Telmo Pievani

La teoria dell’evoluzione

Il Mulino, Bologna 2006

Introduzione alla lettura

Nella ricorrenza dei centocinquanta anni dalla pubblicazione de L’origine delle specie c’è stato un revival della letteratura su Darwin e sulla teoria dell’evoluzione. Non è stato solo un tributo ad un pensiero che ha profondamente modificato la concezione che l’uomo ha di se stesso, ma soprattutto un tentativo di opporre alla marea montante del creazionismo statunitense una serie di argomentazioni che riportano il discorso sul terreno suo proprio, quello scientifico.

Nel contesto culturale italiano, T. Pievani è lo studioso più impegnato a difendere Darwin, ma anche il più convinto che l’ultradarwinismo (alla Dawkins per intendersi) non reca un buon servigio alla causa della teoria dell’evoluzione le cui lacune e i cui limiti vanno riconosciuti senza remora e integrati con l’apporto della teoria degli equilibri punteggiati di S. J. Gould e N. Eldredge.

In questo breve saggio, il cui carattere divulgativo è evidente, egli, per un verso, espone la teoria darwiniana nei suoi aspetti essenziali facendo riferimento al modello della Nuova Sintesi, che ne ha dimostrata la fondatezza scientifica integrandola con l’apporto della genetica, e, per un altro, pone in luce la necessità di rimediare al gradualismo che gli studiosi della Nuova Sintesi hanno mutuato da Darwin, riconoscendo che esso è insostenibile in rapporto ai dati della paleoantropologia. Il rimedio è per l’appunto la teoria degli equilibri punteggiati, che valorizza i cambiamenti climatici contingenti e fa della comparsa della comparsa dell’homo sapiens e della sua persistenza come unico rappresentante della specie homo un fenomeno del tutto singolare: “un glorioso accidente della storia”.

Avendo dedicato a quest’ultimo problema uno dei più bei libri di filosofia scientifica che siano stati pubblicati negli ultimi anni (Homo sapiens e altre catastrofi, Meltemi, Roma 2006), Pievani, data l’esiguità del saggio, non lo approfondisce ulteriormente.

Nell’ottica di una disciplina panantropologica è questo, ovviamente, l’aspetto più interessante, che ho cercato, ne Il mostro di belle speranze, di integrare con gli apporti della neurobiologia, della psicoanalisi, della storia sociale, ecc.

Senza l’innesto della teoria degli equilibri punteggiati e del concetto di exaptation che da essa deriva l’uso dell’evoluzionismo nella cornice della panantropologia riesce estremamente difficile. Ne fanno fede alcuni esiti assolutamente ridicoli cui è pervenuta la cosiddetta psicologia evoluzionistica.

Del saggio di Pievani riporto qui ampi stralci funzionali a dimostrare che la scienza, nella sua evoluzione, non ha nulla del dogmatismo che ad essa imputano i creazionisti per un verso e i postmodernisti per un altro. La scienza evolve senza alcuna paura di denunciare i suoi limiti e le sue lacune, e assumendo questi come problemi da risolvere. In quanto scienza storica, alle cui spalle ci sono lacune paleoantropologiche di ogni genere, non è neppure prevedibile che l’evoluzionismo riuscirà a risolvere tutti i problemi che esso implica. L’impresa rimane comunque una delle più esaltanti e inquietanti cui sia giunta la cultura umana.

Premessa

Una sottile, eppur robusta, ragnatela di connessioni unisce le innumerevoli forme di vita che abitano la Terra. L'insieme di questi legami genera un tessuto riconoscibile, una trama il cui ordine è ispirato da un principio molto semplice: la storia. Ecco allora che un filo ininterrotto di discendenza si snoda attraverso i milioni di ramoscelli che compongono l'albero della vita: molti di essi si sono già interrotti e non torneranno mai più, altri compongono l'attuale biodiversità terrestre. Questa realtà stupefacente è l’evoluzione.

Per la prima volta un grande scenario storico è stato abbracciato e raccontato dalla scienza. La vita è emersa, circa 3,5 miliardi di anni fa, sul terzo pianeta di un sistema solare periferico di una galassia di medie dimensioni che si sta allontanando dal centro di un universo in espansione, originatosi circa dodici miliardi di anni prima. Non sappiamo per ora se vi siano altri universi paralleli a questo né se all'interno del nostro vi siano altri esperimenti di vita in corso. Di certo, le condizioni nelle quali l'evoluzione si è sviluppata sulla Terra non sono affatto eccezionali: elementi chimici pesanti vengono incessantemente prodotti dalle esplosioni stellari; lo spazio è popolato da un numero astronomico di sistemi solari, dotati di un numero ancor più vasto di pianeti, di ogni fattezza e dimensione, orbitanti al proprio interno. Sappiamo poi che nessuna di queste storie sarà mai infinita: l'universo ha avuto un inizio e vedrà una fine; la Terra sarà travolta dall'esplosione del Sole fra alcuni miliardi di anni e già ora, a circa metà del suo cammino nello spazio tempo, ben più del 90% delle specie che la biosfera ha visto nascere e conquistarsi faticosamente un posto sul palcoscenico della vita sono andate perdute per sempre. Le strutture della vita, nel loro alterno e improbabile avvicendarsi, nei loro ingegnosi adattamenti, torneranno a mescolarsi, in guisa di atomi e molecole pesanti, alla materia del cosmo in evoluzione. Specie umana compresa.

Abbiamo però ancora abbastanza tempo per porci domande sul significato di questa storia e su come sia stata possibile. Gli scienziati hanno individuato finora una serie di fattori, di leggi e di «schemi» che possono rendere conto dei fenomeni evolutivi in modo coerente. Questa spiegazione scientifica dei processi di trasformazione degli esseri viventi viene chiamata «teoria dell'evoluzione» ed è stata formulata per la prima volta in modo sistematico dal naturalista inglese Charles Darwin ne L'origine delle specie del 1859. Sono rare le scoperte scientifiche che possono vantare una portata intellettuale tanto ampia. È un'idea potente e affascinante: tutti gli esseri viventi, nessuno escluso, sono legati fra loro da una relazione di parentela, essendosi modificati nel corso del tempo a partire da un antenato comune in virtù di una molteplicità di meccanismi, il più importante dei quali, come vedremo, è la selezione naturale.

La teoria dell'evoluzione è in qualche modo la prima «scienza della storia» e poche intuizioni scientifiche possono esibire oggi un bagaglio egualmente ricco di prove empiriche e di corroborazioni sperimentali. La fecondità della teoria darwiniana è così grande da riunire, a un secolo e mezzo dalla sua enunciazione, competenze disciplinari diversissime: l'evoluzione può essere vista all'opera dai geologi e dai paleontologi che studiano fossili e stratigrafie su larga scala; dagli ecologi che studiano la biodiversità negli ecosistemi; da zoologi, botanici, etologi e naturalisti di ogni estrazione; ma anche dai biologi molecolari che studiano in laboratorio i geni e le componenti microscopiche della vita. Nel primo capitolo scopriremo che il marchio dell'evoluzione in tutte queste dimensioni è «l'unità nella diversità», cioè il fatto che osservando la vita notiamo una matrice comune ma anche una continua produzione di diversità.

La teoria dell'evoluzione rappresenta dunque per le scienze della vita una sorta di cornice di riferimento unitaria, un «collante» molto efficace per riunire in un quadro esplicativo affidabile fenomeni molto diversi fra loro come l'estinzione dei dinosauri e la resistenza ai pesticidi. Nei capitoli secondo e terzo entreremo allora nel cuore della teoria dell'evoluzione, analizzando il «nucleo darwiniano» fondamentale su cui poggia ancora oggi l'intera architettura. Esso consta di tre principi ampiamente osservati e documentati in natura: la nascita continua di variazione, di novità, di singolarità; l'ereditarietà di queste variazioni individuali, cioè il fatto che tendono a trasmettersi di generazione in generazione; l'azione della selezione naturale su queste varietà ereditarie, che attraverso il successo dei portatori di mutazioni vantaggiose fa sì che alcune varianti si diffondano nelle popolazioni più di altre, generando sul lungo periodo l'incessante lavorio di trasformazione delle forme viventi. Sorgenti di variazione, ereditarietà e selezione rappresentano il nocciolo dell'evoluzione. Per la comunità scientifica internazionale non esiste attualmente alcuna spiegazione evoluzionistica che possa prescindere da tale meccanismo demografico, automatico e cumulativo né che sia in grado di dar conto degli stessi fenomeni attraverso modalità alternative: questo, e non altri, è il motivo preciso e pragmatico per cui ancora oggi possiamo legittimamente definire «darwiniana» la teoria dell'evoluzione.

Una volta colto nella sua centralità il nucleo darwiniano della teoria, occorre però notare che Darwin non poteva conoscere nella sua epoca una schiera di fattori oggi ritenuti importanti per comprendere l'evoluzione, qui discussi nei capitoli quarto e quinto. La sua formulazione originaria, che poggiava su una teoria oggi ritenuta scorretta dell'ereditarietà, è stata successivamente integrata, rivista ed estesa al fine di rendere la teoria dell'evoluzione più realistica e comprensiva. Darwin non conosceva le leggi di Mendel, né aveva idea di cosa fossero un gene e un cromosoma. Nel secolo scorso sono nate intere discipline biologiche, come la genetica delle popolazioni. Oggi stiamo indagando nel dettaglio i processi di trasformazione del materiale genetico. Abbiamo capito meglio i differenti meccanismi che producono la separazione di nuove specie nei contesti geografici. Abbiamo classificato molti altri processi su larga scala - come le migrazioni, le estinzioni di massa e i grandi avvicendamenti di specie - che hanno avuto un ruolo decisivo nel plasmare la storia naturale. Per altri frangenti di questa storia non abbiamo ancora una spiegazione soddisfacente e le controversie fra ipotesi contrastanti non hanno ancora trovato una soluzione, segno che l'evoluzione è un campo di studi aperto e in rapida trasformazione, dove molto resta da scoprire e dove non mancano continue sorprese e revisioni.

Arriveremo così nel quinto capitolo alla proposta conclusiva di rappresentare metaforicamente la teoria come un moderno velivolo quadrimotore: per prendere slancio e staccarsi da terra l'evoluzione deve far funzionare bene non solo il motore della variazione, il motore della selezione e il motore della speciazione, ma anche il motore dei processi ecologici su larga scala. Non è necessario che i quattro propulsori funzionino sempre in sincronia e con la stessa frequenza di giri, ma è dal gioco delle loro spinte che derivano la diversità e la complessità delle forme e degli adattamenti che ammiriamo nel mondo naturale, dall'Antartide alla giungla amazzonica, dalle steppe asiatiche alle foreste nordamericane.

La specie umana non fa eccezione al cospetto di questo sontuoso palcoscenico storico e proprio la ricchezza della teoria dell'evoluzione contemporanea, con la sua pluralità di fattori e di livelli, ci permette di comprendere come la creatività impersonale della natura sia stata capace, a un certo punto della sua lunga vicenda e in mezzo a tante altre storie che avrebbero potuto prendere direzioni diverse, di fare emergere un «terzo scimpanzé» africano dotato della facoltà unica di porsi domande scientifiche, filosofiche ed etiche sul proprio destino e sulle proprie origini.

[…]

1. Il marchio dell'evoluzione: l'unità nella diversità

Il segno distintivo dell'evoluzione è l'unità nella diversità. Darwin colse appieno il concetto quando ne L'origine delle specie scrisse che gli esseri viventi esibiscono al contempo i segni di una «unità di discendenza», cioè di una parentela che li accomuna, e i segni di una diversità di storie e di percorsi dovuta alle differenti «condizioni di esistenza» che hanno incontrato. È un'idea semplice che si adatta molto bene anche alla nostra vita quotidiana: ognuno di noi porta con sé le caratteristiche biologiche universali tipiche della nostra specie, eppure ciascun individuo è unico, è portatore di differenze peculiari. In questo gioco dell'unità e della diversità risiede il segreto dell'evoluzione, che cominceremo a indagare partendo dai fatti che conosciamo finora.

La sfida più importante a cui deve far fronte la teoria dell'evoluzione è la straordinaria eterogeneità della sua «base empirica». Un evoluzionista è costretto a maneggiare oggetti di studio diversissimi, dalle sostanze chimiche contenute in una cellula ai cicli di regolazione di un ecosistema, passando per l'intera gamma delle fisiologie animali e vegetali. Sono di pertinenza dell'evoluzione tanto il lavoro certosino di un microbiologo in un asettico laboratorio con aria condizionata, quanto l'estenuante appostamento nella giungla di un primatologo madido di sudore, o gli scavi di un paleontologo in un sito nel deserto sotto il sole cocente. Eppure, in mezzo a questa disparità di contesti e di suggestioni, l'evoluzione esibisce una molteplicità di prove coerenti con un impianto teorico tutto sommato piuttosto lineare, che il suo fondatore definì «il mio lungo ragionamento».

L'albero della vita

Per evoluzione intendiamo il cambiamento (qualunque esso sia, morfologico o comportamentale) degli organismi nel corso delle generazioni. Non è sempre stato così: in epoca predarwiniana «evoluzione» era un concetto associato allo sviluppo individuale nel ciclo di vita e per questo Darwin all'inizio usò il termine molto raramente. La distinzione è della massima importanza, perché lo sviluppo di un singolo organismo nell'arco di una vita (ontogenesi) è un processo molto diverso - di tipo conservatore perché deve ripetersi nel modo più affidabile possibile - dalla trasformazione delle specie lungo migliaia di generazioni (filogenesi).

Apportate queste distinzioni, è chiaro che lo sviluppo individuale e le interazioni fra le componenti abiotiche (cioè non organiche) e quelle biotiche di un ecosistema sono aspetti cruciali per comprendere l'evoluzione. Tuttavia, è bene precisare quale sia l’explanandum esatto, ciò che deve essere spiegato dalla teoria che andiamo a descrivere, ovvero: un cambiamento intergenerazionale all'interno di popolazioni di organismi portatori di variazioni, processo che Darwin chiamò «discendenza con modificazioni». Oggi noi diciamo che vi è evoluzione sempre all'interno di una linea di discendenza di popolazioni, cioè una serie di popolazioni che si succedono l'un l'altra accumulando modificazioni.

L'evoluzione produce, come suo esito più macroscopico, l'albero di discendenza di tutte le specie vissute e viventi sulla Terra. Dovremo dedicare un po' di tempo per capire cosa sia effettivamente una «specie», per ora accontentiamoci di definirla come un insieme di organismi che si assomigliano. Usiamo giustamente metafore «arboree» per descrivere i rapporti fra le specie poiché da un tronco comune le forme di vita si sono generate per divisione delle linee di discendenza ancestrali. Le specie che oggi compongono la biodiversità terrestre - ne abbiamo descritte e catalogate circa due milioni, ma potrebbero anche essere più di dieci milioni - sono quindi il risultato di tutte le ramificazioni ed estinzioni succedutesi nel tempo profondo. La quantità di specie presenti in una famiglia può variare anche drasticamente di epoca in epoca, al punto che alcuni evoluzionisti preferiscono adottare la metafora del «cespuglio» piuttosto che quella dell'albero, ma ciò che conta è il meccanismo di ramificazione a partire da un antenato comune, che genera gruppi dentro altri gruppi in una sorta di «gerarchia inclusiva», come scatole cinesi.

In virtù di questo schema genealogico per «gemmazioni» diciamo che due specie sono strettamente imparentate - per esempio, gli esseri umani e gli scimpanzé - quando condividono un antenato comune vissuto non troppo lontano nel tempo (in questo caso 6-7 milioni di anni fa in Africa), cioè quando hanno un grado di «cuginanza» molto forte. È dunque un errore affermare che noi discendiamo direttamente dagli scimpanzé attuali: piuttosto, siamo loro cugini, giacché condividiamo un antenato comune. L'evoluzione ci mostra che gli esseri viventi sulla Terra, con una gamma di rapporti molto diversi fra loro, sono tutti legati da una relazione di cuginanza. Possiamo allora andare indietro nel tempo lungo i rami dell'albero della vita alla ricerca degli snodi più importanti e scoprire che tutti i mammiferi condividono un antenato comune con i rettili, vissuto 300 milioni di anni fa, che tutti i vertebrati condividono un antenato comune vissuto 500 milioni di anni fa e così via.

Oltre a questa diversità ramificante, l'evoluzione esibisce anche un secondo prodotto da sempre al centro dell'attenzione dei naturalisti: l'adattamento. Gli organismi hanno escogitato le strategie più sorprendenti e ingegnose per sopravvivere e per riprodursi. Le forme dei becchi degli uccelli, gli organi sensoriali, le modalità di locomozione, le strategie di caccia e di fuga dai predatori, le modalità di accoppiamento, il letargo, le mute, i mimetismi più sofisticati, i mezzi di impollinazione, i veleni, i metabolismi specializzati: l'elenco è pressoché infinito. Non solo le relazioni fra gli esseri viventi e gli habitat, ma anche quelle fra le specie all'interno di un habitat sono determinate dagli adattamenti. Nella trattazione evoluzionistica, quindi, le strutture e i comportamenti devono sempre avere due classi di spiegazioni funzionali: una di tipo fisiologico (in che modo gli occhi permettono la vista?) e una di tipo adattativo (perché si sono evoluti gli occhi?). L'adattamento però presenta molti problemi teorici, a cominciare dal fatto che usiamo lo stesso termine per indicare sia l'esito del processo (chiamiamo spesso «adattamenti» tutti i caratteri, o «tratti», di un organismo, cioè l'insieme delle sue strutture e dei suoi comportamenti, per esempio il colore del mantello in un animale o una strategia per raggiungere meglio la luce in una pianta) sia il processo in sé. Nonostante le difficoltà, gli adattamenti rimangono la classe fondamentale di fenomeni che la teoria dell'evoluzione deve saper spiegare.

Possiamo quindi notare che l'explanandum della teoria dell'evoluzione si compone di due insiemi di fenomeni ben definiti: la diversità delle forme di vita e l'insieme dei tratti adattativi presenti negli organismi. Ora, per giungere a una buona formulazione dei meccanismi che producono queste caratteristiche dobbiamo partire da quanto ci suggerisce l'evidenza empirica. Il fatto dell'evoluzione è provato da una quantità tale di osservazioni da doverle classificare attraverso una tassonomia generale per orientarci. Possiamo distinguere, stando alle conoscenze attuali, quattro categorie di evidenze empiriche:

1. le prove storiche, cioè i fossili e gli altri indizi paleontologici;

2. le comparazioni anatomiche e morfologiche fra specie viventi imparentate o fra specie viventi e specie estinte;

3. le prove molecolari che attestano i differenti gradi di somiglianza genetica fra tutti gli esseri viventi;

4. le risultanze di laboratorio, dove possiamo osservare in tempo reale l'evoluzione nelle dinamiche parassita/ospite o predatore/preda o nelle «guerre agli armamenti» fra batteri e antibiotici.

Cominciamo allora dall'imponente sfondo storico in cui si inserisce l'evoluzione (vedi box 1).

Il mondo non è sempre stato lo stesso

L'evoluzione degli esseri viventi affonda le proprie radici nella storia fisica del nostro pianeta, stabilizzatosi e raffreddatosi circa 4,5 miliardi di anni fa. Da allora il tempo di rotazione sull'asse terrestre è diminuito progressivamente a causa del rallentamento indotto dalle maree, mentre il valore della gravità è rimasto pressoché invariato. La struttura attuale della superficie della Terra, come avevano capito i fondatori della moderna geologia James Hutton e Charles Lyell fra Settecento e Ottocento, è il prodotto di processi fisici che hanno pazientemente lavorato per lunghissimi periodi di tempo e che continuano ancora oggi la loro azione. Nuove rocce si formano attraverso le eruzioni vulcaniche, i sollevamenti dovuti a terremoti e il deposito di sedimenti nelle acque. Una volta emerse, gli agenti atmosferici - il vento, l'acqua e il ghiaccio - le erodono di nuovo, lentamente. La superficie del pianeta è in continuo movimento, le placche continentali si urtano e si spingono, liberando in modo imprevedibile grandi quantità di energia nei terremoti o richiamando dalle profondità della crosta terrestre materiale fuso che erutta lungo le catene vulcaniche.

I ritmi di questi processi fisici di incessante trasformazione ed evoluzione del pianeta fecero capire ai geologi già prima di Darwin che la Terra, per giungere alla conformazione attuale, avrebbe dovuto avere almeno alcune centinaia di milioni di anni. Per la prima volta la scienza scopriva la necessità del «tempo profondo». Il principio metodologico dell'«uniformitarismo» di Lyell, ovvero che le cause e i ritmi dei processi geologici fossero stati sempre gli stessi dall'inizio dei tempi fino a oggi, imponeva di pensare all'età della Terra in termini di una serie di «eoni» durati circa trecento milioni di anni.

Darwin confidava in una simile antichità della Terra, perché aveva bisogno di una grande quantità di tempo evolutivo per giustificare la lenta diversificazione delle specie. Gli capitò però di morire, nel 1882, con il cruccio di non aver potuto confermare queste datazioni, giacché il più grande fisico inglese dell'epoca, Lord William Thomson Kelvin, aveva dedotto che la Terra, stando al ritmo di raffreddamento della massa del pianeta, non potesse avere più di una manciata di milioni di anni, con buona pace per la teoria dell'evoluzione. La sfida fra la scienza «esatta» dei fisici e la scienza storica di Darwin sembrava ormai vinta dalla prima, quando nell'ultimo scorcio del secolo venne scoperta la radioattività e si capì che il calcolo di Lord Kelvin era sbagliato: la produzione di calore generata dal decadimento radioattivo di elementi instabili come l'uranio all'interno della Terra aveva rallentato il raffreddamento del pianeta, la cui età venne ricalibrata intorno ad alcuni miliardi di anni. Il tempo profondo era diventato profondissimo e si comprese che la diversità della vita attuale galleggiava sopra un oceano di storia sconfinato. Darwin poteva riposare tranquillo nella gloria di Westminster accanto a Isaac Newton.

Proprio la scoperta del decadimento radioattivo permise di escogitare modalità più precise per datare le singole rocce: se il tempo di decadimento di un elemento è noto, la quantità di elementi stabili secondari derivati dalla scissione di elementi instabili più pesanti permette infatti di calcolare con notevole giustezza l'età di formazione di una roccia. Oggi quindi il geologo, con vari metodi, può leggere in una stratigrafia l'età delle rocce, la loro origine, la sequenza degli eventi che le hanno plasmate, il succedersi dei climi e degli ecosistemi che le hanno trasformate. Le rocce sedimentarie, e non quelle formatesi per solidificazione di materiale fuso proveniente dalla crosta terrestre come i graniti e i basalti, hanno inoltre la capacità di conservare al loro interno tracce delle forme viventi con le quali sono entrate in contatto, le quali a loro volta informano sul tipo di ambiente in cui erano presenti le rocce stesse.

Queste tracce si chiamano «fossili» e costituiscono la prima evidenza diretta, in ordine cronologico e di importanza, dello svolgersi della storia naturale sulla Terra. Quando un essere vivente muore si decompone e rapidamente svanisce nell'ambiente senza lasciare tracce. In alcuni casi però le parti dure dell'organismo - soprattutto ossa, denti e cartilagini chitinose - decomponendosi molto lentamente vengono ricoperte da minerali che si solidificano attorno creando un'impronta fedele della loro forma nelle rocce sedimentarie. In altri casi i minerali si infiltrano nella struttura organica dell'osso o del vegetale, fino a sostituirne il materiale originario e a crearne una replica solidificata incastrata nella roccia. In altri casi ancora, molto fortunati, le condizioni ambientali nelle quali gli organismi vengono seppelliti (per scarsità di ossigeno, aridità estrema, presenza di resine o di ambra) sono così particolari da preservare l'impronta fossile anche delle parti molli, offrendo al paleontologo una miniera rarissima di informazioni. Infine, quando proprio la buona sorte è dalla parte degli scienziati, è possibile rinvenire tracce di presenze animali, soprattutto orme, fissatesi su rocce in fase di solidificazione, per esempio sulle ceneri calde appena eruttate da un vulcano.

Gli studiosi dei meccanismi di fossilizzazione sanno bene che questo insieme di circostanze rende per definizione frammentaria la traccia fossile. Gli ambienti umidi della foresta, per esempio, distruggono quasi ogni indizio fossile, mentre i contesti acquatici a basso fondale o le caverne sono ottimi conservatori. E’ normale che si abbiano maggiori informazioni sugli organismi che frequentano il secondo tipo di nicchie ecologiche piuttosto che il primo. Inoltre, dopo la fossilizzazione la roccia può subire ulteriori modificazioni, anche violente, e il reperto fossile viene alterato. È quindi piuttosto difficile ricostruire sequenze fossili complete di una famiglia di organismi nel corso di lunghi periodi di tempo, anche se esistono casi esemplari. Può succedere addirittura - come per il pesce osseo di profondità chiamato celacanto e per altri «fossili viventi» - che l'assenza di documentazione fossile per decine di milioni di anni induca gli scienziati a ritenere l'animale estinto, quando in realtà è soltanto rimasto ben nascosto nel suo ambiente.

«L'imperfezione della documentazione geologica» era già ben nota a Darwin, che così intitola il decimo capitolo de L'origine delle specie. Il naturalista attribuiva alla frammentarietà dei reperti fossili la mancanza di forme di transizione chiare fra tutti gli esseri viventi ed era convinto che il ritmo del cambiamento evolutivo fosse sempre stato uniforme, cioè un lento e graduale accumulo di piccole modificazioni di specie in specie nel corso degli eoni. Noi oggi sappiamo che l'assenza di anelli di congiunzione lineari in tutte le sequenze fossili è solo in parte attribuibile alla lacunosità della documentazione. In molti altri casi è dovuta al fatto che i ritmi con i quali nascono le specie talvolta sono rapidi e rendono difficile rinvenire forme di transizione. Darwin era convinto che l'evoluzione avesse sempre lo stesso ritmo, lento e graduale, mentre oggi sappiamo che la velocità del cambiamento evolutivo può variare. Come vedremo, la storia naturale su larga scala può presentare diversi «pattern», cioè diverse configurazioni di eventi ripetute: talvolta linee di discendenza graduali ben riconoscibili, talvolta lunghi periodi di stabilità apparente, talvolta ancora periodi di rapida diversificazione o di brusca estinzione di molte forme (l'estinzione è la scomparsa di una specie senza discendenti diretti).

Anche se la rapidità di alcune transizioni le rende difficilmente riconoscibili, è bene sottolineare che la fedeltà del dato paleontologico è oggi suffragata da un accumulo di reperti impressionante. Si raccolgono fossili dal Seicento. Al tempo di Darwin i musei europei, soprattutto francesi e inglesi, ne erano pieni e l'idea che le specie fossero rimaste sempre le stesse era già in aperto contrasto con l'evidenza. Un secolo e mezzo dopo la formulazione della teoria dell'evoluzione i fossili di organismi appartenenti a ogni ordine e regno si contano a milioni. Conosciamo fossili provenienti da ogni angolo del globo. In alcuni casi fortunati la documentazione fossile è anche riuscita a «fotografare» la separazione di due specie.

Sono state scoperte migliaia di forme di transizione che permettono di ricostruire nel dettaglio, insieme ad altri tipi di prove convergenti, la discendenza degli esseri viventi a partire dai precursori unicellulari. I paleontologi hanno raffinato le loro analisi e sono in grado di individuare i caratteri di transizione nonché i mosaici, ogni volta diversi, di caratteri arcaici e recenti in un animale che sta nel mezzo fra due gruppi conosciuti. Le affascinanti scoperte recenti sui rettili volanti, un tempo rappresentati solo da Archaeopterix, hanno permesso di ricostruire la transizione giurassica fra dinosauri e uccelli, e così di scoprire che molti dinosauri portavano piume e penne colorate. Allo stesso modo, stiamo facendo luce sull'evoluzione dei vertebrati terrestri e sulle diversificazioni dei mammiferi del Terziario, che da poche forme portano agli elefanti, ai lamantini e alle balene. E’ come se ogni volta, uno scavo dopo l'altro, gettassimo un amo nell'oceano dell'evoluzione e focalizzassimo una piccola storia di discendenza dentro la grande storia della vita sulla Terra.

Uno scenario maestoso

Le più antiche evidenze di esseri viventi negli oceani primevi - batteri, alghe azzurre, stromatoliti e altri unicellulari senza nucleo o «procarioti» - risalgono a più di 3,5 miliardi di anni fa e provengono da alcuni siti in Groenlandia e in Australia. La prima lunga era di monotonia primordiale viene scossa soltanto un miliardo e mezzo di anni dopo circa, quando compaiono i primi esseri unicellulari dotati di organelli specializzati e di un nucleo che racchiude il materiale genetico (eucarioti). Passa ancora un miliardo di anni prima che facciano le loro prime comparse organismi costituiti da grappoli di cellule, in una fase di profondo sconvolgimento climatico e di raffreddamento del pianeta avvenuta intorno a 800 milioni di anni fa. Cento milioni di anni dopo, quando l'80% del tempo è già passato, la vita sembra finalmente accelerare: esplode la vita pluricellulare, di cui conosciamo le parti molli, e intorno a 570 milioni di anni fa, poco prima che inizi l'era paleozoica con il periodo Cambriano, appaiono tutti i piani corporei animali fondamentali (e forse molti altri, poi estinti).

Nel periodo successivo, l'Ordoviciano, la vita si evolve nei mari e compaiono i pesci, mentre con l'inizio del Siluriano, 443 milioni di anni fa, notiamo le prime spore fossili sulla terraferma: le piante pioniere conquistano un ambiente completamente nuovo. Nel Devoniano la vita si diversifica anche nelle acque dolci e sulla terra: appaiono i primi insetti primitivi, i ragni, i millepiedi, le piante vascolari e i funghi. Da un ramo di pesci a pinna lobata discendono i primi vertebrati in grado di sbarcare a terra. Il Carbonifero vede la comparsa delle piante da fusto e dei primi rettili solo terrestri, ma è solo con il Permiano, da 290 a 251 milioni di anni fa, che l'evoluzione arricchisce il suo palcoscenico con gli esseri viventi primitivi che associamo solitamente al nostro immaginario ancestrale: trilobiti, pesci, insetti, rettili di ogni tipo, alcuni con caratteristiche che li porteranno a diventare mammiferi.

Il Permiano si chiude con una delle maggiori estinzioni di massa mai avvenute, che spazza via una percentuale altissima di tutte le forme viventi, trilobiti compresi, e apre l'era mesozoica. Il primo periodo successivo, il Triassico, è un vero e proprio rinascimento spumeggiante di vita: compaiono le conifere, i pesci ossei moderni, le tartarughe, i coccodrilli, ma soprattutto i dinosauri e, circa 200 milioni di anni fa, i primissimi mammiferi sotto forma di piccoli roditori notturni. Il Giurassico, durato da 206 a 144 milioni di anni fa, come sanno i bambini meglio degli adulti è l'epoca del grande dominio e della ricca diversificazione dei dinosauri, adattatisi a ogni ambiente marino, terrestre e aereo. Più alla chetichella, compaiono anche mosche, termiti e granchi. Il Cretaceo vede ancora una prevalenza dei dinosauri, ma compare anche l'ultimo grande gruppo tassonomico delle piante da fiore, unitamente alla diversificazione completa degli insetti e alla separazione fra mammiferi placentati e marsupiali.

I dinosauri sembravano già un po' in difficoltà verso la fine del Cretaceo, ma il colpo di grazia viene inferto da un asteroide, o da un frammento di cometa, che colpisce il pianeta 65 milioni di anni fa producendo un cataclisma che cambierà per sempre la configurazione della vita sulla Terra. Il cambiamento improvviso delle regole ecologiche conduce rapidamente all'estinzione di tutti i dinosauri, tranne gli uccelli, e di molte altre famiglie. Inizia l'era cenozoica, con il periodo Terziario, l'età dei mammiferi, che sembrano ereditare il dominio diversificato dei dinosauri e che cominciano a suddividersi in tutte le famiglie di placentati, dal formichiere al pipistrello. Nelle prime due epoche del Paleocene e dell'Eocene (da 65 a 34 milioni di anni fa), anche gli uccelli, molti invertebrati, le piante da fiore e le erbe si diversificano abbondantemente. Nell'Oligocene e nel Miocene i mammiferi proseguono le loro ramificazioni: nei primati, negli ungulati e negli elefanti. La vita marina assume l'aspetto moderno, compresi i cetacei.

II Pliocene è la prima epoca nella quale è possibile rintracciare i nostri antenati diretti. Fra 6 e 7 milioni di anni fa nei primati africani si separano le discendenze degli scimpanzé, da una parte, e dei primi ominidi, dall'altra. Circa due milioni di anni fa finisce il periodo Terziario e comincia il Pleistocene, l'età delle glaciazioni: nasce il genere Homo, che comprende per quanto ne sappiamo oggi più di dieci specie classificate, tre delle quali (Homo sapiens, l'uomo di Neanderthal e l'ultimo scoperto, Homo floresiensis) sono ancora presenti sulla Terra 30 mila anni fa. Il resto è storia recente, ma con molti particolari riscritti da poco: Homo sapiens colonizza tutte le terre emerse, porta all'estinzione una percentuale altissima di mammiferi di grossa taglia nelle Americhe e in Australia, e 12 mila anni fa resta l'unico rappresentante del genere Homo. Diecimila anni fa si chiude l'ultima fase glaciale e con essa il Pleistocene, con l'invenzione dell'agricoltura, il boom demografico umano e l'avvio di un processo di modificazione e di sottomissione degli habitat terrestri senza precedenti.

La linearità del racconto può indurre nell'errore di sintetizzare questa grandiosa storia naturale condensandola nel suo inizio e nella sua fine: dai batteri a Homo sapiens. Sarebbe un'illusione prospettica fatale. L'attenzione del narratore si concentra sulle novità e sulla loro complessità, ma nel frattempo sono le forme di vita arcaiche ad aver retto gli equilibri più delicati degli ecosistemi terrestri. Le forme di vita complesse poggiano sulle spalle di un gigante che occupa due terzi della biomassa terrestre ed è composto in gran parte da organismi unicellulari. Le enormi fasi che separano le prime grandi transizioni dell'evoluzione hanno reso possibile la costruzione dei meccanismi basilari della vita: la trasmissione genetica e la sintesi delle proteine, la fotosintesi, la respirazione, il sesso, lo sviluppo, il differenziamento cellulare. Finché la quantità di ossigeno nell'atmosfera fu bassa, la vita in assenza di ossigeno potè essere solo marina, per garantirsi una protezione dai raggi ultravioletti in assenza di ozono. Il rilascio di ossigeno con la fotosintesi cambiò drammaticamente le regole del gioco e si creò una forte selezione naturale a favore della vita aerobica. L'invenzione di un meccanismo vitale per certi organismi significò una condanna senza scampo per molti altri, per i quali l'ossigeno continuava a essere un veleno.

La «crisi dell'ossigeno» mostra in modo evidente che la struttura fisica della Terra ha sì condizionato fin dall'inizio la vita, ma che l'evoluzione degli organismi a sua volta ha trasformato i parametri fisici fondamentali del pianeta, modificando la composizione chimica dell'atmosfera e innescando una trama di cicli di autoregolazione biochimica. Quando un astronauta osserva e studia la Terra dall'orbita sa che ha di fronte a sé un pianeta dinamico, instabile, fertile, non un corpo morto e inerte come la Luna. La sottile pellicola brulicante che protegge le nostre esistenze sopra questo sasso di 12.756 chilometri di diametro vagante nel cosmo è il frutto di tre miliardi e mezzo di anni di coevoluzione fra gli esseri viventi e il pianeta. Dunque la vita ha una dimensione anche cosmologica, perché trasforma i pianeti che la ospitano. I fossili sono allora i testimoni non soltanto di una storia di trasformazioni e di diversificazioni, ma anche dell'evoluzione della biosfera nella sua totalità.

Antenati comuni: la via maestra dell'omologia

Dipinto il grande scenario della storia della vita, gli scienziati devono cercare di ricostruire i tracciati interni dell'evoluzione, stimando parentele e condivisioni. Pur accettando che le specie si siano evolute nel tempo, si potrebbe infatti ancora ipotizzare che le linee di discendenza individuate si siano sviluppate indipendentemente l'una dall'altra a partire da presunte «creazioni separate». L'esatta valutazione delle somiglianze e delle differenze fra gli organismi è da sempre l'oggetto di discussione dei sistematici, i biologi impegnati nella classificazione delle forme di vita. Il dato che appare subito più evidente è la trama di comunanze fortissime che uniscono gli esseri viventi e che si distribuiscono almeno a tre livelli: somiglianze morfologiche (visibili a occhio nudo); corrispondenze nei processi di sviluppo (studiate dagli embriologi); e condivisione del materiale genetico e biochimico. Ebbene, l'intreccio di questi caratteri può incontrare una spiegazione plausibile solo adottando la prospettiva secondo cui tutti gli organismi sulla Terra sono legati da una relazione di parentela e condividono un antenato comune.

Gli scienziati organizzano ancora oggi le somiglianze esterne degli organismi procedendo per insiemi gerarchici inclusivi, risalenti all'opera fondativa del naturalista svedese Carl von Linné (vedi box 2). Aprendo una matrioska dopo l'altra possiamo per esempio notare che: Homo sapiens e scimpanzé condividono un set vastissimo di caratteri; entrambi condividono molte similarità con la classe dei mammiferi, i quali a loro volta ne condividono altre (sempre meno, ma ancora molto significative, nei sistemi nervoso, scheletrico, circolatorio, digestivo ecc.) con il subphylum dei vertebrati; altre caratteristiche sono comuni al regno animale nel suo insieme, e così via di categoria in categoria.

Adesso possiamo ripercorrere la stessa strada in senso inverso e notare invece l'accumulo di caratteri peculiari: essi ci mostreranno i tratti che si sono via via distinti nel processo di ramificazione genealogica. Fu proprio attraverso questa doppia analisi, delle somiglianze e delle differenze, che Darwin portò a compimento la trasformazione della biologia sistematica da scienza impegnata nella mera classificazione di grappoli di organismi somiglianti a vera scienza evoluzionistica: il dato comparativo, strutturato gerarchicamente, divenne indizio di una storia comune. I tratti distintivi - per esempio quelli che identificano gli insetti (corpo segmentato, sei zampe e due antenne, esoscheletro...) - divennero tratti storicamente «condivisi», mentre i tratti «derivati» divennero l'indizio di una ramificazione.

La gerarchia di Linneo prese dunque la forma di un albero genealogico o «filogenetico», ma non cessarono i problemi di classificazione e le ambiguità di attribuzione che una semplice valutazione morfologica non poteva eliminare. La difficoltà stava infatti nel separare, da una parte, i tratti simili che derivavano dall'essere semplicemente immersi nello stesso ambiente e, dall'altra, i tratti simili derivanti invece da un'origine storica comune. Gli arti della balena o della foca assomigliano esternamente a quelli di un pesce per la loro funzione idrodinamica, ma se analizziamo la loro struttura interna appare evidente che sono frutto di un'evoluzione di arti di mammifero con cinque dita. Come Darwin scrisse ne L'origine delle specie, l'occhio dell'evoluzionista deve saper distinguere le analogie superficiali, cioè quei tratti che appaiono simili a causa di un contesto ecologico comune (per esempio vivere nell'acqua), dalle omologie profonde, cioè i tratti che si assomigliano in quanto derivati da strutture corporee ancestrali comuni. Le prime dipendono dalla «nicchia ecologica», cioè dalla porzione di ambiente delimitata dalle risorse e dalle relazioni ecologiche di una specie, le seconde dipendono dalla storia di parentele. Darwin aveva notato infatti che specie adattate a nicchie ecologiche simili, ma geograficamente lontane, a volte presentavano tra loro più differenze rispetto a quelle che si riscontravano tra specie adattate a nicchie ecologiche diverse ma contigue. La causa di questo divario non poteva che essere attribuita alle parentele storiche fra le specie.

Le analogie sono ingannevoli perché non testimoniano una storia comune (la pinna di un pesce e la pinna di un lamantino non implicano una parentela perché hanno avuto evoluzioni indipendenti), mentre le omologie sono figlie della storia e segno certo di parentela, anche se più difficili da scoprire. Possiamo quindi attraversare l'organizzazione gerarchica della vita anche inseguendo le modificazioni di singole strutture omologhe, per esempio gli ossicini dell'orecchio dai rettili ai mammiferi. Se le omologie non devono la loro somiglianza ad alcuna ragione funzionale stringente, e anzi spesso obbligano gli organismi a complicati rimaneggiamenti, è assai arduo ipotizzare che esse si siano sviluppate separatamente in così tanti animali - nel caso delle cinque dita degli arti, in tutti gli anfibi, rettili, uccelli e mammiferi - per puro caso: sarebbe un evento astronomicamente improbabile. È molto più semplice spiegare le omologie con il fatto che quel gruppo di organismi condivide un antenato comune.

Omologie particolarmente significative sono quelle che si possono osservare negli stadi dello sviluppo embrionale. In specie più recenti, come la nostra, vediamo chiaramente che l'embriogenesi sembra ripercorrere alcuni passaggi dell'evoluzione: gli stadi iniziali dello sviluppo embrionale presentano «citazioni» di strutture omologhe a quelle degli embrioni di pesce, che nello stadio adulto di mammifero non hanno alcuna funzione. Fra i mammiferi gli stadi embrionali manifestano fortissime somiglianze, che avevano attirato l'attenzione di Darwin.

Si tratta evidentemente di caratteri trattenuti da lungo tempo nell'ontogenesi individuale per assolvere una funzione provvisoria nello sviluppo e sono indizi significativi di una discendenza comune. In particolare, testimoniano di un'avvenuta evoluzione per «addizione terminale»: nel succedersi delle specie si sono aggiunti volta per volta nuovi stadi alle fasi finali dello sviluppo e quindi le specie più recenti «ricapitolano» l'intera sequenza. La legge, enunciata da Ernst Haeckel alla fine dell'Ottocento, è nota come «teoria della ricapitolazione»: l'ontogenesi di ogni individuo riassumerebbe l'intera storia filogenetica della specie a cui appartiene. Anche se vi sono buone evidenze a riguardo, questa regola progressiva gode oggi di una validità limitata, poiché sappiamo che l'evoluzione non ha solo aggiunto nuovi stadi di sviluppo a quello finale, ma ha anche inserito stadi più precoci o li ha alterati. In molti altri casi, poi, l'evoluzione dei processi di sviluppo ha seguito strade alternative: alcune specie hanno imparato a riprodursi a uno stadio morfologico precoce, troncando gli stadi successivi di sviluppo; altre hanno invece trattenuto i caratteri giovanili più a lungo, rallentando l'intero processo di sviluppo somatico (neotenia). In tutti questi casi non vi è più ricapitolazione.

Non meno istruttivi in chiave evolutiva sono i caratteri cosiddetti «vestigiali», cioè tratti ereditati da un'antica storia evolutiva e poi «dismessi» senza essere del tutto eliminati. Numerose caratteristiche anatomiche umane - l'appendice intestinale, le vertebre terminali, la mascella ridotta, il bacino inclinato in avanti - sono reminiscenze di un remoto passato ominide non prive di talune sgradevoli controindicazioni residuali, come sa bene chi soffre di mal di schiena o chi ha fatto l'appendicite. I tratti vestigiali sono molto diffusi fra gli animali e ci permettono di inferire precise relazioni evolutive. La presenza in alcuni serpenti di arti posteriori rudimentali, senza più alcuna funzione locomotoria, è più che un indizio della loro discendenza comune con i coccodrilli e con le tartarughe, e non avrebbe alcuna spiegazione possibile adottando altre ipotesi.

La ricostruzione dell'ordine di ramificazione delle forme viventi a partire dai caratteri morfologici, peculiari o condivisi, è diventata dagli anni sessanta del Novecento una disciplina autonoma, chiamata «sistematica filogenetica» o cladistica (dal greco klados, ovvero «ramo») e dotata di un proprio raffinato apparato metodologico. Si tratta di un'analisi sistematica dei tratti di organismi appartenenti a specie viventi o estinte per dedurre inferenze storiche attendibili. I caratteri morfologici vengono distinti in stati discreti confrontabili: per esempio, superficie esterna con penne, squame, carapace o cute; numero di arti; omeotermia o eteroter- mia; locomozione eretta, semieretta o ventre a terra; e così via. Poi vengono messi a confronto e si cerca di capire, in un gruppo di specie, chi è discendente di chi. Non è sempre facile, perché talvolta assumendo caratteri diversi si ottengono alberi filogenetici diversi. Bisogna allora distinguere i caratteri attendibili, cioè le omologie, da quelli ingannevoli, cioè le analogie e tutti i tratti non presenti nell'antenato comune: associare per esempio un pipistrello agli uccelli, per via delle ali, sarebbe un grave errore perché essi non le hanno ereditate da alcun antenato comune.

Una volta escluse le analogie, si può procedere a mettere in un ordine gerarchico le omologie, distinguendo quelle ancestrali, condivise da un intero gruppo di specie avente un antenato comune, e quelle derivate, che ci permettono di distinguere le ramificazioni più recenti all'interno del gruppo. Solo le omologie derivate sono attendibili nel tracciare una ramificazione che unisca due o più specie sorelle e nel definire un gruppo che contenga tutte e sole le specie discendenti da un antenato comune. Tali gruppi si definiscono «monofiletici» e sono considerati l'unica categoria tassonomica reale dai cladisti. Se al termine dell'analisi permangono comunque incertezze, non resta che confrontare tutti gli alberi filogenetici possibili e scegliere quello che preveda un numero minimo di ramificazioni. Molte controversie, non risolte dalla cladistica, stanno oggi trovando una soluzione grazie a un mix di dati morfologici e di dati provenienti dalle comparazioni genetiche, un'altra classe di prove decisive della discendenza comune.

L'universalità del codice genetico

Le somiglianze fra gli esseri viventi non sono infatti limitate alle strutture macroscopiche, ma affondano le loro radici nei meccanismi molecolari della vita. Il mattone di base dei tessuti di tutti gli organismi, virus esclusi, è la cellula. Nel macroregno degli eucarioti, cioè tutte le forme di vita esclusi batteri e archeobatteri, i meccanismi cellulari che presiedono al metabolismo e alla produzione di energia sono molto simili. I processi di divisione cellulare sono gli stessi. Molto simili sono anche i meccanismi di differenziamento cellulare e le complesse reti di interazioni e di segnali che controllano la divisione cellulare, lo sviluppo dei tessuti e degli organi producendo i diversi «piani corporei» delle specie. Proteine ed enzimi sono un'invenzione universale e vengono catalogati dagli scienziati indipendentemente dagli organismi a cui appartengono. Gli eucarioti hanno nel loro citoplasma due tipi di organelli, i mitocondri e i cloroplasti (solo nelle piante verdi), con materiale genetico residuale, segno che prima di fungere da organelli erano probabilmente batteri indipendenti, poi assorbiti in una struttura più complessa: un altro evento evolutivo di grande rilievo, dal quale ha avuto probabilmente inizio la vita eucariotica.

La struttura tridimensionale delle proteine è determinata dalla combinazione di venti aminoacidi in tutti gli esseri viventi. La sequenza degli aminoacidi, a sua volta, è dettata dalla sequenza di unità chimiche della parte di Dna che produce la proteina, attraverso un processo universale di «sintesi proteica». Questa corrispondenza fra le sequenze di Dna e le sequenze di aminoacidi è sempre la stessa e non è vincolata da alcuna necessità chimica: funziona come un codice di «riconoscimento» condiviso, le cui caratteristiche peculiari (usare certe associazioni anziché altre) sono figlie contingenti della storia proprio come le omologie. È chiaro che un antenato comune ha fondato queste particolari associazioni e le ha trasmesse ai discendenti, canalizzando la storia in una direzione accidentale ma irreversibile. Diversamente, sarebbe assai improbabile riscontrare omologie genetiche e proteiche così forti pur in assenza di una correlazione funzionale. In questo codice arbitrario si manifesta il massimo grado di unità e di universalità della vita, comprovata dall'ingegneria genetica quando ricombina artificialmente il Dna e innesta geni che codificano proteine ed enzimi in grado di funzionare altrettanto bene in specie diversissime. Se l'espressione di un gene avente una certa funzione non godesse di un elevato grado di universalità, infatti, non potrebbe essere introdotto con successo in un organismo non strettamente imparentato e la bioingegneria non potrebbe funzionare.

Al cuore di questa universalità dei meccanismi di funzionamento della vita eucariotica sta il fatto che la base fisica dell'ereditarietà, impacchettata nel nucleo cellulare, è fondamentalmente la stessa in tutti gli organismi. Il Dna contenuto nei cromosomi è suddiviso in vaste regioni non codificanti dentro le quali si possono riconoscere unità discrete, con un inizio e una fine, che chiamiamo «geni» e che codificano attraverso l'Rna la sequenza di aminoacidi per la produzione delle proteine e degli enzimi, offrendo così le «ricette» per la strutturazione delle caratteristiche individuali di un organismo. Il meccanismo di traduzione del Dna in proteine attraverso l'Rna è essenzialmente lo stesso in tutti gli organismi costituiti di cellule con nucleo. La trasmissione del materiale genetico per via sessuata, un'altra invenzione evolutiva di grande successo (anche se per ragioni non ancora chiarissime), è la più diffusa fra i multicellulari e comporta la presenza di cellule somatiche con un doppio corredo di cromosomi (diploidi), uno ereditato dal padre e uno dalla madre, e la produzione, attraverso un peculiare processo di divisione cellulare chiamato meiosi, di cellule sessuali aventi una sola serie di cromosomi (aploidi). L'incontro dei due gameti maschile e femminile genera quindi uno zigote, prima cellula del nuovo organismo, che ripristina il doppio corredo cromosomico.

L'insieme del materiale genetico di un organismo è detto «genoma». Ciò che varia particolarmente fra le specie è la quantità di Dna non impegnato nella sintesi proteica, detto «non codificante», molto bassa nei batteri e solitamente più alta in organismi complessi. Nella specie umana la porzione attribuibile a geni distinti non supera il 5% del genoma e il rimanente Dna è composto in larga parte da materiale «parassita» che si duplica e si moltiplica «egoisticamente». Nello spettro dei viventi non vi è comunque una proporzione ben definita fra il numero di geni e la complessità organica: rispetto al numero di cellule e di tipi cellulari che compongono il nostro corpo noi abbiamo un numero piuttosto basso di geni (il cui calcolo, assai difficile, ci porta oggi intorno ai 30 mila).

In tutto il mondo naturale dotato di un doppio corredo di cromosomi, ogni individuo possiede due versioni dello stesso gene, uno di origine materna e uno di origine paterna. Se possiede due copie identiche del gene si dice omozigote, altrimenti eterozigote. La combinazione di geni di un individuo particolare si dice genotipo, mentre l'insieme delle sue caratteristiche osservabili, di tipo strutturale o comportamentale, è il suo fenotipo. A volte i geni hanno due o più versioni leggermente diverse, dette «alleli», che incidono sul fenotipo e la cui combinazione rispetta le proporzioni scoperte da Gregor Mendel nella seconda metà dell'Ottocento. Per esempio, un gene potrà avere un allele che dà colore bianco al fiore di una pianta che stiamo studiando e un altro che le dà colore rosso. Due alleli diversi presenti in un individuo eterozigote possono dare origine a un fenotipo intermedio, per esempio rosa, se non c'è «dominanza» fra gli alleli. Se invece uno dei due alleli domina sull'altro (detto «recessivo»), il fenotipo dell'eterozigote rispetterà l'allele dominante. Queste leggi valgono nella stragrande maggioranza del mondo vivente.

Nei gameti dei genitori, cioè cellule uovo e spermatozoi, gli alleli si separano (segregano) e poi si ricongiungono casualmente di nuovo nella prole, rimescolandosi di generazione in generazione in un processo di trasmissione indipendente detto segregazione, che sarà poi decisivo (insieme alla ricombinazione) per dare basi solide alla teoria dell'evoluzione. Mendel scoprì le proporzioni esatte dei genotipi nella prole partendo dalla conoscenza dei genotipi dei genitori: unendo due omozigoti per un certo carattere l'intera prole sarà omozigote; unendo un omozigote e un eterozigote la prole sarà per metà omozigote e per metà eterozigote; unendo due eterozigoti la prole sarà per un quarto omozigote dominante, per un quarto omozigote recessiva e per metà eterozigote. I calcoli possono poi essere estesi a geni associati fra loro in punti diversi del Dna. Ciò che conta è che nella genetica mendeliana il gene è considerato un'entità discreta, che si trasmette di generazione in generazione combinandosi in assortimenti di genotipi diversi, ma mantenendo la propria integrità e indipendenza.

Un cromosoma può contenere da alcune centinaia ad alcune migliaia di geni, alcuni più lunghi altri più corti (taluni perfino contenuti in altri geni), ciascuno dei quali può trovarsi in uno stato di attivazione o di disattivazione, il quale è determinato a sua volta da proteine che regolano la produzione di Rna messaggero e che si trovano associate a porzioni non codificanti di Dna. Pertanto queste zone «ridondanti» del Dna forse non sono del tutto superflue e probabilmente nascondono ulteriori funzioni. I geni hanno una precisa divisione del lavoro al loro interno: alcuni fanno i «muratori» e contribuiscono direttamente alla produzione delle proteine e dell'Rna ( geni strutturali), altri controllano quali proteine saranno prodotte da ciascun tipo di cellula dell'organismo; altri ancora dirigono il lavoro e regolano il funzionamento dei geni strutturali attivandoli e disattivandoli (geni regolatori).

Una classe particolare di geni regolatori entra in azione durante lo sviluppo individuale, governando il funzionamento di altri geni e presiedendo ai tempi e alle modalità di crescita dello schema complessivo di organizzazione corporea dell'individuo. Una delle scoperte più entusiasmanti della genetica recente è che alcuni di questi, i geni Hox, che dirigono la corretta attivazione dei geni che costruiscono le differenti parti dell'organismo (gli apparati, lo scheletro, la sequenza delle vertebre e così via) a partire dalla «mappa» embrionale del piano corporeo della specie, sono comuni a tutti gli animali, con funzioni simili. Un intero regno - che spazia dai vermi nematodi agli scarafaggi, dai molluschi agli esseri umani - è accomunato dagli stessi geni «architetti».

L'evoluzione può influire sul corredo genetico modificando l'ordine in cui sono sistemati i geni sui cromosomi, o alterando un gene, oppure agendo sui meccanismi di attivazione e di regolazione. Le modificazioni di successo, tuttavia, sono relativamente poco frequenti ed è normale che animali anche molto diversi fra loro possiedano ampie porzioni del loro corredo genetico pressoché identiche. In generale, lungo l'intero spettro del vivente che va da un unicellulare a un elefante il codice genetico differisce molto superficialmente: un'evidenza fortissima del fatto che tutta la vita sulla Terra discende da un antenato comune.

Dunque il marchio dell'evoluzione, l'unità nella diversità, si ripete a diversi livelli: la comparazione raffinata fra genomi può infatti svelare sia la stretta parentela fra gli organismi sia le piccole tracce di un percorso evolutivo di differenziazione. Come vedremo, il sequenziamento dei genomi e delle proteine permette oggi di comparare con una certa precisione porzioni corrispondenti del materiale genetico di specie differenti. Il grado di somiglianza fra tali sequenze è allora una misura oggettiva affidabile della parentela fra le specie. La composizione di un gene o di un cromosoma sarà, in linea di massima, più simile in due specie strettamente imparentate e la quantità di differenze crescerà proporzionalmente al tempo di separazione fra le due specie. Grazie a questa scoperta, gli evoluzionisti da alcuni anni possono integrare i dati fossili con i dati molecolari per ricostruire nel dettaglio gli alberi di discendenza delle specie.

Le omologie strutturali che accomunano tutti gli organismi e l'universalità del codice genetico rappresentano due vasti insiemi di prove convergenti della discendenza comune. L'unione delle comparazioni anatomiche e delle comparazioni genetiche produce un quadro complessivo di parentele fra i maggiori gruppi tassonomici che a sua volta corrisponde all'ordine temporale di comparsa dei gruppi stessi nella documentazione fossile. Abbiamo dunque tre insiemi di prove indipendenti e convergenti che testimoniano la non fissità delle specie e la loro discendenza comune. Ma non è tutto.

L'evoluzione in tempo reale

Da alcuni decenni a questa parte, grazie agli sviluppi della microbiologia, è possibile vedere direttamente in azione l'evoluzione anche in laboratorio, registrarla, filmarla e ripeterla più e più volte in una popolazione. Bisogna soltanto saper trattare organismi, come i batteri, che abbiano linee di discendenza velocissime con generazioni che si succedono anche di venti minuti in venti minuti, permettendo così di osservare migliaia di generazioni in pochi mesi. Se una popolazione di batteri ospitata in una cavia viene attaccata da un aggressore, per esempio un antibiotico, subirà una decimazione prevedibile. Se però lo sperimentatore non porta a termine la distruzione, diluendo la dose di antibiotico o interrompendo saltuariamente il trattamento, i batteri non si estingueranno del tutto e compariranno forme dotate di capacità di resistenza all'antibiotico. Sarà quindi possibile osservare dove si è sviluppata la mutazione resistente all'antibiotico, come alcuni batteri sono riusciti a mantenerla senza costi eccessivi e come si è diffusa nella popolazione a partire da un ceppo. Molto rapidamente i batteri privi della mutazione spariranno e l'intera popolazione svilupperà la resistenza all'antibiotico.

A questo punto, per debellare il batterio, dovremo escogitare un antibiotico diverso, lo somministreremo e ripeteremo l'esperimento, producendo una nuova popolazione di batteri resistente al super-antibiotico. Avremo così innescato una «corsa agli armamenti» fra batterio e antibiotico: potenziare gli antibiotici significa potenziare anche la resistenza dei batteri a cui è destinato. Le due popolazioni coevolvono. In sostanza, avremo visto in azione il meccanismo fondamentale dell'evoluzione non in un fossile, né in un'omologia, né in una sequenza genica, ma in una provetta. Potremo a quel punto tornare all'aria aperta e osservare lo stesso processo nelle zanzare che sviluppano la resistenza a un insetticida, nei parassiti che resistono a un farmaco, nei topi che non muoiono più con una vecchia tecnica di derattizzazione, nei virus che mutano proprio quando sembrava che l'antivirale funzionasse. Per evitare di creare batteri e virus sempre più forti dobbiamo allora escogitare strategie «da killer» per rendere gli interventi rapidi e risolutivi oppure strategie di furbizia per ingannarli, per esempio usando cocktail di farmaci antivirali anziché uno solo: la probabilità di sviluppare tre mutazioni resistenti si riduce a un terzo e moltiplica il tempo a disposizione prima che emerga un ceppo resistente. Lo sviluppo di popolazioni virali resistenti ai farmaci è un altro capitolo ricco di esempi di «evoluzione all'opera», un'evoluzione visibile (purtroppo) nella capacità di alcuni virus come l'Hiv di trovare molto rapidamente varianti in grado di resistere alle strategie di attacco farmacologiche.

Siamo dunque passati dalla scala geologica dei milioni di anni alla scala della vita umana di un malato che vede evolvere dentro di sé mutazioni successive di un virus. La convergenza di prove così diverse, che escludono definitivamente sia la fissità delle specie sia la loro origine indipendente, è un segno dei tempi. La biologia evoluzionistica, da quando negli anni trenta del Novecento la teoria darwiniana è stata associata alla genetica mendeliana dando origine al programma di ricerca detto «Sintesi moderna» (vedi box 3), era rimasta divisa in due sfere di competenza piuttosto separate: da una parte, la genetica delle popolazioni, scienza matematico-quantitativa interessata all'evoluzione sul breve periodo e concentrata sullo studio delle diffusioni differenziali di varianti genetiche nelle popolazioni; dall'altra, le scienze naturali interessate all'evoluzione sul lungo periodo e concentrate sulla morfologia comparata di specie viventi e specie estinte, nonché sulla ricostruzione storica delle sequenze fossili.

Box 3 - Alcune date importanti per la storia della teoria dell'evo¬luzione

1831-1836 II giovane Charles Darwin viaggia intorno al mondo a bordo del brigantino di Sua Maestà Beagle compiendo importanti osservazioni paleontologiche, naturalistiche, biogeografiche e antropologiche, soprattutto nel continente sudamericano.

1842-1844 In Sketch, del 1842, e nell'Essay del 1844 Darwin abbozza la sua teoria dell'evoluzione.

1858 Una lettura congiunta di testi di Charles Darwin e di Alfred Russel Wallace alla Linnean Society di Londra annuncia per la prima volta la teoria della selezione naturale.

1859 Pubblicazione della prima edizione de L'origine delle specie di Charles Darwin.

1863 Thomas H. Huxley pubblica Il posto dell 'uomo nella natura.

1866 Le leggi dell'ereditarietà vengono presentate alla Società di storia naturale di Brno da Gregor Mendel.

1871 Pubblicazione della prima edizione de L'origine dell'uomo di Charles Darwin.

1872 Compare la sesta e definitiva edizione de L'origine delle specie di Darwin, unitamente a L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali.

1882 Muore Charles Darwin.

1899-1900 Le leggi di Mendel vengono riscoperte da Cari Correns, Hugo De Vries e Erich Tschermak.

1901-1903 De Vries propone una teoria dell'evoluzione non darwiniana, di tipo «saltazionista».

1926 Thomas H. Morgan pone le basi sistematiche della moderna genetica.

1930 Con The Genetical Theory of Natural Selection Ronald A. Fisher fonda la genetica delle popolazioni, riconciliando mendelismo e darwinismo.

1931 Sewall Wright descrive il fenomeno della deriva genetica.

1932 Pubblicazione di The Causes of Evolution di John B.S. Haldane.

1940 Richard Goldschmidt propone la sua teoria «macro-mutazionìsta» dell'evoluzione in The Material Basis of Evolution.

1937-1944 Vengono pubblicate le opere fondamentali della «Sintesi moderna» o teoria neodarwiniana dell'evoluzione: fra le altre, Genetics and the Origin of Species di Theodosius Dobzhansky (1937); Systematics and the Origin of Species di Ernst Mayr (1942); Evolution: the Modern Synthesis di Julian Huxley (1942); Tempo and Mode in Evolution di George G. Simpson (1944).

1950 L'entomologo tedesco Willi Hennig introduce la sistematica filogenetica, poi ribattezzata «cladistica».

1953 Scoperta della struttura a doppia elica del Dna.

1966 George C. Williams pubblica Adaptation and Natural Selection.

1968 Motoo Kimura propone la teoria neutralistica dell'evoluzione molecolare.

1969 Ernst Mayr pubblica Principles of Systematic Zoology.

1970 Jacques Monod pubblica II caso e la necessità.

1972 Niles Eldredge e Stephen J. Gould propongono la teoria degli «equilibri punteggiati».

1975 Edward O. Wilson inaugura la sociobiologia.

1976 Richard Dawkins pubblica II gene egoista.

1977 Frederick Sanger mette a punto un metodo per leggere la successione di basi nucleotidiche che compongono il Dna (sequenziamento).

1982 La teoria dei giochi viene applicata all'evoluzione biologica da John Maynard Smith, che nel 1989 pubblica Evolutionary Genetics.

1987 La scoperta di «Eva mitocondriale» conferma l'origine africana, unica e recente della specie umana. Accelerazione negli studi di antropologia molecolare.

1997-2002 Riceve forte impulso lo studio della biologia evolutiva dello sviluppo («evo-devo»).

2000 Viene annunciato il sequenziamento completo del genoma umano.

2002 Stephen J. Gould pubblica la struttura della teoria dell 'evoluzione.

2000-2006 Rapidi sviluppi nella genomica evoluzionistica e negli studi sulla regolazione genica.

Oggi questa separazione di ambiti si sta fortunatamente indebolendo. Genetisti e paleontologi si parlano molto di più. L'analisi della discendenza genealogica fra le specie non viene più condotta utilizzando soltanto dati fenotipici intuitivi o dati morfologici sistematici, ma anche dati molecolari, ovvero le comparazioni genetiche che ci permettono di inferire con una certa precisione le relazioni di parentela fra le specie {filogenetica molecolare). Questi nuovi strumenti di analisi, come accade spesso nella scienza, hanno aperto uno scrigno enorme di conoscenze prima inaccessibili, che i ricercatori stanno solo da qualche anno cominciando a decifrare e che li terrà impegnati per i prossimi decenni.

Inoltre, il quarto tipo di evidenza empirica, l'osservazione dei processi evolutivi in atto su scala umana, ha permesso di aggiungere ai tre precedenti insiemi di prove un'ulteriore stringente argomentazione: l'inferenza dal presente al passato. Il principio di parsimonia delle ipotesi ci persuade infatti che non vi siano ragioni per dubitare che gli stessi processi oggi verificati su scala ridotta siano stati all'opera anche sul lungo periodo, fatta salva la presenza di schemi su larga scala non percepibili nel presente ma riscontrati in natura e riconducibili a cause scientificamente documentate.

Il fatto sorprendente è che l'apertura di questi nuovi spazi di conoscenza non ha messo in crisi il nucleo esplicativo originario darwiniano, anzi lo ha rafforzato emendando alcune contraddizioni dovute al fatto che Darwin non aveva a disposizione una corretta teoria dell'ereditarietà dei caratteri. Esplorando a tutti i livelli una gamma continua di variazione, l'evoluzione può avvenire nell'arco di pochi anni, in una popolazione di batteri che sviluppano resistenza alla penicillina, come nell'arco di centinaia di milioni di anni, dando origine ai piani corporei fondamentali degli animali: eppure, da un estremo all'altro del ventaglio di questi processi di trasformazione, sembrano essere in azione alcuni meccanismi di base identici. Vediamo allora, cominciando dalle sorgenti della variazione, in che cosa consiste il segreto del «nocciolo darwiniano» della teoria dell'evoluzione.

2. Le sorgenti di variazione

Il primo motore dell'evoluzione è la variazione, cioè la produzione incessante di differenze, di peculiarità. Come Darwin sapeva bene e come ognuno di noi può sperimentare nella propria vita, il punto di partenza della spiegazione evoluzionistica è la constatazione che ogni individuo in natura è unico, irripetibile, singolare. Gli organismi nascono diversi e queste differenze tendono a trasmettersi di generazione in generazione. Esse non sono «deviazioni» da una norma standard, da un tipo ideale, bensì il propellente fondamentale del cambiamento. Senza questa costante immissione di diversità, l'evoluzione non avrebbe luogo. Perché vi sia cambiamento le popolazioni di organismi devono essere variabili e i loro membri devono continuare a differire gli uni dagli altri di generazione in generazione.

In effetti, i biologi riscontrano che la variazione è un dato universale in natura e che si presenta a tutti i livelli con gradazioni continue o in modo discreto: variazione fra individuo e individuo; variazione fra popolazioni all'interno di una specie; variazione fra specie; variazione fra categorie tassonomiche più alte. Tuttavia, il soggetto portatore delle variazioni decisive per l'evoluzione è il singolo individuo biologico: il singolo animale, la singola pianta, il singolo microrganismo che in una determinata generazione presenta una «mutazione» di successo nel proprio corredo genetico.

La mutazione e la ricombinazione

Le mutazioni sono causate da cambiamenti stabili nel materiale genetico che vengono trasmessi dai genitori alla discendenza. Sono come errori di copiatura che si accumulano nella trasmissione di un manoscritto da una generazione all'altra di amanuensi. Ma per capire il meccanismo della mutazione dobbiamo scendere per un breve momento nelle profondità del nucleo cellulare e osservare come funziona la sintesi proteica. Un gene è una porzione specifica di filamento di Dna composta da una sequenza di moltissime molecole (migliaia) dette «basi nucleotidiche». Esistono quattro tipi diversi di basi, disposte a coppie complementari (l'adenina appaiata alla timina; la guanina appaiata alla citosina) sui due filamenti di Dna attorcigliati a doppia elica. I geni sono separati da ampie regioni di Dna ripetitivo e da altre sequenze nucleotidiche non coinvolte nella codifica dell'informazione necessaria per la costruzione e la sopravvivenza di un organismo.

Ogni gruppo di tre basi successive, o tripletta, corrisponde a un aminoacido contenuto nella proteina che quel gene deve sintetizzare. Un aminoacido può essere codificato da più di una tripletta o «codone». Altre triplette hanno invece il compito di marcare l'inizio e la fine della catena di aminoacidi. La sequenza particolare di un gene viene quindi trasformata nella sequenza di una catena proteica: durante la trascrizione viene prima copiata dal Dna al Rna messaggero (mRna) che raggiunge fuori dal nucleo i ribosomi per produrre, attraverso altre due versioni di Rna (Rna ribosomiale e Rna di trasporto), le catene di aminoacidi attorcigliate in tre dimensioni che chiamiamo proteine ed enzimi {traduzione). In tal modo la sequenza dei nucleotidi del gene specifica esattamente la sequenza degli aminoacidi della proteina (vedi fig. 1).

Le proteine, distinte grazie alle loro particolari sequenze di aminoacidi, sono i mattoni fondamentali della struttura e del funzionamento degli organismi. Si dice «mutazione- un errore qualsiasi di replicazione, occorso durante la duplicazione delle cellule somatiche o durante la produzione dei gameti, che alteri la sequenza del Dna. Se la mutazione riguarda i gameti diventa ereditabile, si trasmette alla discendenza e assume un'importanza capitale per l'evoluzione.

Le mutazioni più piccole (puntiformi) inducono soltanto la sostituzione di una base nucleotidica con un'altra in una tripletta. A volte rompono la complementarità delle coppie di basi, altre volte sostituiscono una base con un'altra assai simile. Esse potranno generare un nuovo codone in grado di sostituire un aminoacido in una particolare proteina. Tuttavia, siccome esistono 64 possibili triplette mentre gli aminoacidi utilizzati nelle proteine sono soltanto 20, in molti casi la mutazione in una base nucleotidica non produrrà alcun aminoacido diverso (mutazioni silenti). Se per esempio a essere sostituita è la terza base della tripletta, nella gran parte dei casi l'aminoacido espresso resta il medesimo. Quando effettivamente la mutazione riesce a produrne uno diverso, è possibile che la proteina risultante sia comunque in buona salute e svolga la medesima funzione. In molti altri casi, il «danno» verrà prontamente riparato dalla cellula, giacché durante la divisione cellulare, quando i cromosomi vengono replicati e duplicati, enzimi specifici (detti appunto «correttori di bozze») provvedono a rimuovere gli errori di copiatura del Dna. Insomma, solo dopo che tutti questi ostacoli sono stati scavalcati, la mutazione genera un effetto macroscopico sulla cellula e sul suo funzionamento.

In generale, più la mutazione è potente nelle sue conseguenze più sarà difficile (ma non impossibile) che sia in grado di produrre nuove proteine efficienti. È il caso delle mutazioni in cui l'inserzione di una o più basi altera la lettura complessiva del codice nucleotidico a valle della mutazione facendo scivolare di un posto le triplette e spaiandole tutte. Altre volte una tripletta che codifica un aminoacido viene mutata in una tripletta che dà segnale di «stop», interrompendo la trascrizione e vanificando la sintesi proteica.

Gli errori di replicazione possono essere anche più drammatici: alcuni «elementi trasponibili» del Dna, detti anche «geni saltatori», sono in grado di duplicarsi attraverso un Rna intermedio e di spostarsi da una parte all'altra del cromosoma «ricopiandosi» di nuovo in Dna (trascrizione inversa), interferendo sulla disposizione di altri geni e alterando la lunghezza complessiva del genoma. Alcune di queste sequenze ridondanti saranno un'imitazione quasi perfetta di altri geni, pur non essendo funzionanti. Geni codificanti proteine utili possono essere moltiplicati per «amplificazione genica». Interi tratti cromosomici possono essere cancellati o scambiati, invertiti o duplicati. I cromosomi stessi possono duplicarsi o fondersi insieme: è successo nel passaggio dagli scimpanzé, che hanno 24 coppie di cromosomi, all'uomo che ne ha 23. In alcune specie di piante la mutazione ha addirittura provocato, con successo, il raddoppio dell'intero corredo cromosomico (poliploidia).

In altri domini del vivente come quello dei virus - che sono pacchetti di materiale genetico sotto forma di Rna o Dna racchiusi in membrane proteiche - la duplicazione non è soggetta alle correzioni di copiatura: le mutazioni sono quindi molto più frequenti e l'evoluzione è fortemente accelerata. Nel mondo batterico, viceversa, esistono alcune «contromutazioni», cioè mutazioni che sopprimono l'effetto negativo di altre mutazioni: per esempio sbloccano le mutazioni di stop e fanno ripartire la sintesi proteica. Anche senza arrivare a questi prodigi biologici di virus e batteri, gli errori di copiatura sono comunque sempre possibili e possono condurre al malfunzionamento di una proteina o di un enzima.

Alcune mutazioni determinano un abbassamento, più o meno grave, della produzione di una proteina o di un enzima. Più la mutazione colpisce un gene collocato in alto nella gerarchia dei ruoli, più sarà devastante, come nel caso delle mutazioni che alterano i processi di sviluppo degli organismi. Quando una mutazione coinvolge entrambi gli alleli di geni deputati al controllo della divisione cellulare può dare origine a una dinamica tumorale: le cellule impazzite - se riescono ad alimentarsi e a sfuggire al sistema immunitario - cominciano a proliferare egoisticamente, a scapito della sopravvivenza dell'organismo che le ospita e talvolta addirittura mutando per resistere ai farmaci.

I biologi molecolari hanno catalogato migliaia di mutazioni di ogni tipo e, soprattutto quelli che studiano le mutazioni negli esseri umani, sanno che nella stragrande maggioranza dei casi sono deleterie. Una mutazione può infatti avere caratteristiche molto diverse: può essere «neutrale» rispetto alle capacità di sopravvivenza e di riproduzione del portatore (una mutazione nei geni dei recettori olfattivi può non essere fatale per l'uomo, mentre lo sarebbe di più per un cane o per un gatto; lo stesso valga per il daltonismo); può essere dannosa, come la fibrosi cistica e molte altre; oppure può offrire un vantaggio a chi la possiede, per esempio garantendogli la resistenza a una malattia. Ogni volta che la mutazione va a colpire tratti di Dna non codificante - per esempio attraverso lo scivolamento di triplette che può produrre o la delezione o la ripetizione di intere sequenze - rimane neutrale e può anche proliferare finché non arreca danni alla codifica. Il tasso di insorgenza di mutazioni deleterie nei nucleotidi a ogni copiatura è uniforme in quasi tutti gli eucarioti: una sorta di pericolo costante.

Un'altra sorgente di variazione della massima importanza, che avviene durante la meiosi, cioè la divisione cellulare che dà origine alle cellule sessuali, è la ricombinazione genica, ovvero lo scambio di materiale ereditario fra coppie di cromosomi omologhi (quello di origine paterna e quello di origine materna). Si tratta di un fenomeno casuale che si innesca quando le strutture di sostegno dei cromosomi si toccano durante la duplicazione e si uniscono in due punti che, a chiasmo, isolano due tratti corrispondenti nei due cromosomi appaiati: in questo caso vi è uno scambio di materiale genetico che sposta geni da un cromosoma all'altro e nei punti di rottura cambia le sequenze nucleotidiche. Gli effetti sono quindi gli stessi della mutazione, con l'aggiunta di un più sostanziale rimescolamento genico: la ricombinazione tende infatti a spezzare le associazioni fra geni sui cromosomi e a sparigliare continuamente il mazzo.

Se al momento della ricombinazione le sequenze dei due cromosomi non sono perfettamente allineate l'una all'altra si verifica un ulteriore errore di copiatura, detto crossing-over asimmetrico, che può sbilanciare il numero di geni presenti nei due cromosomi. Durante la meiosi i cromosomi omologhi si appaiano, si accavallano in alcuni punti formando una «x» e sono in grado di scambiarsi vicendevolmente materiale genetico, modificando la sequenza nucleotidica originale del cromosoma. Al termine del processo meiotico, nell'uovo o nello spermatozoo vi sarà solo uno dei due cromosomi omologhi. Questo cromosoma trasferito alla discendenza, a causa del fenomeno del crossing-over, non sarà mai completamente uguale a quello del genitore. Siamo quindi di fronte a un altro processo che immette variazione di generazione in generazione.

Le mutazioni nelle popolazioni

La genetica delle popolazioni ha sviluppato modelli matematici molto affidabili per dar conto dei cambiamenti di frequenza delle varianti genetiche nelle popolazioni in differenti condizioni. Se individui della stessa specie presentano varianti dello stesso gene diciamo che vi è un «polimorfismo molecolare», misurabile in base alla percentuale di basi nucleotidiche che cambiano da sequenza a sequenza. Per esempio, sembra che il polimorfismo molecolare fra esseri umani appartenenti a popolazioni qualsiasi del pianeta non superi mediamente lo 0,1% (un valore molto basso rispetto alle altre specie, segno di una forte coesione genetica e di un'origine evolutiva recente), mentre si colloca intorno all'1% se confrontiamo sequenze umane e sequenze di geni equivalenti di scimpanzé.

Per capire quale possa essere il destino di una mutazione dobbiamo specificare anche la sua «magnitudine», cioè il suo grado di incidenza sul fenotipo: alcune sono così poco influenti da passare del tutto inosservate e non le scopriremmo se non studiassimo da vicino il genoma. Altre hanno un effetto fenotipico evidente - nel colore degli occhi e dei capelli, per esempio - ma molto superficiale, con scarso valore in termini evolutivi. La variazione in questo caso può presentarsi come una differenza di carattere discreta, puntiforme, causata dalla mutazione di un gene o di pochi geni e poco influenzata dal contesto ambientale e di sviluppo.

Altre mutazioni ancora hanno invece effetti drammatici sulla conformazione e sulla fisiologia di un individuo, soprattutto quando colpiscono i processi di sviluppo e comportano una modificazione strutturale dell'organismo: in questi casi è ben difficile che risultino sostenibili da chi ne è portatore. È chiaro però che tali mutazioni talvolta hanno avuto successo nell'evoluzione, alterando per esempio i tempi di sviluppo in una specie, come è avvenuto nei casi delle specie neoteniche i cui membri restano più giovani dei loro antenati. Quando una mutazione va a toccare i geni che regolano lo sviluppo l'intera architettura organica può esserne stravolta.

Non è raro che mutazioni moderatamente svantaggiose o neutrali, qualora si presentino in modo ricorrente, siano tollerate dalla popolazione e sopravvivano a basse frequenze, contribuendo alla dose di variabilità costante presente in ogni popolazione. Un altro parametro fondamentale della mutazione è infatti la sua frequenza, cioè quante volte compare in media in una popolazione e ogni quante generazioni, perché anche da questa dipende la sua capacità di diffondersi nella popolazione. Non basta che abbia un effetto positivo: deve anche presentarsi non troppo raramente; deve interessare un individuo o un gruppo di individui che poi scambino i loro geni con il resto della popolazione; deve conservarsi in un ambiente in cui il suo vantaggio adattativo sia stabile. Se manca una di queste condizioni la mutazione favorevole non resiste, si estingue o resta silente. Possono sembrare prerogative troppo severe ma non è così: l'ingrediente «tempo» fa la differenza sul piano statistico. L'evoluzione ha bisogno infatti di migliaia di generazioni. Tuttavia, è chiaro che la mutazione da sola non può nulla, deve avvenire nel contesto di altri processi evoluzionistici: è solo la materia prima dell'evoluzione.

Le mutazioni genetiche hanno un ruolo essenziale nell'evoluzione perché garantiscono una sorgente permanente di variabilità all'interno delle popolazioni e questo è il segreto centrale della teoria dell'evoluzione. Se escludiamo le mutazioni deleterie, questi errori di copiatura creano infatti una variabilità interna alle popolazioni che non porta alla morte dell'individuo. Alcuni di noi avranno certe caratteristiche fisiche più accentuate di altri. Alcuni digeriranno meglio certi cibi di altri. Alcuni avranno abilità sensoriali e motorie diverse. Certi non scopriranno mai di essere allergici a un cibo o a un farmaco, altri invece ne faranno le spese durante un'anestesia. Alcuni nasceranno con i capelli rossi oppure albini. Se abbiamo bisogno di una trasfusione di sangue è bene sapere a quale gruppo sanguigno apparteniamo. Queste differenze genetiche emergono costantemente in ogni popolazione di organismi e influiscono in diversi gradi sui tassi di sopravvivenza e di riproduzione.

Con le mutazioni vengono trasmessi di generazione in generazione variegati insiemi di caratteri fenotipici, che vanno dalle caratteristiche esterne del corpo (dimensioni, fattezze, colori della pelle, degli occhi, del pelo e così via) alle disposizioni caratteriali, alle inclinazioni individuali, per non dimenticare le predisposizioni alle malattie. In molti tratti vi è quindi una componente ereditaria forte, anche se quasi sempre mediata e influenzata da circostanze ambientali che variano da contesto a contesto e che includono la disponibilità di cibo durante lo sviluppo, l'esposizione a malattie, i tassi di inquinamento, le cure parentali, l'educazione e la cultura. Quando una variazione all'interno di una popolazione è di tipo continuo - per esempio, la crescita di statura o di peso - di solito è perché vi è una forte influenza ambientale, in questo caso mutamenti nelle condizioni di vita e negli stili alimentari, associata all'azione di più geni. In generale, più variabili sono in gioco più la variazione tende a spalmarsi su uno spettro continuo.

Il dibattito di lunga data, e spesso un po' ozioso, fra i sostenitori dell'importanza delle cause biologiche innate (nature) e i difensori del ruolo fondamentale dell'esperienza acquisita nel corso dello sviluppo (nurture) sembra giunto in questi anni alla conclusione che non sia quasi mai possibile scindere del tutto le due tipologie di cause. Nature and nurture - il dominio dell'innato e il dominio dell'acquisito - sono probabilmente intrecciate in un rapporto inestricabile di «interazione costruttiva». L'analisi della covarianza - cioè delle variazioni indotte da fattori interdipendenti su una popolazione - applicata agli effetti genetici, agli effetti ambientali e agli effetti di interazione genera statistiche ancora piuttosto grezze.

Azzerare i condizionamenti ambientali in un esperimento, per esempio, è piuttosto arduo. Meglio forse limitarsi a individuare i gradi continui di «ereditabilità» di un tratto - cioè in che misura la prole «può» o tende ad assomigliare ai genitori per quel tratto - soprattutto se connesso all'intelligenza, ai comportamenti sociali o sessuali. È comunque importante sottolineare che la spiegazione evolutiva non implica in alcun modo l'adesione ad alcuna forma di «determinismo genetico», cioè all'idea che i geni determinino rigidamente i tratti ai quali sono connessi. I geni costituiscono, da una parte, un vincolo minimale di costituzione e di architettura dell'organismo e, dall'altra, offrono una gamma di possibilità che sono poi esplorate in base alle condizioni di sviluppo e alle condizioni ambientali.

Sulla scorta delle conoscenze attuali sui processi di codifica appare piuttosto impervio concepire i geni come unità di informazione pura, asettica, quasi incorporea, come talvolta si è stati tentati di fare. I geni sono piuttosto entità materiali immerse in un contesto di relazioni biochimiche continuo, nel quale prodotti e processi si generano reciprocamente e nel quale l'informazione non può prescindere dal contesto in cui si materializza. Una proteina può essere codificata da più geni, e viceversa un gene può presiedere alla formazione di più proteine. In molti casi la codifica implica il coinvolgimento coordinato e vincolato di più geni in punti del genoma diversi. Un gene può influenzare lo sviluppo di più componenti del fenotipo. L'espressione genica stessa sembra essere regolata da una trama di influssi, comprese le relazioni spaziali con geni vicini, non ancora del tutto decifrata. Insomma, la genomica sembra indirizzata chiaramente verso la scoperta di elementi di integrazione cooperativa nel materiale genetico: sotto forma di sistemi genici combinati; di «epistasi», fenomeno per cui gli effetti di un gene dipendono da quelli di un gene associato; di processi di «autostop» genico per cui il successo di un gene si trascina quello di altri geni concatenati o limitrofi, diminuendo la variazione genetica nei suoi dintorni.

La variazione è dunque una presenza costante in quasi tutte le proprietà degli esseri viventi e può essere sia continua, come nel caso delle dimensioni corporee, sia discreta, per esempio in certe colorazioni o nel sesso. Fra individui della stessa specie esistono polimorfismi sia a livello morfologico, sia nel numero e nella composizione dei cromosomi, sia a livello delle sequenze proteiche e ovviamente nel Dna. La quantità di variazione tende a essere massima nelle sequenze nucleotidiche, per poi scemare ai livelli superiori dove solo una percentuale delle varianti risulta «visibile». Mutazione e ricombinazione continuano incessantemente a immettere nuova variazione nelle popolazioni. Di questa, una parte non darà conseguenze sul fenotipo, rimanendo silente o neutrale. Una parte influirà invece, in meglio o in peggio, sulle capacità di sopravvivenza degli individui portatori.

Mutazioni «casuali-: un aggettivo scivoloso

Capita normalmente di associare il termine mutazione all'aggettivo «casuale», ma il ruolo del caso nell'evoluzione rischia di essere frainteso. In prima battuta, definiamo «casuali» le mutazioni non perché non abbiano cause, ma perché raramente riusciamo a individuarle per la mutazione singola. Tuttavia, cause specifiche esistono ogni volta e conosciamo un numero crescente di fattori esogeni, detti appunto «mutageni», come l'inquinamento ambientale da sostanze chimiche o le radiazioni, che le favoriscono. Quando non sono indotte da cause ambientali esterne, le mutazioni si innescano per errori di copiatura durante la replicazione. E’ possibile che in alcuni frangenti si manifestino «tendenze mutazionali» riconoscibili, aventi una causa ricorrente, ma nella stragrande maggioranza delle mutazioni non esiste alcuno schema ripetuto né alcuna correlazione riconoscibile. Per questo primo motivo diciamo che sono casuali, come lo è una sequenza di lanci di dadi, priva di qualsiasi regolarità intrinseca ma non per questo svincolata dalle leggi della fisica.

Definiamo poi casuali le mutazioni per un motivo ancor più importante: esse sono del tutto indipendenti dal potenziale effetto positivo, negativo o neutro che avranno sui loro portatori all'interno della popolazione. Un'intuizione fondamentale di Darwin, che pure non conosceva i meccanismi dell'eredità, fu proprio che la variazione non ha mai una direzione, non è il frutto di una tendenza o di un influsso preesistenti. Le attuali evidenze empiriche hanno confermato questa supposizione. La materia prima dell'evoluzione è casuale nel senso che la sua comparsa è indipendente da qualsiasi conseguenza fenotipica e adattativa potrà avere. Sarebbe infatti teoricamente assai arduo concepire un orientamento preventivo della mutazione, come se il codice genetico potesse «interpretare» il contesto ambientale e produrre la mutazione giusta al momento giusto nella sequenza nucleotidica per rispondere alle sollecitazioni esterne. Né la mutazione può prevedere i cambiamenti ambientali a venire. Dunque, i caratteri acquisiti durante il ciclo di vita di un organismo non vengono ereditati dalla discendenza né vi può essere alcun progetto o inclinazione nel fenomeno della mutazione.

Per queste ragioni sarebbe forse preferibile definire le mutazioni «contingenti» rispetto al contesto di evoluzione e di sviluppo, piuttosto che casuali. Troveremo una forma analoga di casualità quando presenteremo il fenomeno della deriva genetica e quando discuteremo dell'esistenza, a livello macroevolutivo, di eventi storici accidentali (anche se deterministici sul piano fisico, come l'impatto di asteroidi sulla Terra) che deviano il corso della storia naturale verso direzioni imprevedibili. Le accezioni sono pertanto ambigue, poiché vanno dall'assenza di regolarità alla mancanza di un orientamento preventivo, per includere poi i fenomeni storici intrinsecamente imprevedibili.

Il meccanismo che agisce sulla variazione, cioè la selezione naturale - il secondo grande motore del cambiamento che ci accingiamo a presentare nel prossimo capitolo -, non è invece in alcun modo un processo casuale. Anche altri fattori evolutivi che prenderemo in considerazione nei capitoli quarto e quinto non sono di tipo casuale. È quindi un banale fraintendimento della teoria affermare che l'evoluzione nel suo complesso sia un processo casuale e che gli esseri viventi, in quanto evoluti da un antenato comune per selezione naturale, siano figli del caso.

In sintesi: il primo motore dell'evoluzione è la variazione, prodotta da mutazione e ricombinazione genetiche. Le mutazioni sono errori di replicazione che alterano le sequenze di Dna. Le ricombinazioni sono scambi di materiale ereditario fra coppie di cromosomi omologhi durante la divisione cellulare che dà origine alle cellule sessuali. Queste variazioni sono ereditabili e possono generare differenze nel fenotipo degli organismi. Mutazione e ricombinazione sono processi casuali nel senso che non hanno direzione e sono del tutto indipendenti dagli effetti che potranno avere. È proprio su questi effetti - positivi, negativi o neutri - che agisce la selezione naturale.

3. La selezione naturale: il basso continuo dell'evoluzione

Il secondo motore dell'evoluzione rappresenta l'asse portante dell'intera architettura teorica. È un processo automatico, di tipo statistico e demografico, che interviene sulla «materia grezza» fornita dalla mutazione e dalla ricombinazione passando al setaccio la variazione individuale, eliminando le varianti svantaggiose e favorendo, viceversa, la diffusione nelle popolazioni delle varianti che favoriscano la sopravvivenza e la riproduzione degli organismi.

I dettagli del cambiamento dipendono dal particolare ambiente in cui la popolazione è immersa e dalle varianti genetiche che insorgono «casualmente» in quella popolazione. È molto difficile quindi che si presentino le medesime condizioni ambientali e genetiche per due volte nella stessa popolazione. L'evoluzione è un processo irreversibile e intrinsecamente non direzionato. La questione delicata è capire in che modo una variazione che si presenta in modo puntiforme, secondo la genetica mendeliana, possa tradursi in un cambiamento continuo e graduato come quello che notiamo in natura. La soluzione di questo contrasto fra il carattere discreto delle unità di informazione genetica e il carattere continuo della variazione nelle popolazioni ci porta dritti al nocciolo darwiniano della teoria dell'evoluzione: la selezione naturale.

Sopravvivenza differenziale

La prima enunciazione pubblica della teoria della selezione naturale ebbe luogo nel 1858 e fu accolta sul «Journal of th Proceedings of the Linnaean Society». La firma non era singola, come ci aspetteremmo, ma doppia: il coautore di Darwin era Alfred Russel Wallace, un naturalista inglese più giovane di tredici anni che era giunto alla medesima conclusione nel 1855 durante un soggiorno di esplorazione nell'arcipelago indonesiano. Wallace - che verrà ricordato anche come fondatore della «biogeografia» moderna, la disciplina che si occupa della distribuzione delle specie sulla superficie del pianeta, e come scopritore delle principali regioni faunistiche - accordò la priorità dell'idea a Darwin, che vi lavorava almeno dal 1842. Così la teoria, esposta compiutamente ne L'origine delle specie, alla fine porterà soltanto la firma di quest'ultimo.

La struttura argomentativa darwiniana (vedi fig. 2) poggia su tre constatazioni empiriche iniziali e su una prima deduzione teorica:

1) le popolazioni in natura, se lasciate a se stesse, tenderebbero a moltiplicarsi a dismisura poiché vi è un costante «eccesso di fecondità» che genererebbe una prole superiore alle possibilità di sopravvivenza (rimase celebre l'esempio darwiniano degli elefanti che in assenza di limiti finirebbero per occupare l'intera superficie del pianeta con la loro biomassa);

2) le popolazioni in natura restano però tendenzialmente stabili, poiché tassi di mancata riproduzione e di mortalità variabili riconducono la prole di una femmina nei dintorni del valore medio di due figli ciascuna, eliminando tutti gli altri.

Se ne deduce che limiti di risorse e di spazio bloccano l'espansione fisiologica delle popolazioni, equilibrando i tassi di natalità e di mortalità (3). Darwin e Wallace intuirono cioè che l'insufficienza delle risorse e l'eccesso di fecondità producono in natura una competizione ecologica per le risorse operante a tutti i livelli: fra componenti della stessa prole; fra individui o gruppi all'interno di una specie; fra specie diverse. L'insieme di questi fattori competitivi fu soprannominato da Darwin, con una metafora spesso divenuta fuorviarne, «lotta per l'esistenza» (prima deduzione).

Il termine «lotta» lascia immaginare combattimenti e scontri fisici diretti fra antagonisti in un contesto di povertà, anche perché Darwin aveva mutuato l'idea dal crudo Saggio sul principio di popolazione dell'economista e reverendo Thomas Malthus, letto nel 1838. Questa derivazione dalle scienze umane ha dato però al concetto una tonalità troppo antropomorfa. La «lotta per l'esistenza» è in realtà il frutto di una trama di relazioni ecologiche competitive indirette, che si bilanciano all'interno di un ecosistema attraverso le normali attività di soprawivenza degli organismi come la difesa del territorio, il reperimento delle risorse, gli equilibri nelle catene alimentari, la ricerca di partner. È importante sottolineare che il contesto ecologico è il dato primario per comprendere la selezione naturale, poiché esso costituisce l'arena effettiva dove si giocano le possibilità di sopravvivenza del singolo individuo.

A questo punto dell'argomentazione darwiniana si innesta il primo motore dell'evoluzione: la variazione ereditaria. Di nuovo una sequenza di constatazioni empiriche lo porta a una deduzione:

4) gli individui si riproducono, generando linee di discendenza nella popolazione, e, a causa delle sorgenti di variazione descritte nel capitolo precedente, i caratteri individuali variano all'interno della popolazione;

5) per ragioni a quei tempi non ben definite (ma a Darwin bastava che fosse un dato empirico corroborato dall'esperienza), la prole tende ad assomigliare ai genitori, cioè eredita in qualche modo i loro tratti, comprese le variazioni;

6) tali variazioni sorgono in modo spontaneo e non sono direzionate.

Ne deriva (4 + 5 + 6) che in un contesto di competizione ecologica i portatori di variazioni vantaggiose per la sopravvivenza avranno maggiori possibilità di vivere a lungo e di riprodursi, a scapito degli altri (sopravvivenza differenziale) (seconda deduzione).

Avendo mediamente più figli, diffonderanno nella generazione successiva i loro tratti favorevoli. Di generazione in generazione la variazione vantaggiosa si diffonderà progressivamente, fino a caratterizzare l'intera popolazione. È avvenuta la «discendenza con modificazioni» (terza deduzione).

La legge può quindi essere così ridefinita: non tutti gli individui nati in una generazione possono raggiungere la maturità e riprodursi; la variazione individuale all'interno di una popolazione può favorire alcuni organismi rispetto ad altri nella competizione ecologica, offrendo loro l'opportunità di riprodursi più facilmente; tali variazioni hanno una componente ereditaria e quindi tenderanno a diffondersi nella popolazione di generazione in generazione. Questa discendenza con modificazioni prodotta dalla sopravvivenza differenziale degli organismi è l'evoluzione per selezione naturale.

La scoperta fu osteggiata per un lungo periodo dopo la morte di Darwin - soprattutto per opera dei primi genetisti del Novecento - ma trovò alla fine la sua consacrazione quando i genetisti di popolazione, spiccatamente Ronald A. Fisher, John B.S. Haldane e Sewall Wright, dimostrarono la sua congruenza, o meglio la sua complementarità necessaria, con la genetica mendeliana. Oggi noi diciamo che in una popolazione alcuni organismi nascono con mutazioni ereditabili che permettono loro di sopravvivere meglio e quindi di riprodursi con più frequenza e facilità: per esempio, un miglior mimetismo contro i predatori in una rana, una maggiore resistenza a un pesticida, una corsa più agile in un'antilope. Questi organismi finiscono per contribuire alla generazione successiva con una prole numerosa ed essendo i loro attributi ereditabili questi tenderanno a diffondersi sempre più nella loro discendenza. Più alta è l'ereditabilità di un tratto, maggiore sarà la sua «risposta alla selezione». Le varianti genetiche associate a tratti più adattativi aumenteranno la loro frequenza nella popolazione, la cui composizione andrà modificandosi nel tempo. Viceversa, le varianti svantaggiose tenderanno a scomparire, anche se non sempre del tutto perché al di sotto di una certa frequenza tendono a diventare invisibili alla selezione. Nell'insieme, la linea di discendenza della popolazione nel corso di molte generazioni subirà un cambiamento che chiamiamo «evoluzione».

Come si può notare, il linguaggio è un po' diverso, ma l'impalcatura logica resta esattamente quella tripartita (variazione, eredità, selezione) del nocciolo darwiniano. La differenza è che ora la selezione naturale, grazie alla genetica mendeliana, può poggiare su una conoscenza dei processi di eredità che Darwin non aveva. Il naturalista inglese, per esempio, non escludeva che l'uso e il disuso durante la vita (come la sollecitazione di un muscolo o di un arto) potessero integrare l'opera della selezione facendo ereditare i caratteri acquisiti e aderiva a una vecchia teoria dell'eredità detta «per rimescolamento», nella quale si ipotizzava che quelli che oggi chiamiamo alleli si fondessero insieme fisicamente di generazione in generazione, mescolando i caratteri corrispondenti.

Gli eterozigoti avrebbero cioè avuto alleli intermedi, di «compromesso» fra quelli ereditati dai genitori. In quest'ottica, però, una nuova variante vantaggiosa si sarebbe presto mescolata con le varianti vecchie, diluendosi di generazione in generazione fino a scomparire riassorbita dalla popolazione. Era un grosso problema per la teoria della selezione naturale e Darwin ne fu consapevole. Veniva infatti messo seriamente in discussione il funzionamento del primo motore dell'evoluzione: la produzione e la preservazione della variazione ereditaria. Con una tale uniformazione genetica era impossibile capire come una popolazione potesse trasformarsi nel tempo esibendo un adattamento anche completamente inedito.

Ciò che serviva per aggirare l'ostacolo, notò Fisher nel 1930, era proprio la genetica di tipo «atomistico» scoperta da Mendel negli stessi anni in cui Darwin metteva a punto la sua teoria. Non sono i geni a fondersi, ma gli organismi. I geni non si mescolano, perché sono entità discrete che si combinano ogni volta in genotipi diversi. Non c'è mai la diluizione dei geni, semmai la scomparsa di una variante dalla popolazione. Quando appare per mutazione un allele vantaggioso, anche se raro (per esempio, una nuova colorazione mimetica marrone in una popolazione più chiara che si trova in difficoltà a causa di un cambiamento ambientale), la variazione viene preservata intatta nel gene che la porta e non si diluisce per mescolamento: in un eterozigote di prima generazione la variante potrebbe restare mascherata o essere diluita (marrone chiaro), ma se si accoppiassero due eterozigoti il marrone scuro avrebbe la possibilità di emergere nel 25% della prole secondo le proporzioni mendeliane (ecco perché la segregazione indipendente dei geni è indispensabile per il buon funzionamento della selezione naturale). Venendo alla luce nel fenotipo, la variante marrone scuro potrebbe far valere il suo vantaggio adattativo e diffondersi nella popolazione. Gli individui marroni si incrocerebbero fra loro o con altri eterozigoti e a lungo andare una popolazione chiara potrebbe diventare marrone scuro: il carattere viene «fissato». Se l'eredità avvenisse per mescolamento diretto dei geni, al contrario, il marrone scuro sarebbe progressivamente diluito negli incroci con gli individui chiari, perdendo gran parte del suo impatto adattativo sulla popolazione, la quale potrebbe raggiungere al massimo uno sbiadito color beige.

L'innesto del mendelismo nel nocciolo della spiegazione darwiniana ha dato origine al programma di ricerca che comunemente chiamiamo «Sintesi moderna» o «neodarwinismo». In campo aperto la selezione naturale non lascia solo tracce indirette, ma può anche essere osservata e misurata. Hanno fatto scuola, al riguardo, gli studi trentennali di Peter e Rosemary Grant sull'evoluzione del becco delle specie di fringuelli delle Galapagos - gli stessi osservati da Darwin - cui ha fatto seguito negli ultimi anni una nutrita casistica di centinaia di osservazioni dirette della selezione allo stato naturale, dalla celeberrima falena delle betulle inglese ai passeri del Nordamerica.

La genetica delle popolazioni ha oggi raffinato notevolmente i suoi strumenti e ci permette di costruire modelli di previsione dei cambiamenti delle frequenze dei genotipi in una popolazione di generazione in generazione. La disciplina fonda la sua impalcatura logica su un modello ideale di evoluzione dei genotipi all'equilibrio, che si realizza qualora gli accoppiamenti avvengano casualmente, la popolazione sia ampia e non vi sia alcuna differenza selettiva fra i genotipi. Fissata questa regola di andamento ideale, la si può confrontare con i dati empirici reali e si possono calcolare per differenza le deviazioni indotte dalla presenza di selezione naturale a favore di un allele. Verranno poi integrate nei modelli le altre possibili «complicazioni»: alleli senza dominanza assoluta, effetti fenotipici diversi, modalità di accoppiamento non casuali e così via.

Selezione: un meccanismo automatico

Differenze nel successo riproduttivo sono sempre presenti in una popolazione e possono essere rapidamente amplificate in condizioni di forte stress ambientale, quando un minimo vantaggio può essere decisivo e una piccola debolezza fatale. Il ruolo dell'adattamento in questo processo è molto delicato e riguarda l'intero corso degli eventi, non soltanto la fine. Infatti la mutazione favorevole iniziale può essere già portatrice di un valore adattativo, che dà un vantaggio agli organismi che la possiedono. Quando l'intera popolazione presenta quel tratto diciamo che si è fissato un nuovo adattamento, cioè un carattere che rende in qualche modo l'organismo più «adeguato», «appropriato» al suo ambiente. L'adattamento può essere incrementato e perfezionato nel corso delle generazioni. Può essere utile definire «fitness» l'abilità generale di un organismo nelle strategie di sopravvivenza e nei compiti della riproduzione. In genetica delle popolazioni la fitness di un carattere viene misurata ricorrendo alle dimensioni medie della prole dell'individuo portatore rispetto alla fertilità media della popolazione, eventualmente integrate dal calcolo della probabilità di sopravvivenza dell'individuo.

Raramente però la genetica delle popolazioni riesce a ricondurre una dinamica evolutiva a modelli con un solo allele che ne sostituisce un altro in virtù di valori di fitness definiti. La selezione naturale tende infatti a operare su più geni simultaneamente, che si influenzano reciprocamente producendo interazioni di livello superiore che fanno fluttuare i valori di fitness e complicano la costruzione di modelli predittivi. Molti caratteri sono controllati da geni «concatenati» fra loro, associati da interazioni epistatiche, effetti «autostop» e altri meccanismi di integrazione. Inoltre, è un caso privilegiato che un carattere si presenti in modalità discreta (o in una forma o in un'altra): ben più frequentemente la sua variazione è continua poiché dipende da più geni che si modulano reciprocamente e da influssi ambientali. La disciplina che affronta l'evoluzione di caratteri così complessi è nota come «genetica quantitativa».

Il meccanismo di selezione cumulativa, che funziona soltanto in presenza di una pressione ambientale esterna che renda quell'adattamento costantemente funzionale e vantaggioso (detta anche «pressione selettiva»), può dare l'impressione che la natura funzioni come un ingegnere che «progetta» in modo ottimale gli organismi pezzo per pezzo. In effetti alcuni adattamenti, come il sonar dei pipistrelli o la comunicazione subacquea fra delfini, sono tanto perfetti da apparire il frutto di un progetto intenzionale. Non a caso, il termine «adattamento» fu coniato proprio dai teologi naturali inglesi del XVIII secolo, per indicare le presunte «prove» di una progettazione divina della natura. L'argomento del «disegno intelligente», già smontato sul piano logico e filosofico da David Hume, trovò proprio la sua confutazione scientifica definitiva nel concetto di selezione naturale di Darwin e Wallace.

Il punto cruciale è comprendere l'azione cumulativa della selezione: come sanno bene gli allevatori, se a ogni generazione setacciamo le varianti e facciamo riprodurre solo quelle con valore adattativo superiore possiamo in alcune migliaia di generazioni raggiungere livelli di complessità «ingegneristica» straordinari senza ricorrere ad alcun progetto intelligente sovrannaturale né ad alcuna «mente» della natura. Gli esseri umani praticano questa «selezione artificiale» da quando hanno inventato l'agricoltura e la domesticazione degli animali: facendo riprodurre solo una minoranza di individui con caratteristiche desiderate, abbiamo selezionato ortaggi dalle forme più improbabili e razze canine a volte così futilmente bizzarre che non osiamo immaginare cosa ne pensino i loro fieri antenati comuni, i lupi. Gli ingredienti sono sempre gli stessi: una sorgente di variazione ereditaria (Darwin e gli allevatori del suo tempo non ne conoscevano le cause, ma ne avevano colto il principio); pressioni selettive con un certo grado di costanza (fare più latte o più uova, avere frutti più dolci e nutrienti, o avere il manto di un certo colore); e un lasso di tempo sufficiente a disposizione (qualche centinaio di generazioni per gli animali). Poste queste tre condizioni la selezione agisce automaticamente sulle popolazioni attraverso la sopravvivenza differenziale. Ecco, la selezione naturale funziona come la selezione artificiale che Darwin applicava ai suoi amati colombi domestici, solo un po' più lentamente e senza allevatore.

La descrizione precisa del meccanismo di selezione naturale ci fa capire che si tratta di qualcosa di molto vicino a una legge di natura: forse l'unico caso in cui si possa usare questo termine in biologia evoluzionistica. Essa agisce infatti in modo automatico e cumulativo, a partire da differenziali anche piccolissimi nella competizione per le risorse e per la riproduzione. La sua materia prima, la variazione, può comparire sia sotto forma di nuove varianti sia sotto forma di varianti già presenti nella popolazione. Per il resto è una legge puramente demografica che si traduce, sul lungo periodo, in una storia di cambiamenti nelle popolazioni. Il sostantivo «selezione» (come per «natura») induce talvolta un suo utilizzo con tonalità antropomorfe, come se fosse una forza intelligente. In realtà è un meccanismo automatico, cieco, che non ha intenti, non ha progetti e, soprattutto, che non vede il futuro quando accumula le sue lente modificazioni una generazione alla volta. Per quest'ultimo motivo è altrettanto rischioso, anche se in qualche modo inevitabile dati i limiti del nostro linguaggio, usare espressioni come «gli occhi si sono evoluti per vedere», laddove quel «per» potrebbe dare a intendere che vi sia stata una qualche forma di preveggenza o di finalizzazione.

Anche se non è all'opera alcuna tendenza finalistica, il risultato di questa continua cernita differenziale e cumulativa può raggiungere vette di «improbabilità» e di ingegnosità straordinarie. Spesso si commette l'errore di associare direttamente l'azione della selezione naturale al grado di «complessità» delle strutture biologiche: sembrerà quindi assai improbabile che l'evoluzione possa aver generato una catena proteica composta da centinaia di aminoacidi che sia in grado di svolgere esattamente la funzione cui è preposta. La sostituzione di un solo aminoacido soltanto fra i venti possibili, in un solo sito, potrebbe infatti alterarne il funzionamento. Se immaginiamo il processo come un assemblaggio casuale del tipo «tutto o niente», ottenere proprio la sequenza di aminoacidi corretta è tanto improbabile quanto costruire un jumbo rimescolando a caso una distesa di rottami.

Ma la selezione naturale non è affatto un processo casualismo di questo tipo, bensì un processo incrementale a partire da mutazioni puntiformi. Datele il giusto tempo e da una protosequenza rudimentale di aminoacidi, setacciando varianti di volta in volta leggermente più efficaci ed eliminando quelle negative, potrà assemblare le strutture proteiche tridimensionali più elaborate. Se poi soltanto una piccola percentuale degli aminoacidi di una proteina ha un ruolo funzionale, mentre gli altri ne hanno uno strutturale, una nuova funzione potrà essere selezionata attraverso un numero ridotto di cambiamenti, come dimostrano i collaudati esperimenti di sintesi proteica artificiale dove la sostituzione di un singolo aminoacido ha permesso la selezione di proteine più efficienti.

Non è nemmeno scontato che la selezione sia sempre molto lenta: dipende dal numero di cambiamenti genetici richiesti e dal tempo necessario per la fissazione di ciascuno. In generale, un margine di vantaggio selettivo ridotto può produrre l'evoluzione di una popolazione nell'arco di alcune migliaia di generazioni. Se poi nella specie è già presente in bassa frequenza la variante giusta, come succede per esempio quando gli insetti vengono sottoposti a cicli ripetuti di attacchi con pesticidi simili, il cambiamento può essere ancor più rapido. Inoltre, la selezione ha talvolta favorito mutazioni intervenute nei geni regolatori dello sviluppo, producendo importanti cambiamenti evolutivi di riorganizzazione del piano corporeo di una specie o di alterazione dei suoi tempi di sviluppo. Una disciplina evoluzionistica di grande rilievo si sta proprio consolidando attorno allo studio della «biologia evolutiva dello sviluppo» (comunemente abbreviata in «evo- devo»), cioè dei cambiamenti genetici e morfologici che sono intervenuti sullo sviluppo, punteggiando la storia naturale di modificazioni delle coordinate fenotipiche di grande portata come la simmetria bilaterale, lo scheletro interno, la struttura e il numero degli arti (tutti meccanismi di sviluppo controllati dai geni Hox).

Selezione e variazione

In un contesto ambientale mutevole, con pressioni selettive cangianti, la selezione naturale ha quindi una forte capacità di modificare le popolazioni. Essa tuttavia svolge anche, in senso contrario, un'opera silenziosa di conservazione, soprattutto in contesti stabili di consolidato adattamento di una specie alla sua «nicchia» ecologica. Adottando l'efficace metafora del «paesaggio adattativo» di Sewall Wright, possiamo immaginare questa situazione come il raggiungimento di un «picco adattativo». Se non sussistono motivi diversi di opportunità, la selezione tende a eliminare tutte le mutazioni aberranti rispetto alle condizioni di picco adattativo, in virtù della loro minore sopravvivenza differenziale (selezione stabilizzante). A parità di altre condizioni e valutando un carattere per volta, la selezione lasciata a se stessa tende allora a ridurre la variazione genetica e l'ereditabilità.

Visto che le mutazioni deleterie emergono incessantemente, possiamo dire che una selezione di fondo, come un basso continuo, è sempre attiva nell'evoluzione, anche quando non lascia effetti fenotipici. Ciò non esclude che vi siano tratti «neutrali» la cui variazione sia del tutto indifferente in termini di fitness: in tal caso la selezione non li vede e non agisce. È anche possibile che in un contesto ecologico vi siano due o più strategie adattative diverse, ma egualmente vantaggiose (picchi adattativi multipli): qui la selezione tenderà a dividere la popolazione in base ai diversi adattamenti (selezione divergente) anche al punto di spezzarla in più specie.

Gli effetti della selezione, del resto, sono piuttosto sfumati e non pregiudicano mai la presenza di un tasso sufficiente di variabilità genetica. Il secondo motore dell'evoluzione (la selezione) non può contraddire il primo (la variazione) giacché se ne nutre. Quando una mutazione negativa insorge in modo ricorrente la selezione non riesce a eliminarla del tutto e la tollera a basse frequenze. In certi casi, noti come «vantaggio dell'etero-zigote», la selezione favorisce la sopravvivenza degli individui

eterozigoti anche se gli omozigoti recessivi sono portatori di effetti fenotipici devastanti: l'anemia falciforme umana è una malattia letale di cui sono affetti i portatori di un genotipo omozigote che altera la forma dei globuli rossi, ma la selezione non l'ha eliminata perché gli individui eterozigoti (con un gene buono e l'altro cattivo) sono sani e per di più resistenti alla malaria. Poiché gli accoppiamenti fra eterozigoti generano anche omozigoti recessivi, la selezione non riesce a eliminarli del tutto e di fatto la variabilità dei geni nella popolazione permane.

La selezione naturale preserva e alimenta la variabilità genetica anche nei casi in cui la fitness di un genotipo sia inversamente proporzionale alla frequenza con cui compare nella popolazione. A volte succede che un adattamento è davvero tale solo se non compare troppo spesso: per esempio, se un ospite escogita un buon adattamento contro un parassita, e lo adotta diffusamente, farà sì che il parassita trovi ben presto una contromisura valida per un gran numero di ospiti; meglio allora avere più strategie adattative diversificate e non troppo frequenti. Lo stesso vale se una specie è ben adattata a nicchie diverse, con spazi limitati: l'uniformità creerebbe una congestione su una nicchia sola e la selezione lavora quindi per mantenere la diversità. Se invece si innesca una dipendenza positiva dalla frequenza, per esempio una nuova difesa da un predatore usando come avvertimento una colorazione vivace associata a veleno, l'adattamento funziona solo se sono in tanti a usarlo come deterrente, altrimenti è inutile: qui la selezione favorirà il conformismo della specie.

Anche l'adattamento selettivo è soggetto al doppio registro dell'unità e della diversità. Dinanzi a pressioni selettive analoghe, organismi molto diversi e non strettamente imparentati sviluppano adattamenti analoghi. L'esigenza di percepire i contrasti di luce e di vedere ha fatto sì che si formassero «occhi» in tantissimi animali diversi, per un fenomeno chiamato «convergenza adattativa» che fa spesso assomigliare come gocce d'acqua animali non direttamente imparentati. Mammiferi marsupiali e placentati presentano specie con fortissime affinità morfologiche, ma derivanti da storie evolutive diverse. Le convergenze esistono a tutti i livelli dell'organismo, dalla morfologia ai meccanismi molecolari. Tuttavia, ogni occhio è calato in un ambiente specifico che ne fa un adattamento diverso: esistono occhi per vedere sott'acqua, occhi per vedere nel buio, occhi per scrutare i movimenti della preda, occhi camuffati per nascondersi, occhi per vedere in trasparenza, occhi stereoscopici e multipli. Ciascuna nicchia ecologica favorisce una modalità di visione particolare e quindi determina una pressione selettiva leggermente diversa.

Le pressioni selettive più comuni che portano le specie a evolvere sono ovviamente quelle connesse alla vista, all'alimentazione, alla locomozione (pensiamo alle leggere strutture ossee delle ali degli uccelli, un capolavoro di aerodinamica copiato dagli ingegneri), alla protezione dai predatori (attraverso mimetismi, odori, sapori, veleni), alle dimensioni corporee. Non dobbiamo però dimenticare che non solo gli organi esterni e i comportamenti, ma anche le strutture più nascoste degli organismi, dai metabolismi ai tassi di sviluppo, sono nate come adattamenti o aggiustamenti funzionali. Anche le relazioni fra gli organismi e le sostanze chimiche presenti nell'ambiente si sono evolute per selezione naturale.

Chi riscuote i vantaggi della selezione: l'individuo, il gruppo o la specie?

Adattamento e selezione regolano non solo i rapporti fra organismi e ambienti, ma anche fra specie e specie. I reciproci accordi adattativi fra le piante da fiore e i loro impollinatori sono stupefacenti, una meravigliosa danza evolutiva. Questi coadattamenti fra specie sono forme di «coevoluzione» e si verificano quando vi è un rapporto di mutualismo fra due specie (il colibrì plasma il suo becco in funzione della forma del fiore, il fiore si rende visibile al colibrì attraverso il profumo e la colorazione)

oppure quando vi è una competizione fra ospite e parassita, fra predatore e preda. Lo slancio del giaguaro e dell'antilope sono frutti del reciproco adattamento dell'uno all'altra. In questi casi si può anche innescare una vera e propria «corsa agli armamenti» evoluzionistica fra le due specie, che tentano di sopravanzarsi l'un l'altra inventando sempre nuove strategie di cattura o di fuga. Queste escalation di adattamenti possono accelerare in modo sostanziale il ritmo del cambiamento evolutivo.

Da questi esempi notiamo che la competizione può avvenire sia a livello di individui all'interno di una specie sia fra specie antagoniste. In effetti gli evoluzionisti discutono da tempo sul livello esatto a cui agirebbe la selezione. Per Darwin l'unico livello corretto da considerare era quello dei singoli organismi, poiché la selezione viene innescata sempre da un vantaggio differenziale dell'individuo, mai del gruppo o della specie in generale. Ciò che la selezione «vede» è soltanto la sopravvivenza differenziale di singoli organismi, il cui successo si propagherà, verso il basso, ai geni e, verso l'alto, alla specie intera. Questo principio darwiniano è un dato acquisito e generalizzato, anche se forse presta il fianco a qualche eccezione non troppo sporadica. Può infatti capitare che la selezione a livello di organismi favorisca caratteri che a lungo andare si rivelano deleteri o vantaggiosi per la specie nel suo complesso.

La selezione naturale potrebbe favorire, per esempio, un aumento delle dimensioni corporee degli organismi, rallentando il tasso di riproduzione e abbassando la densità demografica, al punto che la specie, in competizione con altre, potrebbe risentirne. Oppure la selezione (che non vede nel futuro) potrebbe favorire un eccesso di specializzazione alimentare, fatale in caso di modificazione ambientale. Un adattamento a livello di organismi potrebbe invece aumentare la capacità della specie di dare origine a specie figlie. Potrebbe insomma esistere una selezione di specie, anche se non sono ancora chiari alcuni aspetti cruciali come l'ereditabilità dei caratteri di specie.

La gerarchia dei livelli evolutivi è composta grossolanamente dal materiale genico alla base, dagli organismi al centro e dalle specie in alto: non sempre i tre livelli procedono concordi. Il conflitto può insorgere anche quando il bene del gruppo o della specie sembra prevalere su quello del singolo organismo. Non è mai stato facile per gli evoluzionisti spiegare comportamenti nei quali il singolo organismo adotta strategie altruistiche o addirittura suicide, che mettono a repentaglio la sua sopravvivenza per favorire quella dei parenti o del gruppo più ampio. In questi casi il vantaggio individuale viene sacrificato a favore di una collettività più ampia. Una porzione abbondante di casi di cooperazione, come la caccia in gruppo dei felini, o di reciprocità, quando il comportamento offre un vantaggio all'altro ma è ragionevolmente ricambiato, possono essere ricompresi nella logica del vantaggio individuale: cacciando in gruppo, in certi contesti, si ottiene individualmente una quantità mediamente maggiore di carne rispetto alla caccia solitaria.

Un'altra frazione della casistica di comportamenti altruisti può essere invece spiegata attraverso la «selezione di parentela» scoperta da William D. Hamilton: il singolo sacrifica il proprio vantaggio egoistico per favorire la sopravvivenza di parenti (figli, cugini e nipoti di diverso grado), perpetuando in questo modo indirettamente la propria discendenza genetica. È il caso, sollevato da Darwin, delle caste sterili presenti in molte società di insetti - intere porzioni della popolazione escluse dalla riproduzione per dedicarsi ad attività utili alla colonia, come la ricerca di cibo o la difesa - la cui funzione «lavoratrice» deve essere stata selezionata per il vantaggio che procura alla comunità e non al singolo direttamente: tuttavia l'individuo ne ricava un vantaggio «secondario» poiché contribuisce alla diffusione dei geni di parenti stretti (quali sono sempre i riproduttori), quindi di una percentuale dei suoi stessi geni anche maggiore rispetto alla riproduzione diretta (in termini di geni, meglio cinque nipoti di un figlio). Forme meno estreme di altruismo, come le «famiglie allargate» negli uccelli, potrebbero rientrare in questa spiegazione, purché il prodotto della parentela e del beneficio sia superiore al costo (un'evenienza ben lontana dal realizzarsi nei casi di altruismo in gruppi non strettamente coesi geneticamente e nell'altruismo umano).

L'altruismo sarebbe dunque in gran parte una forma sofisticata di egoismo e i gruppi sarebbero una sorta di «fenotipo esteso» dei geni. Questa teoria basata sulla quantità di geni trasmessi ha spinto alcuni evoluzionisti a generalizzare l'idea che la selezione naturale favorisca prioritariamente strutture e comportamenti che offrano un vantaggio riproduttivo diretto, cioè la massimizzazione della diffusione dei geni alla generazione successiva. L'etologo inglese Richard Dawkins coniò a tale proposito la fortunata espressione «gene egoista», per suggerire che la logica di base dell'evoluzione è la diffusione di «replicatori» genetici nelle discendenze, mentre organismi e gruppi sarebbero veicoli o «interattori» per la loro diffusione. I geni si organizzano in lignaggi virtualmente eterni di replicatori in competizione fra loro. La stessa nascita degli organismi pluricellulari obbedirebbe a questa logica: le cellule somatiche sacrificano la loro diffusione genica diretta perché le cellule germinali sono geneticamente identiche a loro e quindi dalla buona salute dell'organismo complessivo (inteso come una sorta di «colonia» di cellule) dipende la diffusione ottimale dei geni di ciascuna cellula. A riprova che in natura il conflitto egoistico sarebbe la norma, nel mondo vegetale, dove è possibile che le cellule somatiche diano direttamente inizio a una nuova generazione, si scatenano competizioni fra le linee cellulari. Nulla esclude però che anche negli animali la cellula somatica ritorni a un miope comportamento «egoista», duplicandosi senza controllo in una dinamica cancerosa che minaccia la sopravvivenza della «comunità» generale.

L'idea di una competizione genica universale è suggestiva ma se estremizzata corre il rischio, secondo molti studiosi, di subordinare ogni forma di vantaggio economico, ecologico o sociale acquisito dagli organismi (in breve, la sopravvivenza) all'imperativo riproduttivo, specie umana compresa. Alcuni propongono allora di tornare alla visione più sintetica di Darwin stesso, che parlò sempre di un doppio vantaggio «apprezzato» dalla selezione: il vantaggio diretto in termini di sopravvivenza e il vantaggio riproduttivo che ne consegue. In sintesi: la selezione «agisce su» organismi e «regola la frequenza di» geni.

Una possibile soluzione di compromesso potrebbe essere quella di definire «unità di selezione» gli organismi e «unità di evoluzione» i geni, evitando in tal modo sia di attribuire a questi ultimi un mero ruolo di archiviazione dell'informazione, come hanno sostenuto i critici del gene egoista, sia di condannare gli organismi ad essere meri automi in balia dei propri geni. La controversia perpetua in qualche modo la spaccatura classica della «Sintesi moderna» ricordata nel primo capitolo, con lo sguardo ecologico dei naturalisti e dei paleontologi da una parte, e lo sguardo microevoluzionistico dei «genocentristi» dall'altra. Appare però sempre più evidente la necessità di una visione integrata, poiché esistono chiaramente comportamenti del tutto svincolati da logiche riproduttive in senso stretto (come l'omosessualità negli animali e nell'uomo), ma anche organizzazioni sociali ed economiche che alla riproduzione sembrano votate in modo totalizzante (pensiamo alla vita dei pinguini imperatore dell'Antartide).

Si è molto discusso della possibilità che in alcune specie esista una «selezione di gruppo»: che gli organismi, per esempio, rinuncino a un vantaggio riproduttivo per non saturare la loro nicchia ecologica. La teoria presenta però tre problemi seri: un simile «controllo delle nascite» può essere spiegato anche in termini di selezione fra organismi; non si capisce bene come un tale adattamento possa essere ereditabile; la nascita di gruppi altruisti è sempre esposta al rischio di «sovversione interna» da parte di gruppi egoisti, a meno che non siano separati e il vantaggio di gruppo derivi comunque da adattamenti negli organismi. Perché vi sia selezione deve esserci un margine di ereditabilità dei tratti.

Vi sono poi moltissimi caratteri che si sono sviluppati negli organismi per un vantaggio esclusivamente e direttamente riproduttivo, spesso in forme così costose e ingombranti da pregiudicare vistosamente le possibilità di sopravvivenza della specie. Si tratta dei caratteri cosiddetti «sessuali secondari», prevalentemente maschili, che garantiscono al possessore di poter adeguatamente competere con membri dello stesso sesso per la conquista delle migliori partner di accoppiamento. La coda del pavone, i palchi di corna dei cervidi, i piumaggi sgargianti, gli ornamenti maschili, i duelli estenuanti a colpi di corna, l'esibizione dei genitali, le parate nuziali, i gorgheggi più commoventi: dove non arriva il potere delle gerarchie sociali, una fetta importante di adattamenti gioca un ruolo decisivo non nella competizione per le risorse, ma in quella per essere scelti dalle femmine. Alcuni maschi di insetto arrivano al punto di rimuovere dal tratto genitale femminile il liquido seminale lasciato da altri partner.

In questi fenomeni di selezione sessuale, una forza antagonista della selezione naturale descritta profusamente da Darwin ne L'origine dell'uomo, la strategia è adattativa rispetto alla competizione riproduttiva, ma può essere disadattativa rispetto alla sopravvivenza. Tuttavia il meccanismo a tre stadi - variazione, ereditarietà e selezione - è lo stesso della selezione naturale. La selezione sessuale sarà tanto più aggressiva quanto minore è il numero di maschi che si accoppiano con più femmine (poliginia). Nei pochi casi di «poliandria», il dimorfismo sessuale sarà invertito: dimensioni e ornamenti per conquistare il maschio saranno esibiti dalle femmine. Dove invece la monogamia promuove la comunione dei beni e degli interessi, la selezione sessuale avrà un'influenza inferiore.

Non è ancora ben chiaro perché le femmine comincino a sviluppare in una specie le loro a volte bizzarre preferenze, scatenando l'esibizionismo maschile. La spiegazione più plausibile rimane quella classica di Fisher, ovvero che il carattere prescelto nel maschio viene selezionato perché conferisce un qualche vantaggio; la scelta femminile rafforza la selezione aggiungendovi il vantaggio nell'accoppiamento; i due vantaggi si moltiplicano esponenzialmente a tal punto che il carattere in

questione, per esempio la coda del pavone, viene sviluppato ben oltre le necessità di sopravvivenza. Quando la selezione sessuale prevale su quella naturale, il carattere diventa disadattativo perché il vantaggio nell'accoppiamento sopravanza il costo in termini di sopravvivenza. A quel punto qualsiasi femmina che tornasse sui suoi passi preferendo compagni più modesti verrebbe scoraggiata dalla selezione perché i suoi figli maschi sarebbero condannati a restare single.

Adattamento e imperfezione

Le interferenze della selezione sessuale e gli effetti disadattativi che si propagano da un livello all'altro della gerarchia evolutiva gettano qualche ombra sull'idea che l'adattamento sia una «messa a punto» ingegneristica ottimale. Per non cadere nell'errore di attribuire all'adattamento per selezione naturale le stesse caratteristiche di perfezione extramondana assegnategli dai teologi naturali, è bene notare che nel corso dell'evoluzione gli organismi non sono soggetti passivi plasmabili a piacimento e che la selezione non agisce quasi mai come un supremo ingegnere che punta all'ottimalità standard. Il concetto di adattamento non può essere associato facilmente a quello di «perfezione» per una serie di cautele molto importanti.

Innanzitutto, si tratta di un processo e prodotto sempre incompiuto, provvisorio, contingente rispetto ai cambiamenti ambientali che possono rimettere in moto il meccanismo selettivo a favore di altri adattamenti. Un adattamento, benché ottimale in una nicchia ecologica, rimane sotto condizione: vale fino al prossimo cambiamento delle pressioni selettive. Anche quando sembra essere uno standard consolidato universalmente dalla selezione - pensiamo, per esempio, al rapporto numerico paritario fra maschi e femmine nelle specie sessuali, mantenuto dall'equilibrio del successo riproduttivo reciproco - compaiono interessanti eccezioni.

Un carattere adattativo per una specie può non esserlo per un'altra: per sfuggire a certi predatori conviene correre veloci, ma in altre circostanze è meglio stare assolutamente fermi. In tutti i casi di «corsa agli armamenti» fra due specie, l'adattamento di una è sempre provvisorio, perché l'altra nel frattempo sta sviluppando una contromossa. Esistono addirittura «adattamenti fantasma», cioè strategie anacronistiche di coevoluzione fra una specie e un'altra, che magari nel frattempo si è estinta: in Costa Rica alcune piante tropicali hanno grossi frutti coriacei adattati ad essere consumati e diffusi dai grandi erbivori che l'uomo ha estinto diecimila anni fa. In loro assenza i frutti si accumulano e marciscono attorno alla pianta madre, che così vede ridursi le possibilità di diffusione dei semi.

Inoltre, gli organismi non sono mosaici di caratteri distinti gli uni dagli altri, dove sia possibile sostituire un ingranaggio senza alterare il funzionamento complessivo. È difficile isolare un tratto come se fosse un «atomo» o un'unità adattativa discreta. Vi sono fitte interdipendenze fra le fitness associate a geni diversi (interazioni epistatiche). Ciò significa che nel continuum intrecciato delle strutture organiche una modificazione adattativa locale comporta facilmente una serie di effetti collaterali di tipo sistemico a livello genico (coadattamenti). Gli allevatori lo hanno sperimentato spesso, scoprendo che il miglioramento forzato di una qualità talvolta induce un effetto collaterale negativo altrove: ottengo, per esempio, una mela dolcissima ma poco resistente ad alcune malattie. Il vantaggio dell'eterozigote che favorisce i portatori sani di anemia falciforme produce anche, come pessimo effetto collaterale, una percentuale costante di omozigoti malati. Se ne deduce che l'evoluzione per selezione naturale è un gioco di pesi e contrappesi, di costi e benefici, un equilibrio di adattamenti che spesso offrono un vantaggio maggiore rispetto agli effetti indesiderati.

Sul fronte opposto, nemmeno l'ambiente si presenta agli organismi come una somma lineare di «problemi» da risolvere. Le pressioni selettive sono spesso multiple e interdipendenti. A volte sono addirittura contraddittorie - per esempio fra il bisogno di cibarsi e la necessità di sfuggire ai predatori, oppure fra alimentazione e respirazione nella bocca - e gli organismi devono escogitare di volta in volta compromessi precari, raggiungendo picchi adattativi intermedi. Un optimum locale potrebbe ben presto smettere di esserlo e trasformarsi in una trappola. Una pressione selettiva specifica (per esempio sviluppare la resistenza a un aggressore imprevisto) può ricevere più di una soluzione adattativa, da popolazione a popolazione. Un erbivoro può sfuggire al predatore correndo come una gazzella o saltando come un canguro: la differenza non è funzionale, ma storica. Inoltre, gli organismi con le loro attività metaboliche e di sopravvivenza contribuiscono attivamente a modificare il quadro delle pressioni selettive esterne che poi, ricorsivamente, incidono su di loro (costruzione di nicchie).

Le soluzioni adattative stesse non godono di margini di libertà assoluti. Gli esseri viventi sono soggetti a una pluralità di vincoli che vanno dalle costrizioni fisiche fondamentali della gravità (relative ad altezza, dimensioni, peso) ai vincoli strutturali interni ereditati dalla storia pregressa. Lo sviluppo individuale è un altro limite fondamentale: le mutazioni adattative non possono stravolgere il suo equilibrio consolidato, pena una sicura riduzione della fertilità e delle possibilità di sopravvivenza, ma devono innestarsi nel suo alveo. I vincoli ontogenetici limitano quindi la variabilità fenotipica per renderla compatibile con il piano corporeo e la selezione agirà per evitare asimmetrie o distorsioni della regolazione dello sviluppo.

Nella maggioranza dei casi gli organismi tendono poi a riutilizzare ciò che hanno già a disposizione, piuttosto che a sviluppare ex novo una struttura. Darwin aveva capito benissimo questa attitudine da bricoleur della selezione naturale, che assembla opportunisticamente ciò di cui dispone per far fronte a nuove necessità oppure combina parti preesistenti per svolgere nuove funzioni. Un avversario gli aveva infatti obiettato che in una visione continuista e funzionalista dell'evoluzione era impossibile render conto di come la selezione potesse aver favorito gli stadi incipienti di strutture particolarmente complesse e piene di coadattamenti come un occhio, un'ala o un orecchio: il 5% di un occhio non poteva certo servire per vedere, né il 5% di un'ala poteva far librare l'Archaeopterix in volo. Come può la selezione regolare simultaneamente le componenti di questi organi in vista della loro funzione finale? Per non cedere all'idea che questi organi «di estrema complessità e perfezione» si fossero evoluti tutti d'un colpo per volontà di un sommo progettista o in conseguenza di una non meglio definita «variazione orientata» di tipo finalistico, Darwin introdusse nella sesta edizione de L'origine delle specie un'argomentazione decisiva.

L «exaptation» o cooptazione funzionale

In questo modo veniva presentata, già nel 1872, una soluzione molto chiara a una presunta difficoltà della spiegazione evoluzionistica: come può la selezione naturale dare origine a stadi incipienti di organi che ancora non esistono? Darwin suggerì una doppia strategia esplicativa, valida ancora oggi. Nei casi più comuni, sono sufficienti i meccanismi di accumulo di miglioramenti da parte della selezione: piccoli cambiamenti nella struttura di un organo che ne migliorino (anche di poco) le prestazioni arrecano un vantaggio differenziale all'individuo che li possiede; tali aggiustamenti si accumulano progressivamente nella popolazione e si integrano con altre «messe a punto» nella struttura.

Nell'evoluzione dell'occhio - l'esempio senza dubbio più citato come presunta anomalia della teoria dell'evoluzione - i tessuti fotosensibili sono evidentemente nati, senza cristallino né camera oscura, come organi rudimentali per la percezione delle oscillazioni di temperatura o dell'alternanza giorno/notte (ne possiamo studiare un'ampia casistica fra gli invertebrati), e sono stati poi implementati per modalità di visione più elaborate e diversificate. Oggi esistono anche modelli a computer molto

eleganti dell'evoluzione dell'occhio per piccoli incrementi cumulativi di funzionalità visiva. Essi dimostrano che per avere un simile gioiello adattativo possono bastare pochi milioni di anni di evoluzione.

In altri casi entra invece in azione un vero cambiamento di funzione: le penne potrebbero aver cominciato a svilupparsi nei dinosauri per funzioni di termoregolazione o di esibizione, e poi essere cooptate per il volo planato e quindi per il volo vero e proprio. Nelle specie arboricole che si lanciano di ramo in ramo per fuggire ai predatori, il volo planato potrebbe essere stato altresì un adattamento primario sufficiente. Certo, da una membrana protettiva a un'ala, da un grappolo di recettori fotosensibili a un occhio completo la transizione - con il nostro ingannevole senno di poi - ci sembra davvero radicale, ma in natura possiamo osservare una ricca sequenza di stadi intermedi e di transizioni funzionali che testimoniano i passaggi cruciali di queste storie di adattamenti e di riadattamenti.

Inaugurando questa importantissima spiegazione evoluzionistica, Darwin mostrò ai naturalisti che le strutture organiche per evolvere avrebbero dovuto rispettare alcuni criteri di flessibilità e di ridondanza che spesso essi dimenticavano di considerare quando descrivevano gli adattamenti come costruzioni ingegneristiche perfette. Perché vi sia la possibilità di un cambiamento di funzione a parità di struttura (Darwin usò il termine «preadattamento», mentre noi oggi usiamo il termine exaptation coniato da Stephen J. Gould ed Elisabeth Vrba nel 1982) dobbiamo infatti ipotizzare che in natura più organi possano assolvere una funzione (di modo che uno possa essere deviato verso nuove utilizzazioni) e viceversa che un organo possa assolvere più funzioni, aggiungendone di nuove alle preesistenti (le penne continuano a servire anche per esibizione).

Il fenomeno dell 'exaptation, che possiamo tradurre come «cooptazione funzionale», ci mostra come nell'evoluzione difficilmente un adattamento è stato fin dall'inizio costruito «per» assolvere alla funzione corrente - l'origine storica e l'utilità attuale non sempre coincidono - e come l'adattamento sia spesso un compromesso con i vincoli strutturali degli organismi e con la loro storia pregressa. Inoltre, ci dà l'idea che i rimaneggiamenti adattativi degli organismi siano sempre un po' subottimali, ma non per questo meno efficaci. La specializzazione funzionale non sempre è una buona strategia, soprattutto in contesti mutevoli dove la disponibilità a convertire e implementare strutture preesistenti potrebbe essere assai più indicata.

In generale, il fenomeno dell-exaptation evidenzia come ogni tratto possa essere adattativo per una certa funzione presente, ma irradiare al contempo una gamma di effetti potenziali possibili, alcuni dei quali con conseguenze benefiche che la selezione naturale potrebbe prima o poi vedere e cooptare. Ciò sembra avvenire anche fra livelli evolutivi diversi: un adattamento fissato a un certo livello, ad esempio gli organismi, potrebbe riverberarsi su altri livelli, come la specie, con conseguenze imprevedibili (ipotesi dell'effetto concomitante).

Il cambiamento di funzione ottenuto a parità di struttura, o modificando leggermente la struttura, non è ovviamente in contraddizione con l'azione cumulativa e continuativa della selezione naturale. Oggi sappiamo che processi di cooptazione funzionale interessano tutti i livelli del vivente, dai geni alla morfologia, fino ai moduli comportamentali. La cooptazione molecolare e funzionale, soprattutto su enzimi e su geni regolatori, si sta rivelando particolarmente pregnante per spiegare molti processi evolutivi fondamentali, per esempio la comparsa di nuove funzioni connesse alla regolazione dello sviluppo. In sintesi, nei casi in cui non vi sia stato cambiamento di funzione continuiamo a parlare di «adattamenti», mentre nei casi di cooptazione usiamo il termine exaptation.

Gould e Vrba nel 1982 introdussero anche un'accezione più radicale di exaptation, indicando non soltanto casi in cui una struttura nata con una certa funzione viene selezionata per assolverne un'altra, ma anche casi in cui vengono «exattate» strutture originariamente sviluppatesi senza alcuna ragione adattativa. Questa proposta fece molto discutere perché si ipotizzava l'esistenza di un vasto «pool exattativo» di strutture biologiche formatesi per ragioni non adattative - cioè come effetti collaterali, come effetti di struttura o come vestigia dismesse - da cui la selezione naturale avrebbe potuto pescare per far fronte a nuove necessità ambientali.

Tuttavia, la radicalità dell'idea sbiadisce se ci accorgiamo di quanto essa attinga alla distinzione già ricordata fra analogie e omologie. La presenza di convergenze adattative di tipo funzionale (analogie) non esclude che gli organismi siano portatori di residui strutturali della loro storia più antica (omologie). Occhi e ali si assomigliano in animali non strettamente imparentati in virtù della loro funzione comune. Il fatto però che tutti i vertebrati con quattro arti abbiano alle loro estremità cinque dita (salvo riduzioni successive), e non sei o sette, è soltanto il frutto contingente della loro storia comune, indipendentemente dal contesto ecologico in cui vivono. Come sanno bene gli studiosi dell'«evo-devo», essi hanno ereditato un modello di sviluppo comune e poi, come un pianista virtuoso che elabora variazioni sullo stesso tema, lo hanno «exattato» per le funzioni più diverse, dal camminare allo scavare al nuotare. Il tratto omologo in sé dei tetrapodi - avere cinque dita anziché sei o quattro - letteralmente può non avere alcuna funzione adattativa: è solo un segno di pura storia. I piani corporei animali sono zeppi di omologie di questo tipo, a volte «exattate» nei modi più ingegnosi, altre volte semplicemente «tollerate» e aggirate attraverso strategie di aggiustamento certamente non ottimali. Insomma: non tutto in natura serve a qualcosa, ma tutto può sempre tornare utile.

Sesso e morte: dove arriva l'adattamento?

La selezione naturale continuativa è quindi l'unico meccanismo esplicativo per l'adattamento - fatte salve le limitazioni che possono opporsi a una sua azione ottimale - ma non tutto ciò che vediamo nell'evoluzione è per forza adattativo. Spesso le spiegazioni adattative corrono invece il rischio di spingersi troppo in là, immaginando ricostruzioni speculative o storie ad hoc, difficilmente verificabili, per mostrare come ogni tratto in natura possa essere ricondotto a un adattamento ottimale. In realtà, la questione è capire prima di tutto se un carattere è davvero un adattamento, e poi come funziona, quale origine ha avuto e in quale contesto è emerso. Ancor più difficile è stabilire se un adattamento è la soluzione in assoluto ottimale per una pressione selettiva.

Gli evoluzionisti hanno notato che se immaginiamo, per un qualsiasi insieme di variabili adattative, un «morfospazio» ideale - cioè un paesaggio multidimensionale astratto che contenga tutte le diverse combinazioni adattative possibili - quasi mai gli organismi reali lo occupano in modo uniforme. Vaste regioni del possibile non sono mai state esplorate finora dall'evoluzione. La causa potrebbe essere la selezione: può darsi che siano zone di scarso adattamento. Un ruolo potrebbero però averlo anche i vincoli fisici e ontogenetici: non esistono serpenti erbivori né insetti grandi come elefanti. Non tutto è realizzabile, insomma, o forse non è mai stato raggiunto dalla storia: alcune regioni del morfospazio potrebbero essere adattative e libere da vincoli fisici, ma le mutazioni giuste potrebbero non esserci mai arrivate.

Sappiamo che un carattere omologo come le cinque dita può non avere alcun ruolo adattativo. Lo stesso dicasi di tutti gli effetti «allometrici», che Darwin conosceva bene e aveva definito «correlazioni di crescita»: le dimensioni di un organo potrebbero non avere un significato adattativo autonomo, ma essere connesse alla crescita di un'altra parte dell'organismo. Effetti strutturali come questi possono insorgere ogniqualvolta sia interessato un cambiamento che riguarda i tempi di sviluppo o un cambiamento nelle velocità di crescita di parti diverse del corpo di un organismo. Il naturalista D'Arcy Wentworth Thompson nel 1914 propose una serie di «trasformazioni» strutturali delle forme animali dovute a distorsioni nelle modalità di crescita lungo gli assi ortogonali, che oggi attribuiamo a modificazioni nei processi di regolazione dei gradienti di crescita durante lo sviluppo.

Altri dettagli, come il colore rosso del nostro sangue, potrebbero essere soltanto effetti collaterali casuali. Vi sono poi meccanismi biologici universali che ancora sfuggono a una comprensione certa in termini di selezione naturale e di adattamento: in particolare, il sesso e la vecchiaia. Di quest'ultima gli evoluzionisti sanno meno di quanto si possa supporre. Processi di invecchiamento e di deterioramento delle funzioni biologiche interessano la quasi totalità della vita pluricellulare. Come può la selezione naturale ammettere un progressivo disadattamento e indebolimento degli organismi? Evidentemente è all'opera un fattore di disgregazione crescente che la selezione non riesce a prevenire o non è interessata a prevenire. I danni biologici si accumulano portando gli organismi, in tempi e modi diversi, alla morte: essi restituiscono così all'ambiente il contenuto di ordine che avevano accumulato nel corso del loro ciclo di vita. Solo i replicatori genici sopravvivono di generazione in generazione, uniti - negli esseri umani e in pochi altri animali - ai loro corrispettivi culturali: le idee, i ricordi, gli scritti, le opere, le invenzioni.

Tuttavia, anche senza citare le capacità impressionanti di ricombinazione e di rigenerazione dei batteri, esisterebbero in natura meccanismi di riparazione biologica molto efficaci, adottati stranamente da poche specie. È come se l'invecchiamento fosse tutto sommato «tollerato» dalla selezione. In prima istanza, è evidente che la selezione naturale favorirà i tratti adattativi che agiscono negli stadi giovanili e adulti del ciclo di vita di una specie, poiché si tratta del periodo fertile dell'esistenza durante il quale l'organismo lascia discendenza. Tuttavia, è un po' semplicistico affermare che la selezione «abbandona» gli organismi a se stessi semplicemente perché hanno superato il periodo della riproduzione.

Per massimizzare la diffusione dei propri geni sarebbe infatti una strategia alternativa altrettanto buona quella di favorire l'allungamento del periodo fertile. Pochi anni in più garantirebbero un vantaggio riproduttivo notevole, piuttosto che concentrarsi soltanto sui benefici giovanili per la riproduzione a volte addirittura a scapito della sopravvivenza in età matura, come avviene nella regolazione ormonale della fertilità delle femmine di varie specie, compresa la nostra. È possibile, però, che la selezione, avendo come vincolo la limitatezza del ciclo di vita di un organismo, privilegi le mutazioni vantaggiose che agiscono nei primi stadi di vita per il semplice motivo statistico che avranno più anni a disposizione per esercitare i loro benefici effetti, e quindi secondariamente aumenteranno le possibilità di riproduzione di chi le possiede. Viceversa, se una mutazione svantaggiosa insorge con effetti precoci verrà fortemente ostacolata dalla selezione, mentre se i suoi effetti riguardano la vecchiaia la selezione sarà molto meno «attenta». Da qui, forse, il processo di invecchiamento.

L'ipotesi sembra corroborata da altre regolarità. Se le probabilità di morte per cause esterne - come la predazione - sono alte, la selezione tende a concentrare i suoi sforzi a favore della riproduzione nel periodo giovanile e a tenere corto il ciclo di vita, come succede in gran parte degli animali di piccola taglia (esclusi quelli con minori minacce esterne, come gli uccelli, che in alcuni casi sono piuttosto longevi). Al contrario, specie con massa corporea maggiore e minori rischi di mortalità giovanile tendono ad avere un ciclo di vita più lungo e una minore «ossessione» per la riproduzione precoce. Nella specie umana questa dilatazione dei tempi di crescita e di invecchiamento assume connotati spiccati, anche rispetto ai nostri parenti più prossimi, probabilmente in seguito a una riduzione della vulnerabilità da minacce esterne. La selezione ha quindi allentato la sua azione a favore della riproduzione nei primi periodi, ha allungato il periodo fertile e ha progressivamente ridotto la frequenza di mutazioni sfavorevoli in età matura. Lo svantaggio prodotto dall'avere in carico una prole poco indipendente per molto tempo è stato quindi abbondantemente travalicato dai vantaggi derivanti da un più lungo periodo di apprendimento, di crescita,

di educazione, nonché da un allungamento della vita media. Il ritmo di invecchiamento stava subendo un rallentamento graduale anche prima dell'inusitata accelerazione indotta negli ultimi due secoli dalle più favorevoli condizioni igieniche e alimentari, nonché dagli sviluppi della medicina moderna.

La riproduzione è quindi centrale in qualsiasi spiegazione evoluzionistica. Ma il sesso in sé come si è evoluto? Era la soluzione migliore? Di certo, non era l'unica possibile. In natura esiste la riproduzione asessuale o clonale: la prole è geneticamente identica al genitore in un'unica linea di discendenza e non vi è mescolamento. In altri casi, intermedi, il sesso compare ma non è associato alla riproduzione: molti unicellulari si scambiano materiale genico, ma poi ciascuna cellula si clona per conto proprio. Il sesso diventa un'abitudine con i pluricellulari, anche se non è una loro esclusiva. Il problema è che dal punto di vista selettivo è una pratica molto costosa: ogni genitore perde la metà del proprio corredo genetico a favore di un altro e i suoi figli, anziché essere suoi cloni, portano solo la metà della sua eredità genica. Un pessimo affare. La riproduzione asessuale è più semplice, più efficiente e anche molto più veloce. Perché non prende il sopravvento ovunque?

Ora, visto che il sesso esiste ed è assai praticato in natura, gli scienziati suppongono che nasconda - oltre all'indubbio piacere, per noi umani almeno - un potente vantaggio selettivo che ne bilancia e sopravanza i costi. Questa deduzione è all'origine del sospetto che gli evoluzionisti nutrono in generale per qualsiasi tecnologia di clonazione riproduttiva (che è cosa ben diversa dalla clonazione terapeutica): indurre una specie sessuale a una riproduzione asessuale significa rinunciare al vantaggio evolutivo che sicuramente il sesso porta con sé. L'antipatia sarebbe però più motivata se sapessimo effettivamente quale sia questo guadagno portentoso. Per ora, abbiamo solo ipotesi.

È possibile che il sesso aumenti le probabilità di fissare mutazioni favorevoli, ma solo se queste insorgono con una frequenza piuttosto alta, altrimenti diventa ininfluente. Viceversa, il sesso può favorire l'eliminazione rapida di mutazioni deleterie. In entrambi i casi il segreto sta nella distribuzione fra eterozigoti e omozigoti e nella nascita di una percentuale costante di questi ultimi, che favorisce sia la fissazione di mutazioni vantaggiose sia l'eliminazione rapida di omozigoti recessivi portatori di malattie. In una discendenza clonale, un carattere vantaggioso che avesse bisogno di due mutazioni dovrebbe aspettare che insorgano nello stesso individuo. Al contrario, una mutazione negativa si clona diventando una condanna per tutta la discendenza. In generale sembra che il sesso, rimescolando continuamente i geni, garantisca un maggior rifornimento di variazione utile soprattutto in contesti ambientali mutevoli - e farne a meno comporta sicuramente alcuni rischi - ma non è ben chiaro quale vantaggio ne abbiano gli organismi singoli a breve termine a parte il divertimento, che peraltro in varie specie di mammifero si è poi anche dissociato dai doveri ristretti della riproduzione.

D'altro canto, se il sesso emergesse per «selezione di gruppo» la sovversione interna di individui asessuali prevarrebbe rapidamente. Il rebus non si scioglie. Sesso, vecchiaia e altri enigmi evoluzionistici sembrano però suggerirci che il nucleo propulsivo di variazione, eredità e selezione non agisce nel vuoto in condizioni di ottimalità astratta, bensì in un contesto di vincoli interni ed esterni. In particolare, la struttura della popolazione e il modo in cui essa influisce sulla distribuzione dei «flussi» di geni all'interno di una specie ci portano alla scoperta di nuovi fattori di cambiamento.

4. La struttura della popolazione: speciazioni, migrazioni e derive

Le popolazioni di organismi sono sempre immerse in contesti ecologici e geografici. Ogni specie possiede una «nicchia» ecologica fondamentale, data dall'insieme di tutte le condizioni fisiche e ambientali in cui potrebbe vivere in assenza di competizione e con risorse illimitate, e una nicchia ecologica realizzata, cioè la porzione di habitat che la specie si è effettivamente ritagliata in mezzo alle altre. Il modo in cui le popolazioni si «strutturano» e si muovono nello spazio incide fortemente sulla loro evoluzione. L'analisi di questi fattori ci porterà a scoprire meccanismi evolutivi la cui spiegazione non era alla portata di Darwin, ma fu raggiunta in seguito mettendo a frutto alcune delle sue intuizioni.

A onor del vero, in due capitoli de L'origine delle specie Darwin mostra di essere ben consapevole dell'importanza della geografia e della dimensione «orizzontale» dell'evoluzione, cioè di come gli esseri viventi sono non solo connessi nel tempo, ma anche distribuiti nello spazio. Anzi, non è esagerato ipotizzare che la «biogeografia» sia stata la via principale che ha portato sia Darwin che Wallace a scoprire il meccanismo della selezione naturale. Darwin nel suo viaggio attorno al mondo riflette sulle variazioni regionali dei nandù argentini, sulle distribuzioni geografiche casuali dei roditori sulle isole del Cile meridionale, sull'isolamento dei mammiferi marsupiali australiani, mentre solo al ritorno comprenderà il mosaico della flora e della fauna che aveva incontrato alle Galapagos, divenuto poi un caso paradigmatico. Queste isole oceaniche di origine vulcanica dovevano infatti essere abitate dai discendenti viventi di antichi colonizzatori provenienti dalla terraferma, a meno di non ricorrere a ipotesi non scientifiche di «creazione speciale».

La colonizzazione impone però alcune restrizioni al tipo di creature che abitano le isole: solo i discendenti di animali e piante che hanno superato bracci di mare di migliaia di chilometri possono attecchire; una volta arrivati, non tutti saranno in grado di riadattarsi a un ambiente così diverso e così ostile; fra i sopravvissuti, dovremmo notare la presenza di caratteri piuttosto contingenti, poiché tutti i membri delle popolazioni odierne sono i discendenti di pochi pionieri iniziali, con caratteristiche uniche e casuali; infine, il cambiamento delle pressioni selettive avrà sicuramente modificato la morfologia e il comportamento degli isolani rispetto ai loro cugini rimasti sulla terraferma.

Questi eventi di dispersione e di colonizzazione sono dunque un caso emblematico per vedere all'opera alcuni dei meccanismi di fondo dell'evoluzione. Le previsioni biogeografiche darwiniane hanno trovato alle Galapagos, alle Hawaii e in molti altri arcipelaghi notevoli corrispondenze, benché probabilmente le distinzioni fra aree faunistiche obbediscano anche ad altri processi ecologici e geologici su larga scala che Darwin a quel tempo sottovalutò. Le isole oceaniche, a conferma di quanto previsto, hanno di solito poche specie distribuite fra i gruppi principali: rettili e uccelli ci sono quasi sempre, mentre la presenza di mammiferi e anfibi non è uniforme. La composizione dipende quasi esclusivamente dalla difficoltà di superare l'ostacolo geografico, non dal clima né dalle possibilità di adattamento, tanto è vero che numerose specie «aliene» introdotte dall'uomo proliferano incontrollate, spesso devastando l'ecosistema originario.

La composizione contingente delle specie in ciascun gruppo ha fatto sì che alle Galàpagos, su venti specie di uccelli di terra, quattordici siano di fringuelli. Come previsto, molte specie, pur presentando forti affinità con quelle continentali, hanno tratti unici, soprattutto nella diversificazione adattativa dei becchi. Simili specializzazioni adattative in ecosistemi isolati sono state poi scoperte nei moscerini della frutta alle Hawaii, come nei pesci ciclidi del lago Vittoria in Africa. Queste differenze morfologiche possono anche non implicare grosse divergenze genetiche: i fringuelli di Darwin, passati recentemente sotto la lente delle comparazioni genetiche, hanno rivelato un'origine comune molto recente (circa due milioni di anni) a partire da un antenato di terraferma. Emerge allora una questione di vitale importanza: nel gioco degli adattamenti, delle nicchie ecologiche e delle discendenze, che cosa separa realmente le specie?

Definire una specie: l'isolamento riproduttivo

La teoria dell'evoluzione ha il compito di spiegare, come si è detto, non soltanto la struttura degli adattamenti degli organismi, ma anche la loro diversità, solitamente associata all'entità tassonomica fondamentale che chiamiamo «specie». E' opinione comune, da molto tempo prima che nascesse l'idea di evoluzione, che gli esseri viventi siano divisi in unità o varietà discrete. Tutti i popoli della Terra hanno da sempre osservato la natura circostante in questo modo, organizzandola in gruppi di animali e vegetali distinti con nomi specifici, con caratteristiche e abitudini peculiari. Eppure, la comprensione di come sia possibile la formazione di unità discrete a partire da un processo continuo come l'evoluzione per selezione naturale è molto più insidiosa di quanto possa apparire a prima vista.

Sembra paradossale, ma l'oggetto principale di studio degli evoluzionisti, le specie, sfugge ancora a una definizione univoca. La divisione in unità discrete è un dato di fatto, ma non sembra così «necessario» dal punto di vista della teoria. Notiamo dunque che il carattere continuo della selezione naturale deve saper affrontare un duplice contrasto: 1) verso il basso, quello con le unità discrete di informazione genetica che costituiscono la sua materia prima; 2) verso l'alto, quello con le unità discrete di livello superiore, le specie, attorno alle quali si organizzano le forme viventi.

In effetti, Darwin sapeva bene che un meccanismo cumulativo, lento e graduale da solo non avrebbe permesso di definire i confini esatti fra due specie. Egli ricorse pertanto a una definizione nominalista dell'oggetto: le specie sfumano gradualmente l'una nell'altra e anche quando divergono lo fanno in modo talmente lento da rendere impossibile la definizione oggettiva di un punto di separazione. Tanto vale ammettere che le specie siano soltanto etichette convenzionali che i naturalisti appiccicano su sequenze di fossili omogenee o su gruppi di organismi coesi. Quanto alla loro separazione, secondo Darwin avverrà per divergenza, a causa della competizione tra forme diverse nello stesso territorio. L'integrazione successiva fra teoria darwiniana e mendelismo non risolverà il problema. Molti genetisti di popolazione, come Haldane, adotteranno la strategia nominalista e rifiuteranno di dare alle specie uno statuto autonomo di realtà biologica.

Del resto, non si poteva nemmeno tornare alla definizione tipologica predarwiniana di specie, ovvero all'idea che la natura fosse suddivisa in «tipi» ideali distinti da un punto di vista morfologico. Era una concezione fenotipica intuitiva di specie che creava troppi problemi: non permetteva di distinguere chiaramente le varietà fenotipiche all'interno di una specie (specie politipiche) dalle specie vere e proprie; non riusciva a discernere le differenze fra specie pressoché identiche morfologicamente, ma che non si mescolavano mai (specie gemelle)-, contraddiceva il presupposto darwiniano cruciale secondo cui la diversità del singolo individuo non è una deviazione dalla norma standard di specie, ma al contrario una variazione ereditabile e potenzialmente in grado di diffondersi nella specie, modificandola. Se dobbiamo distinguere le specie, a volte il fenotipo inganna. Tornare a definizioni tipologiche di specie avrebbe significato, inoltre, tradire la concezione «popolazionale» alla base della rivoluzione darwiniana: l'idea cioè che il primo motore dell'evoluzione sia la reale variazione individuale, senza «modelli standard» né «esemplari-tipo».

Alcuni autorevoli evoluzionisti neodarwiniani della prima metà del Novecento, come Theodosius Dobzhansky, Julian Huxley ed Ernst Mayr, insoddisfatti della nozione nominalista di specie, cominciarono ad indagare più a fondo i meccanismi di isolamento delle specie e giunsero ben presto a una scoperta fondamentale per l'odierna biologia evolutiva. Alcuni naturalisti di fine Ottocento, riprendendo i temi biogeografici di Darwin e le sue intuizioni sul popolamento degli arcipelaghi, avevano già ipotizzato che la separazione geografica fosse un fattore importante di distinzione fra le specie. Era noto, poi, che l'accoppiamento all'interno di una specie è fertile, mentre fra due specie diverse tende a non esserlo più. Furono però Dobzhansky e soprattutto Mayr nel 1942 a connettere sistematicamente l'isolamento geografico all'isolamento riproduttivo, proponendo la cosiddetta «nozione biologica di specie»: una specie è una comunità riproduttivamente chiusa, cioè una popolazione di organismi che si incrociano e si scambiano geni solo fra loro e non con popolazioni imparentate. Le specie hanno quindi una realtà biologica discreta e il confine è dato proprio dalla barriera di incrocio: se due popolazioni non si fecondano vicendevolmente, non vi è più «flusso genico» (cioè scambio di geni) e il loro destino evolutivo è indipendente. Se invece tutti i membri di tutte le popolazioni sono fertili fra loro, come nel caso dei sei miliardi e mezzo di esseri umani che abitano il pianeta, significa che appartengono alla stessa specie. Il collante di specie è proprio il flusso di geni che gli individui si scambiano.

Nasceva così la «nuova sistematica». I genetisti cominciarono a valorizzare la connessione fra la distribuzione della variabilità genetica all'interno di una specie e la sua distribuzione geografica. Una specie composta da diverse popolazioni geograficamente separate tende infatti a frammentarsi in sottovarietà con un alto polimorfismo molecolare. Viceversa, una specie costituita da un'unica popolazione con un flusso genico costante come quella umana (tutti si incrociano con tutti indipendentemente dal luogo) avrà un polimorfismo molecolare basso.

Le specie tendono a scomporsi in popolazioni con tratti differenti in base al luogo geografico: è un fenomeno universale che chiamiamo «variazione geografica», che spesso si presenta con gradazioni continue e che può essere causato dal normale adattamento a condizioni diverse. La forte coesione genetica di una specie dipenderà allora anche dalla sua età e dalla quantità di flussi migratori. Nel caso umano certi polimorfismi particolari saranno tipici di alcune popolazioni (per esempio, i gruppi sanguigni e altre varianti genetiche hanno talune connotazioni etniche), ma le differenze medie fra due individui qualsiasi saranno sempre maggiori delle differenze medie fra due popolazioni. Anche negli esseri umani osserviamo una certa variazione geografica (soprattutto nel colore della pelle e in altre caratteristiche anatomiche, dette «antropometriche»), ma ciò è molto superficiale perché siamo una specie giovanissima e con un tasso migratorio alto. I pochi caratteri che variano, peraltro, non presentano associazioni stabili. Per questo possiamo ancora parlare di «razze canine», isolate dagli allevatori in modo artificiale e parossistico, ma non di «razze umane» distinte. In generale, la categoria di «razza» o di «sottospecie» nell'evoluzione è piuttosto incerta.

L'origine delle specie

La nozione biologica di specie e lo studio della regolazione geografica del flusso genico fecero comprendere agli evoluzionisti l'importanza della struttura riproduttiva ed ecologica delle popolazioni in natura. Permisero inoltre di ipotizzare per la prima volta un meccanismo preciso di «speciazione», cioè di nascita di una nuova specie. Quando il flusso genico fra due popolazioni appartenenti alla stessa specie madre si interrompe a causa di una barriera geografica o di una migrazione, intuì Mayr, le due popolazioni cominciano a divergere geneticamente e morfologicamente, fino al punto di diventare reciprocamente infeconde: se passa un lasso di tempo sufficientemente lungo di separazione, i membri delle due popolazioni che dovessero rincontrarsi non riuscirebbero più a incrociarsi con successo, generando prole ibrida o nessuna prole.

La barriera geografica si trasforma in una barriera riproduttiva. La speciazione avviene secondo Mayr per dislocamento di una popolazione in un territorio separato e si definisce per questo «allopatrica». I fringuelli di Darwin vennero pertanto reinterpretati come discendenti di una sequenza di speciazioni allopatriche, prima dalla terraferma all'arcipelago, poi da isola a isola. La barriera riproduttiva peraltro non porta necessariamente con sé adattamenti fenotipici visibili: con questa scoperta si dava finalmente ragione del fatto che la distinzione fra specie non è proporzionale alle differenze morfologiche. Le specie gemelle, diffuse soprattutto fra gli insetti, sono pressoché identiche l'una all'altra nel fenotipo, ma biologicamente separate.

Gli evoluzionisti avevano così scoperto che il meccanismo di produzione di nuove specie necessitava di una forte componente ecologica. Non basta l'accumulo di piccole modificazioni genetiche distribuite nella popolazione, come pensavano molti genetisti dell'epoca: occorre un contesto ecologico instabile che separi le popolazioni. Oggi sappiamo tuttavia che l'interruzione del flusso genico fra due popolazioni può avvenire per ragioni molteplici e non soltanto a seguito del cambiamento di habitat. Il problema può insorgere a monte della fecondazione (isolamento pre- zigotico)-. può essere causato da cambiamenti nei riti o nelle tecniche per cercare e attirare i partner; da problemi meccanici che impediscono l'incrocio; da uno sfasamento nel periodo dell'anno dedicato all'accoppiamento; da un cambiamento dei luoghi di accoppiamento. Oppure la barriera di incrocio si può manifestare dopo l'atto sessuale (isolamento post-zigotico): lo sperma maschile non riesce più a fecondare la femmina; oppure riesce a fecondarla ma la prima generazione di ibridi non riesce a svilupparsi e non sopravvive; in altri casi gli ibridi sopravvivono ma sono sterili; certe volte è sterile e disadatto solo uno dei due sessi, in particolare quello con i due cromosomi diversi (il maschio nei mammiferi, la femmina negli uccelli). Tuttavia, la maggior parte delle modificazioni morfologiche, etologiche ed ecologiche che inducono isolamento pre e post-zigotico avvengono comunque in conseguenza di una frammentazione allopatrica della popolazione.

Esistono poi casi intermedi - come gli incroci fra cane, coyote e sciacallo - in una gamma pressoché continua di gradazioni di isolamento riproduttivo. A volte l'isolamento riproduttivo si manifesta attraverso distribuzioni geografiche molto peculiari. Ci sono specie che hanno una variazione geografica continua su un ampio areale di distribuzione, al punto che gli individui ai due estremi del territorio differiscono così tanto da non riuscire più a fecondarsi: eppure sono collegati da una serie continua di popolazioni che si incrociano. Se una di queste popolazioni si estinguesse, interrompendo la serie, avremmo la separazione di due specie. Nel caso dei gabbiani reali dell'Atlantico settentrionale si crea una situazione ancora più interessante: essendo distribuiti circolarmente lungo l'emisfero boreale dall'Europa alla Siberia e al Canada, i due estremi della loro serie di popolazioni si toccano a formare un anello. Nel punto di sovrapposizione non c'è incrocio, ma alle spalle di esso c'è una serie di popolazioni contigue che si incrociano l'una con l'altra (dette «specie ad anello»). Le salamandre californiane del genere Ematina formano un anello simile da nord a sud, con incroci nelle fasce intermedie e barriera riproduttiva completa all'estremità meridionale.

La gradazione di queste situazioni intermedie fra variazione interna alle specie e variazione fra specie ci fa capire che il tentativo di attribuire una forte identità discreta alle specie, in quanto unità biologiche palesemente distinte, non è completamente realizzabile poiché vi sono casi limite in cui la continuità nel processo di separazione riproduttiva lascia margini di incertezza. Il pendolo sembra oscillare a volte verso la posizione darwiniana originaria, che rifiutava di stabilire una demarcazione netta fra le varietà e le specie. Anche se di norma la barriera riproduttiva è un buon criterio, il confine fra specie può essere in alcuni casi piuttosto sfumato: un gradiente di differenziazione che diluisce il flusso genico finché le due popolazioni risultano riproduttivamente separate.

Il movimento delle popolazioni nello spazio, in tale contesto, ha un ruolo duplice. La migrazione può essere una forza «speciativa» se contribuisce a separare irreversibilmente una popolazione dalla specie madre, il che accade di solito in coincidenza con importanti cambiamenti ecologici su vasta scala. Oppure può introdurre ripetutamente in una popolazione varianti svantaggiose che la selezione non riesce a eliminare e che finisce per tollerare aumentando la variabilità interna. Normalmente la migrazione è invece una potente forza livellatrice poiché rimescola in tempi piuttosto rapidi le popolazioni, impedendo l'isolamento riproduttivo, prevenendo l'inincrocio - che si ha quando gli individui di una piccola popolazione si incrociano solo al proprio interno diventando molto omogenei - e unificando velocemente le frequenze geniche. Le migrazioni abbassano per esempio l'alta frequenza di omozigoti - compresi quelli recessivi portatori di malattie genetiche rare - presenti nelle popolazioni isolate. Dunque, la migrazione raramente separa e frequentemente unisce.

Specie e speciazioni: una pluralità di processi possibili

L'isolamento riproduttivo non è allora di per sé un evento discreto, del tipo «tutto o niente», ma può progressivamente generare entità discrete in determinati contesti ecologici. La sua capacità di emergere in popolazioni separate è stata abbondantemente verificata anche in laboratorio. Tuttavia, il rapporto fra isolamento riproduttivo e selezione naturale, come già sospettava Darwin, è abbastanza problematico, poiché non vi è alcun vantaggio evidente e diretto ricavabile dallo sviluppo di una difficoltà di accoppiamento fra due popolazioni. La selezione naturale, rispetto alla speciazione in sé, sembra quindi avere un ruolo non di causa primaria, innescante, bensì di causa secondaria o di rinforzo.

Questo punto fu oggetto di aspri dibattiti in seno alla comunità scientifica. La barriera di incrocio fra due specie è chiaramente il prodotto collaterale di cambiamenti di tipo geografico, ecologico o comportamentale. Solo dopo che una barriera geografica ha isolato una popolazione, gli altri due motori dell'evoluzione (mutazione e selezione) entrano in azione per

far divergere la composizione genetica delle due popolazioni. Questo principio è ritenuto oggi acquisito, anche se probabilmente non ha validità universale poiché talvolta - quando per esempio cambiano rapidamente le pressioni selettive in una parte dell'areale di una specie oppure si consolidano due risposte adattative diverse alla medesima pressione selettiva - è la selezione naturale a dare inizio direttamente alla divergenza e all'interruzione del flusso genico.

Disponiamo oggi di una tassonomia estesa e variegata di nozioni di specie e di processi speciativi, che condividono però la presenza quasi costante dell'isolamento riproduttivo come marchio della separazione fra specie (vedi box 4).

Box 4. Nozioni di specie

Le tre nozioni storiche di specie sono:

• NOZIONE TIPOLOGICA (la specie come «tipo» ideale standard, morfologicamente distinguibile);

• NOZIONE CONVENZIONALISTICA (la specie come etichetta tassono¬mica per distinguere popolazioni di organismi imparentati);

• NOZIONE BIOLOGICA (la specie come entità biologica reale, ovvero come comunità riproduttivamente chiusa).

Quest'ultima è la nozione di specie attualmente adottata, anche se è stata affiancata e integrata da altre definizioni. L'isolamento riproduttivo rimane comunque un requisito fondamentale.

Nozioni attuali di specie:

1. Concetto biologico di specie un gruppo di popolazioni riproduttivamente isolato;

2. Concetto ecologico di specie-, una linea di discendenza separata che occupa una nicchia adattativa specifica;

3. Concetto evoluzionistico di specie-, una singola linea di discen¬denza storicamente ed evolutivamente separata dalle altre;

4. Concetto filogenetico o cladistico di specie-, il più piccolo ed esclusivo gruppo monofiletico di discendenza comune;

5. Concetto di specie per riconoscimento-, la più piccola popolazione di organismi che condividono lo stesso sistema di fertilizzazione;

6. Concetto di specie per coesione genotipica o fenotipica-, la più piccola popolazione di organismi distinguibili (morfo¬logicamente o geneticamente), che non presenti forme in-termedie con altre.

Se la comunità di organismi interfecondi è tenuta insieme da specifici sistemi sensoriali di riconoscimento del partner per l'accoppiamento, come i canti o le colorazioni della livrea, si parla di nozione di specie basata sul riconoscimento, una variante della nozione biologica. Altri preferiscono invece far coincidere la specie con un insieme di organismi simili che sfruttano una specifica nicchia ecologica attraverso adattamenti peculiari (nozione ecologica di specie).

Benché il modello allopatico di Mayr sia quello decisamente più documentato, anche la speciazione è oggi interpretata in modo pluralistico (vedi box 5).

Box 5. I meccanismi di speciazione

• Speciazione allopatrica (interruzione del flusso genico a causa di una barriera geografica; frequenza massima in natura);

• Speciazione parapatrica (flusso genico interrotto, ma in contiguità territoriale);

• Speciazione simpatrica con selezione di rinforzo (divergenza a seguito di ibridazione disadattativa, nello stesso territorio);

• Speciazione simpatrica per selezione sessuale (divergenza a seguito di isolamento comportamentale, nello stesso territorio);

• Speciazione per ibridazione (cromosomica o genica).

Sono considerati possibili, anche se non frequenti, fenomeni di speciazione «parapatrica», cioè in presenza di due popolazioni contigue che sviluppano una zona ibrida al loro confine, progressivamente degenerante in un isolamento riproduttivo totale. Allo stesso modo si ricomincia a discutere di possibili speciazioni «simpatriche» alla Darwin, allorché una popolazione si spacca in due entità geneticamente indipendenti - a causa di cambiamenti adattativi o di accoppiamento o forse per selezione sessuale divergente - e matura quindi una separazione riproduttiva. Esiste poi la peculiare «speciazione per ibridazione», che si verifica (soprattutto nel mondo vegetale) quando gli ibridi fra due specie non si incrociano più con le specie genitrici, ma diventano fecondi fra loro duplicando il loro corredo cromosomico per poliploidia. E’ particolarmente importante perché è stata ripetuta in laboratorio ed è usata oggi estesamente in agricoltura e floricoltura: è il primo caso di speciazione con isolamento riproduttivo riprodotto artificialmente per fini commerciali.

La nozione biologica di specie e i meccanismi speciativi che ne conseguono presuppongono la riproduzione sessuata e non includono quindi una definizione di specie adeguata alla parte di mondo naturale che non conosce il sesso. In questi casi sarà utile fare riferimento anche a una qualche nozione ecologica. Si devono poi aggiungere categorie che vadano bene nei casi in cui, come nel mondo unicellulare dei batteri e degli archeobatteri, gli organismi si scambiano direttamente parti del genoma. La definizione di specie adottata in questi casi torna ad essere piuttosto arbitraria e non vi è nemmeno consenso unanime sul fatto che questi regni del vivente siano davvero suddivisi in specie discrete. Dove c'è trasferimento genico in orizzontale diventa assai difficile anche ricostruire filogenesi attendibili perché il nostro familiare albero di discendenza si trasforma in una rete intricata.

Le specie fossili pongono analoghi problemi, non potendo noi verificare direttamente se vi fosse isolamento riproduttivo, come sanno bene i paleontologi alle prese con il conteggio delle molteplici specie appartenenti alla famiglia dei nostri antenati ominidi. Lo sviluppo recente dell'analisi molecolare comparata a partire da tracce di Dna fossile (una sorta di «archeogenetica») può aiutarci a capire se due popolazioni estinte appartenevano alla stessa specie. Se però i reperti sono molto antichi il metodo non funziona e la nozione biologica di specie ci aiuta poco: dobbiamo tornare ai buoni vecchi metodi intuitivi di una volta.

Le cause e i ritmi della speciazione

Le cause fisiologiche che inducono la rottura del flusso genico fra due popolazioni sono in fase di studio e possono essere legate sia allo scarso adattamento biologico degli ibridi sia a incompatibilità genetiche. In alcuni casi il flusso genico è interrotto nella realtà, a causa di comportamenti o procedure di accoppiamento divergenti, ma non è impossibile in assoluto: se in laboratorio le due popolazioni vengono fatte accoppiare forzatamente danno ancora origine a una prole fertile. In altri casi la selezione naturale comincia ad agire contro la sopravvivenza degli ibridi fra due tipi genetici in una specie e innalza una barriera riproduttiva anche senza separazione geografica («selezione di rinforzo»), il che spiegherebbe perché in alcuni casi due specie a contatto si assomigliano meno di quando sono separate. La selezione di rinforzo è centrale per dimostrare come siano possibili speciazioni simpatriche e parapatriche. Di solito, tuttavia, in presenza di popolazioni separate ecologicamente la selezione non interviene né per favorire né per rallentare le possibilità di incrocio, che quindi svaniscono lentamente da sole a causa dell'accumularsi di varianti genetiche divergenti.

Quando un insieme consistente di geni comincia a essere diverso fra le due popolazioni, la loro unione negli ibridi inizia a manifestare caratteristiche prima disfunzionali e poi deleterie per la sopravvivenza. Probabilmente ciò è dovuto al carattere sistemico e integrato dei genomi: un nuovo adattamento ecologico modifica le frequenze di geni che in qualche modo - per interazioni epistatiche, pleiotropia o per effetti autostop – sono correlati a geni implicati nell'accoppiamento e nella riproduzione. La speciazione non richiede quindi meccanismi speciali né sospensioni della selezione naturale, giacché può essere intesa come un prodotto collaterale di adattamenti divergenti.

Dalle cause dell'isolamento riproduttivo dipendono anche i tempi necessari per completare la separazione fra due specie. I risultati sperimentali dicono al riguardo che i ritmi di speciazione possono essere i più diversi. Variano da milioni di generazioni in alcuni organismi (quando la speciazione reca con sé profonde divergenze genetiche) a poche migliaia in altri (quando la speciazione è molto superficiale geneticamente e si concentra sui tratti morfologici o comportamentali). Nel lago Vittoria in Africa, formatosi 14.500 anni fa, si sono prodotte più di 500 specie di pesci ciclidi, oggi peraltro minacciate di estinzione dall'introduzione di una specie aliena, la perca del Nilo. Una buona media del ritmo di speciazione si aggira intorno ad alcune decine di migliaia di anni.

Questi ritmi possono sembrare lenti all'occhio umano, ma per un paleontologo sono velocissimi. Nel 1972 un'estensione della teoria della speciazione allopatrica di Mayr permise a due paleontologi americani, Niles Eldredge e Stephen J. Gould, di ridefinire i ritmi di evoluzione delle specie in un modo che per la prima volta sfidava il rigido gradualismo presupposto dai genetisti neodarwiniani. Infatti, se la speciazione allopatrica interessava piccole popolazioni, per ragioni strettamente statistiche i meccanismi darwiniani di divergenza avrebbero potuto determinare la nascita di nuove specie in tempi piuttosto rapidi, che agli occhi del paleontologo abituato a ragionare in termini di milioni di anni e a riconoscere soltanto distinzioni morfologiche sarebbero parsi quasi «istantanei». L'evoluzione per ramificazione darwiniana veniva così leggermente modificata: non più solo lente divergenze progressive di tipo simpatrico, ma specie madri a volte molto stabili e longeve che «gemmano» rapidamente specie figlie in quantità variabili, solitamente associate a modificazioni ecologiche locali.

Per converso, sembrò allora non meno evidente che per lunghi periodi le specie fossero in grado di attuare strategie di stabilizzazione tali da mantenerle pressoché inalterate. Questa immagine generale della vita delle specie, caratterizzata da estesi periodi di stabilità delle specie madri interrotti da bruschi episodi di speciazione rapida, venne definita equilibrio punteggiato. Pur essendo stata per qualche tempo male interpretata come un ritorno al «discontinuismo» dei primi genetisti antidarwiniani del Novecento, che avevano tentato di sostituire la lenta azione cumulativa della selezione naturale con «macromutazioni» genetiche autosufficienti, la teoria degli equilibri punteggiati non presenta alcun elemento di incompatibilità con il nocciolo esplicativo darwiniano ed è oggi valutata pragmaticamente per la sua frequenza di incidenza nei pattern di discendenza delle specie. Secondo alcuni evoluzionisti l'equilibrio punteggiato è raro, secondo altri sarebbe invece la norma e confermerebbe l'intuizione di Mayr secondo cui non vi è proporzione diretta fra la quantità di differenze morfologiche esistenti fra due specie e il loro tempo di separazione. È utile notare che questa revisione del neodarwinismo è nata all'interno del programma di ricerca della «Sintesi moderna» stessa e ha prodotto un'ulteriore estensione delle capacità esplicative del nucleo darwiniano, non certo una sua confutazione.

Comunque sia, il concetto di equilibrio punteggiato ha avuto, fra i suoi meriti, quello di sottolineare l'importanza della speciazione come momento di innovazione, anche adattativa, cruciale; quello di cogliere il ruolo del contesto ecologico instabile per la proliferazione delle specie; quello di dar conto in modo realistico, e compatibile con il nocciolo darwiniano, dei rapidi cambiamenti visibili nella storia naturale alla scala del tempo geologico; e quello di evidenziare i meccanismi che producono, al contrario, la resistenza al cambiamento da parte delle specie. Fra questi, oggi conosciamo la coesione del corredo genetico, la monotonia della nicchia ecologica, la selezione stabilizzatrice, la capacità delle specie di evitare il cambiamento inseguendo l'habitat più congeniale. Questa attitudine conservatrice delle specie si spinge in alcuni casi a produrre i «fossili viventi», animali la cui morfologia risulta quasi inalterata da decine di milioni di anni. Con gli equilibri punteggiati, la stabilità delle specie, da una parte, e i bruschi cambiamenti connessi a episodi di speciazione, dall'altra, smisero di essere un mistero in una prospettiva darwiniana.

Il gene indifferente

Il quadro esplicativo della speciazione è insomma alquanto complicato, sia per i modi sia per i tempi di realizzazione, anche se il modello allopatrico ha permesso un avanzamento fondamentale nella sua comprensione. A ciò si aggiunga che le popolazioni possono differire fra loro anche in modo casuale e rispetto a tratti che non hanno alcun effetto sulle capacità di sopravvivenza e di riproduzione dei loro membri. Abbiamo visto nel secondo capitolo che molte mutazioni possono essere «neutrali» rispetto alla selezione naturale. Una mutazione neutrale, indifferente, senza vantaggi né svantaggi, non viene letteralmente «vista» dalla selezione e può passare da una generazione all'altra facendo sì che i discendenti differiscano dagli antenati senza alcuna ragione selettiva apparente. Per esempio, un allele recessivo che si «nasconde» negli eterozigoti senza avere effetti sul fenotipo non viene «visto» dalla selezione e sopravvive nella clandestinità. Il ruolo di queste varianti neutrali e le loro possibili applicazioni per lo studio della filogenesi furono evidenziati dal genetista giapponese Motoo Kimura alla fine degli anni sessanta del secolo scorso.

Alcuni decenni prima, Sewall Wright aveva scoperto che in assenza di pressioni selettive alcune popolazioni, soprattutto se di limitate dimensioni e diffuse in spazi ristretti, potevano accumulare mutazioni genetiche che si evolvono casualmente, cioè senza alcuna ragione adattativa e selettiva: un fenomeno battezzato «deriva genetica» {genetic drift). Le varianti casuali possono riguardare sia il Dna sia sequenze proteiche che non abbiano effetti visibili. La distribuzione dei gruppi sanguigni nelle popolazioni umane è un esempio classico di deriva genetica. Gli effetti della deriva genetica furono inizialmente sottovalutati: in realtà essa influisce sostanzialmente sulla composizione genetica di qualsiasi popolazione, integrando gli effetti delle mutazioni e della selezione naturale.

Ogni mutazione neutrale viene trasmessa da un portatore che non avrà alcun vantaggio dall'averla: essa quindi non inciderà sul suo numero di discendenti e potrà essere «estratta» casualmente a ogni generazione come in una lotteria. Ciò determina oscillazioni casuali della variante neutrale dovute ai diversi campionamenti casuali a cui è sottoposta: se il portatore non ha figli si estingue in quella linea di discendenza, mentre se ha prole si diffonde; può darsi che un figlio non abbia quell'alide oppure che la discendenza sia sottoposta a una decimazione casuale (come nel caso delle specie che rilasciano milioni di uova). Statisticamente, in una popolazione limitata si tenderà a toccare uno dei due estremi di minima o di massima «fortuna»: in una data generazione nessun portatore diffonde la mutazione neutrale, che si estingue; oppure in una data generazione tutti i portatori avranno la mutazione neutrale (in questo caso diremo che vi è stata una «fissazione» per deriva genetica). Ogni caso intermedio fa parte della normale variabilità genetica fluttuante in qualsiasi popolazione, ma la deriva è una forza che a lungo andare tende a ridurre la variazione neutrale e che bilancia l'insorgenza di nuove mutazioni.

La velocità di cambiamento delle frequenze geniche per deriva è inversamente proporzionale alle dimensioni della popolazione: più è piccola, più la deriva sarà rapida e influente, perché il campione casuale della variabilità rispetto alla popolazione più ampia si discosterà maggiormente dalla media. Lo si può notare nei casi in cui una piccola popolazione si stacca dalla specie madre e va a colonizzare un nuovo territorio (effetto del fondatore). I pochi fondatori iniziali della colonia saranno rappresentativi di una piccola porzione soltanto della variabilità della popolazione parentale e trasferiranno ai successori i loro caratteri peculiari. Un caso emblematico è rappresentato dai piccoli gruppi umani colonizzatori, per esempio i boeri che occuparono il Sudafrica, nei quali compaiono malattie rare in percentuali abnormi che riscontriamo ancora oggi nei loro discendenti. Può anche succedere che non vi sia alcuna migrazione coloniale, ma che la popolazione venga decimata a tal punto da una carestia o da una crisi ambientale da ridursi a pochi individui, che trasmetteranno ai discendenti il loro campione casuale di geni (effetto collo di bottiglia).

Se i diversi genotipi sono soggetti a pressioni selettive oppure se la popolazione è molto grande, gli effetti della deriva genetica si smorzano e diventano insignificanti. Ma l'altra possibilità estrema, quella della fissazione, è raggiungibile se la popolazione è molto piccola. La deriva genetica offre un contributo significativo, insieme alla mutazione e alla selezione ma anche indipendentemente da loro, alla divergenza fra popolazioni isolate e quindi alla speciazione. Potrebbe essere un fattore centrale nella formazione dell'isolamento riproduttivo nelle speciazioni allopa- triche. Comunque sia, in quanto fattore connesso alla struttura della popolazione, contribuisce ad alterare e a modificare le frequenze geniche. Dunque non è esagerato affermare che speciazioni, migrazioni e derive rappresentano un terzo motore fondamentale dell'evoluzione.

L'orologio dell'evoluzione

Possiamo ora ulteriormente apprezzare l'importanza dell'informazione genetica per dedurre le relazioni fra le specie. La comparazione morfologica infatti, pur restando un criterio utile, rischia spesso di essere ingannevole perché non ci aiuta nella distinzione fra specie diverse né nel calcolo della loro età e del loro grado di parentela. La versione genetica dell'«unità nella diversità» può diventare un metodo più efficace per ricostruire l'albero della vita, poiché la comparazione del numero di basi che variano fra due geni omologhi in due specie è un indizio per calcolare la loro parentela.

Specie strettamente imparentate avranno una percentuale bassissima di basi diverse: poche provenienti da Dna codificante (in questo caso parleremo di «sostituzioni» che cambiano la sequenza proteica corrispondente, alterando il fenotipo), le altre provenienti da Dna non codificante e quindi «silenti». Con l'aumentare della divergenza genetica aumenta la lontananza filogenetica fra le specie messe a confronto. Se a variare sono però tratti di Dna codificante, è bene notare che anche poche sostituzioni, se ben «piazzate» nella gerarchia dei geni, possono produrre fenotipi molto diversi: ecco spiegato perché le morfologie qualche volta ci ingannano. Una minima alterazione dei geni regolatori, abbiamo visto, pur incidendo pochissimo sulla divergenza genetica totale può sconvolgere il piano corporeo di una specie rispetto all'altra. Esse risulteranno quindi strettamente imparentate, ma molto diverse nell'aspetto esteriore. Viceversa, una percentuale molto alta di divergenza genetica «silente» su Dna non codificante può lasciare due specie pressoché identiche.

Una buona stima della divergenza genetica deve quindi contemplare sempre una media fra sostituzioni effettive di aminoacidi e differenze silenti. Per fortuna vanno quasi sempre di pari passo in proporzione, anche se le differenze silenti sono sempre più del doppio delle sostituzioni e misurano molto meglio il grado di parentela. Nel caso della specie umana, abbiamo visto che il valore più basso di divergenza è decisamente quello con gli scimpanzé (circa 1,2% per il Dna non codificante), seguito da quello con i gorilla (1,6%) e con gli orangutan, mentre più distanziati ancora abbiamo i babbuini e gli altri primati. Possiamo poi estendere le comparazioni e trovare le «distanze molecolari» fra mammiferi diversi - fra primati e roditori, per esempio - e poi fra mammiferi, uccelli e rettili. Se andiamo troppo in là, però, le misure si fanno imprecise perché i Dna cominciano a differire molto, i tassi di evoluzione sono ineguali ed è possibile che in una stessa base nucleotidica siano intervenuti nel corso del tempo eventi mutazionali multipli, non riconoscibili, che falsano i dati.

E’ facile capire perché le differenze silenti sono più comuni e più rapide: la selezione naturale non le «vede» e si accumulano più facilmente. Le sostituzioni invece vengono eliminate ogni volta che implicano una funzionalità anche leggermente inferiore. In linea di massima, le differenze silenti tendono anche ad accumularsi con un ritmo più regolare, oltre che più veloce, perché non sono soggette al filtro selettivo mutevole e contingente: si diffondono nelle popolazioni seguendo le fluttuazioni casuali della deriva genetica. I genetisti oggi riescono a misurare i tassi di mutazione, specie per specie, con una certa affidabilità, facendo la media fra regioni neutrali del Dna con tassi di mutazione più alti, come gli pseudogeni e altre porzioni di Dna ridondante, e regioni codificanti con tassi di mutazione ridotti.

L'idea è che le mutazioni neutrali, non soggette a selezione, si accumulino a un ritmo tipico di ciascuna specie, uniforme e misurabile. Tale ritmo infatti non dipenderebbe dai cambiamenti ambientali (non essendoci selezione) né dalle dimensioni della popolazione poiché si bilanciano due forze uguali e contrarie: più la popolazione è piccola più la velocità della deriva genetica aumenta, ma se la popolazione è grande il numero di mutazioni è maggiore e ci vorrà più tempo perché una ne sostituisca un'altra, quindi mutazione neutrale ed evoluzione neutrale coincidono. Il tasso di mutazione neutrale corrisponderebbe allora a un «ticchettio» abbastanza regolare (anche se non del tutto) e cautamente affidabile nel tempo.

A questo punto è sufficiente calibrare il tasso di mutazione neutrale medio fra due specie e potremo calcolare, proprio come un orologio, la data in cui si sono separate anche senza avere una sola prova fossile. Basterà contare quante mutazioni divergenti hanno accumulato e troveremo il periodo, con qualche margine di errore, in cui è vissuto il loro ultimo antenato comune. Nel caso della parentela fra esseri umani e scimpanzé questo «orologio molecolare» ha espresso una data di separazione fra i 6 e i 7 milioni di anni fa. L'orologio molecolare è un metodo molto simile a quello delle comparazioni linguistiche usate dai glotto-cronologi. Non è sempre così facile, ovviamente, soprattutto per specie imparentate più alla lontana, con tempi di generazione e dimensioni della popolazione molto diversi: in questi casi si provano orologi molecolari multipli. È anche vero però che su periodi sufficientemente lunghi selezione e deriva accumulano comunque cambiamenti a un ritmo via via più uniforme, utile per misurare il tempo di separazione fra due specie.

Queste previsioni sulla regolarità e sulla velocità dell'evoluzione molecolare fanno parte della cosiddetta «teoria neutrale dell'evoluzione molecolare» di Kimura e sono state in parte confermate dalle osservazioni e dagli esperimenti successivi, anche se permangono accese discussioni sull'importanza relativa dei processi casuali di deriva rispetto a quelli selettivi. E’ ritenuto impossibile che la deriva casuale possa produrre adattamenti sostituendo la selezione, tuttavia è ormai accettato il fatto che le mutazioni riguardanti il Dna non codificante, ovvero più del 90% del materiale genetico, si comportino come previsto dalla teoria neutrale. La selezione riuscirebbe a promuovere una mutazione vantaggiosa soltanto in una percentuale ristretta di casi: l'adattamento, rispetto al mare delle mutazioni neutrali, sarebbe cioè una condizione di minoranza (però decisiva).

Comunque sia, l'orologio molecolare, oggi adottato estesamente per esplorare le genealogie fra gli esseri viventi, ha aggiunto un'enorme mole di conferme rispetto all'immagine generale dell'albero della vita emersa attraverso le prove fossili (vedi fig. 3).

Non solo lo schema complessivo delle parentele coincide, ma anche le datazioni dei punti fondamentali di biforcazione dei maggiori gruppi tassonomici sono coerenti con quanto noto ai naturalisti. Ha suscitato poi particolare scalpore l'applicazione dell'orologio molecolare all'albero di discendenza delle popolazioni umane a partire dal primo gruppo di fondatori africani. Sono stati misurati in questo caso i polimorfismi presenti in materiali genetici con discendenza solo femminile - il Dna mitocondriale (contenuto residuale di geni presenti nei mitocondri, ora organelli cellulari deputati alla respirazione ma un tempo batteri autonomi) ereditato per via materna - oppure con discendenza solo maschile come il cromosoma Y.

Il motivo di questa scelta non risiede soltanto nella percentuale di mutazioni neutrali studiabili, ma anche in un risvolto curioso della deriva genetica, detto «coalescenza» o «deriva verso l'omozigosi»: come per i cognomi nei paesini di montagna rimasti isolati per molto tempo, quando un carattere si trasmette per via solo maschile o solo femminile in una popolazione molto ristretta, e senza flussi migratori esterni, tende a estinguere tutte le varianti tranne una. Dopo un certo numero di generazioni rimane un solo cognome per tutti, poiché ogni volta che un padre ha solo figlie femmine un cognome si estingue. Il principio vale per qualsiasi gene neutrale: a causa dell'estinzione casuale, andando indietro nelle generazioni si trova prima o poi una forma da cui discendono tutte le varianti attuali (l'antenato «coalescente»). Quando però la discendenza è solo maschile o femminile, il processo può essere più rapido ed evidente. Nel piccolo gruppo fondatore di umani africani è successo qualcosa di analogo: alla fine è possibile risalire a un solo cromosoma Y per tutti i maschi e a un solo Dna mitocondriale per tutti. La rapidità della deriva può essere dovuta al numero esiguo di fondatori iniziali della nostra specie oppure a una successiva riduzione della popolazione a causa di un «collo di bottiglia».

Mappare quindi nei popoli attuali le mutazioni divergenti intervenute successivamente su questi materiali genetici è particolarmente utile, perché ci permette di datare con precisione le separazioni e le migrazioni dei più importanti ceppi del popolamento umano sulla Terra. Da qui abbiamo scoperto che le mutazioni più numerose e più antiche sono sempre nelle popolazioni africane, segno molecolare che la nostra «culla» di origine è indiscutibilmente quella, e degradano poi nelle biforcazioni tra africani e asiatici, tra asiatici ed europei, tra asiatici e australiani, tra asiatici e amerindi. Siamo una specie giovane e africana, ben presto votata alla colonizzazione di tutto il Vecchio mondo, non senza aver prima incontrato e convissuto con altre specie nostre cugine. Un'altra storia avvincente, e fino a poco tempo fa sconosciuta, che i meccanismi evolutivi fondamentali - mutazione, selezione e deriva - ci permettono oggi di raccontare.

5. La macroevoluzione e i suoi gloriosi accidenti

Definito il ruolo della struttura riproduttiva ed ecologica delle popolazioni, non resta che porsi un'ultima domanda cruciale: i tre motori descritti finora sono sufficienti per render conto dello scenario maestoso della storia naturale presentato nel primo capitolo? Quei grandi eventi, il succedersi magniloquente delle epoche geologiche, l'emergere delle forme animali e vegetali fondamentali, l'esplorazione di piani anatomici inediti, l'alternarsi di periodi di proliferazione delle specie e di periodi di ecatombe catastrofica: tutto ciò può essere spiegato soltanto attraverso la variazione, la selezione e i processi popolazionali?

Il grappolo di meccanismi finora delineati ci permette di escludere che la macroevoluzione, cioè i maggiori episodi evolutivi che notiamo nella documentazione fossile, sia il frutto di processi speciali o «ortogenetici», come credevano i paleontologi di primo Novecento. Resta tuttavia il problema di capire in che modo la spinta di fondo del processo selettivo, alla scala degli organismi e dei loro genotipi, possa «tradursi» in queste dinamiche su larga scala che interessano i livelli alti della vita, dalle specie in su. Alcuni ritengono che la macroevoluzione sia completamente riducibile ai meccanismi di livello più basso, altri pensano invece che l'insorgenza di regolarità nella macroevoluzione non sia completamente «estrapolabile» dalle dinamiche inferiori.

La geografia delle specie

Non esistono evidenze empiriche che possano giustificare una discontinuità fra i meccanismi microevolutivi e l'evoluzione su larga scala. Gli adattamenti, anche quelli di più vasta portata, avvengono per modificazione cumulativa delle frequenze geniche nelle popolazioni, a partire da variazione genetica ereditabile. Le categorie tassonomiche superiori, tuttavia, abbracciano un contesto geografico più vasto. Fattori ecologici di varia magnitudine influiscono sulla distribuzione spaziale dei viventi. Le specie non stanno ferme, si spostano, migrano, espandono il loro areale attraverso molteplici processi di «dispersione»: a partire da un centro di origine si diffondono in altri ambienti attraverso corridoi faunistici, «ponti filtranti» (che solo alcune specie riescono a superare) o vie occasionali di migrazione come il passaggio da isola a isola.

Abbiamo visto che la biogeografia, il ramo degli studi evoluzionistici che si occupa della distribuzione delle specie nello spazio, ci offre un quadro su larga scala dell'immersione del vivente negli ecosistemi regionali. Dal suo punto di vista, diventano importanti agenti evolutivi fenomeni come le oscillazioni climatiche e le glaciazioni, che non alterano soltanto i valori della temperatura e dell'umidità, ma spostano anche le fasce di vegetazione e gli habitat, alzano e abbassano i livelli dei mari, obbligano le specie a migrazioni imponenti e a cercare rifugio in terre prima inesplorate.

Secondo un'autorevole corrente di studi definita «biogeografia della vicarianza», la distribuzione delle specie sarebbe fortemente condizionata dalla deriva dei continenti e dai grandi mutamenti della superficie terrestre a essa connessi, come la formazione di catene montuose o di altipiani e la deviazione dei corsi dei fiumi. Questi eventi su larga scala tendono infatti a dividere l'areale originario delle maggiori famiglie di specie (vicarianza), influendo sui loro alberi di discendenza. Processi di vicarianza e di dispersione, pur appartenendo a due logiche esplicative diverse (in una è il territorio a scivolare portandosi dietro le specie, nell'altra sono le popolazioni a spostarsi), potrebbero essere complementari e concorrere all'evoluzione della distribuzione geografica delle specie.

I vicariantisti cercano di capire se la struttura gerarchica delle divisioni in un gruppo di specie coincide con la storia geologica della regione occupata dal gruppo. Nel caso della «linea di Wallace», individuata dall'omonimo naturalista co-scopritore della selezione naturale, la corrispondenza è evidente: la separazione fra la regione faunistica dell'Asia orientale e quella australiana - una linea che corre a oriente del Borneo e passa attraverso lo stretto di Lombok separando fra gli altri le tigri dai marsupiali - rispecchia l'antica divaricazione fra la placca continentale indiana e quella australiana. Che sia per vicarianza o dispersione, se la filogenesi di un gruppo e la distribuzione biogeografica moderna combaciano è possibile riunirle in un quadro sintetico detto «cladogramma di area». Così la storia e la geografia delle specie, l'evoluzione in verticale e quella in orizzontale si incontrano finalmente in modo sistematico - unendo i metodi più avanzati della cladistica, della filogenetica molecolare e della biogeografia - in un'altra giovane e promettente disciplina evoluzionistica: la «filogeografia».

Il respiro lungo dell'evoluzione

Messa in salvo la continuità dei processi evolutivi, è pur tuttavia impossibile non notare alcune manifestazioni della storia naturale su larga scala che esulano apparentemente da un accumulo di modificazioni minori. Come abbiamo notato discutendo di speciazione, processi che su scala locale ci sembrano lenti e cumulativi su scala geologica possono apparire repentini. I paleontologi riscontrano nelle loro stratigrafie sia lunghe tendenze di evoluzione progressiva, sia specie strenuamente stabili, sia periodi di più intensa e rapida diversificazione di specie spesso associati a un incremento dell'instabilità ecologica regionale o globale.

Ma i paleontologi hanno sempre osservato anche fenomeni più radicali, per molti decenni sottovalutati perché difficilmente comprimibili nelle dinamiche cumulative dell'evoluzione «normale». Un esempio sono le estinzioni di massa, ecatombi globali durante le quali una parte consistente della biodiversità terrestre, di ogni ordine e gruppo, viene perduta per sempre, per poi essere rapidamente sostituita. Non sempre è possibile ricondurre questi supremi eventi macroevolutivi, che oggi usiamo per separare le grandi ere geologiche (vedi box 1), a un accumulo di effetti selettivi accelerati o a un calo di fecondità delle specie. Probabilmente molte estinzioni di massa sono state precedute da più lunghi periodi di «preparazione» e dal lento declino dei gruppi dominanti, tuttavia è ormai indubbio che siano state innescate da fattori ecologici su larga scala improvvisi e travolgenti.

Non essendo il culmine di tendenze pregresse, fenomeni come questi furono alla fine interpretati come schemi di comportamento su larga scala non completamente estrapolabili dai tre motori dell'evoluzione normale. Non vi è ovviamente alcuna incompatibilità, ma si ritiene che fattori esterni di portata singolare, dovuti all'immersione dei viventi nel più ampio contesto del mondo abiotico, possano perturbare il corso dell'evoluzione introducendo dinamiche e pattern macroevolutivi che altrimenti non emergerebbero. Noi oggi sappiamo che grandi sconvolgimenti ecologici su scala regionale, continentale o globale possono deviare il corso della storia naturale verso direzioni imprevedibili, portandola a volte sul ciglio dell'estinzione definitiva se è vero che alcune ecatombi come quelle del Permiano e dell'Ordoviciano hanno sfiorato percentuali del 90% delle specie. Anche senza ricorrere con troppa frequenza a suggestive cause esogene come l'impatto di asteroidi - che pure è stata una concausa dell'estinzione dei dinosauri fra Cretaceo e Terziario - esiste un intero catalogo di cause endogene che possono alterare profondamente i cicli di regolazione ecologica del pianeta: la deriva dei continenti, eruzioni vulcaniche concomitanti, modificazioni nella direzione delle correnti oceaniche profonde, oscillazioni climatiche, innalzamenti o abbassamenti del livello dei mari e così via. Le estinzioni prodotte da questi processi si distinguono, per dinamiche e per quantità, dalle normali «estinzioni di sfondo» che interessano le specie in ogni epoca.

In molti casi queste perturbazioni ecologiche planetarie generano un pattern su larga scala ben riconoscibile e caratterizzato dall'alternanza fra un episodio di estinzione di massa o «estinzione non selettiva», durante il quale intere famiglie vengono falciate indiscriminatamente senza apparenti ragioni adattative specifiche, e un episodio di rapida diversificazione di nuove specie o radiazione adattativa, frutto della ricolonizzazione delle nicchie lasciate libere dall'estinzione. Si tratta in sostanza di improvvisi cambiamenti delle regole del gioco ecologico, che si traducono in grandi «staffette» fra gruppi di specie, ma di tipo non sempre competitivo. I dominatori specializzati al contesto precedente soccombono di fronte al cambiamento ecologico imprevisto e vengono sostituiti da invasori opportunisti. I dinosauri, quindi, non vengono «estinti», ma «sostituiti» dai mammiferi. Vi sono naturalmente ragioni precise per cui alcune famiglie reagiscono meglio di altre allo sconvolgimento ecologico, ma le liste dei caduti e dei sopravvissuti contengono elementi di forte contingenza.

Per apprezzare il ruolo dei meccanismi macroevolutivi non è comunque necessario ricorrere a episodi così eccezionali. Radiazioni adattative su scala ridotta sono avvenute in coincidenza con la colonizzazione di arcipelaghi o la dispersione in nuovi habitat. A volte l'unione di due continenti attraverso una sottile striscia di terra può cambiare le sorti di migliaia di specie. Durante il cosiddetto «grande interscambio americano» dovuto alla formazione dell'istmo di Panama - quando la «megafauna» dei mammiferi meridionali incontrò quella del nord dopo cinquanta milioni di anni di separazione - un effetto «specie-area» su larga scala generò un'estinzione di massa, poiché l'habitat globale non potè sostenere la sopravvivenza della somma delle specie delle due aree più piccole precedenti. Il numero maggiore di specie e il tasso di speciazione più alto favorirono i settentrionali, che estinsero quei meravigliosi e imponenti mammiferi di grossa taglia come il megatherium e il gliptodonte i cui fossili, tre milioni di anni dopo, incontreranno il martello da geologo di un giovane Darwin appena sbarcato dal Beagle.

Viceversa, in alcuni frangenti l'offerta di una nuova opportunità ecologica - per esempio, per i primi pluricellulari forse la nascita della vista oppure della predazione - può scatenare una fase di «sperimentazione» creativa da parte dell'evoluzione, che si produce in un ventaglio di nuove specie o addirittura di nuovi phyla, come si ritiene sia successo nella cosiddetta «esplosione cambriana» della vita pluricellulare. È possibile che a questa fase espansiva segua una nuova riduzione della diversità, guidata da ragioni completamente selettive o parzialmente contingenti (il dibattito è aperto).

Secondo altri paleontologi impegnati a costruire una teoria coerente della macroevoluzione, come Elisabeth Vrba, vi sarebbe una gradazione continua nel tipo di perturbazione ecologica che può coinvolgere grandi famiglie di specie, come per esempio i mammiferi africani nelle varie epoche, misurabile in proporzione al grado di frammentazione del loro habitat. Se uno sconvolgimento globale irresistibile produce un'estinzione di massa, fluttuazioni climatiche meno drammatiche possono alterare le nicchie ecologiche su scala regionale e obbligare le specie a sviluppare molteplici strategie di conservazione, come l'inseguimento dell'habitat. Quando la perturbazione supera la soglia delle capacità di resistenza delle specie si innescherebbe un pattern macroevolutivo intermedio di «avvicendamento di specie», un impulso evolutivo che porta all'estinzione e alla sostituzione di molte specie in una regione.

Meccanismi evolutivi particolari, ma del tutto diversi, sembrano all'opera in coincidenza di altri passaggi cruciali della storia naturale, come la transizione dai procarioti agli eucarioti. Si tratta in questo caso di una strategia in cui le competenze adattative sedimentate di organismi più antichi, cioè alcuni batteri, vengono fuse insieme per generare una creatura di complessità superiore, frutto della simbiosi di più specie. Il processo potrebbe essere cominciato con l'inglobamento di un batterio in un altro e con l'innesco di un'inedita ma efficace suddivisione del lavoro. I genomi si sono fusi per acquisizione o specializzati, come nel caso del Dna mitocondriale residuo. Il ritmo di questa «simbiogenesi» pare essere stato piuttosto rapido, ma non inficia i normali meccanismi di adattamento. Semmai dimostra che una buona soluzione di sopravvivenza non scaturisce soltanto dalla competizione per le risorse, ma talvolta anche dalle forme più estreme di cooperazione. Si tratta ancora una volta di un meccanismo non estrapolabile ma comunque integrativo, e non sostitutivo, rispetto ai precedenti.

L'illusione del progresso necessario

Siamo partiti dal grande scenario della storia naturale raccontato dai fossili e siamo alfine nuovamente tornati all'evoluzione su larga scala, attraversando i principali domini della teoria dell'evoluzione. L'impossibilità di una prevedibilità completa dei processi macroevolutivi a partire da quelli di livello inferiore non indebolisce in alcun modo il nocciolo darwiniano, piuttosto lo estende e lo integra per aumentarne le capacità esplicative fino ad abbracciare i livelli più alti della gerarchia naturale. È evidente come le vastità della storia naturale siano state punteggiate da alcune «grandi transizioni» - come quella appena ricordata fra cellule senza nucleo e cellule con nucleo, oppure l'esplosione cambriana dei pluricellulari - che hanno trasformato radicalmente non soltanto lo scenario dei protagonisti in gioco, ma anche le regole e i meccanismi dell'evoluzione stessa. Queste dinamiche macroevolutive rappresentano quindi legittimamente il quarto e ultimo motore dell'evoluzione.

La dimensione storica dell'evoluzione interessa quindi, ricorsivamente, le sue stesse leggi: per primi si sono accesi i motori della variazione ereditaria e della selezione; poi, con la piacevole ma non ancora ben compresa scoperta del sesso, sono emersi l'eredità mendeliana e l'isolamento riproduttivo; con i pluricellulari si è allargata la gerarchia della vita; i processi di sviluppo sono diventati più elaborati e i geni Hox hanno creato la possibilità di sperimentare nuove forme animali; nel frattempo era stata inaugurata la simbiosi, vi erano state le prime estinzioni di massa, le ibridazioni, le migrazioni e così via. Alcuni evoluzionisti hanno parlato al riguardo di crescita dell'«evolvibilità», cioè in un certo senso di una evoluzione dell'evoluzione stessa: la probabilità media che una specie possa evolvere novità sembra essere aumentata progressivamente dagli inizi della vita.

Notiamo allora un apparente contrasto, che traspare da queste caratteristiche della macroevoluzione. Da un lato, essa mostra di avere una direzione cumulativa, un incremento di processi e di forme, un'evolvibilità progressiva. Dall'altro, meccanismi come le derive genetiche, le estinzioni di massa, ma anche le imperfezioni dell'adattamento, suggeriscono di attribuire all'evoluzione nella sua interezza una spiccata connotazione di contingenza storica. Queste cautele ci fanno capire perché Darwin avesse messo bene in guardia dall'associare il concetto di «discendenza con modificazioni» a quello di «progresso», per lui troppo pericolosamente vicino all'idea che le specie avessero una qualche tendenza intrinseca al miglioramento. Il carattere situato dell'adattamento fa sì che l'evoluzione raramente sia un accumulo progressivo e prevedibile di miglioramenti in senso assoluto.

Evoluzione non significa quindi progresso scalare: lo dimostrano i caratteri, anche complessi come gli occhi, abbandonati dagli organismi quando non sono più utili al contesto specifico, così come i caratteri arcaici che perdurano lungamente a fianco di soluzioni più «avanzate». Tuttavia, è altrettanto evidente che se osserviamo la storia naturale su larga scala notiamo un aumento progressivo se non della diversità, sicuramente della complessità degli adattamenti. Secondo alcuni, questa evidenza giustifica la conclusione che l'evoluzione sia a lungo andare progressiva, nel senso che produce un costante aumento della «complessità adattativa» a partire da forme più semplici. L'argomentazione dipende però da come definiamo il criterio di complessità: se la intendiamo come complessità strutturale organizzata dai geni Hox, o come complessità funzionale, o per numero di tipi cellulari. Certo, un vertebrato è più complesso di un invertebrato per diversi aspetti, ma in termini di successo adattativo nessuno può competere con i batteri, organismi semplicissimi. Anche in termini di biomassa complessiva e di diversità, la vita sembra privilegiare archeobatteri, batteri ed eucarioti unicellulari. Le forme complesse sembrano l'apice dell'evoluzione se adottiamo criteri di valutazione in qualche modo «antropomorfi», ma per un batterio apparirebbero come la periferia dell'impero della vita.

La controversia diventa più dipanabile se proviamo a distinguere il progresso evolutivo come fatto dal progresso inteso come tendenza intrinseca dell'evoluzione. Formulando gli opportuni criteri di complessità, è un fatto innegabile che l'evoluzione dall'ameba a Newton sia stata un «progresso». Altra questione è però capire se dentro questo processo vi sia stata una ragione necessaria o meno. Stando alle conoscenze attuali, questa ragione necessaria sfugge. L'adattamento è sempre locale, incompiuto e contingente. La selezione naturale non guarda al futuro e opera soltanto di singola generazione in singola generazione: pur essendo un processo deterministico e automatico, non può giustificare un principio di progresso su larga scala. Mutazione e deriva sono processi non direzionati. Né possiamo accettare ritorni nostalgici al finalismo ipotizzando che uno fra i tanti esiti reali e possibili del processo - per esempio l'emergere della coscienza - abbia fin dall'inizio «attirato» l'intera carovana evolutiva verso di sé.

Non resta che accontentarsi del fatto autoevidente che il progresso è avvenuto, come effetto cumulativo e irreversibile di una storia evolutiva che zigzagando di specie in specie ha esplorato nuovi territori del «morfospazio» adattativo, trovando di tanto in tanto soluzioni particolarmente ingegnose e adattamenti così potenti, come il sistema nervoso centrale e gli occhi, da sembrarci con il senno di poi inevitabili.

Naturalmente umani

L'illusione dell'inevitabilità a posteriori ha indotto in errore soprattutto gli studiosi dell'evoluzione umana. Quando Darwin pubblicò L'origine dell'uomo nel 1871 lo studio sistematico di ritrovamenti fossili di antenati ominidi non era ancora cominciato. Il primo reperto di origine neanderthaliana era stato rinvenuto pochi anni prima in Germania. Non aveva quindi a disposizione prove fossili, ma utilizzando il secondo tipo di prove di cui abbiamo discusso, cioè le comparazioni anatomiche, intuì che gli esseri umani avrebbero dovuto condividere un antenato comune con i gorilla e con gli scimpanzé, due specie di primati superiori africani. Nei decenni successivi, e poi soprattutto a partire dagli anni settanta e ottanta del Novecento - il periodo d'oro della paleoantropologia - le due previsioni darwiniane (antenato comune con gli scimpanzé e origine africana) furono sommerse di prove archeologiche e fossili a favore.

Resistette però più a lungo l'idea che la storia naturale umana, rara eccezione, avesse camminato in modo lineare, cioè seguendo un unico binario di successione progressiva di specie dalle australopitecine fino ai sapiens, passando per i grandi stadi intermedi di erectus e di neanderthal. L'immagine semplificata di una catena lineare di specie che avrebbe connesso le scimmie antropomorfe all'uomo è stata però recentemente sostituita da una discendenza ramificata «a cespuglio», contenente addirittura tre generi diversi (australopitecine, parantropi e Homo) e un numero di specie che forse supera la ventina, anche se le dispute sul conteggio effettivo delle specie sono ancora molto accese. Non abbiamo quindi trovato gli «anelli mancanti» di un progresso lineare, ma forme di transizione in una discendenza ramificata, continuativa e senza «salti» inspiegabili, che parte da un antenato comune fra noi e gli scimpanzé e giunge agli attuali sapiens, passando attraverso una serie di fluttuazioni della biodiversità interna al nostro «albero cespuglioso».

Da una quindicina d'anni a questa parte anche il terzo tipo di prove empiriche, quelle genetiche e molecolari, ha contribuito alla definizione della storia naturale degli ominidi, confermando e raffinando le conclusioni a cui erano giunti prima Darwin e poi gli antropologi fisici. Le prove archeologiche e molecolari convergono nell'individuare in Africa non solo la culla da cui ha avuto origine l'intera famiglia ominide, separatasi dalle altre scimmie antropomorfe circa 6,5-7 milioni di anni fa, ma anche il luogo di partenza delle grandi diaspore che porteranno prima gli antenati appartenenti al nostro stesso genere Homo, ergastered erectus, a occupare il Vecchio mondo a partire da due milioni di anni fa e poi i sapiens, nati anch'essi in Africa orientale circa 200 mila anni fa, a occupare tutti i continenti sostituendo le forme cugine più antiche.

Queste scoperte recenti sono particolarmente preziose, perché hanno permesso di raccontare la storia evolutiva umana in modo finalmente del tutto «naturale», comprendendo che l'evoluzione ominide ha seguito esattamente le stesse regole egli stessi quattro motori del cambiamento descritti in precedenza per il resto del vivente. Mutazioni e selezione naturale hanno plasmato gli adattamenti decisivi che attribuiamo alla nostra famiglia: bipedismo, tecnologie litiche, espansione del volume cerebrale, organizzazione sociale elaborata e così via. Questi adattamenti, però, non si sono accumulati eccezionalmente in un'unica linea di discendenza progressiva, ma si sono prodotti in concomitanza con la nascita di una pluralità di specie all'interno di un cespuglio più o meno lussureggiante di forme, proprio come succede normalmente agli animali nostri parenti.

I cambiamenti climatici contingenti sono stati decisivi anche per la nostra storia, perché hanno frammentato gli habitat e introdotto fasi di instabilità ecologica che hanno avuto ripercussioni sul numero di specie presenti nel nostro cespuglio. Non a caso la famiglia ominide si stacca dalle scimmie antropomorfe intorno a sette milioni di anni fa, cioè all'inizio del Pliocene e di una fase di inaridimento del clima africano. È proprio due milioni di anni fa, all'inizio del Pleistocene e dell'età delle oscillazioni glaciali, che prende avvio la storia del genere Homo, si estinguono in massa parantropi e australopitecine, cominciano le migrazioni fuori dall'Africa. Sono le fasi glaciali e interglaciali a dettare i tempi e i luoghi degli insediamenti, gli inseguimenti della selvaggina, gli spostamenti delle fasce di vegetazione, l'emersione e l'inabissamento dei ponti di terra, le separazioni delle popolazioni ominidi o i loro incontri. È dunque il normale contesto ecologico dell'evoluzione ad averci portato fin qui. Ecco allora che la spiegazione evoluzionistica rivela finalmente tutta la sua fecondità anche nello spiegare la storia naturale profonda della specie umana: una specie discesa dalle scimmie antropomorfe in virtù dei normali meccanismi evolutivi, cioè mutazione, selezione, deriva, speciazione, migrazione, estinzione.

Come siamo diventati umani, più di una volta

Questa «naturalizzazione» dell'evoluzione umana ha conseguenze stupefacenti che forse non abbiamo ancora colto nella loro radicalità. Negli alberi genealogici dei nostri parenti animali è normale che vi siano sempre più specie contemporaneamente, adattate a nicchie ecologiche diverse. Raramente in un cespuglio evolutivo resta una specie sola. Fa un certo effetto, però, osservare questo fenomeno nella discendenza umana, fino a tempi recentissimi. Se spostiamo le lancette dell'orologio indietro di 30 mila anni, un lasso di tempo tutto sommato molto ristretto in un'ottica evoluzionistica (una manciata di millenni prima delle piramidi...), troviamo infatti su questo pianeta almeno tre specie umane contemporaneamente: Homo sapiens in tutto il Vecchio mondo e da poco anche nel Nuovo mondo; Homo neandertha-lensis in Europa e poco prima anche in Medio Oriente; Homo floresiensis nell'arcipelago indonesiano. La nostra solitudine di specie è un'evenienza molto recente, e forse piuttosto contingente. Tre specie umane strettamente imparentate ma biologicamente separate - con i loro adattamenti locali, la loro intelligenza, le loro organizzazioni sociali, le capacità di comunicazione, le emozioni e le visioni della realtà sicuramente diverse - hanno abitato il pianeta insieme fino a un battito di ciglia fa, in alcuni casi condividendo lo stesso territorio. Il marchio dell'evoluzione, l'unità nella diversità, vale quindi anche per la storia umana antica e recente.

Una di queste specie, floresiensis, discesa a suo tempo da un erectus asiatico o forse addirittura da un'australopitecina, ha subito il medesimo fenomeno adattativo che accomuna animali al di sopra di una certa taglia che restano bloccati in un habitat insulare ristretto: il «nanismo insulare». Si rimpiccioliscono per ottimizzare il bilancio energetico. Homo floresiensis, esattamente come gli elefantini alti come un cane che cacciava e mangiava nei suoi rifugi, aveva quindi la taglia più piccola di un pigmeo, con un cervello di 350 cc e un'altezza di 110 cm; eppure utilizzava una tecnologia avanzata. Era una specie umana intelligente, ecologicamente specializzata, figlia della sua peculiare biogeografia, con una propria storia naturale diversa dalla nostra, vissuta fino a 12 mila anni fa quando in Medio Oriente stavano per fiorire le prime società urbane e in cinque regioni del globo simultaneamente i sapiens iniziavano a coltivare la terra. Quale messaggio può essere più improntato di questo alla pluralità e al fascino della storia?

Forse un giorno chiameremo i nostri cugini del genere Homo, in un bagno di «politicamente corretto», come «diversamente sapiens». Di certo, l'umanità è nata più di una volta e non è ancora ben chiaro perché alla fine sia stata rappresentata da una sola specie, forse a causa di competizioni demografiche locali nelle quali i sapiens hanno esibito il doppio vantaggio di un sistema di comunicazione linguistica più sofisticato e di una flessibilità adattativa e tecnologica maggiore. Gli stessi sapiens, del resto, si comportavano 40 mila anni fa in modo molto diverso da come si comportavano ai tempi dei loro inizi africani, 100 mila anni prima. Se non fosse per una morfologia quasi identica, i cro-magnon europei e i primi sapiens africani sembrerebbero due specie diverse e non è escluso che corrispondano a due o più migrazioni fuori dall'Africa. Qualcosa è successo, non sappiamo se gradualmente o bruscamente, nella mente dei nostri conspecifici paleolitici: pitture rupestri, figure stilizzate, sepolture rituali, statuette votive, abbellimenti estetici, strumenti musicali, calendari lunari... il «pacchetto modernità» fa il suo ingresso nella mente umana, mentre non dà segni di sé nei neanderthaliani e negli altri cugini Homo.

Anche questo evento evoluzionistico, finora fra i più ostici da decifrare, cioè la nascita della cultura umana e dell'intelligenza simbolica, comincia a svelarsi grazie a una serie crescente di indizi non solo archeologici, ma anche genetici e neurali. Sono stati recentemente scoperti alcuni geni, con mutazioni tipicamente sapiens, implicati nell'articolazione del linguaggio e nella costruzione della grammatica, e quindi coinvolti nell'evento che secondo i più prelude alla coscienza riflessiva. Altri studiosi hanno scoperto nei «neuroni specchio» i meccanismi di base del riconoscimento delle azioni, delle intenzioni e delle emozioni altrui, in sostanza dell'intelligenza intersoggettiva, notando forti comunanze e alcune differenze con i cugini scimpanzé. Non sappiamo ancora esattamente quali fattori e quali pressioni selettive siano stati decisivi, ma l'evoluzione naturale della coscienza è un'altra intrigante storia da raccontare e nulla lascia supporre che essa si sottragga alle normali dinamiche continuative, ecologiche e contingenti dell'evoluzione.

Il ruolo di sapiens nello scenario dell'evoluzione è connotato da un'ambiguità di fondo fra continuità e rottura: continuità dovuta alla discendenza biologica ininterrotta che ci lega al resto del vivente, che ci ha portato a essere l'unico rappresentante della famiglia ominide e che ha dato origine all'intero corredo delle nostre facoltà più tipiche, coscienza compresa; ma anche rottura, dovuta al fatto, altrettanto evidente e già ben chiaro a Darwin che ne discute apertamente ne L'origine dell'uomo, che l'umanità introduce nell'evoluzione comportamenti inediti, capacità tecnologiche e culturali così spiccate da essere in grado addirittura, attraverso la socializzazione e la civilizzazione, di contrastare le leggi dell'evoluzione biologica, selezione naturale compresa. Siamo un «glorioso accidente della storia», come scrisse Stephen J. Gould: accidente sì, ma glorioso. L'evoluzione produce una specie in grado di porsi domande sulle proprie origini e, agli esordi del XXI secolo, di modificare per via tecnologica l'identità biologica propria e delle altre specie. Homo sapiens rappresenta dunque una nuova transizione nella «evolvibilità».

Sarebbe tuttavia erroneo pensare che il progresso tecnologico e culturale odierno abbia sottratto la nostra specie all'influsso evoluzionistico. Certo, l'incidenza della selezione naturale sul nostro fenotipo è ridotta grazie alla medicina e all'assistenza sociale, ma il cambiamento di dieta continua a modificare i nostri denti, la capacità cranica si è leggermente ridotta e la crescente longevità impone ulteriori aggiustamenti. Del resto, l'azione della selezione è così lenta da essere pressoché invisibile ai nostri occhi tarati su un numero esiguo di generazioni. In compenso, la specie umana - tecnicamente, una specie «cosmopolita invasiva» - è diventata essa stessa un potente e minaccioso agente evolutivo sulle altre specie: frammenta gli habitat, introduce specie aliene, estingue stirpi dalla cui esistenza dipendevano altre specie, accelera esponenzialmente processi che richiederebbero migliaia di generazioni, altera i parametri ecosistemici su scala regionale e globale. La magnitudine di questi effetti, anche se recente, è ormai decisamente di livello macroevolutivo. Fra un paio di milioni di anni i naturalisti post -sapiens tratteranno la comparsa del nostro glorioso accidente come un evento evoluzionistico piuttosto peculiare.

Conclusioni

La teoria dell'evoluzione, nella metaforica configurazione «a quadrimotore» che qui abbiamo scelto per farcene un'idea in modo succinto, mostra dunque di essere non solo in ottima salute, ma di avere incrementato cospicuamente il proprio potere esplicativo e predittivo. Richiamando i suoi meccanismi di base con esempi concreti, esercitazioni e semplici modelli, l'evoluzione può (anzi dovrebbe) essere insegnata con successo fin dalla scuola primaria. È un racconto avvincente, la cui evidenza empirica può essere spiegata a studenti di età diverse ricorrendo a un numero tutto sommato ristretto di meccanismi fondamentali.

All'ombra di questi capisaldi acquisiti, fervono però intense discussioni e accese controversie su una molteplicità di problemi che, per mancanza di supporto empirico o per assenza di un quadro teorico adeguato, restano aperti e irrisolti. Una parte di essi - l'invecchiamento, l'altruismo, la relazione fra genetico e acquisito, l'adattamento, le unità di selezione - è già stata sfiorata. Esistono inoltre eventi unici, con pochi dati a disposizione, che ancora sfuggono a una spiegazione evoluzionistica compiuta. E’ il caso delle origini del primo essere vivente o della prima cellula, per le quali non abbiamo testimonianze dirette. La transizione da materia inorganica a materia vivente non è stata infatti ancora realizzata completamente in laboratorio. Tuttavia ci stiamo avvicinando alla sequenza di eventi coinvolti con ogni probabilità in questa prima grande transizione.

Abbiamo individuato tutti gli ingredienti di base della ricetta e sappiamo che erano presenti negli oceani primordiali della Terra. Le condizioni fisico-chimiche al contorno affinché potessero mescolarsi per dare origine a composti più complessi esistevano. Rimane da capire in che modo si siano effettivamente assemblati la prima volta, probabilmente nel contesto di un numero enorme di tentativi nel corso di milioni di anni e in uno spazio geografico vastissimo a disposizione (due condizioni assai difficili da replicare in laboratorio). Ma gli scienziati non demordono e stanno ora cercando di capire, passo per passo, in che modo si siano potuti realizzare le prime membrane, i primi metabolismi, la prima duplicazione e, successivamente, la prima autoreplicazione a base di Rna e poi Dna con il conseguente innesco del meccanismo di selezione naturale. F, probabile che si sia trattato di un processo di autorganizzazione o «autocatalisi» a partire da una trama prebiotica composta da elementi chimici di base e da catalizzatori (enzimi), in un contesto energeticamente instabile. Abbiamo quindi un buon modello predittivo e molti indizi, ma non ancora una prova risolutiva.

Altre controversie permangono a proposito del ruolo attribuito alle derive casuali rispetto al potere della selezione naturale nell'evoluzione molecolare. Superate le versioni più radicali di neutralismo, si discute oggi di una teoria «quasi neutrale» dell'evoluzione molecolare, che non considera soltanto mutazioni completamente neutrali ma anche gradi intermedi di neutralità e coefficienti di selezione non nulli. Ancora una volta, sembra emergere una più flessibile concezione pluralista rispetto alla gamma di fenomeni biologici possibili. Inoltre, in presenza di una gradazione fra neutralità e selettività, le dimensioni della popolazione tornano ad essere decisive per discernere se una mutazione sarà soggetta a deriva o a selezione.

La genomica darà probabilmente le risposte risolutive in questo campo, poiché sapremo distinguere sempre meglio le varianti neutrali da quelle soggette a un vincolo adattativo funzionale, grazie a indizi come la velocità di mutazione, più

bassa nelle regioni funzionali del genoma e più alta in quelle neutrali. Sapremo mettere a fuoco la «firma» della selezione naturale nelle sequenze geniche. Capiremo se l'entità degli effetti delle mutazioni vantaggiose è sempre stata piccola o se sono esistite mutazioni più importanti. Scopriremo se e quale funzione possono avere le sequenze non codificanti di Dna «spazzatura», così diffuse nel genoma di tutti gli esseri viventi. Confrontando la velocità di mutazione di geni omologhi in specie imparentate potremo scoprire, per via molecolare, se vi è stato un cambiamento funzionale in una struttura, una dismissione o un exaptation. Avendo a disposizione le sequenze complete dei genomi di due specie vicine, per esempio lo scimpanzé e l'uomo, potremo scovare le zone di Dna con maggiore o minore vincolo adattativo, confrontarle e così capire come e dove la selezione naturale è intervenuta per renderci umani.

Nel frattempo stiamo assistendo agli interessanti effetti dell'innesto di spiegazioni evoluzionistiche in discipline come le neuroscienze e la psicologia. La «medicina darwiniana» ci aiuterà sempre più a comprendere l'evoluzione e l'adattamento dei tratti umani fisiologici e patologici, anche al fine di valutare meglio le conseguenze delle nostre prassi terapeutiche. Una buona conoscenza dei meccanismi evolutivi sarà vieppiù indispensabile per ragionare caso per caso, in modo rigorosamente laico e scientifico, sul bilanciamento di rischi e di opportunità in una tecnica di bioingegneria.

Le controversie sono il sale della scienza. Con i dati della genomica, alcune verranno superate e di nuove ne nasceranno. Ciò che conta è comprendere che l'assetto attualmente coerente del «quadrimotore» e le schiaccianti conferme sperimentali ottenute dal nocciolo centrale - variazione, eredità, selezione - mostrano come la teoria dell'evoluzione possa dirsi a tutti gli effetti ancora «darwiniana» e come non vi siano al momento in campo altre fantomatiche «teorie dell'evoluzione» in grado di spiegare gli stessi fenomeni ricorrendo ad altre cause scientificamente accettabili.

Negli ormai quindici decenni che ci separano dal 1859 sono stati presi in considerazione diversi gradi di riforma della teoria darwiniana. I genetisti di popolazione hanno sintetizzato la teoria darwiniana e quella mendeliana, sanando le incongruenze dovute a inadeguate teorie dell'ereditarietà e proponendo poi aggiornamenti e conferme di questo programma di ricerca. Nel frattempo, tutti i tentativi di confutare l'intero impianto darwiniano e di sostituirlo con mutazioni ortogenetiche, con macromutazioni e «mostri promettenti», oppure con processi esclusivamente strutturali di «complessità autorganizzata», sono falliti uno dopo l'altro. Altri evoluzionisti, di scuola paleontologica, hanno tentato la confutazione di alcuni postulati darwiniani, come il gradualismo, nel contesto di una critica alle versioni più rigide della «Sintesi moderna». Questi contributi - uniti alle nuove ricerche sulle speciazioni, sulle mutazioni neutrali, sulla deriva genetica e sui processi macroevolutivi - hanno permesso di estendere la teoria mantenendola coerente con il suo nucleo darwiniano originario. In altri casi non meno significativi - come la continuità varietà-specie, le correlazioni di crescita e le cooptazioni funzionali nell'adattamento - gli evoluzionisti stanno addirittura recuperando le originali intuizioni darwiniane. Comunque sia, la teoria dell'evoluzione contemporanea non è più soltanto Darwin, ma è un'impresa collettiva.

A una dimensione completamente estranea a questi normali sviluppi di una teoria scientifica - che non ha nulla da temere dal fatto che la ricerca proceda comunque e vada incoraggiata in tutte le direzioni, compresa quella estrema di confutare la teoria darwiniana - appartengono invece i millantatori che, senza argomentazioni serie, sostengono di avere dimostrato la veridicità di teorie alternative. Nella stessa schiatta allignano i tentativi di screditare la teoria dell'evoluzione con argomenti non scientifici, negando l'evidenza empirica acquisita, strumentalizzando retoricamente le controversie, o ancor peggio presentando al pubblico caricature falsate della teoria. La meraviglia e la solennità della storia naturale, unite al riconoscimento che dobbiamo a coloro che per primi ne hanno colto il segreto permettendoci di giungere, per la prima volta nella storia umana, a una comprensione integralmente naturale delle nostre origini, non hanno nulla da temere dalla pochezza morale e dalla miseria intellettuale di questi vecchi e nuovi revisionisti. La teoria dell'evoluzione, come ogni aspetto del sapere scientifico, è e sarà rivedibile e integrabile, ma è anche un patrimonio di conoscenza acquisito, una visione laica del vivente che offre alla nostra specie una penetrante consapevolezza della propria storia e della propria appartenenza al mondo naturale.

La teoria dell'evoluzione è fatta oggetto di attacchi che non hanno equivalenti in alcun altro ambito della ricerca scientifica, ma è emblematico che le reali difficoltà, teoriche e sperimentali, incontrate dalla spiegazione darwiniana in questo secolo e mezzo non coincidano quasi mai con quelle evocate dagli antievoluzionisti di varia estrazione, giacché la loro battaglia si colloca interamente al di fuori del dominio della scienza, non contribuisce in alcun modo utile alla critica e alla crescita della conoscenza, e pertanto è bene che cada nell'indifferenza che spetta ai mistificatori. Nessuna imposizione dogmatica, nessuna strumentalizzazione ideologica potrà renderci tanto ciechi da non riconoscere che la conoscenza dell'evoluzione naturale è una conquista irreversibile, un'immersione nella storia profonda delle nostre origini, un tuffo nella trama più intima delle parentele che ci legano alla grandiosa diversità della vita che anima il terzo pianeta del sistema solare. Questo sapere non mina affatto le fondamenta della dignità umana ma, al contrario, ci offre la massima indipendenza e insieme la massima responsabilità verso il futuro che sapremo costruire.