TELMO PIEVANI

L'UOMO CHE NACQUE PIÙ VOLTE

da MicroMega 4/20 2010 (pp. 100-110)

Quaranta millenni fa, un battito di ciglia del tempo geologico, il pianeta Terra era ancora affollato di specie del genere Homo disperse tra Africa ed Eurasia, dopo milioni di anni di evoluzione umana in cui la convivenza di più specie era stata la norma e non l'eccezione. Benché rappresenti un'ossessione per chi scrive occhielli e titoli dei giornali, nulla è più fuorviante quindi della metafora lineare dell'«anello mancante» per rappresentare la pluralità di linee di discendenza ramificate presenti nel nostro albero di famiglia, che in queste settimane si è arricchito di due nuovi virgulti. La rivista Nature ha annunciato il 24 marzo scorso la scoperta di una probabile nuova forma di Homo, vissuta in tempi recentissimi nella Siberia meridionale. Pochi giorni dopo, il 9 aprile, è stata la volta dell'annuncio su Science del rinvenimento di porzioni ben conservate di due scheletri appartenuti a un giovane maschio e a una femmina adulta di una nuova specie di australopitecina vissuta in Africa meridionale fino alle soglie del Pleistocene, meno di due milioni di anni fa.

Nel primo caso la datazione è così recente e il reperto così ben conservato che è stato possibile analizzare un particolare tipo di dna fossile e confrontarlo con quello di altre specie. Il responso stupefacente è stato che la differenza genetica è così spiccata da suggerire l'esistenza in Siberia meridionale di una vera e propria specie umana separata. Non dunque soltanto una sotto‑specie, una varietà o una «razza» all'interno di una specie già conosciuta ‑come potrebbero essere un maremmano e un levriero fra i cani domestici (tutti Canis lupusfamiliaris, discendenti dal lupo grigio mediorientale) (1) ‑ ma una specie biologica realmente distinta, come potrebbero essere un cane, un coyote (Canis latrans), uno sciacallo (Canis adustus) e un lupo canadese (Canis lycaon) (2).

La specie umana perde il pelo ma non il vizio di sentirsi alla sommità di una pila di «anelli mancanti», salvo poi stupirsi perché ‑ non esistendo appunto ‑ continuano a «mancare». Ma per i nostri desideri di unicità e di consolanti solitudini queste due scoperte sembrano proprio un colpo di grazia.

Il racconto di un mignolo

Tutto comincia con un dito mignolo scoperto nel 2008 nella grotta di Denisova, sui Monti Altai. Grazie all'ottimo stato di conservazione della falange distale, un team internazionale di paleoantropologi ‑ con il supporto decisivo dei genetisti Svante Pääbo e Johannes Krause presso il Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, attualmente la struttura più importante al mondo per il trattamento del dna fossile ‑ è riuscito a sequenziare il genoma mitocondriale completo del suo antico possessore (3), probabilmente una cucciola.

Con notevole sorpresa degli studiosi, il materiale genetico estratto dall'osso è risultato appartenere al rappresentante di una specie ancora sconosciuta di ominino (4), il cui ultimo antenato comune con noi sapiens moderni e con i Neanderthal è vissuto addirittura un milione di anni fa. Poiché l'antenato comune fra i sapiens e i Neanderthal è datato intorno a mezzo milione di anni fa, quindi molto tempo dopo, significa che quel dito ha il dna di una specie mai descritta prima del genere Homo uscita dall'Africa almeno mezzo milione di anni prima degli antenati dei Neanderthal. Da qui la prima novità.

Finora si pensava infatti che le ripetute diaspore fuori dal continente africano fossero state tre, e già il quadro era complesso: prima fuoriuscì un gruppo di Homo ergaster o di Homo erectus intorno a 1,9 milioni di anni fa, tanto che ne troviamo traccia poco dopo in Georgia nel sito di Dmanisi e poi in Asia e in Europa; la seconda diaspora fu quella degli antenati di Neanderthal, appartenenti alle specie Homo heidelbergensis o Homo rhodesiensis, fra 500 mila e 300 mila anni fa; infine, in epoca ben più recente, presumibilmente intorno a 60 mila anni, sempre dall'Africa uscirono i primi rappresentanti anatomicamente moderni di Homo sapiens, che ripercorsero i tracciati di espansione nel Vecchio Mondo e incontrarono di volta in volta i loro cugini usciti precedentemente. La datazione siberiana mostrerebbe ora l'esistenza di una possibile quarta radiazione, in un'epoca intermedia fra la prima degli erectus e la seconda degli antenati dei Neanderthal (5).

Ma è solo l'inizio delle sorprese. Comparando fra loro porzioni del genoma di specie antiche, e verificando la rispondenza fra i risultati ottenuti e le tradizionali prove archeologiche, si possono dare oggi risposte più precise sull'epoca in cui le popolazioni sono vissute, sulla parentela con specie cugine, sul loro areale di distribuzione e persino sui loro spostamenti geografici. Molto dipende tuttavia dallo stato di conservazione dei fossili dai quali estrarre il dna, che si deteriora con il passare del tempo e per effetto della temperatura. Se i reperti risalgono ad alcune decine di migliaia di anni fa e se il suolo che li ospita non presenta troppa umidità o acidità né tassi elevati di decomposizione, l'indagine «archeo‑genetica» può dare risultati affidabili, e molto spesso sorprendenti.

E’ questo il caso di numerosi fossili europei e asiatici trovati a latitudini alte, appartenenti però finora soltanto ai primi Homo sapiens e a Homo neanderthalensis, che grazie alla paleontologia e alla genetica sappiamo essere state due forme di esseri umani del tutto distinte l'una dall'altra e non invece la prima una discendente diretta della seconda. Secondo i dati generici ottenuti in diversi laboratori (quello di Pääbo e Krause a Lipsia ha ottenuto la sequenza completa di un genoma mitocondriale neandertaliano nel 2008 e sta per ultimare il genorna nucleare di questa specie ricostruito a partire da tre scheletri di Neanderthal dissotterrati in Croazia) (6), i loro accoppiamenti erano troppo sporadici oppure davano origine a una prole sterile (come i muli derivati dagli incroci fra due specie diverse, asino e cavallo): esisteva fra le due popolazioni una barriera genetica, cioè non si sono fuse insieme incrociandosi e non c'era flusso di geni dall'una all'altra; segno inequivocabile dell'appartenenza a due specie distinte.

I sapiens e i Neanderthal sono allora due ominini separati e cugini ‑ con un antenato comune vissuto poco meno di mezzo milione di anni fa in Africa ‑ che si sono incontrati (e indirettamente scontrati, almeno sul piano demografico) forse più volte nell'area fra il Kazakhstan, il Medio Oriente e l'Europa. Gli ultimi esemplari conosciuti di Neanderthal, trovati nella penisola iberica, risalgono a circa 29 mila anni fa: poi non vi è più traccia apparente di questa specie.

Quanto alle altre specie del genere Homo (gli erectus, gli heidelbergensis, e i primi Homo europei finora conosciuti appartenenti alla specie antecessor), non è stato ancora possibile estrarre frammenti di dna sufficientemente conservati. Ecco perché nella grotta sui Monti Altai gli scienziati si aspettavano di trovare di tutto ‑ all'interno della gamma standard di diversità di sapiens e Neanderthal ‑ tranne che un nuovo ominino. Quel piccolo dito sembrava proprio quello di una cucciola di sapiens. Ma non era così.

Una specie sconosciuta e antica

Da 30 milligrammi di polvere di osso del dito (perché di questo si tratta) è stato possibile isolare i frammenti di dna mitocondriale, il materiale genetico residuale contenuto neì mitocondri, le batterie delle cellule e gli organelli contenuti nel citoplasma che svolgono la funzione di respirazione cellulare. Questo particolare materiale genetico, che si trasmette per via femminile, è presente in molte copie nella cellula e perciò è più probabile che qualche copia si sia ben conservata. Dunque è più facile da studiare perché queste copie intatte si prestano ad essere amplificate, cioè moltiplicate artificialmente, in laboratorio. Così da quei frammenti si possono assemblare le probabili sequenze originali complete, accertandosi con la massima cura di eliminare tutto ciò che può ricondurre a sospette contaminazioni genetiche esterne. L'affidabilità della sequenza ricostruita è stata poi controllata al Max Planck Institute ripetendo centinaia di volte l'analisi e alla fine verificando che i risultati fossero gli stessi. In questo modo ci si è anche resi conto che il materiale proveniva da un singolo individuo.

A questo punto il genoma mitocondriale completo della creatura di Denisova è stato messo a confronto con quelli di 54 individui sapiens rappresentativi di tutti i continenti (7), con quello di uno dei più antichi sapiens rinvenuti in un sito russo, con i genomi mitocondriali completi di sei Neanderthal, e infine per avere un controllo esterno è stato confrontato anche con il genoma mitocondriale di un bonobo e di uno scimpanzé. Dall'incrocio di tutti questi dati, in virtù del principio evoluzionistico secondo cui la quantità di differenze che si accumulano fra due specie è una buona misura dell'antichità del loro antenato comune, è possibile ricostruire l'albero delle ramificazioni genealogiche che legano fra loro tutte le specie ominine considerate.

Il risultato inatteso emerso a Lipsia è che la divergenza, cioè il numero di mutazioni genetiche differenti riscontrate mediamente fra i genomi, è doppia fra l'uomo dei Monti Altai e i sapiens rispetto al valore medio di differenza che sussiste fra un sapiens e un Neanderthal presi a caso. Le mutazioni si riscontrano infatti in un numero doppio di posizioni dei nucleotidi, le unità che compongono il codice genetico. Sapendo quanta divergenza c'è fra noi e gli scimpanzé, che abbiamo un antenato comune vissuto circa 6 milioni di anni fa, e assumendo che la velocità di accumulo di mutazioni sia abbastanza uniforme nei diversi rami dell'albero genealogico, il calcolo è presto fatto, con un margine di errore accettabile: il più recente antenato comune (per, il dna mitocondriale) fra l'ominino di Denisova, il sapiens e il Neanderthal è vissuto approssimativamente un milione di anni fa in Africa.

Dunque se sapiens e Neanderthal già erano specie a tutti gli effetti separate (come nell'analogia del cane, del coyote e dello sciacallo di prima), con un antenato comune africano datato a circa mezzo milione di anni fa, a maggior ragione lo saranno stati questi enigmatici ominini asiatici per ora rappresentati da un minuscolo seppur glorioso mignolo. Fin qui i freddi calcoli dell'albero filogenetico, in cui gli antenati della cucciola degli Altai si staccano precocemente dal ramo che porterà ai sapiens attuali e ai Neanderthal, mezzo milione di anni prima che questi inizino a dividersi fra loro. Tutta un'altra storia, insomma. Ma il senso della scoperta è ancor più radicale.

I Monti Altai, un posto piuttosto affollato

In quella regione della Siberia meridionale era già nota un'occupazione umana, neandertaliana e sapiens, a partire da circa 125 mila anni fa. Si trattava però soltanto di piccoli frammenti ossei e di denti. Ora che da un pezzettino di osso si può ricostruire un universo genetico si aprono straordinarie possibilità di conoscenza prima inaccessibili. Così, dal confronto fra i geni e i fossili, si scopre che la falange è stata trovata in uno strato datato fra 48 e 30 mila anni fa, e dunque presumibilmente è recentissima.

Si tratta quindi di un ominino separatosi dai suoi cugini in tempi estremamente antichi in Africa e tuttavia sopravvissuto in quella zona dell'Asia fino a una manciata di millenni fa. E non era solo. A meno di 105 cento chilometri di distanza è attestata la presenza di individui neandertaliani, nello stesso periodo. E ancora, dalle datazioni di alcune industrie litiche di origine sapiens scoperte in siti limitrofi e nella stessa caverna di Denisova risulta che esseri umani anatomicamente moderni come noi abitassero in quella regione già prima di 40 mila anni fa, e dunque anch'essi nella stessa epoca del possessore di quel dito mignolo.

L'evidenza empirica suggerisce in definitiva che tre specie distinte di Homo condividevano lo stesso fazzoletto di terra, nel medesimo, recente periodo, in una tarda fase glaciale che terminerà 10 mila anni fa, in mezzo a mammut e rinoceronti lanosi. Sono i discendenti di tre gruppi genetici africani decisamente distinti. E non paiono affatto sostituirsi l'un l'altro, come accadeva in epoche contemporanee tra i sapiens immigrati e i Neanderthal autoctoni in Europa occidentale (8). Là nella Siberia del Sud sembra proprio consumarsi una lunga e abbastanza «intima» convivenza a tre fra vallate montane, steppe e praterie.

E’ la prima volta che una nuova forma di essere umano viene identificata soltanto attraverso il dna, e non a partire anche dalla morfologia dei suoi resti fossilizzati, dunque la cautela è d'obbligo. Per questo gli scopritori prudentemente non le hanno ancora dato un nome. Prima di poter dire con sicurezza che si tratta di una specie effettivamente separata sarà necessario studiare anche il genoma del nucleo delle cellule, il principale, ricontrollare le stratigrafie e se possibile ottenere porzioni di scheletro più significative e complete, per dare una fisionomia in carne e ossa a questo nostro imprevisto parente asiatico. E tuttavia evidente che nel tardo Pleistocene i Monti Altai erano un posto piuttosto affollato.

Cinque specie del genere Homo in Eurasia

«Il quadro di ciò che circolava in forma umana nel tardo Pleistocene», ha commentato Svante Pääbo su The Guardian, «diventa molto più complesso e molto più interessante» (24 marzo 010). Ora infatti allarghiamo il quadro e includiamo l'intera Eurasia. E’ ormai consolidato che il piccolo «hobbit man» scoperto nel 2003 sull'isola indonesiana di Flores era una specie di Homo distinta dalla nostra, e non una popolazione di sapiens nani o malati. Le scoperte più recenti su Homofloresiensis ne hanno se possibile accentuato ancor più il già straordinario interesse: forse era un discendente recente di erectus asiatico rimasto bloccato sull'isola e rimpicciolitosi in sito a causa di un tipico adattamento ecologico noto come «nanismo insulare» (9), ma alcuni caratteri molto primitivi non fanno escludere che potesse essere un discendente di una forma africana ancora più antica (10). Sempre su Nature, alcuni paleoantropologi hanno proposto nel marzo 2010 una nuova datazione di utensili che farebbe risalire il primo popolamento dell'isola a più di 900 mila anni fa (11).

Comunque sia, le stratigrafie e altre forme di datazione fanno pensare che in quell'isola floresiensis ancora circolasse intorno a 13 mila anni fa, in un tempo quindi estremamente recente (per intenderci, all'epoca dell'invenzione dell'agricoltura, qualche millennio prima delle piramidi, alle porte delle prime civiltà urbane e della Storia con la maiuscola che compare sui manuali). Dunque in Eurasia, nella sua piccola enclave protetta dal mare, quaranta millenni fa viveva anche questa quarta specie del genere Homo.

Inoltre, si sta consolidando fra gli studiosi l'ipotesi secondo cui alcuni discendenti diretti degli erectus asiatici ‑ quelli fuoriusciti dall'Africa per primi quasi due milioni di anni fa ‑ sarebbero sopravvissuti fino a meno di 100 mila anni fa in Estremo Oriente, e secondo alcuni addirittura fino a 50‑40 mila anni fa sull'isola di Giava. Si tratterebbe quindi di una delle specie più longeve oltre che più ampiamente distribuite del nostro cespuglio, giunta anch'essa fino alle soglie della storia più recente (12). Ci sembrano tanti ma quaranta millenni sono un attimo, se misurati alla scala del tempo geologico e biologico.

E siamo a cinque specie del genere Homo nella sola Eurasia. Senza contare che in vaste zone del globo a latitudini più basse, nelle fasce tropicali ed equatoriali di Africa ed Eurasia ‑ dove sicuramente sono vissuti e transitati molti nostri cugini ominini ‑ la temperatura, i tassi di decomposizione e le condizioni di acidità del suolo sono tali da impedire la lunga conservazione del dna (come purtroppo nel caso di Homo floresiensis) e spesso persino dei fossili stessi. Poiché l'assenza di prove non è la prova di un'assenza, chissà quanti altri protagonisti del rigoglioso cespuglio dell'evoluzione umana non hanno lasciato traccia e sono svaniti per sempre nell'oceano del tempo profondo. Ma i dati che abbiamo sono sufficienti per affermare che quelli che fino a poco tempo fa avremmo considerato «alieni» evoluzionistici (cinque specie Homo tutte insieme, spesso dotate di tecnologie litiche tanto avanzate quanto quelle sapiens...) sono già esistiti, fino a ieri.

Australopithecus sediba: un nuovo ramoscello fa il suo debutto

Con ciò ci siamo limitati agli ultimi due milioni di anni e al genere Homo. Se ci spostiamo adesso in Africa nel milione di anni precedente (da tre a due milioni di anni fa) troviamo un'altra pletora di specie ominine che convivono, suddivise con ogni probabilità in tre generi (i primi Homo africani, le ultime australopitecine, e tre specie di cugini dall'aspetto più gorillesco, i parantropi), spesso gomito a gomito nelle stesse vallate dell'Africa orientale, ma distribuite anche fino al Ciad da una parte e al Sudafrica dall'altra (13). I primi Homo rappresentano già da sé un rebus archeologico: frammenti fossili etiopici attribuiti ad habilis risalgono indietro fino a date di 2,33 milioni di anni fa, sovrapponendosi a quelli altrettanto frammentari di una specie di Homo apparentemente diversa, rudolfensis, presente in siti del Kenya e del Malawi, mentre i primi Homo ergaster e poi erectus spuntano 1,9 milioni di anni fa in Africa e nel Vecchio Mondo, convivendo per un bel tratto di tempo con le due specie più antiche.

Chi sia stato l'antenato comune da cui ha avuto inizio il nostro genere è ancora oggetto di discussione. E ora si aggiunge la bellissima scoperta fatta nel 2008 nella grotta sudafricana di Malapa a nord di Johannesburg ‑ di un nuovo ominino identificato dal paleoantropologo Lee Berger (14) della University of the Witwatersrand come un probabile discendente ramificatosi da Australopithecus africanus fra 3 e 2,4 milioni di anni fa, ma che visse in epoche più recenti in parallelo con i primi Homo, con le ultime australopitecine più settentrionali come Australopithecus garhi e con i parantropi.

La combinazione unica di caratteri primitivi (da australopitecina) e di caratteri che permangono poi in Homo ha impedito agli scopritori di assegnare i resti così ben conservati di Malapa a una specie già esistente: ne è stata dunque battezzata una nuova, Australopithecus sediba (che nella lingua locale significa «sorgente»). Un altro ramoscello fa il suo debutto nell'albero intricato dell'evoluzione umana. Il giovane maschio e la femmina adulta ‑ ai quali si aggiungeranno presto altri due individui scoperti nello stesso sito, anch'essi morti cadendo dentro la grotta dall'alto e rapidamente sepolti ‑ presentano un puzzle di tratti in prevalenza tipici di Australopithecus africanus (la capacità cranica di 420 cc soltanto, le dimensioni ridotte del piano corporeo generale, le lunghe braccia) mescolati però a innovazioni «da Homo » (le pelvi più moderne da abile bipede, la dentizione più minuta, zigomi meno pronunciati). Queste ultime potrebbero essere adattamenti convergenti ‑ comparsi cioè sia in queste australopitecine sia nei primi Homo, indipendentemente, a seguito di analoghi cambiamenti ambientali e di alimentazione ‑ oppure essere l'indizio eclatante per candidare Australopithecus sediba come antenato comune del genere Homo. In effetti, è la più recente australopitecina mai rinvenuta finora e quella che condivide più caratteri derivati con Homo. Ma gli scienziati sono ancora divisi fra le due ipotesi (15).

Se venisse confermata la seconda, ovviamente caldeggiata dagli scopritori, vorrebbe dire che i primi Homo (habilis o rudolfensis) si sono ramificati dai rappresentanti più antichi dei sediba, i quali poi persistono per centinaia di migliaia di anni in contemporanea alle loro specie figlie. Gli intervalli di tempo calcolati con tre differenti metodi di datazione attribuiscono infatti all'Australopithecus sediba un'epoca molto recente, intorno a 1,95 milioni di anni fa. Ciò però non esclude di per sé che i tratti invece di un ramo collaterale di australopitecine meridionali sopravvissute molto a lungo per conto loro, mentre altrove comparivano i primi Homo. Qualunque sarà la risposta, qui si vede benissimo come l'evoluzione sia fatta di antenati comuni, di discendenti cugini, di popolazioni con storie ecologiche locali, di ramoscelli, estinzioni, convivenze parallele: nulla a che vedere con una sequenza lineare di «anelli mancanti».

Come chiosano efficacemente Berger e colleghi nel loro articolo su Science: «I reperti di Malapa dimostrano che la transizione evoluzionistica da un ominino di dimensioni ridotte e forse più adattato a stili di vita arboricoli (come Australopithecus africanus) a un ominino dal corpo più slanciato e pienamente bipede terrestre (come Homo erectus) è avvenuta con una modalità a mosaico». Una transizione, dunque, con più specie conviventi coinvolte, ciascuna portatrice di adattamenti e di un mix di caratteri unici, e forse senza una singola innovazione cruciale a fare da marchio distintivo (come si poteva evincere dalla sola espansione del cranio).

In conclusione, sul piano tassonomico in questa fase evolutiva si attesta addirittura una convivenza di specie sparpagliate fra almeno tre generi diversi, come se ai nostri cani, coyote e sciacalli dell'inizio aggiungessimo ora volpi, licaoni e crisocioni. Se sull'albero genealogico dell'evoluzione umana tiriamo una linea temporale all'altezza di circa 1,9 milioni di anni fa, troviamo come minimo sei specie coeve e conviventi: tre specie dei primi Homo, Australopithecus sediba in Sudafrica, due specie di parantropi. Nel susseguirsi di ramificazioni e di bivi adattativi che compongono il nostro mosaico evolutivo degli ultimi quattro milioni di anni, sembra non essere proprio mai successo che il vessillo dell'umanità fosse eroicamente imbracciato da una specie solitaria.

Diversamente sapiens

Le scoperte nelle grotte di Denisova e di Malapa danno la misura di quanto povera sia ancora la nostra comprensione della genealogia plurale di specie ominine che hanno popolato prima il continente africano e poi il Vecchio Mondo. E’ probabile che finora sia stata considerevolmente sottostimata la capacità di diversificazione delle specie che compongono il cespuglio dell'evoluzione umana, anche in tempi molto recenti: «Stiamo imparando sempre più cose sul lussureggiante albero evoluzionistico che gli esseri umani hanno avuto», ha commentato il paleoantropologo dell'American Museum of Natural History di New York, Ian Tattersali, sul New York Times (24 marzo 2010).

Ci sono stati molti modi di essere umani e di essere «diversamente sapiens», fino a una manciata di millenni fa. Ciò che oggi ci sembra normale e fuori discussione, essere l'unica specie umana sulla Terra, potrebbe in realtà rappresentare un'eccezione recente. Dunque la solitudine di specie è un'invenzione evoluzionistica tarda, dovuta forse alle nostre indubbie capacità espansive, invasive e fortemente competitive nel reperimento delle risorse, anche se non andrebbe esclusa una genuina componente di contingenza storica, ravvisabile per esempio nella conformazione delle terre emerse, nell'instabilità ecologica, nella distribuzione dei territori delle varie specie e in altri fattori imprevedibili che hanno condizionato il processo.

Se uno scommettitore extraterrestre fosse atterrato in quel periodo, avrebbe puntato sul successo di sapiens, ultimo ritrovato africano, o su quello di uno dei nostri cugini già sparsi nel Vecchio Mondo? Purtroppo è un esperimento impossibile. Le risposte su ciò che ci rende «umani a modo nostro» arriveranno in futuro quando impareremo a scovare nel genoma i cambiamenti che sono intervenuti, in Homo sapiens, dopo la separazione dalle altre specie ominine. Secondo Tattersali troveremo che la differenza cognitiva e comportamentale è legata al modo in cui trattiamo le informazioni: «Possiamo inventare alternative nelle nostre teste anziché accettare la natura per come è». Nessuno però è mai entrato nella testa di un floresiensis o di un Neanderthal.

Comunque sia andata, restiamo l'ultimo rappresentante del genere Homo sulla Terra e la solitudine gioca brutti scherzi cognitivi. Anche l'oritteropo africano dalle grandi orecchie (Orycteropus afer), divoratore notturno di termiti, è rimasto l'unico rappresentante di un intero ordine (i Tubulidentati), cioè di una categoria che sta ben due gradini più in alto del genere. Se tuttavia un oritteropo si convincesse di essere l'apice di un'eroica e spietata scrematura che non poteva che condurre proprio a lui e a nessun altro ‑ e si mettesse a cercare gli «anelli mancanti» della scala naturale che lo separa progressivamente dai suoi parenti elefanti, dugonghi, lamantini e procavie ‑ non lo prenderemmo molto sul serio.

La scoperta dei Monti Altai mostra anche quanto sia difficile da accogliere, nella nostra mente antropocentrica, la consapevolezza del significato non soltanto scientifico, ma anche culturale e filosofico, di questi dati empirici recenti, sempre più massicci e irriverenti: non eravamo soli, anzi non siamo quasi mai stati soli, tranne che nell'ultimo quarto d'ora della storia naturale, l'unico purtroppo che percepiamo intuitivamente come esito «necessario». Le cose potevano andare diversamente e prima della Storia ci sono state molte pre‑istorie, la cui trama era composta da una molteplicità di forme umane conviventi: ciascuna con propri adattamenti e riadattamenti specifici, con un universo cognitivo, emotivo e comunicativo probabilmente diverso, con abitudini e abilità figlie di percorsi storici cugini in territori ed ecosistemi differenti. Campi di studio come la psicologia evoluzionistica dovranno tener conto di questi dati di prorompente diversità.

C'è da scommettere altresì che gli antievoluzionisti, sempre più innervositi dagli avanzamenti della ricerca scientifica, pronti ad arruffare le penne ansiosamente e un po' comicamente dinanzi a qualsiasi controversia da strumentalizzare, benché ultimamente prodighi di inchiostro non daranno molta pubblicità a scoperte così robuste, convergenti, ponderate e controllate con metodi diversi, così limpide insomma e corroborate da pesare come un macigno sopra ogni mistificazione (16). Meglio invocare pateticamente il complotto internazionale darwinista ordito dalle note riviste giacobine Nature e Science. Ma l'evidenza prima o poi sommergerà serenamente anche queste desolate risacche di accecamento ideologico.

Quanto ai cercatori di «spiriti ominidi» infusi e di dubbie teleologie di ritorno, il significato di queste avvincenti prove evoluzionistiche all'insegna della pluralità e della contingenza storica rischia di essere piuttosto imbarazzante. L'evoluzione umana sta acquisendo un quadro coerente, solo che non sembra per nulla obbedire a una tendenza inevitabile verso di noi, né a una «grande catena dell'essere», e ancor meno assomiglia a una solitaria marcia di progresso culminante nella perfezione sapiens. C'è voluto così tanto struggimento per riconoscere un'anima pia ai selvaggi: come la mettiamo adesso con queste altre umanità che escono dalla notte dei tempi e vengono a popolare la nostra storia recente, rivendicando il posto che spetta loro nella chioma frondosa dell'evoluzione?

Note

(1) Le ultime evidenze genetiche in tal senso sono recenti: B.M. vonHoldt et al., «Genome-wide SNP and haplotype analyses reveal a rich history underlying dog domestication», Nature, doi:1O.1038/natureO8837, 17‑3‑2010.

(2) All'interno di una specie possono esistere «varietà» o «razze», cioè popolazioni geneticamente distinte e riconoscibili attraverso insiemi discreti di differenze nel genotipo e nel fenotipo, i cui membri tuttavia restano reciprocamente fecondi (è il caso di specie poco mobili e con stabili separazioni geografiche interne). Le «razze» possono anche essere generate artificialmente dall'uomo attraverso ripetuti incroci selettivi, come nel caso delle razze di cani domestici, tutte incluse nella specie Canis lupus (il lupo grigio). Nella specie Homo sapiens ‑ evolutivamente giovane, molto mobile e promiscua ‑ non si dà questa situazione di divisione interna: la variazione è continua e non esistono razze biologicamente distinguibili. Quando invece durante l'evoluzione l'isolamento geografico o comportamentale fa sì che due popolazioni non riescano più a incrociarsi fra loro e a mescolare i rispettivi patrimoni genetici (l'isolamento fisico si traduce cioè in un isolamento riproduttivo) possiamo dire che si sono separate in due «specie» distinte. Le modalità di speciazione sono molteplici e presentano numerose sfumature, anche fra gli animali, ma il criterio dell'isolamento riproduttivo è una guida affidabile per discernere le specie. Si veda G. Barbujani, L'invenzione delle razze, Bompiani, Milano 2006.

(3) J. Krause, Q. Fu, J.M. Good, B. Viola, MV. Shunkov, A.P. Derevianko, S. Pääbo, «The complete mitochondrial DNA genorne of an unknown hominin from southern Siberia», Nature, 253‑2010, DOI: 10.1038/nature08976.

(4) A causa della strettissima vicinanza genetica riscontrata fra gli esseri umani, gli scimpanzé e le altre grandi scimmie, i tassonomisti hanno più volte aggiornato negli ultimi anni i termini usati per classificare le relazioni fra la specie umana e i suoi parenti più prossimi, sfidando sempre più apertamente l'inconfessato antropocentrismo che resisteva nel settore. Gli «ominini» (hominini) sono la tribù (cioè la sotto‑sotto‑famiglia) che include oggi il genere Homo e gli scimpanzé (genere Pan), più tutte le specie estinte vissute nel cespuglio umano nei sei milioni di anni che ci separano dall'antenato comune con gli scimpanzé. Le «homininae» sono la sotto‑famiglia che include anche i gorilla. Gli «ominidi» (hominidae) sono diventati quindi la famiglia estesa di primati che include l'uomo, gli scimpanzé, i gorilla e gli oranghi. Esiste poi la superfamiglia degli «ominoidi» (hominoidea) che abbraccia anche la famiglia dei gibboni.

Nulla meglio di queste revisioni tassonomiche imposte dal dna e dagli studi comparati illustra la posizione di piccolo ramoscello periferico, nel grande albero della diversità terrestre, occupata da Homo sapiens. Noi e gli scimpanzé che rinchiudiamo in una gabbia allo zoo apparteniamo alla stessa sotto‑sotto‑famiglia. Il bracconiere e il gorilla appena trucidato sono due membri della stessa sotto‑famiglia. Per una ricostruzione di questi dibattiti: G. Biondi, O. Rickards, II codice Darwin, Codice Edizioni, Torino 2005.

(5) Tuttavia, secondo Pääbo, lo scenario è così complesso che anche l'idea di una serie di espansioni distinte fuori dall'Africa potrebbe essere riduttiva: «La mia speculazione è che potremmo scoprire che parlare di particolari eventi di esodo dall'Africa è una semplificazione eccessiva. Potrebbe invece esserci stato un continuo flusso genico con una continua migrazione» (Time, 24‑3‑2010).

(6) Le informazioni sui Neanderthal Genome Project del Max Planck Institute di Lipsia si possono trovare in www.eva.mpg.de/neandertal/index.html.

(7) Compreso un antico sapiens italiano proveniente dalla Grotta di Paglicci sul Gargano, cioè un individuo anatomicamente e geneticamente moderno, ma vissuto 24 mila anni fa: D. Caramelli, L. Milani, S. Vai, A. Modi, E. Pecchioli et al., «A 28,000 Years Old Cro‑Magnon mtDNA Sequence Differs from All Potentially Contaminating Modern Sequences», PLoS ONE, 3, 7, 2008, e 2700. doi: 10.1371/journal.pone.0002700.

(8) Si veda G. Barbujani, Europei senza se e senza ma. Storie di neandertaliani e di immigrati, Bompiani, Milano 2008.

(9) E.M. Weston, A.M. Lister, «Insular dwarfism in hippos and a model for brain size reduction in Homo floresiensis», Nature. 459, 7‑5‑2009, pp. 85‑88.

(10) W.L. Jungers, W.E.H. Harcourt‑Smith, R.E. Wunderlich, M.W. Tocheri, S.C. Larson, T. Sutikna. Rhokus Awe Due, M.J. Morwood, «The Foot of Homo floresiensis», Nature, 459, 75‑2009, pp. 81‑84, www.nature.com/nature/journaI1v459/n7243/abs/nature07922.html ‑ al#al.

(11) A. Brumin, G.M. Jensen, GD. van den Bergh, M.J. Morwood, I. Kurniawan, F. Aziz, M. Storey, «Hominins on Flores, Indonesia, by one million years ago», Nature, advance online publication 17‑3‑2010, doi: 10.1 038/nature08844.www.nature.com/nature/journal/vaop/ncurrent/full/nature08844.htr ril ‑ a2#a2

(12) C.C. Swisher 111, W.J. Rink, S.C. Antón, H.P. Schwarez, G.H. Curtis, A. Suprijo Widiasmoro, «Latest Homo erectus of Java: Potential Contemporaneity with Home sapiens in Southeast Asia», Science, 274, 5294, 13‑12‑1996, pp. 1870‑1874.

(13) Per un quadro di insieme, si vedano di C. Manzi, Homo sapiens e L'evoluzione umana, il Mulino, Bologna 2006 e 2007. Anche le epoche precedenti dell'evoluzione degli ominini, fra 6,5 e 4 milioni di anni fa, nomi scarseggiano di specie, come l'Ardipithecus ramidus di 4,4 milioni di anni fa scelto quale scoperta scientifica più importante del 2009 da Science.

(14) L.R. Berger, D.J. de Ruiter, S.E. Churchill, P. Schmid, K.J. Carlson, P.H. Dirks, J.M. Kibii, «Australopithecus sediba: A New Species of Homo‑Like Australopith from South Africa», Science, 328, 5975, 9‑4‑2010, pp. 195‑204, doi: 10.1 126.www.sciencemag.org/cgi/content/abstract/328/5975/195.

(15) M. Baiter, «Candidate Human Ancestor From South Africa Sparks Praise and Debate», Science, 328, 5975, 9‑4‑2010, pp. 154‑155, doi: 10.1126.www.scienceniag.org/cgi/contentabstract/328/59751195.

(16) Per capire la molteplicità di evidenze convergenti e di metodologie di comparazione e di datazione che rendono sempre più affidabile e aggiornano continuamente la ricostruzione dell'evoluzione umana, molto utile un testo introduttivo di B. Wood, Evoluzione umana, Codice Edizioni, Torino 2008.