sia bene, quindi se agli esseri umani piace la bellezza, la bellezza è un segno di valore. La bellezza invece non è un segno di valore, quindi la tesi secondo cui alla gente piace la bellezza non può essere vera.

Questo genere di obiezioni mettono insieme una cattiva biologia (la natura è buona), una cattiva psicologia (la mente è creata dalla società) e una cattiva etica (ciò che piace è bene). Il femminismo non perderebbe nulla ad abbandonarle.

Rivali

Ovunque nel mondo si lotta per sostanze eteree tipo autorità, carisma, dignità, dominio, superiorità, stima, immagine, posizione, preminenza, prestigio, rango, considerazione, reputazione, rispetto, levatura o status. Vi sono persone che soffrono la fame, rischiano la vita e danno fondo alle proprie ricchezze per qualche pezzetto di nastro e metallo. L'economista Thorstein Veblen ha osservato che per fare colpo sugli altri si sacrificano talmente tante necessità della vita da dare l'impressione che si risponda a un «bisogno spirituale superiore». Status e virtù vanno a braccetto nella mente umana, come rivelano termini quali cavalleresco, di classe, cortese, gentiluomo, onorevole, nobile, principesco e loro opposti quali volgare, di basso livello, scortese, malnato, villano e ignobile. Per quanto riguarda le frivolezze dell'aspetto personale, esprimiamo l'ammirazione per il buon gusto usando metafore etiche come giusto, appropriato, impeccabile o inappuntabile, e censuriamo il gusto cattivo con toni di solito riservati al peccato (atteggiamento che Quentin Bell ha chiamato «moralità sartoriale»).

Serve a costruire un organismo intelligente, tutto ciò? Da dove provengono moventi così potenti?

Vane decorazioni e rituali costituiscono dei moventi per molti animali, e perché la selezione abbia portato a questo stato di cose non è più un mistero. Ecco l'idea chiave. Le creature si differenziano per la loro capacità di danneggiare o aiutare gli altri. Alcune sono più forti o più feroci o più velenose; alcune hanno geni migliori o più disponibilità. Tali creature potenti vogliono che tutti sappiano che sono potenti, e anche le creature su cui esse possono influire vogliono sapere quali sono potenti. Ma ogni singola creatura non può esaminare il DNA, la massa muscolare, la composizione biochimica, la ferocia e via dicendo di tutte le altre, quindi le creature che hanno un peso pubblicizzano il proprio valore con un segnale. Purtroppo quelle insignificanti possono contraffare il segnale e raccoglierne i benefici, riducendone il valore per tutte le altre. Si apre dunque una gara nella quale le creature di peso inventano segnali difficili da contraffare, quelle più insignificanti affinano le proprie capacità di contraffazione, e le terze parti accrescono le loro capacità di discernimento. Come nelle banconote, i segnali sono arzigogolati in modo inimitabile e privi di valore intrinseco, ma vengono trattati come se fossero di valore, il che li rende effettivamente di valore.

La materia preziosa che sta dietro i segnali si può suddividere in predominio (chi può danneggiarti) e status (chi può aiutarti). Spesso essi vanno insieme, perché chi può danneggiarti può anche aiutarti con la sua capacità di danneggiare gli altri. Ma conviene esaminare i due aspetti separatamente.

Quasi tutti hanno sentito parlare delle gerarchie, stratificazioni sociali e ruoli predominanti tanto presenti nel regno animale. Animali della stessa specie non si combattono all'ultimo sangue ogni volta che devono contendersi qualcosa di valore. Si danno invece a conflitti rituali, esibizioni di armi o lotte di sguardi, finché uno dei due non si tira indietro. Konrad Lorenz e altri pionieri dell'etologia pensavano che le espressioni di resa aiutassero a salvaguardare la specie da stragi intestine, e che gli esseri umani fossero in pericolo perché le avevano perse. Ma è un'idea frutto dell'erronea convinzione che gli animali si evolvano a vantaggio della specie; non è in grado di spiegare perché un mutante truculento, che non si sia mai arreso e abbia ucciso chiunque si arrendesse, non abbia sbaragliato gli avversari caratterizzando ben presto la specie. I biologi John Maynard Smith e Geoffrey Parker hanno proposto una spiegazione migliore, elaborando un modello sulla capacità delle diverse strategie aggressive adottabili dagli animali di reggere l'una a confronto dell'altra e in se stesse.

Combattere fino alla fine in qualsiasi circostanza è una misera strategia per un animale, perché è probabile che il suo avversario si sia evoluto per fare altrettanto. Una lotta è costosa per il perdente, che viene ferito o ucciso e quindi sta peggio che se avesse rinunciato al premio fin dal principio. Ma può essere costosa anche per il vincitore, che rischia anch'esso di rimanere ferito nel corso del combattimento. A entrambe le parti converrebbe stabilire in anticipo chi ha le migliori probabilità di uscire vincente e assegnargli la vittoria per semplice rinuncia dell'altro. Perciò gli animali si misurano a vicenda per constatare chi è più grosso, o brandiscono le armi per rendersi conto di chi è più pericoloso, o lottano fino a quando non diviene chiaro chi è il più forte. Anche se uno solo dei due vince, entrambi vanno via sulle proprie zampe. Il perdente rinuncia perché può cercare fortuna migliore altrove o attendere circostanze più propizie. Quando gli animali si misurano, fanno uso di trucchi per esagerare la propria taglia: tirano fuori collari, rigonfiamenti e criniere, rizzano il pelo o la cresta, s'impennano e si producono in versi la cui bassa tonalità testimonia delle dimensioni della cassa di risonanza del corpo. Se una lotta è costosa e il vincitore non è prevedibile, l'esito può essere deciso da una differenza arbitraria, per esempio chi è arrivato prima, allo stesso modo in cui una disputa tra rivali umani può essere risolta in quattro e quattr'otto tirando una moneta. Se gli animali combattenti sono allo stesso livello e gli interessi in gioco abbastanza alti (per esempio un harem), si può giungere a una lotta senza tregua che a volte finisce con la morte.

Se entrambe le creature escono vive dal conflitto, è facile che ne ricordino l'esito, e da quel momento il perdente rispetterà il vincitore. Quando molti animali di un gruppo si battono o si misurano l'un l'altro in una sorta di eliminatoria, il risultato è una stratificazione sociale, corrispondente alle probabilità che avrebbe ciascun animale di uscire vincitore da un duello con ognuno degli altri. Se avviene che tali probabilità si modifichino, per esempio perché un animale che ha il predominio invecchia o si ferisce, o uno sottomesso guadagna forza o esperienza, quest'ultimo può lanciare una sfida e cambiare la gerarchia. Negli scimpanzé il predominio non è solo una questione di valore in battaglia, ma anche di acume politico: una coppia in combutta può spodestare un animale più forte che compete da solo. Molti primati che vivono in gruppo stabiliscono due gerarchie di predominio, una per ciascun sesso; le femmine competono per il cibo, i maschi per le femmine. I maschi che predominano si accoppiano più spesso, sia perché possono estromettere gli altri maschi sia perché le femmine preferiscono accoppiarsi con loro, se non altro perché un partner di alto rango ha buone probabilità di avere figli di alto rango, che daranno alla femmina più nipoti dei figli di basso rango.

Fra gli esseri umani non esistono stratificazioni rigide, ma in tutte le società si riconosce una forma di gerarchia, soprattutto tra gli uomini. Gli uomini d'alto rango sono rispettati, hanno più voce in capitolo nelle decisioni collettive, di norma dispongono di una quota maggiore delle risorse del gruppo e hanno immancabilmente più mogli, più amanti e più relazioni con mogli altrui. Gli uomini lotta­no per il rango e lo conquistano in parte con le modalità che ci sono note dai libri di zoologia, in parte con modalità peculiari della nostra specie. A un rango superiore pervengono i combattenti migliori, e anche coloro che sembrano combattenti migliori. È sorprendente, in una specie di esseri che si autodefiniscono animali razionali, quanto sia potente la pura e semplice altezza fisica. Nella maggior parte delle società di cacciatori-raccoglitori il termine corrispondente a «leader» è «grande uomo», e di fatto i leader sono in genere uomini grandi. Negli Stati Uniti gli uomini più alti trovano lavoro più facilmente, fanno più carriera, guadagnano di più (circa 250 dollari l'anno per centimetro) e sono eletti presidenti più spesso: delle ventiquattro elezioni succedutesi fra il 1904 e il 1996, venti sono state vinte dal candidato più alto. Un'occhiata alle inserzioni matrimoniali pubblicate dai giornali basta a convincere che le donne cercano uomini alti. Come in altre specie in cui i maschi competono, il maschio umano è più grosso della femmina e ha evoluto dei modi per apparire ancora più grosso, come la voce bassa e la barba (che fa sembrare più grande la testa e si è evoluta in modo indipendente nei leoni e nelle scimmie). Leonid Brenev sosteneva di essere arrivato al vertice grazie alle sopracciglia! Ovunque gli uomini esaltano la dimensione della loro testa (con cappelli, elmetti, acconciature e corone), delle spalle (con imbottiture, spallacci, spalline e nappe) e, in alcune società, del pene (con impressionanti brachette e guaine, lunghe a volte quasi un metro).

Ma gli esseri umani hanno evoluto il linguaggio e un nuovo modo di diffondere informazioni su chi predomina: la reputazione. I sociologi sono a lungo rimasti perplessi nel constatare che i moventi che portano più spesso all'omicidio, nelle città statunitensi, non sono il furto, un traffico di stupefacenti andato storto o altri tangibili interessi, bensì quelli che essi chiamano «alterchi per motivi relativamente futili: insulti, imprecazioni, spintonate e simili». Due giovani litigano su chi abbia la precedenza al tavolo da biliardo del bar, si strattonano l'un l'altro e si scambiano insulti e oscenità. Il perdente, umiliato davanti agli occhi di tutti, corre via e ritorna con una pistola. Questi omicidi sono un esempio perfetto di «violenza insensata», e gli uomini che li commettono vengono spesso liquidati come folli o bestie.

Daly e Wilson fanno osservare che uomini del genere si comportano come se fosse in gioco una posta molto più alta della precedenza a un tavolo da biliardo. E infatti la posta in gioco è molto più alta:

Gli uomini sono conosciuti dai loro compagni come «quelli a cui si può comandare a bacchetta» e «quelli che non si lasciano prendere a pesci in fac­cia», persone che alle parole fanno seguire i fatti e fanfaroni, tipi con le cui ragazze si può civettare impunemente e tipi con cui è meglio non avere a che fare.

Nella maggior parte degli ambienti sociali la reputazione di un uomo dipende in parte dal mantenimento di una minaccia credibile di uso della violenza. I conflitti d'interesse sono endemici in una società, ed è probabile che i propri interessi vengano violati dai concorrenti, se essi non ne vengono dissuasi. Per una deterrenza efficace dobbiamo convincere i rivali che qualsiasi tentativo di far valere i loro interessi a nostre spese sarà punito così severamente che la competizione si concluderà per loro con una perdita netta, tale da far rimpiangere di averla scatenata.

Se una sfida pubblica non viene raccolta, anche se la posta in gioco non è rilevante, la credibilità del deterrente rischia di venir meno. Inoltre, se uno sfidante sapesse che chi ha preso a bersaglio è un freddo calcolatore di costi e benefici, potrebbe estorcergli la resa sotto la minaccia di una lotta pericolosa per entrambi. Ma a una testa calda che non si ferma davanti a nulla pur di salvaguardare la sua reputazione (una macchina della fine del mondo) non si può estorcere niente.

Il membro della banda del quartiere che accoltella chi lo ha provocato ha onorevoli equivalenti in ogni cultura del mondo. La stessa parola onore significa in molte lingue (come in uno dei suoi sensi in inglese) determinazione a vendicare gli oltraggi, se necessario con il sangue. In numerose società di cacciatori-raccoglitori un ragazzo diventa uomo solo dopo aver ucciso. Il rispetto di cui un uomo gode cresce con il crescere delle sue vittime documentate, il che ha portato a costumi affascinanti come l'asportazione dello scalpo o il taglio della testa. Il duello tra «uomini d'onore» era una tradizione nel Sud degli Stati Uniti, e i successi in duello hanno contribuito a far conquistare posizioni di potere a molti. L'uomo raffigurato sul biglietto da dieci dollari, il ministro del Tesoro Alexander Hamilton, fu ucciso in duello dal vicepresidente Aaron Burr, e quello raffigurato sul biglietto da venti, il presidente Andrew Jackson, vinse due duelli e tentò di provocarne altri.

Perché non si vedono dentisti o professori universitari sfidarsi a duello per un parcheggio? In primo luogo, essi vivono in un mondo in cui lo stato detiene il monopolio dell'uso legittimo della violenza. Dove lo stato non giunge, come nei quartieri malavitosi urbani o nelle località rurali di frontiera, o in epoche in cui lo stato non esisteva, come tra le bande di cacciatori-raccoglitori in cui ci siamo evoluti, una minaccia credibile di uso della violenza è la sola protezione di cui si dispone. In secondo luogo i beni di dentisti e professori, dalle case ai conti in banca, sono difficili da rapinare. La «cultura dell'onore» nasce quando reagire in fretta a una minaccia è essenziale perché la propria ricchezza non venga portata via da qualcun altro. Essa si sviluppa tra i pastori, i cui animali possono essere rubati, più spesso che tra gli agricoltori, le cui terre sono inamovibili. E si sviluppa tra i gruppi le cui ricchezze si presentano in altre forme mobili, come contanti o stupefacenti. Ma forse la ragione principale è che dentisti e professori non sono maschi, poveri e giovani.

L'essere maschi è di gran lunga, quanto a violenza, il maggior fattore di rischio. Daly e Wilson citano trentacinque saggi statistici relativi a omicidi commessi in quattordici paesi, incluse società di cacciatori-raccoglitori e prive di lingua scritta e l'Inghilterra del XIII secolo. Da tutte risulta che gli uomini uccidono altri uomini molto di più di quanto le donne uccidano altre donne, in media ventisei volte più spesso.

Inoltre i vendicatori delle sale da biliardo e le loro vittime sono dei «non»: non istruiti, non sposati, non ricchi e spesso disoccupati. Tra i mammiferi poliginici come noi il successo riproduttivo varia enormemente tra i maschi, e la competizione più feroce si può averla sul fondo, tra i maschi le cui prospettive oscillano fra lo zero e il non zero. Gli uomini attraggono le donne grazie alla ricchezza e allo status sociale, quindi se un uomo non dispone di questi mezzi e non ha modo di procurarseli è su una strada a senso unico verso la nullità genetica. Come gli uccelli che si avventurano in territori pericolosi quando stanno per morire di fame, e gli allenatori di hockey che sostituiscono il portiere con un pattinatore in più quando sono sotto di un goal e manca un minuto al termine, un uomo non sposato senza futuro può essere disposto a correre qualsiasi rischio. Come ha sottolineato Bob Dylan: «Quando non hai niente, non hai niente da perdere».

La giovinezza peggiora ancora di più la situazione. Il genetista Alan Rogers ha calcolato in base a dati attuariali che i giovani di sesso maschile dovrebbero «scontare» radicalmente il futuro, e infatti è così. I giovani maschi commettono crimini, guidano a velocità eccessiva, ignorano le malattie e si dedicano a passatempi pericolosi come gli stupefacenti, gli sport estremi e il surf sui tetti dei tram e degli ascensori. La combinazione di mascolinità, giovinezza, povertà, assenza di speranze e anarchia rende i giovani del tutto spericolati nel difendere la propria reputazione.l°3

E non è detto che i professori (o chi svolge una qualsiasi professione competitiva) non duellino per i tavoli da biliardo, in senso figurato. Gli accademici sono conosciuti dai loro colleghi come «quelli a cui si può comandare a bacchetta» e «quelli che non si lasciano prendere a pesci in faccia», persone che alle parole fanno seguire i fatti e fanfaroni, tipi il cui lavoro può essere criticato impunemente e tipi con i quali è meglio non avere a che fare. Brandire un coltello a serramanico nel corso di un'erudita conferenza stonerebbe un po', ma c'è sempre la domanda pungente, la replica che annichilisce, lo sdegno moralistico, l'invettiva raggelante, la confutazione sdegnata, e i modi per farsi valere nelle revisioni dei manoscritti e nei comitati per l'assegnazione dei finanziamenti. Le istituzioni accademiche cercano naturalmente di inibire questi costumi, ma sradicarli è difficile. Scopo di un'argomentazione è rendere una tesi così forte (si noti la metafora) che gli scettici siano costretti a crederci: non possono negarla, se vogliono continuare a dichiararsi razionali.104 In linea di principio sono le idee stesse che, come usiamo dire, s'impongono, ma non sempre i loro sostenitori disdegnano di aiutarle con tattiche di predominio verbale quali l'intimidazione («Chiaramente...»), la minaccia («Sarebbe poco scientifico...»), l'autorità («Come ha dimostrato Popper ...»), l'insulto («Questo termine manca del necessario rigore...») e la svalutazione («Pochi ormai credono seriamente che...»). Forse è per questo che H.L. Mencken ha scritto che «le partite di football dei college sarebbero più interessanti se a giocare fossero i docenti anziché gli studenti».

Godere di uno status significa che è pubblicamente noto che si possiedono beni con i quali, se lo si desidera, si può aiutare gli altri. Questi beni possono consistere nella bellezza, in un talento o una competenza insostituibili, nell'ascolto e nella fiducia di persone potenti, ma soprattutto nella ricchezza. I beni che conferiscono uno status tendono a essere fungibili. La ricchezza è suscettibile di portare a conoscenze altolocate e viceversa. La bellezza può essere messa a profitto per arricchirsi (mediante regali o il matrimonio), può attirare l'attenzione di persone importanti o attrarre più corteggiatori di quelli che la persona di bell'aspetto sappia gestire. I detentori di questi beni, quindi, non sono visti solo come loro proprietari, ma irradiano un'aura di carisma in virtù della quale gli altri ambiscono a entrare nelle loro grazie. E sempre utile avere persone che desiderano entrare nelle nostre grazie, quindi lo status è di per sé qualcosa cui vale la pena anelare. Ma il tempo è limitato e gli adulatori devono scegliere con chi dimostrarsi servili, quindi lo status è una risorsa limitata. Se A ne ha di più, B deve averne di meno, e i due devono competere.

Anche nel mondo delle leadership tribali, dove cane mangia cane, il predominio fisico non è tutto. Chagnon riferisce che alcuni capi yanomamö sono esuberanti e prepotenti, ma altri conquistano la loro posizione con accortezza e discrezione. Un uomo di nome Kaobawä, pur non mancando di energia, si guadagnò la sua autorità avvalendosi dell'aiuto dei fratelli e dei cugini e intrecciando alleanze con gli uomini con i quali aveva scambiato mogli. Poi conservò la sua autorevolezza dando ordini solo quando era sicuro che tutti li avrebbero eseguiti, e l'esaltò ponendo fine a combattimenti, disarmando folli che brandivano il machete e andando coraggiosamente in giro da solo per il villaggio quando c'erano predoni in bella vista. La sua pacifica leadership fu ricompensata da sei mogli e altrettante relazioni extraconiugali. Nelle società di cacciatori-raccoglitori si riconosce una condizione elevata anche agli abili cacciatori e ai naturalisti esperti. Se supponiamo che anche i nostri antenati applicassero a volte la meritocrazia, l'evoluzione umana non ha sempre coinciso con la sopravvivenza del più violento.

Gli antropologi romantici sostenevano che i cacciatori-raccoglitori non erano motivati nelle loro azioni dalla ricchezza, ma il fatto è che i popoli che essi studiavano non ne avevano alcuna. C'è un solo aspetto sotto il quale i cacciatori-raccoglitori del XX secolo non sono rappresentativi dell'umanità: vivono in terre che nessun altro vuole, terre non coltivabili. Non è che essi preferiscano necessariamente i deserti, le foreste pluviali o le tundre in cui abitano, ma non hanno scelta, perché i popoli dediti all'agricoltura, come il nostro, hanno occupato il resto. Anche se i cacciatori-raccoglitori non possono raggiungere quelle imponenti diseguaglianze che nascono dal coltivare e accumulare il cibo, conoscono comunque delle diseguaglianze, sia di ricchezza sia di prestigio.

I kwakiutl della costa canadese del Pacifico potevano approfittare del passaggio annuale dei salmoni e di un'abbondanza di mammiferi marini e di bacche. Essi si stabilivano in villaggi presieduti da ricchi capi che cercavano di surclassarsi a vicenda in feste competitive chiamate potlatches. Gli ospiti erano invitati a ingozzarsi di salmone e bacche e il capo, con fare vanaglorioso, li inondava di barili d'olio, ceste di bacche e cumuli di coperte. Gli ospiti umiliati tornavano ai loro villaggi e si vendicavano organizzando una festa ancora più imponente, in cui non solo regalavano oggetti di valore, ma li distruggevano con ostentazione. Il capo appiccava un fuoco crepitante al centro della sua abitazione e lo alimentava con olio di pesce, coperte, pellicce, remi, canoe, e a volte con la stessa casa, in una esibizione di spreco che il mondo non avrebbe più rivisto fino ai bar mitzvah nordamericani.

Veblen ha ipotizzato che la psicologia del prestigio sia guidata da tre «canoni di gusto pecuniari»: abbondanti agi, abbondanti consumi e abbondanti sprechi. Gli status symbol sono sfoggiati e ambiti non necessariamente perché siano utili o attraenti (i ciottoli, le margherite e i piccioni sono piuttosto belli, come riscopriamo quando incantano i bambini), ma spesso perché sono così rari, dispendiosi o inutili che solo i ricchi possono permetterseli. Tra di essi vi sono gli indumenti troppo delicati, ingombranti, attillati o suscettibili di macchiarsi per essere portati al lavoro, gli oggetti troppo fragili da essere usati con tranquillità o prodotti con materiali introvabili, quelli senza alcuna funzione ma frutto di incredibili fatiche, le decorazioni che consumano energia, e la pelle chiara nelle terre in cui la gente comune lavora nei campi o viceversa abbronzata dove si lavora al chiuso. La logica è: non puoi vedere tutta la mia ricchezza e la mia capacità di guadagno (il mio conto in banca, le mie terre, tutti i miei alleati e lacchè), ma puoi vedere i rubinetti d'oro del mio bagno. Nessuno potrebbe permetterseli senza disporre di una ricchezza sovrabbondante, quindi sai che sono ricco.

Un consumo esagerato è contro il buon senso, perché dissipare la ricchezza può solo farla diminuire, riducendo lo scialacquatore al livello dei rivali. Ma funziona quando la considerazione da parte degli altri è abbastanza utile come contropartita e quando non tutta la ricchezza o la capacità di guadagno viene sacrificata. Se ho cento dollari e tu ne hai quaranta, io posso consumarne cinquanta ma tu no; farò colpo sugli altri e sarò ancora più ricco dite. Il principio è stato confermato da una fonte imprevedibile, la biologia evoluzionistica. A partire da Darwin i biologi si sono arrovellati di fronte a esibizioni come la coda del pavone, che fa colpo sulla femmina ma consuma risorse nutritive, ostacola il movimento e attira i predatori. Il biologo Amotz Zahavi ha avanzato l'ipotesi che queste esibizioni si siano evolute proprio perché erano degli handicap. Solo gli animali in perfetta salute potevano permettersele, e le femmine, per accoppiarsi, scelgono gli uccelli più sani. I biologi teorici all'inizio erano scettici, ma uno di essi, Alan Grafen, ha infine dimostrato che la teoria era fondata.

Il consumo smodato funziona quando solo i più ricchi possono permetterselo. Quando la struttura di classe si indebolisce oppure i beni sontuosi (o loro buone imitazioni) diventano più facilmente disponibili, la classe medio-superiore può emulare quella superiore, la classe media può emulare quella medio-superiore e così via lungo la scala. La classe superiore non può restare con le mani in mano quando comincia a somigliare alla plebe; deve adottare un nuovo look. Ma questo look viene nuovamente emulato dalla classe medio-supe­riore e la catena ricomincia, il che stimola la classe superiore a lanciarsi su un look ancora diverso e così via. Il risultato è la moda. Il caotico succedersi di stili in cui quello che è chic in un decennio di­viene dozzinale o trasandato, frivolo o volgare nel decennio succes-sivo, sono stati spiegati come una cospirazione dell'industria dell'abbigliamento, o un'espressione di nazionalismo, o un riflesso dell'economia e in molti altri modi. Ma Quentin Bell, nella sua classica analisi sulla moda, On Human Finery, ha mostrato che solo una spiegazione funziona: la gente segue la regola che dice «cerca di sornigliare a quelli più in alto dite; se sei in cima, cerca di distinguerti da quelli sotto di te».

Ancora una volta gli animali hanno scoperto per primi questo trucco. Gli altri damerini del regno animale, le farfalle, non hanno evoluto i loro colori per far colpo sulle femmine. Alcune specie con l'evoluzione sono divenute velenose o di sapore sgradevole, e hanno sviluppato colori sgargianti per avvertire i loro predatori. Altre specie velenose hanno copiato gli stessi colori, avvantaggiandosi della paura già disseminata. Ma a quel punto alcune farfalle non velenose hanno imitato anch'esse quei colori, godendo della protezione senza dover sostenere la spesa di divenire esse stesse nauseabonde. Quando gli imitatori si sono fatti troppo abbondanti, il colore ha perso il suo ruolo di veicolo di informazione e non ha più dissuaso i predatori. Le farfalle disgustose hanno assunto nuovi colori, che sono poi stati imitati da quelle di sapore buono, e così via.

La ricchezza non è il solo bene a venire ostentato e ambito. In una società complessa si compete in numerosi campionati, non tutti dominati dai plutocrati. Bell ha aggiunto alla lista di Veblen un quarto canone: un comportamento ostentatamente scandaloso. La maggior parte di noi dipende dall'approvazione degli altri. Abbiamo bisogno di godere del favore di capi, insegnanti, genitori, clienti, acquirenti o potenziali suoceri, e questo richiede una certa dose di rispetto e di discrezione. Un anticonformismo aggressivo segnala che si è talmente sicuri della propria posizione o delle proprie capacità da poter mettere a repentaglio la benevolenza altrui senza finire emarginati e indigenti. Il messaggio è: «Ho tante doti, sono così ricco, popolare o ben introdotto che posso permettermi di offenderti». Il XIX secolo ha visto la baronessa George Sand fumare sigari e portare pantaloni, e Oscar Wilde con i calzoni al ginocchio, i capelli lunghi e un girasole in mano. Nella seconda metà del XX secolo lo scandalo è diventata la regola e abbiamo dovuto assistere a una tediosa sfilata di ribelli, fuorilegge, selvaggi, bohémien, fricchettoni, punk, capelloni, travestiti, mau-mau, ragazzacci, gangster, pornostar, vamp, vaga­bondi e material girls. L'essere al passo con i tempi ha rimpiazzato l'essere di classe come motore della moda, ma la psicologia dello status non è cambiata. Chi fa moda sono i membri delle classi superiori che adottano gli stili delle classi inferiori per distinguersi dalle classi medie, che neanche a morire adotterebbero tali stili perché sono loro che rischiano di essere confusi con la classe inferiore. Lo stile si diffonde verso il basso, il che spinge a cercare una nuova forma di anticonformismo. Man mano che i media e i commercianti imparano a lanciare sul mercato con sempre maggiore efficienza ogni nuova moda, il carosello dell'avanguardia procede sempre più in fretta. Accade regolarmente che sui giornali cittadini si trovi una presentazione favorevole di una band «alternativa» seguita da lettere sprezzanti che spiegano che erano bravi quando pochi li conoscevano ma ormai si sono venduti. Nei suoi mordaci saggi di critica sociale (The Painted World, Maledetti architetti: dal Bauhaus a casa nostra, Lo chic radicale) Tom Wolfe documenta come la fame di status, nel senso di essere sempre sulla cresta dell'onda, orienti le scelte nel mondo dell'arte, dell'architettura e nelle idee guida dell'élite culturale.

Amici e conoscenti

Anche senza essere parenti e senza che vi siano in gioco interessi sessuali avviene che ci si elargiscano favori a vicenda. Perché persino il più egoista degli organismi sia disposto a farlo, non è difficile da capire. Se il favore è contraccambiato, e il valore di ciò che si riceve è, per chi riceve, superiore al valore di ciò che si dà, entrambe le parti ci guadagnano. Un esempio chiaro è un bene il cui beneficio, oltre un certo limite, decresce. Se ho due chili di carne ma non ho frutta, e tu hai due chili di frutta ma non hai came, il secondo chilo di carne per me ha un valore inferiore al primo (di carne, in una volta sola, non posso mangiarne più di tanto), e lo stesso vale nel caso tuo per il secondo chilo di frutta. Lo scambio conviene a entrambi: offre quello che gli economisti chiamano un utile.

Quando lo scambio è simultaneo, la cooperazione è facile. Se l'altro si tira indietro, non gli si dà la carne o la si riprende. La maggior parte dei favori, però, come passare un'informazione, salvare uno che sta annegando o andare in aiuto in battaglia, non li si può riprendere. Inoltre, raramente lo scambio può essere simultaneo. I bisogni possono mutare; se ti aiuto adesso in cambio di protezione per il figlio che mi nascerà, non potrò avere la mia contropartita finché il bambino non sarà nato. Spesso, poi, i surplus sono scaglionati; se tutti e due abbiamo appena ucciso un'antilope, non ha senso barat­tarle. Lo scambio ha senso solo se tu ne hai uccisa una oggi e io ne ucciderò una tra un mese. Una soluzione è il denaro, ma si tratta di un'invenzione recente che non può avere avuto un ruolo nella nostra evoluzione.

Come abbiamo visto nel capitolo VI, il problema degli scambi differiti, o della reciprocità, è che si può imbrogliare, accettare un favore oggi e non ricambiarlo domani. Naturalmente converrebbe a tutti che nessuno imbrogliasse; ma la sola possibilità che l'altro imbrogli (inevitabile quando gli individui possono essere diversi) può bastare a dissuadermi dal fargli un favore che sul lungo periodo risulterebbe vantaggioso per entrambi. Il problema è stato condensato in una parabola detta il Dilemma del prigioniero. Due complici in un crimine sono rinchiusi in celle separate e l'inquisitore propone a ciascuno di essi un patto. Se tu accusi del delitto il tuo compagno e lui tace, tu vieni liberato e lui viene condannato a dieci anni. Se tacete entrambi, entrambi venite condannati a sei mesi. Se vi accusate l'un l'altro, la condanna è a cinque anni a testa. I complici non possono comunicare e nessuno dei due sa cosa farà l'altro. Ciascuno pensa: se il mio complice parla e io taccio, mi condannano a dieci anni; se lui parla e io anche, mi condannano a cinque anni; se lui tace e io anche, mi condannano a sei mesi; se lui tace e io parlo, mi liberano. Indipendentemente da quello che decide lui, a me conviene tradirlo. Ognuno dei due è costretto ad accusare il complice ed entrambi scontano la condanna a cinque anni, ben superiore a quella che avrebbero ricevuto se si fossero fidati l'uno dell'altro. Ma nessuno poteva correre il rischio per via della punizione che avrebbe ricevuto se l'altro non avesse fatto altrettanto. Psicologi sociali, matematici, economisti, filosofi morali e strateghi nucleari si rompono la testa su questo paradosso da decenni. Non c'è soluzione.

La realtà tuttavia si differenzia dal Dilemma del prigioniero sotto un aspetto. I prigionieri della parabola si trovano di fronte al loro dilemma una volta sola, mentre le persone in carne e ossa si affrontano l'un l'altra in dilemmi di cooperazione più e più volte, ricordano le slealtà e i buoni risultati del passato e si regolano di conseguenza. Possono sentirsi solidali e avere un atteggiamento benevolo o sentirsi danneggiati e cercare vendetta, sentirsi grati e rendere un favore o provare rimorso e fare ammenda. Si ricordi che secondo l'ipotesi di Trivers le emozioni che costituiscono il senso morale possono evolversi quando le parti interagiscono ripetutamente e possono premiare la cooperazione attuale con una cooperazione futura o punire un tradimento del momento con un tradimento futuro. Robert Axelrod e William Hamilton hanno confermato questa congettura in un torneo a eliminatorie al computer in cui ognuna delle strategie per affrontare un Dilemma del prigioniero veniva messa a confronto con ogni altra. I due studiosi hanno ridotto il dilemma all'essenziale e hanno attribuito a ogni strategia dei punti in funzione della sua capacità di ridurre al minimo gli anni di galera. Una semplice strategia detta pan-per­focaccia (cooperare alla prima mossa, poi fare quello che ha fatto il partner nella mossa precedente) ne ha battute altre sessantadue. Gli studiosi hanno quindi condotto una simulazione di vita artificiale in cui ogni strategia «si riproduceva» in proporzione alle sue vittorie e hanno dato il via a un nuovo torneo collettivo tra le copie delle varie strategie. Hanno ripetuto il processo per molte generazioni e hanno riscontrato che la strategia pan­per-focaccia prendeva il sopravvento nella popolazione. La cooperazione può evolversi quando le parti interagiscono ripetutamente, ricordano i rispettivi comportamenti e li contraccambiano.

Come abbiamo visto nei capitoli V e VI, le persone sanno riconoscere chi imbroglia e sono dotate di emozioni moralistiche che le spingono a punire i truffatori e premiare i cooperatori. Ciò significa che la strategia pan-per-focaccia sta alla base della cooperazione che troviamo così diffusa nella specie umana? Senza dubbio sta alla base di gran parte della cooperazione che ha luogo nella nostra società. I registratori di cassa, gli orologi marcatempo, i biglietti dei treni, le ricevute, i libri mastri e gli altri accessori delle transazioni che non si basano sul «sistema dell'onore» sono rilevatori meccanici di imbroglioni. I truffatori, come gli impiegati che rubano, a volte si ritrovano davanti al giudice, ma più spesso sono semplicemente tagliati fuori dal sistema di scambi reciproci, cioè licenziati. Allo stesso modo, le aziende che truffano i clienti ben presto li perdono. I giramondo che cercano un lavoro, le aziende sorte dal nulla e gli estranei che propongono al telefono «opportunità di investimento» sono spesso discriminati proprio perché sembrano voler giocare una singola partita anziché un gioco di cooperazione reiterato, e sono quindi immuni al pan-per-focaccia. Anche gli amici abbastanza stretti, in privato, ricordano gli ultimi regali natalizi e gli inviti a cena e calcolano il modo più opportuno di ricambiare.

Tutta questa contabilità è frutto della nostra alienazione e dei valori borghesi della società capitalista? Una delle convinzioni più care a molti intellettuali è che esistano culture in cui tutto è in comune. Marx ed Engels pensavano che i popoli privi di lingua scritta rappresentassero uno stadio iniziale nell'evoluzione della civiltà, che essi chiamavano comunismo primitivo, la cui massima era: «Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni». E’ vero, i membri delle società di cacciatori-raccoglitori condividono il cibo e i pericoli. Ma in queste società per lo più ciascuno interagisce con i parenti, quindi da un punto di vista biologico condivide i beni con estensioni di sé. In molte culture, inoltre, esiste un ideale di condivisione, ma questo significa poco. È naturale per me dichiarare che sarebbe bellissimo se tu mettessi in comune quello che hai; l'interrogativo è se io sarò disposto a farlo a mia volta.

I cacciatori-raccoglitori, per la verità, condividono i propri beni anche con non parenti, ma non per un'indiscriminata generosità o per fede nei principi socialisti. I dati antropologici mostrano che la condivisione è guidata da analisi costi-benefici e da un'attenta contabilità mentale della reciprocità. Si condivide quando sarebbe suicida non farlo. In generale le specie sono spinte alla condivisione quando la variabilità del successo nella raccolta del cibo è alta. Supponiamo che in alcune settimane io sia fortunato e abbia più cibo di quello che riesco a mangiare, mentre in altre sia sfortunato e rischi la fame. Come faccio a immagazzinare il cibo in più nelle settimane prospere e tirarlo fuori in quelle di magra? Non ho il frigorifero. Potrei abbuffarmi e immagazzinarlo sotto forma di grasso, ma è una soluzione che funziona solo fino a un certo punto: non posso mangiare in un giorno quanto mi occorre per sfamarmi per un mese. Posso però conservare il cibo nel corpo di altre persone e nella loro mente sotto forma di ricordo della mia generosità, generosità che si sentiranno in dovere di ripagare quando la fortuna girerà. Quando le prospettive sono rischiose, condividere i rischi conviene.

La teoria è stata confermata sia in specie non umane, come i vampiri, sia nella nostra specie con due eleganti studi che sottopongono a verifica le differenze tra culture contrapponendo le forme di condivisione all'interno di una di esse. Gli ache del Paraguay cacciano la selvaggina e raccolgono piante commestibili. La caccia è in larga parte una questione di fortuna: in un dato giorno un cacciatore ache ha il quaranta per cento di probabilità di tornare da una battuta di caccia a mani vuote. La raccolta è soprattutto una questione di fatica: più si lavora, più si porta a casa, e un raccoglitore che rientra a mani vuote probabilmente non è sfortunato ma pigro. Come previsto, gli ache condividono le piante commestibili solo nell'ambito della cerchia familiare, mentre condividono la carne con tutta la tribù.

I !Kung San del deserto del Kalahari sono forse quanto di più simile al comunismo primitivo esista sulla faccia della terra. Presso di loro la condivisione è sacra, l'accaparramento e la vanteria sono disprezzati. Questo popolo vive di caccia e raccolta in un ecosistema aspro e a costante rischio di siccità, e le sue materie di scambio sono il cibo e l'accesso alle fonti d'acqua. I //Gana San invece, un ramo dello stesso popolo che vive nelle vicinanze, hanno intrapreso la coltivazione dei meloni, che immagazzinano acqua, e l'allevamento delle capre; e poiché non sono soggetti a sbalzi così estremi tra periodi di prosperità e di magra, a differenza dei loro cugini, accaparrano il cibo e hanno sviluppato disuguaglianze di ricchezza e di status. Sia negli ache sia nei san i cibi ad alta variabilità vengono condivisi, quelli a bassa variabilità vengono accaparrati.

Per stimare la variabilità questi popoli non tirano fuori la calcolatrice. Qual è il loro processo mentale quando decidono di condividere un bene? Cosmides e Tooby osservano che non si tratta di un processo psicologico particolarmente inconsueto: corrisponde al nostro senso di giustizia e di compassione. Pensiamo a che cosa rende le persone più o meno disponibili ad aiutare chi è senza fissa dimora. Chi sostiene che tutti dovremmo mettere qualcosa in comune con le persone senza casa pone l'accento sulla casualità, sulla variabilità in senso statistico della loro condizione. Esse sono meritevoli di aiuto perché sono sfortunate; sono le disgraziate vittime di circostanze come la disoccupazione, la discriminazione o la malattia mentale. Chi perora questa causa ci invita a pensare: «Potrei essere anch'io così; è solo una questione di fortuna». Coloro che si oppongono a spartire qualcosa con loro, invece, sottolineano che nella nostra società le ricompense per chiunque accetti di mettersi al lavoro sono più che prevedibili. Coloro che sono senza fissa dimora non meritano aiuto perché sono persone fisicamente capaci ma pigre, o perché hanno scelto di ficcarsi in quella situazione dedicandosi all'alcol o alla droga. Chi li difende ribatte che l'uso di stupefacenti è una malattia che potrebbe colpire chiunque.

Anche al massimo della loro munificenza, i cacciatori-raccoglitori si comportano come si comportano non perché il loro cuore trabocchi di generosità: essi praticano l'etica della condivisione memorizzando con precisione ossessiva chi ha contribuito, nella chiara aspettativa di un contraccambio, e coloro che rifiutano il proprio contributo sono oggetto di maligni pettegolezzi. Tutto ciò, inoltre, non elimina ancora i sentimenti egoistici. L'antropologo Melvin Konner, che ha vissuto per anni con i !Kung San e ha descritto con rispettosa sensibilità i loro costumi, racconta:

Nella loro cultura tradizionale egoismo, arroganza, avarizia, cupidigia, furore, bramosia, tutte queste forme di ingordigia sono tenute a freno allo stesso modo in cui è tenuta a freno la semplice ingordigia alimentare: non ci sono perché la situazione non lo permette. E non, come suppongono alcuni, perché il popolo o la sua cultura siano in qualche modo migliori. Non dimenticherò mai il giorno in cui un !Kung, padre di famiglia sui quarant'anni, uomo buono e ben messo in tutti i sensi, che godeva di grande rispetto nella comunità, mi chiese di tenergli da parte una zampa di antilope che aveva ucciso. Ne aveva data via la maggior parte, come si doveva fare. Ma vedeva l'opportunità di nasconderne un p0', per il futuro, per se stesso e la sua famiglia. Normalmente, è chiaro, non ci sarebbe stato un posto in cui nascondere quella zampa in tutto il Kalahari; sarebbe stata o alla mercé dei mangiatori di carogne o alla mercé di lontani parenti predatori. Ma la presenza di stranieri offriva un'interfaccia con un altro mondo, ed egli voleva infilare la carne, temporaneamente, in una crepa di quell'interfaccia, l'unico nascondiglio immaginabile.

Quando si tratta di amicizia, l'altruismo reciproco suona falso. Sarebbe di cattivo gusto che un ospite a cena tirasse fuori il portafoglio e si offrisse di pagare il pasto a chi l'ha invitato. E ricambiare l'invito giusto la sera dopo non sarebbe molto meglio. Il pan-per-focaccia non cementa un'amicizia, ma la danneggia. Niente è più imbarazzante per dei buoni amici di una transazione commerciale tra l'uno e l'altro, come la compravendita di un'automobile. Lo stesso vale per il migliore amico della vita, il proprio coniuge. Le coppie che tengono un conteggio meticoloso di quello che uno ha fatto per l'altro sono le meno felici.

L'amore tra amici, l'emozione che sta dietro l'amicizia stretta e il legame duraturo del matrimonio (l'amore che non è né romantico né sessuale), ha una psicologia tutta propria. Gli amici o i coniugi si sentono come se fossero ciascuno in debito con l'altro, ma i debiti non vengono misurati e l'obbligo del pagamento non è oneroso, ma profondamente gratificante. Si prova un piacere spontaneo nell'aiutare un amico o un coniuge, senza prefigurarsi una contropartita o rammaricarsi del favore fatto se la contropartita non arriva mai. Naturalmente i favori possono venire registrati da qualche parte nella mente, e se la bilancia piega troppo da un lato può accadere di chiedere la restituzione del debito o porre fine a crediti futuri, ovvero interrompere l'amicizia. Ma si può contare su un forte scoperto e su una grande indulgenza per quanto riguarda i termini di pagamento. L'affetto tra amici, insomma, non contraddice nel vero senso della parola la teoria dell'altruismo reciproco, ma ne rappresenta una versione elastica in cui le garanzie emotive (simpatia, solidarietà, gratitudine e fiducia) sono portate all'estremo.

Che cosa sia l'affetto tra amici è abbastanza chiaro, ma perché si è evoluto? Tooby e Cosmides hanno cercato di sottoporre a ingegneria inversa la psicologia dell'amicizia richiamando l'attenzione su un aspetto della logica dello scambio che essi chiamano il Paradosso del banchiere. Molti di coloro a cui è stato rifiutato un prestito hanno imparato che una banca è disposta a prestare una somma di denaro esattamente pari a quella di cui si può dimostrare di non aver bisogno. Come ha detto Robert Frost: «Una banca è un luogo in cui ti prestano un ombrello con il bel tempo e te lo chiedono indietro non appena inizia a piovere». Le banche dicono che hanno una quantità limitata di denaro da investire e che ogni investimento è una scommessa. I loro investimenti devono procurare un profitto, altrimenti uscirebbero dal mercato, e quindi valutano i rischi dei crediti e scartano i meno affidabili.

La stessa logica crudele vale per l'altruismo tra i nostri antenati. Una persona che medita se elargire un grosso favore è come una banca. Deve preoccuparsi non solo dei truffatori (il beneficiano ha intenzione di restituirlo?), ma anche dei rischi connessi al credito (il beneficiano sarà in grado di restituirlo?). Se chi lo riceve muore, diviene inabile o nullatenente, o abbandona il gruppo, il favore sarà stato sprecato. Purtroppo sono coloro che incarnano i maggiori rischi per il creditore, gli ammalati, gli affamati, i feriti, gli emarginati, che hanno più bisogno di favori. Chiunque può subire un rovescio di fortuna, specialmente nella dura esistenza di un cacciatore-raccoglitore che, se abbandonato a se stesso quando si trova nei guai, ha ben poche speranze di sopravvivere. Che generi di pensieri e di sentimenti possono evolversi per costituire una sorta di assicurazione grazie alla quale gli altri ci concederanno un «credito» anche se la sfortuna dovesse renderci a rischio?

Una strategia è quella di rendersi insostituibili. Coltivando una capacità che nessuno nel gruppo è in grado di riprodurre, per esempio la fabbricazione di utensili, l'orientamento o la risoluzione di conflitti, si può rendere se stessi una risorsa cui rinunciare costerebbe caro nel momento del bisogno: ognuno dipende troppo da noi per rischiare di lasciarci morire. Oggi le persone passano gran parte della loro vita sociale pubblicizzando le loro capacità uniche e preziose o cercando una cricca in cui tali capacità siano uniche e preziose. Rendersi insostituibili è uno dei moventi che spingono alla ricerca della posizione sociale.

Un'altra strategia consiste nell'associarsi a persone che traggono beneficio da ciò da cui noi stessi traiamo beneficio. Semplicemente conducendo la propria vita e perseguendo i propri interessi si possono realizzare, come effetto collaterale, gli interessi di altre persone. L'esempio più evidente è il matrimonio: marito e moglie condividono l'interesse per il benessere dei figli. Un altro esempio è stato sottolineato da Mao Tse-tung nel suo libretto rosso: «Il nemico del mio nemico è mio amico». Un terzo è il possesso di un'abilità il cui esercizio è utile ad altri oltre che a se stessi, per esempio essere bravi a ritrovare la strada di casa. Altri esempi ancora sono dati dal dividere una stanza con persone a cui piace la stessa temperatura che piace a noi, o la stessa musica. In tutti questi casi si elargisce un beneficio ad altri senza essere altruisti, nel senso biologico di dover sopportare un costo e quindi di aver bisogno di una contropartita perché ne valga la pena. La questione dell'altruismo ha attirato su di sé una tale attenzione che si è spesso trascurata una forma più diretta di aiuto presente in natura: la simbiosi, in cui due organismi, come le alghe e i funghi che formano i licheni, si associano perché gli effetti collaterali dei rispettivi modi di vivere risultano, in modo fortuito, vicendevolmente vantaggiosi. I simbionti ricevono ed elargiscono benefici, ma nessuno paga un costo. I compagni di stanza con gli stessi gusti musicali sono un esempio di coppia simbiotica, e ciascuno può apprezzare l'altro senza che si scambino favori.

Una volta che ci si è resi preziosi per qualcun altro, egli diviene prezioso per noi, e lo teniamo in grande considerazione, perché, se dovessimo finire nei guai, avrebbe interesse, sia pure un interesse egoista, a tirarcene fuori. Ma una volta che uno è divenuto prezioso per noi, noi a nostra volta dovremmo diventarlo ancora di più per lui: non solo per le nostre abilità o abitudini, ma perché avremmo interesse a correre in suo aiuto se dovesse attraversare momenti difficili. Quanto più valore si attribuisce a un altro, tanto più questi ne attribuisce a noi, e così via. Tale processo a catena è ciò che chiamiamo amicizia. Se chiedete a degli amici perché sono amici, la probabile risposta sarà: «Ci piacciono le stesse cose e sappiamo che ci saremo sempre l'uno per l'altro».

L'amicizia, al pari di altre forme di altruismo, è esposta alle truffe, come ci ricorda il proverbio per cui «l'amico si vede nel momento del bisogno». I falsi amici carpiscono i benefici del sodalizio con una persona preziosa e simulano manifestazioni d'affetto nello sforzo di divenire a loro volta preziosi. Ma quando qualcosa non va, li si perde di vista. C'è una risposta emotiva che sembra concepita appositamente per scartare i falsi amici. Quando ci troviamo nel massimo bisogno, una mano tesa ci colpisce profondamente. Siamo commossi, non dimentichiamo più la generosità e ci sentiamo in dovere di dichiarare all'amico che ricorderemo per sempre il suo gesto. Gli amici si vedono nel momento del bisogno perché lo scopo dell'amicizia, in termini evoluzionistici, è di salvarci in quei momenti difficili in cui nessun altro si prenderebbe la briga di farlo.

Tooby e Cosmides ipotizzano inoltre che la struttura delle emo­zioni dell'amicizia può spiegare l'alienazione e la solitudine che tanti avvertono nella società odierna. I baratti espliciti e la reciprocità alterna sono le forme di altruismo in cui ricadiamo quando manca l'amicizia e la fiducia è scarsa. Ma nelle moderne economie di mercato scambiamo favori con estranei a un ritmo senza precedenti, e questo può creare la sensazione di non avere rapporti profondi con i nostri compagni e di rischiare di trovarci abbandonati nei momenti difficili. E, per ironia, l'ambiente confortevole che ci rende più sicuri sul piano fisico può renderci meno sicuri su quello emotivo, perché riduce al minimo le crisi che ci dicono chi sono i nostri veri amici.

Alleati e nemici

Nessun resoconto dei rapporti umani potrebbe essere completo se non parlasse della guerra. La guerra non è universale, ma i membri di tutte le culture sentono di essere membri di un gruppo (una banda, una tribù, un clan o una nazione) e provano animosità verso gli altri gruppi. E il conflitto armato in sé è un aspetto fondamentale della vita delle tribù di cacciatori-raccoglitori. Molti intellettuali credono che gli atti bellici tra i primitivi siano rari, moderati e ritualizzati, o per lo meno che fossero così finché i nobili selvaggi non sono stati contaminati dal contatto con gli occidentali. Ma si tratta di un'insensatezza romantica. La guerra è sempre stata un inferno.

I villaggi yanomamö non fanno che assaltarsi a vicenda. Il settanta per cento degli adulti oltre i quarant'anni ha perso un familiare in uno scontro violento. Il trenta per cento degli uomini viene ucciso da altri uomini. Il quarantaquattro per cento degli uomini ha ucciso almeno una persona. Gli yanomamo si autodefiniscono il «popolo feroce», ma in altre tribù primitive le percentuali sono analoghe. L'archeologo Lawrence Keeley ha documentato che gli aborigeni della Nuova Guinea e dell'Australia, gli indigeni delle isole del Pacifico e gli indiani d'America sono stati devastati dalle guerre, soprattutto nei secoli precedenti alla Pax Britannica, che mise fine in gran parte del mondo a quella che per gli amministratori coloniali era una vera e propria seccatura. Nella guerra primitiva la mobilitazione era più totale, le battaglie più frequenti, le vittime più numerose, i prigionieri più scarsi e le armi più distruttive. La guerra risponde, a dir poco, a una forte pressione della selezione, e poiché sembra sia stata un elemento ricorrente nella nostra storia evoluzionistica, deve aver contribuito a plasmare la psiche umana.

Perché qualcuno è così stupido da dare inizio a una guerra? i popoli tribali possono combattere per qualsiasi cosa abbia un valore, e le cause delle guerre tribali sono difficili da sceverare quanto quelle della Prima guerra mondiale. Ma c'è un movente che compare ripetutamente e che appare sorprendente a occhi occidentali: nelle società di cacciatori-raccoglitori gli uomini vanno in guerra per conquistare o tenersi le donne. Non che questo sia necessariamente lo scopo cosciente dei guerrieri (comunque spesso lo è), ma è la remunerazione ultima che ha assecondato l'evoluzione della propensione a combattere. L'accesso alle donne è il fattore limitante del successo riproduttivo maschile. Avere due mogli può raddoppiare il numero di figli di un uomo, averne tre può triplicarlo e così via. Per un uomo che non stia per morire, nessun'altra risorsa ha un impatto paragonabile sulla fitness evoluzionistica. Le donne sono il bottino più comune nelle guerre tribali. Gli incursori uccidono gli uomini, rapiscono le donne giovani, le stuprano in gruppo e se le distribuiscono come mogli. Chagnon ha scoperto che gli uomini yanomamò che avevano ucciso un nemico avevano tre volte più mogli e tre volte più figli di quelli che non ne avevano mai ucciso uno. La maggior parte dei giovani che avevano ucciso erano sposati; la maggior parte di quelli che non lo avevano mai fatto non lo era. Tale differenza non è una conseguenza fortuita di altre differenze tra uccisori e non uccisori, per esempio di taglia, forza o numero di parenti. Coloro che avevano ucciso erano tenuti in alta considerazione nei villaggi yanomamö, attraevano ed era più facile che venissero concesse loro più mogli.

A volte gli yanomamö organizzano incursioni appositamente per rapire le donne. Più spesso le organizzano per vendicare un'uccisione o un rapimento del passato, ma anche in questi casi non manca mai il tentativo di rapire qualche donna. Le faide, in cui i parenti di un ucciso lo vendicano uccidendo a loro volta l'assassino o suoi parenti, sono ovunque il più forte incentivo al perpetuarsi della violenza; il movente che le anima, come si è visto nel capitolo VI, ha un'ovvia funzione deterrente. Le faide possono protrarsi per decenni o anche di più, perché ciascuna delle parti tiene il conto delle vittime in modo diverso e quindi in ogni momento ciascuna ricorda torti che devono essere ripagati. (Pensate a che sentimenti avreste verso un popolo vicino che vi avesse massacrato il marito, i fratelli e i figli o stuprato e rapito la moglie, le figlie e le sorelle.) Ma chi è coinvolto in una faida non si ferma all'occhio per occhio e dente per dente; se vede la possibilità di risolvere la questione una volta per tutte massacrando i suoi nemici, è facile che lo faccia, e le donne in questo caso sono un incentivo extra. Il desiderio di donne non contribuisce solo ad alimentare le faide, ma anche a farle scoppiare. Il primo omi­cidio avviene di solito a causa di una donna: un uomo seduce o rapisce la moglie di un altro, o si rimangia un accordo per lo scambio di una figlia.

I popoli moderni faticano a credere che le tribù primitive facciano la guerra per le donne. Un antropologo ha scritto a Chagnon: «Donne? Combattere per le donne? Oro e diamanti posso capirlo, ma le donne? Mai». Dal punto di vista biologico, è chiaro, una reazione così non sta in piedi. Altri antropologi hanno ipotizzato che gli yanomamö soffrissero di un deficit proteico e combattessero per la selvaggina. Ma il loro fabbisogno proteico, quando è stato misurato, si è rivelato più che soddisfatto. Da un capo all'altro del mondo i popoli cacciatori-raccoglitori meglio nutriti sono quelli più guerrafondai. Quando Chagnon ha citato ai suoi informatori yanomamö l'ipotesi della carenza di carne, essi hanno riso increduli e hanno risposto: «Anche se la carne ci piace, le donne ci piacciono molto di più». E in questo, sottolinea Chagnon, non sono diversi da noi: «Provate, un sabato sera, a entrare in un qualche bar malfamato dove le risse sono frequenti. Per che cosa scoppiano di solito? Per la quantità di carne nell'hamburger? O passate in rassegna i testi di una decina di canzoni country. Ce n'è qualcuna che dice: "Tieni la tua mucca chiusa a chiave"?».

Le analogie sono più profonde. La guerra tra i popoli occidentali è diversa da quella primitiva sotto molti aspetti, ma è simile sotto almeno un punto di vista: gli invasori stuprano o rapiscono le donne. A codificarlo è stata la Bibbia:

Marciarono dunque contro Madian come il Signore aveva ordinato a Mosè, e uccisero tutti i maschi ... Gli Israeliti fecero prigioniere le donne di Madian e i loro fanciulli e depredarono tutto il loro bestiame, tutti i loro greggi e ogni loro bene ... Mosè disse loro: «Avete lasciato in vita tutte le femmine?

Ora uccidete ogni maschio tra i fanciulli e uccidete ogni donna che si è unita con un uomo; ma tutte le fanciulle che non si sono unite con uomini, conservatele in vita per voi. (Numeri 31)

Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le offrirai prima la pace

Ma se non vuol far pace con te e vorrà la guerra, allora l'assedierai. Quando il Signore tuo Dio l'avrà data nelle tue mani, ne colpirai a fil di spada tutti i maschi; ma le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà nella città, tutto il suo bottino, li prenderai come tua preda. (Deuteronomio 20)

Se andrai in guerra contro i tuoi nemici e il Signore tuo Dio te li avrà messi nelle mani e tu avrai fatto prigionieri, se vedrai tra i prigionieri una donna bella d'aspetto e ti sentirai legato a lei tanto da volerla prendere in moglie, te la condurrai a casa. Essa si raderà il capo, si taglierà le unghie, si leverà la veste che portava quando fu presa, dimorerà in casa tua e piangerà suo padre e sua madre per un mese intero; dopo, potrai accostarti a lei e comportarti da marito verso di lei e sarà tua moglie. (Deuteronomio 21)

Secondo l'Iliade, la guerra di Troia iniziò con il rapimento di Elena. Durante la prima crociata i soldati cristiani, attraversando l'Europa verso Costantinopoli, si diedero a stupri. Enrico V. nell'omonimo dramma di Shakespeare, durante la Guerra dei cent'anni ammonisce gli abitanti di un villaggio francese che, rifiutando di arrendersi, sarà colpa loro «se le vostre vergini dovranno soggiacere al furore dello stupro violento»:

Altrimenti - eh -. statevi accorti non abbiate da vedere tra un attimo i nostri soldati, ebbri di strage, slacciar con mani sporche di sangue le trecce delle vostre figliole, sordi alle loro grida e ai loro strilli; e strappare le bianche barbe dei padri vostri, e sfracellare contro i muri le loro teste canute; e infilar sulle picche i vostri figlioletti ignudi mentre le madri, impazzite, feriranno le nubi con un tumulto d'ululi, come già un tempo le madri della Giudea contro gli aguzzini di Erode pazzi di sangue.

La scrittrice femminista Susan Brownmiller ha documentato che lo stupro è stato praticato sistematicamente dagli inglesi nel Nord della Scozia, dai tedeschi durante l'invasione del Belgio nella Prima guerra mondiale e in Europa orientale durante la Seconda, dai giapponesi in Cina, dai pakistani in Bangladesh, dai cosacchi durante i pogrom, dai turchi nella persecuzione degli armeni, dal Ku Klux Klan nel Sud degli Stati Uniti e, in misura minore, dai soldati russi in marcia verso Berlino e da quelli statunitensi in Vietnam.125 Di recente si sono aggiunti alla lista i serbi in Bosnia e gli hutu in Ruanda. La prostituzione, che durante una guerra è spesso difficile distinguere dallo stupro, è ovunque una gratifica dei soldati. I capi possono a volte servirsi dello stupro come tattica terroristica per conseguire altri scopi, ed è questo evidentemente il caso di Enrico V, ma la tattica è efficace proprio perché i soldati non vedono l'ora di metterla in pratica, come Enrico si dà da fare per ricordare ai francesi. Di fatto un tale comportamento si ritorce spesso contro gli aggressori, perché costituisce per i difensori uno straordinario incentivo a continuare la lotta, e probabilmente è proprio per questo, più che per compassione delle donne nemiche, che gli eserciti moderni lo hanno messo fuorilegge. Anche quando lo stupro non è un aspetto importante del conflitto armato, noi, come gli yanomamò, investiamo comunque i condottieri di un enorme prestigio, e ormai conosciamo gli effetti del prestigio sull'attrattiva sessuale di un uomo e, fino a epoca recente, sul suo successo riproduttivo.

La guerra, ovvero l'aggressione da parte di una coalizione di individui, è rara nel regno animale. Sembra ipotizzabile che il secondo, il terzo e il quarto elefante marino in ordine di forza si coalizzino per uccidere il primo e dividersi il suo harem, ma questo non accade mai. A parte gli insetti sociali, il cui peculiare sistema genetico li rende un caso a sé, solo gli esseri umani, gli scimpanzé, i delfini e forse gli scimpanzé nani si riuniscono in gruppi di quattro o più esemplari per attaccare altri maschi. Queste specie sono tra quelle con il cervello più grande, il che fa pensare che forse la guerra richiede una strumentazione mentale sofisticata. La logica adattiva dell'aggressione di gruppo e i meccanismi cognitivi necessari a sostenerla sono stati decifrati da Tooby e Cosmides. (Il che non vuol dire, naturalmente, che a loro giudizio la guerra sia inevitabile o «naturale» nel senso di «buona».)

Spesso le persone sono chiamate alle armi d'autorità, ma a volte si arruolano con entusiasmo. Lo sciovinismo si può evocare con allarmante facilità, anche in assenza di una risorsa scarsa per cui battersi. In numerosi esperimenti condotti da Henri Tajfel e da altri psicologi sociali, i partecipanti sono stati suddivisi in due gruppi, in realtà a caso ma apparentemente sulla base di qualche criterio di poco conto, come il fatto di sottostimare o sovrastimare il numero di puntini su uno schermo o di preferire i dipinti di Klee o di Kandinsky. I membri di ciascuno dei due gruppi provavano immediatamente avversione e disistima verso quelli dell'altro, e facevano in modo da evitare che ricevessero ricompense anche se questo comportava un costo per il proprio gruppo. Questo etnocentrismo istantaneo può essere evocato anche se lo sperimentatore lascia perdere la farsa dei puntini o dei dipinti e suddivide i soggetti in due gruppi tirando una moneta davanti ai loro occhi! Le conseguenze comportamentali non sono affatto secondarie. In un classico esperimento il sociopsicologo Muzafer Sherif ha selezionato con attenzione un gruppo di ragazzi statunitensi di classe media ben integrati per un campo estivo, e li ha suddivisi a caso in due gruppi che hanno gareggiato in vari sport e scherzi. Nel giro di qualche giorno i due gruppi hanno preso a trattarsi brutalmente e ad assalirsi l'un l'altro con bastoni, mazze da baseball e calzini imbottiti di sassi, costringendo gli sperimentatori a intervenire per evitare che si facessero male.

L'enigma della guerra è perché mai delle persone partecipino volontariamente a un'attività che ha ottime probabilità di ucciderli. Come può essersi evoluto il desiderio di giocare alla roulette russa? Tooby e Cosmides lo spiegano con il fatto che la selezione naturale favorisce i tratti che accrescono in media l'adattamento. Ogni gene che contribuisce a un dato tratto è racchiuso in numerosi individui di molte generazioni, quindi, se uno di costoro muore senza figli, il successo di tanti altri individui dotati dello stesso gene può com­pensare la perdita. Si immagini una sfida alla roulette russa in cui se non si resta uccisi si ha un figlio in più. Un gene che induca a unirsi al gioco può essere favorito dalla selezione, perché cinque volte su sei lascerebbe una copia in più nel pool genico e una volta su sei non ne lascerebbe nessuna. In media questo dà 0,83 copie in più che se si restasse fuori dal gioco. Aggregarsi a una coalizione di altri cinque uomini che è certa di catturare cinque donne ma anche di subire una perdita è, in effetti, la stessa scelta. L'idea chiave è che la coalizione, agendo unita, può guadagnare un beneficio che i suoi membri singolarmente non possono ottenere, e che il bottino viene distribuito sulla base dei rischi a cui ci si è esposti. (Ci sono diverse complicazioni, che però non cambiano la sostanza del discorso.)

Di fatto, se il bottino è sicuro e viene diviso in modo equo, l'entità del pericolo non ha importanza. Supponiamo che una coalizione conti undici membri e possa tendere un agguato a una coalizione nemica di cinque uomini e prendere le rispettive donne. Se è probabile che un membro della prima coalizione venga ucciso, si hanno dieci probabilità su undici di sopravvivere, il che significa che si ha una probabilità su due (cinque donne per dieci uomini) di guadagnare una moglie; il guadagno previsto è quindi di 0,45 mogli (come media di numerose situazioni in cui si hanno questi esiti). Se nell'imboscata rischiano di restare uccisi due membri, la probabilità di sopravvivere è minore (nove su undici), ma chi sopravvive ha una probabilità maggiore di ottenere una moglie, dato che gli alleati morti non partecipano alla spartizione. Il guadagno medio (9/11 x 5/11) è lo stesso, cioè 0,45 mogli. Persino se è probabile che sei membri restino uccisi, cosa che riduce le probabilità di sopravvivenza a meno della metà (5 su 11), il bottino viene diviso tra meno candidati (cinque donne per cinque vincitori), quindi chi sopravvive ha la certezza di avere una moglie e il guadagno che si può aspettare è, ancora una volta, di 0,45 mogli.

I calcoli di Tooby e Cosmides presuppongono che i figli di un uomo possano cavarsela senza grossi problemi anche se egli muore, e quindi che la perdita di fitness con la morte sia zero e non negativa. Questo ovviamente non è vero, ma gli studiosi sottolineano che se il gruppo è abbastanza prospero le probabilità di sopravvivenza degli orfani di padre possono non diminuire troppo e agli uomini può comunque convenire darsi a incursioni. Secondo tale previsione gli uomini dovrebbero essere più propensi a combattere quando il gruppo ha buone disponibilità di cibo piuttosto che quando rischia la fame, in contrasto con l'ipotesi del deficit proteico.129 I dati avvalorano questa previsione. Un'altra implicazione è che le femmine non dovrebbero mai avere interesse a iniziare una guerra (anche se disponessero di armi o alleati che compensassero le loro minori dimensioni corporee). Il motivo per cui le femmine non hanno mai sviluppato il desiderio di aggregarsi in bande e compiere razzie nei villaggi vicini a caccia di mariti è che il successo riproduttivo di una donna è di rado limitato dal numero di maschi disponibili, quindi mettere a rischio la vita per avere dei compagni in più è per lei una pura e semplice perdita di fitness prevedibile. (Le donne cacciatriciraccoglitrici, tuttavia, incoraggiano gli uomini a combattere in difesa del gruppo e a vendicare i familiari uccisi.) La teoria spiega anche perché nella guerra moderna la maggior parte delle persone siano contrarie a mandare in combattimento le donne, e provino una forte indignazione morale quando le vittime appartengono al sesso femminile, anche se non c'è nessuna ragione etica per cui la loro vita debba essere più preziosa di quella dell'uomo. E difficile contrastare l'idea che la guerra sia un gioco che avvantaggia gli uomini (come in effetti è stato per gran parte della nostra storia evoluzionistica) e che quindi il rischio spetti a loro.

La teoria prevede anche che gli uomini debbano essere pronti a combattere insieme solo se credono nella vittoria e se nessuno sa in anticipo chi rimarrà ferito o ucciso. Se è probabile una sconfitta, è inutile continuare a combattere. E se si corrono rischi maggiori di quelli che a ognuno spettano (per esempio, se i compagni di reparto ci espongono a un pericolo nel tentativo di salvarsi la pelle), proseguire il combattimento è anche in questo caso insensato. Questi due principi plasmano la psicologia della guerra.

Tra i cacciatori-raccoglitori le bande di guerrieri sono di solito fazioni della stessa popolazione e possiedono lo stesso tipo di armi, quindi nel nostro passato evoluzionistico a predire la vittoria era la pura e semplice consistenza numerica. La parte che contava più combattenti era invincibile e le probabilità di vittoria potevano essere stimate in base al numero di uomini di ognuno dei fronti. Proprio per questo motivo gli yanomamö sono ossessionati dalle dimensioni dei villaggi e spesso stabiliscono alleanze o recedono da secessioni, sapendo che in guerra i villaggi più piccoli sono inermi. Anche nelle società moderne avere la massa dalla propria parte è incoraggiante e averla contro è terrorizzante. Radunare la folla è una tattica comune per eccitare sentimenti patriottici e una dimostrazione di massa può suscitare il panico anche in un governante militarmente protetto. Un principio strategico fondamentale sul campo di battaglia è quello di accerchiare l'unità nemica in modo da far sì che la sconfitta appaia inevitabile, gettare il nemico nel panico e metterlo in rotta.

Altrettanto importante è l'equa distribuzione del rischio. In guerra si pone come non mai il problema dell'altruismo. Ognuno è incentivato a imbrogliare, sottraendosi ai rischi ed esponendo gli altri a un maggior pericolo. Come la cooperazione benevola non può evolversi se chi dispensa il favore non smaschera e punisce gli imbroglioni, così la cooperazione aggressiva non può evolversi se i combattenti non scoprono e puniscono i codardi e gli imboscati. Il coraggio e la disciplina sono l'ossessione dei combattenti ed esercitano la loro influenza a tutti i livelli, da quello del soldato, che preferisce avere con sé in trincea dei compagni piuttosto che altri, a quello della struttura di comando, che obbliga i soldati a dividersi equamente i rischi, ricompensa il coraggio e punisce la diserzione. La guerra è rara nel regno animale perché gli animali, al pari degli esseri umani, tendono a essere codardi se non possono imporre un patto a più contraenti per dividere i rischi. E, a differenza dei nostri antenati umani, essi non possedevano la strumentazione cognitiva da cui potessero facilmente evolversi meccanismi d'imposizione.

Ecco un'altra peculiarità della logica e della psicologia della guerra. Un uomo è disposto a restare in una coalizione finché non sa d'essere sul punto di morire. Può sapere quante probabilità ha che ciò accada, ma non se la morte si sta avvicinando proprio a lui. A un certo punto, tuttavia, può vederla venire. Può scorgere un arciere che l'ha preso di mira, o accorgersi di un agguato imminente, o rendersi conto che è stato mandato in una missione suicida. A questo punto tutto cambia e la sola mossa razionale è disertare. Naturalmente, se l'incertezza viene meno solo pochi secondi prima della morte è troppo tardi. Quanto più in anticipo un combattente riesce a prevedere che sta per diventare un milite ignoto, tanto più è facile che diserti e che la coalizione si dissolva. In una coalizione di animali che attaccano un'altra coalizione o un individuo, un attaccante gode di qualche preavviso se sta per essere fatto oggetto di un contrattacco, e può fuggire prima. Per questo una coalizione di animali sarebbe particolarmente suscettibile di dissolversi. Ma gli esseri umani hanno inventato armi, da lance e frecce a proiettili e bombe, che fanno sì che il destino sia ignoto fino all'ultimo istante. Dietro questo velo d'ignoranza, gli uomini possono essere motivati a combattere fino all'ultimo.

Decenni prima che Tooby e Cosmides spiegassero nei dettagli questa logica, lo psicologo Anatol Rapoport la illustrò con un paradosso tratto dalla Seconda guerra mondiale. (Egli riteneva l'episodio autentico, ma non ebbe la possibilità di verificarlo.) In una base di bombardieri nel Pacifico un aviatore aveva solo il venticinque per cento di probabilità di sopravvivere alla sua quota di missioni. Qualcuno calcolò che se gli aviatori avessero portato il doppio delle bombe, una missione si sarebbe potuta realizzare con la metà dei voli. Ma il solo modo per accrescere il carico utile era di ridurre il carburante, il che significava che gli aeroplani sarebbero dovuti partire per missioni senza ritorno. Se gli aviatori fossero stati disponibili a tirare a sorte e accettare una probabilità del cinquanta per cento di volare verso una morte certa, anziché restare con il loro settantacinque per cento di probabilità di volare verso una morte imprevedibile, avrebbero raddoppiato le loro speranze di sopravvivenza: solo metà di loro sarebbe morta anziché i tre quarti. Inutile a dirsi, il piano non fu mai attuato. Pochi di noi accetterebbero un offerta del genere, sebbene sia del tutto equa e suscettibile di salvare molte vite, inclusa forse la nostra. Il paradosso è una vivida dimostrazione del fatto che la nostra mente è predisposta per accettare il rischio di morte in una coalizione, ma solo se ignoriamo quando essa giungerà.

Umanità

A questo punto ci resta solo da prendere il veleno e farla finita? C'è chi crede che la psicologia evoluzionistica sostenga di avere scoperto che la natura umana è egoista e malvagia; ma è adulare i ricercatori e chiunque proclami di avere scoperto il contrario. Non c'è alcun bisogno degli scienziati per valutare se gli esseri umani sono inclini alla furfanteria. Alla domanda rispondono già i libri di storia, i giornali, le testimonianze etnografiche e le rubriche dei settimanali che prodigano consigli. Eppure si continua a parlarne come di una questione aperta, quasi che un giorno la scienza potesse scoprire che è stato tutto un brutto sogno e ci si potesse svegliare accorgendosi che è nella natura umana amarsi l'un l'altro. L'obiettivo della psicologia evoluzionistica non è di concentrarsi sulla natura umana, compito che è meglio lasciare ad altri. È di offrire quel genere soddisfacente di visione che solo la scienza può offrire: collegare ciò che sappiamo sulla natura umana con il resto delle nostre conoscenze su come funziona il mondo, e spiegare il maggior numero possibile di fatti con il minor numero di presupposti. E già possibile mostrare come gran parte della nostra psicologia sociale, ben documentata in laboratorio e sul campo, discenda da qualche presupposto relativo a selezione parentale, investimento genitoriale, altruismo reciproco e teoria computazionale della mente.

La natura umana ci condanna dunque a un incubo di sfruttamento da parte di inesorabili massimizzatori di fitness? Ancora una voilta, è stupido rivolgersi alla scienza per cercare la risposta. Tutti sanno che le persone sono capaci di immensa bontà e sacrificio. La mente ha molte componenti e in essa trovano posto non solo moventi malvagi, ma anche amore, amicizia, cooperazione, senso della giustizia e capacità di prevedere le conseguenze delle nostre azioni. Le diverse parti della mente combattono per spingere o rilasciare il pedale della frizione del comportamento, quindi i cattivi pensieri non sempre portano a cattive azioni. Jimmy Carter, in una famosa intervista a «Playboy», dichiarò: «Ho guardato innumerevoli donne con desiderio. Nel mio cuore ho commesso più volte adulterio». Ma l'indiscreta stampa statunitense non è riuscita a provare che ne abbia commesso uno nella realtà.

E, su una scena più ampia, la storia ha visto scomparire per sempre abiezioni terribili, a volte solo dopo anni di lotte sanguinose, altre volte come d'incanto. La schiavitù, i despoti degli harem, le conquiste coloniali, le faide, la donna come proprietà, il razzismo e l'antisemitismo istituzionalizzati, il lavoro minorile, l'apartheid, il fascismo, lo stalinismo, il leninismo e la guerra sono scomparsi da regioni del mondo che ne erano state funestate per decenni, secoli o millenni. I tassi di omicidio nelle più degradate giungle urbane americane sono venti volte inferiori a quelli di molte società di cacciatori-raccoglitori. I britannici moderni corrono venti volte meno il rischio di venire uccisi dei loro antenati medievali.

Se il cervello non è cambiato nei secoli, come può essere migliorata la condizione umana? Parte della risposta, credo, è che l'alfabetizzazione, il sapere e lo scambio di idee hanno minato alla radice alcune forme di sfruttamento. Non è che le persone dispongano di un pozzo di bontà a cui le esortazioni morali possono attingere. E che l'informazione può essere inquadrata in modi che fanno apparire gli sfruttatori ipocriti o stupidi. Uno dei nostri istinti più bassi, rivendicare autorità col pretesto della beneficenza o della competenza, può essere astutamente ritorto verso gli altri. Quando tutti vedono vivide immagini di sofferenza non è più possibile sostenere che non si sta facendo alcun male. Quando una vittima dà in prima persona un resoconto con le stesse parole che potrebbe usare il carnefice, è più difficile sostenere che le vittime sono esseri di tipo inferiore. Quando si mostra che chi parla ripete le stesse parole del suo nemico, o quelle di un oratore del passato le cui politiche hanno portato alla catastrofe, la sua autorità può sbriciolarsi. Quando si scrivono servizi su vicini pacifici, è più arduo insistere che la guerra è inevitabile. Quando Martin Luther King ha detto «ho un sogno, che un giorno questa nazione si alzi in piedi e metta in pratica il vero senso del suo credo: "riteniamo che queste verità siano autoevidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali"», ha reso impossibile per i segregazionisti professarsi patrioti senza apparire ciarlatani.

E, come ho detto all'inizio, se il conflitto è un universale umano, lo sono anche gli sforzi per ridurlo. La mente umana qualche volta afferra un barlume della cruda verità economica per cui spesso gli avversari possono uscire entrambi vincitori dividendosi il surplus creato dall'aver deposto le armi. Persino tra gli yanomamò alcuni vedono la futilità dei loro costumi e cercano ardentemente un modo per spezzare il ciclo delle vendette. Nel corso della storia sono state inventate tecnologie ingegnose che volgono una parte della mente contro un'altra e tirano fuori incrementi di civiltà da una natura umana non fatta dalla selezione per la bontà: la retorica, le denunce pubbliche, la mediazione, le misure per salvare la faccia, i contratti, i deterrenti, le pari opportunità, i tribunali, l'applicazione delle leggi, la monogamia, i limiti alle diseguaglianze economiche, l'abiura della vendetta e molti altri. Gli utopisti teorici dovrebbero essere umili di fronte a questa saggezza pratica. E probabile che essa continui a dimostrarsi più efficace delle proposte «culturali» per riformare il modo di crescere i figli, il linguaggio e i media, e delle proposte «biologiche» di scandagliare i cervelli e i geni dei criminali alla ricerca di indicatori di aggressività o distribuire pillole antiviolenza nei ghetti urbani.

Tenzin Gyatso, il Dalai Lama del Tibet, è stato identificato a due anni di età come la quattordicesima reincarnazione del Buddha della compassione, Santo signore, Gloria gentile, Eloquente, Compassionevole, Sapiente difensore della fede, Oceano di saggezza. E stato condotto a Lhasa e educato da monaci devoti che lo hanno istruito in filosofia, medicina e metafisica. Nel 1950 è divenuto il leader spirituale e secolare in esilio del popolo tibetano. Pur non avendo un potere concreto, è riconosciuto come uno statista di livello mondiale per la sola forza della sua autorità morale e nel 1989 ha ricevuto il premio Nobel per la pace. Nessun essere umano potrebbe essere più predisposto, per il modo in cui è cresciuto e per il ruolo che gli è stato affidato, ad avere pensieri nobili e puri.

Nel 1993 un giornalista del «New York Times» gli ha chiesto di parlare di sé. Il Dalai Lama ha raccontato che da ragazzo amava le armi giocattolo e specialmente il suo fucile ad aria compressa. Ora che era adulto, si rilassava guardando fotografie di campi di battaglia e aveva appena ordinato una storia illustrata in trenta volumi della Seconda guerra mondiale edita da Time-Life. Come a tutti ovunque, gli piace studiare immagini di dispositivi militari quali carri armati, aeroplani, navi da guerra, sommergibili e soprattutto portaerei. Fa sogni erotici e si sente attratto dalle belle donne, tanto che spesso deve ricordare a se stesso «sono un monaco!». Nulla di tutto ciò gli ha impedito di essere uno dei grandi pacifisti della storia. E, nonostante l'oppressione di cui è vittima il suo popolo, rimane un ottimista e prevede che il XXI secolo sarà più pacifico del XX. «Perché?» gli ha chiesto l'intervistatore. «Perché io credo» ha risposto «che nel XX secolo l'umanità abbia imparato qualcosa dalle sue tante, tante esperienze, qualcuna positiva e molte negative. Quanta infelicità, quanta distruzione! Mai sono stati uccisi tanti esseri umani come nelle due guerre mondiali di questo secolo. Ma la natura umana è tale che quando siamo di fronte a una situazione tremendamente critica la nostra mente sa risvegliarsi e trovare un'alternativa. Questa è una facoltà dell'uomo.»