Riflessioni finali sulle letture darwiniane


1.

Nell’introduzione ai cicli di letture dedicate ai Grandi Demistificatori, ho chiarito che il senso di questa impresa, difficile per me non meno che per gli auditori e i lettori, non è certo erudita. Sono convinto che, pur nella loro diversità, il pensiero di Darwin, Marx, Nietzsche e Freud contenga i germi della disciplina che ho definito (coniando un neologismo) panantropologia.

Si tratta naturalmente di integrare le loro opere con gli sviluppi delle scienze umane e sociali più recenti, che hanno fornito dati di cui i Grandi non disponevano. Ma non è forse un caso che tali sviluppi, se invalidano alcuni aspetti del loro pensiero, che si possono ritenere ideologici (il gradualismo darwiniano, il finalismo marxiano, l’avversione nietzschiana per il bisogno del gregge, le pulsioni freudiane), ne confermano altri di assoluto valore: anzi li arricchiscono e danno ad essi un significato autenticamente scientifico.

Alla conclusione delle letture, posto che esse vadano avanti, sarà possibile tornare su questi temi approfonditamente. Per ora, sembra opportuno operare qualche riflessione sul pensiero di Darwin cercando di dare un maggior respiro alle conclusioni cui si è pervenuti, che sono state sacrificate all’esigenza di rispettare l’economia dell’ultimo incontro.

Le conclusioni sono state le seguenti:

Casualità, contingenza, imprevedibilità, complessità, contraddittorietà, mistificazione: sembrano questi gli attributi che la filosofia evoluzionistica contemporanea associa all’uomo, alla sua comparsa e alle sue vicissitudini storiche che si intrecciano, per un verso, con l’ambiente naturale e per un altro, con lo sforzo culturale dell’uomo di trasformarle a suo vantaggio...

Il dramma degli esseri umani è di essere stati dotati dalla natura di un cervello capace di adattarsi all’ambiente, ma anche dotato di potenzialità ridondanti di ogni genere a livello cognitivo e a livello emozionale. L’esistenza di queste ultime potenzialità era del tutto estranea al pensiero di Darwin. Pure esse contengono il “mistero” di una specie capace di grandezze sublimi e di bassezze che eccedono quelle di qualunque altro animale. La ridondanza significa sostanzialmente ricchezza e plasticità funzionale. Il problema è come questa ricchezza e questa plasticità sono state, sono e saranno utilizzate.

In nome del cervello di cui dispone e dell’uso che ne fa, l’umanità può imboccare qualunque via che rientri nell’ambito della libertà (indefinita, ma non infinita) che esso le assegna. Questo, però, significa che essa può esplorare il mondo astratto dei simboli, ma anche incunearsi nel vicolo cieco dei pregiudizi, dell’etnocentrismo, del razzismo, della xenofobia; può ipotizzare un mondo utopistico fondato sull’uguaglianza, ma anche produrre, convalidare e razionalizzare iniquità di ogni genere.

Dal punto di vista emozionale, poi, la ridondanza del cervello comporta una gamma di esperienze indefinitamente più ampia rispetto agli animali (dall’angoscia alla gioia infinita); essa, però, obbliga anche l’essere umano a convivere con un’ansia esistenziale che lo “perseguita” dall’inizio (o quasi) alla fine della vita.

Dobbiamo dare per scontato che se gli uomini accettassero la loro condizione comune di esseri casuali, accidentali, oggettivamente insignificanti, e soggettivamente vulnerabili, precari, finiti e destinati tutti a finire (non solo sul piano individuale ma anche su quello di una specie transeunte), l’impresa del buon uso della libertà, vale a dire l’umanizzazione del mondo, potrebbe riuscire paradossalmente più semplice.

Solo la riflessione sulla storia potrà permetterci di capire perché questo nuovo "grande balzo in avanti" non è finora avvenuto e sembra di là da venire.”

E’ assolutamente sorprendente che l’intuizione affiorata nella mente di un giovane naturalista venticinquenne (Niles Eldredge, attraverso un esame dettagliato dei quaderni di viaggio colloca nel 1834 l’ipotesi della selezione naturale) abbia prodotto uno sconvolgimento culturale di tale portata da produrre non solo una teoria scientifica, ma una visione del mondo totalizzante.

Un esito del genere era di sicuro lontano sia dalla consapevolezza di Darwin venticinquenne che da quella del sofferente patriarca settantenne, che continuava ad elaborare indefessamente dati tratti dal grande libro della Natura.

Darwin non si è quasi mai abbandonato a riflessioni che andassero al di là del piano delle ipotesi scientifiche. Egli aveva un interesse spiccato per la natura e per l’uomo come essere naturale, ma una scarsa vocazione filosofica e una conoscenza sostanzialmente superficiale della storia culturale della specie umana, vale a dire delle vicissitudini intervenute in seguito al “grande balzo” in avanti realizzatosi cinquantamila anni fa.

Il concetto del “grande balzo”, del resto, è maturato alla luce di dati paleoantropologici di cui Darwin non disponeva.

E’ difficile ipotizzare come egli, che ha sempre inserito l’ipotesi della selezione naturale in una cornice (ideologica) gradualista, si sarebbe confrontato con questi dati e con la teoria degli equilibri punteggiati che li ha valorizzati. Non si va lontano dal vero presumendo che avrebbe fatto di tutto per farli rientrare in quella cornice. Non è un caso che, nell’ambito dei neurobiologi evoluzionistici, i più fedeli al darwinismo, come per esempio R. Dawkins, non vogliono sentire parlare né del “grande balzo” né di exaptation, con la conseguenza di rimanere fermi ad un modello di determinismo genetico piuttosto rigido.

L’unica chiara posizione filosofica assunta da Darwin nel corso della sua vita, che egli riteneva peraltro conseguente all’ipotesi della selezione naturale, e dunque scientifica, è da ricondurre alla contestazione decisa e inappellabile del creazionismo.

Nell’ultima versione de L’origine delle specie, c’è un passo molto significativo, che attesta, per un verso, l’apertura di Darwin a ulteriori sviluppi della teoria evoluzionistica, discendenti dalla scoperta di meccanismi evoluzionistici diversi dalla selezione naturale, per quanto complementari ad essa, e, per un altro, il suo credo profondamente avverso al creazionismo:

Si può sicuramente dare un’ampia se pure indefinita estensione ai risultati diretti e indiretti della selezione naturale; ma ora ammetto, [...], che nella prima edizione del mio Origine delle specie forse ho dato eccessiva importanza all’azione della selezione naturale o alla sopravvivenza dei più adatti. Ho mutato la quinta edizione dell’Origine in modo da limitare le mie osservazioni a quei mutamenti di struttura passibili di adattamento, ma sono convinto, in base alle conoscenze raggiunte negli ultimi pochi anni, che di moltissime strutture, che ora ci appaiono inutili, si potrà dimostrare appresso l’utilità e quindi rientreranno nell’ambito della selezione naturale. Nondimeno precedentemente non ho considerato a sufficienza l’esistenza di quelle strutture che, per quanto possiamo giudicare al momento, non sono né benefiche né dannose; credo che questo sia uno dei maggiori errori, tuttora evidenti, nella mia opera.

Mi si deve permettere di dire, come scusa, che avevo in mente due argomenti distinti; il primo che le specie non sono state create separatamente, il secondo che la selezione naturale è stato l’agente principale dei mutamenti, anche se largamente aiutato dagli effetti ereditari delle abitudini e chiaramente dall’azione diretta delle condizioni ambientali. Non sono stato tuttavia capace di annullare l’influenza della mia primitiva opinione, allora quasi universale, che ogni specie è stata creata intenzionalmente e ciò ha portato al tacito assunto che ogni particolare della struttura, tranne i rudimenti, fosse di una determinata, anche se ignota, utilità. Chiunque, con tale assunto in mente, potrebbe naturalmente estendere molto l’azione della selezione naturale sia nel presente che nel passato. Alcuni di coloro che ammettono il principio dell’evoluzione, ma respingono la selezione naturale, sembrano dimenticare, quando criticano il mio libro, che avevo almeno due obiettivi in mente, per cui, se ho sbagliato nell’attribuire alla selezione naturale una eccessiva importanza, che oggi sono ben lunghi dall’ammettere, o nell’aver esagerato il suo potere, che è in se stesso probabile, spero almeno di aver reso un buon servizio nell’aiutare a rovesciare il dogma delle creazioni separate. ” (p. 86-87)

Anche i teorici degli equilibri punteggiati ritengono che la selezione naturale sia l’agente principale dell’evoluzione delle forme viventi. Essi danno solo un rilievo più marcato ai fenomeni di deriva genetica, vale a dire all’isolamento di piccole popolazioni all’interno delle quali le mutazioni casuali si diffondono con estrema facilità, e ai cambiamenti “catastrofici” ambientali, che, alla luce dei dati di cui si dispone, sembrano contrassegnare alcuni periodi critici caratterizzati da estinzioni di massa e dalla nascita successiva e piuttosto rapida (in termini di tempi geologici) di numerose nuove specie.

Il problema è che questi due aspetti – la deriva genetica e la catastrofe ambientale – sembrano estremamente importanti per la comparsa della specie Homo sapiens, con il suo singolare cervello, che contiene, più di ogni altra struttura creata dalla Natura, potenzialità adattive e potenzialità exattative, ridondanti, che in parte sembrano benefiche e in parte dannose.

2.

Non c’è da sorprendersi che ci siano stati numerosi tentativi da parte degli antidarwinisti di identificare nella teoria degli equilibri punteggiati un orientamento critico nei confronti del darwinismo, che dava ad essi ragione. Le potenzialità exattative, in quanto indefinitamente ridondanti e generatrici di manifestazioni funzionali (linguaggio, religione, arte, filosofia, ecc.) che, nel loro complesso sembrano rispondere all’esigenza di capire il senso dell’esistenza (da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo), possono essere agevolmente identificate con un principio spirituale.

La confusione, però, è facile da sciogliere.

Il “grande balzo” in avanti è, infatti, sopravvenuto dopo centomila o cinquantamila anni dalla comparsa della specie Homo sapiens. Questa “latenza” è incompatibile con il creazionismo per due motivi.

Il primo è che occorrerebbe ammettere che Dio abbia creato il cervello umano così come noi lo conosciamo e solo dopo decine di migliaia di anni abbia infuso in esso l’anima. Nella sua imperscrutabile libertà, un essere divino avrebbe potuto agire un comportamento così poco apparentemente ragionevole. Se si accredita questa ipotesi, si viene ad urtare però contro l’impossibilità di definire lo statuto dei nostri predecessori sino al “grande balzo”. Essi apparterrebbero alla specie Homo sapiens perché disponevano di un cervello identico al nostro, ma al tempo stesso, non apparterrebbero ad essa in quanto difettosi sotto il profilo spirituale.

Il secondo motivo è la coesistenza, ormai certa, tra Homo neandertalensis e Homo sapiens per circa trentamila anni. Per riprendere l’ipotesi precedente, l’Homo neandertalensis, in quanto presumibilmente sprovveduto di capacità linguistiche, non avrebbe avuto l’anima. Ma perché mai, Dio avrebbe dovuto sperimentare su di una specie con caratteristiche umane per decidere poi di non infonderle l’anima?

La verità è che le potenzialità exattative non sono potenzialità spirituali, bensì le indefinite capacità funzionali di un organo che, per effetto della neotenia, è cresciuto a dismisura: potenzialità in senso proprio, nel senso che, all’origine non servivano a nulla, non avevano alcun valore adattivo. Solo lentamente l’uomo ha trovato modo di utilizzarle, nel bene e nel male.

Ogni organo biologico ha una riserva funzionale atta a sopperire alle emergenze. A differenza degli altri organi, però, il cervello di riserve, vale a dire di potenzialità ridondanti, ne ha troppe e, quello che è peggio, proprio perché non sono state selezionate, la loro attualizzazione, nella misura in cui è possibile, non è univoca. Se, infatti, in parte sono iperadattive (nel senso che possono realizzarsi trascendendo il fine dell’adattamento, e librandosi nei cieli dell'immaginazione creativa), comportano, anche, molteplici aspetti disadattivi.

In quale misura si può ritenere adattiva la consapevolezza ansiogena di essere destinati a morire, che oggi viene corroborata dalla scienza prodotta dall’uomo, la quale sancisce l’inesorabilità della fine della stessa specie umana (al massimo, in conseguenza del collasso del Sole)?

In quale misura è adattiva una coscienza che tende spontaneamente all’alienazione sul fronte del rapporto con il mondo esterno e alla mistificazione su quello interno? L’alienazione va al di là dell’ingenuo realismo che si può ricondurre alla vivacità delle percezioni. Essa riguarda anche la cultura che, prodotta dall’uomo, viene naturalizzata. Da questo processo discendono l’etnocentrismo, che affligge tutte le culture, e indefiniti pregiudizi inter- e intraculturali.

La mistificazione, poi, comporta un’immagine di sé che è sempre parziale e artefatta, la difficoltà di cogliere introspettivamente le contraddizioni e la tendenza a difendersi rimuovendole o proiettandole.

C’è, insomma, nell’essere umano, più di un aspetto che porta a ritenere insensata non solo la creazione ma qualsivoglia Progetto Intelligente. C’è qualcosa di inquietante, incredibile, patetico e drammatico al tempo stesso. L’essere dotato di Ragione è al tempo stesso spesso irragionevole, pavido, presuntuoso e cieco.

Se si mette da parte l’enorme patrimonio culturale che la specie umana ha prodotto e accumulato, ritenendolo espressivo del buon uso che una minima parte di soggetti hanno fatto della ridondanza, il bilancio riguardante la storia umana non è affatto finora positivo.

Ci si può confortare con il fatto che, nonché neotenica, la nostra specie, come afferma Tattersal, è bambina perché ha percorso un minimo segmento della semiretta che permette ad una nuova forma vivente di stabilizzarsi (e di prepararsi a lasciare la scena). E’ vero però che, utilizzando le sue straordinarie potenzialità, essa ha bruciato le tappe e rischia di cristallizzarsi su di una dimensione di nanismo antropologico, laddove il rattrappimento dell’essere non è compensato che apparentemente dalla potenza e dall’attrezzatura tecnologica di cui dispone.

Degli attributi che affiorano dall’approfondimento della filosofia evoluzionistica (casualità, contingenza, imprevedibilità, complessità, contraddittorietà, mistificazione), a ben vedere, Darwin ha colto solo il primo. Tutti gli altri, però, ne rappresentano una inesorabile conseguenza. Se l’uomo è un glorioso incidente o accidente della storia, e il suo singolare cervello è l’espressione più indiziaria di tale evento imprevedibile, che egli sia contingente, complesso, contraddittorio e tendente alla mistificazione non sorprende.

Né sorprende che egli stenti a prendere coscienza della propria condizione perché la contingenza lo turba, la complessità lo confonde, la contraddittorietà lo umilia e la mistificazione, avvenendo inconsciamente, lo tiene al riparo dalla verità. Ancora meno ci si sorprende se si considera che anche la cultura, ogni cultura, in quanto prodotta da esseri umani, fa lo stesso gioco: se qualcosa rivela, nasconde qualcos’altro. Ciò che rivela è noto a coloro che ad essa partecipano; ciò che nasconde lo si scopre solo quando tramonta, da fuori e da lontano.

Quale sarebbe mai, d'altro canto,la verità alla quale l’essere umano dovrebbe pervenire? Non si tratta certo di una verità metafisica o iniziatica. Basterebbe che egli riconoscesse che il suo cervello, in quanto prodotto dal caso e dotato di singolari potenzialità, non è proprio un docile funzionario dell’Io: ha una sua struttura, le sue leggi, i suoi vincoli, le sue magie e i suoi trabocchetti. Sicché amministrarlo, sul piano individuale e collettivo, sfruttarne le capacità iperadattive, che sono umanizzanti, e limitare i pericoli che esso comporta, è un’impresa esaltante e inquietante al tempo stesso: è l’avventura toccata alla specie umana e a ogni suo singolo rappresentante.

Basterebbe che riconoscesse di essere la "cavia" di uno strano esperimento, che nessuno ha progettato, e che però è in atto.

L’intuizione toccata al giovane Darwin ha aperto, insomma, letteralmente il vaso di Pandora. Essendo i mali fuoriusciti quasi tutti, incrinando definitivamente l’immagine che l’uomo aveva di se stesso come animale superiore a tutti gli altri (lo è di fatto, ma nel bene e nel male), c’è da augurarsi che al fondo del vaso sia rimasta la speranza che la mitologia greca saggiamente vi deponeva, e che essa possa venirne fuori (per merito, ovviamente, non del caso, ma di uomini coraggiosi e aperti alla verità).