Telmo Pievani - Biologia dell'altruismo (Micromega 7/2010)

La rozza vulgata del darwinismo come spiegazione e giustificazione del comportamento egoista e individualista è antica quanto Darwin. Oggi se ne sta contrapponendo una opposta, fondata su esempi edificanti di cooperazione e di altruismo diffusi nel mondo animale. Ma in entrambi i casi si tratta di visioni distorte: 'Né la pace né la guerra sono destini biologici necessari inscritti nei nostri geni'.

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Mentre «l'albero della vita» stava prendendo forma nei suoi Taccuini privati, Charles Darwin scopriva la logica continuativa e graduale del processo selettivo e modificava così la sua prospettiva circa le «trasmutazioni» delle specie, precedentemente interpretate come brusche transizioni fra entità discrete, fisicamente e geograficamente separate. Dopo aver incorporato le idee maltusiane nel settembre del 1838, smise di intendere il cambiamento delle specie «per saltum», ma come un graduale accumulo di cambiamenti infinitesimali in popolazioni esposte a pressioni selettive esterne: «Tre principi renderanno conto di tutto:

1) I nipoti come i nonni;

2) Tendenza a piccoli cambiamenti, specialmente in caso di cambiamenti fisici;

3) Grande fecondità rispetto al sostegno [assicurato] dai genitori» («Taccuino E», p. 58 dell'originale; trad. it. di I. Blum, in Ch. Darwin, Taccuini., Laterza, Roma-Bari 2008, p. 267).

Per alimentare questa «tendenza a piccoli cambiamenti» nella lotta per l'esistenza, minuscoli vantaggi cumulativi sono sufficienti per dare carburante al motore della selezione. Sta cambiando il linguaggio stesso di Darwin, che in queste pagine private vira sempre più verso una severa logica di competizione in ambienti in cui le risorse non sono sufficienti per tutti e le specie si spingono e si scacciano l'un l'altra come cunei conficcati in un tronco. Ecco un passaggio datato 12 marzo 1839: «E difficile credere nella guerra, terribile ma silenziosa, che ha luogo fra esseri organici nei boschi tranquilli e nei campi ridenti» (ivi, p. 114 dell'originale; trad. it. p. 295).

È a tutt'oggi ancora evidente che il potere esplicativo della selezione naturale deriva dal fatto che si tratta di un meccanismo demografico, statistico ed ecologico che coinvolge gli individui all'interno delle popolazioni e la frequenza delle varianti genetiche di cui sono portatori. Il processo non può prevedere il futuro, né raggiungere un'assoluta perfezione, né ancor meno essere il frutto di un «progetto». Nel suo inoppugnabile potere esplicativo si nasconde però una potenziale debolezza, di cui Darwin era ben consapevole, poiché per essere efficace la selezione richiede due restrizioni teoriche importanti: 1) una stretta continuità generazionale, unita in Darwin all'uniformità graduale nel ritmo di discendenza e di cambiamento nelle popolazioni; 2) un vantaggio individuale immediatamente apprezzabile, per quanto labile, che possa lentamente accrescere la frequenza di una variante in una popolazione in virtù del tasso differenziale positivo di riproduzione dei suoi portatori. In sintesi: gradualità e «interessi» individuali (1).

Il paradosso del vero altruismo

Nessuna interazione fra specie differenti può dunque essere all'insegna di un'altruistica gratuità o reciprocità, poiché la selezione fa gli interessi soltanto degli individui di una specie: «La selezione naturale non può produrre modificazioni in una specie esclusivamente a vantaggio di un'altra specie, benché nella natura una specie continuamente si avvantaggi e si approfitti delle strutture di altre. [...] Se si potesse provare che una qualsiasi parte della struttura di una specie è stata formata per esclusivo beneficio di un'altra specie, ciò distruggerebbe la mia teoria, poiché quella parte non potrebbe essersi prodotta attraverso la selezione naturale» (Ch. Darwin, L'origine delle specie, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1967, p. 259).

La predizione rischiosa di Darwin («se si potesse provare che...» è il tipico atteggiamento del naturalista inglese che, in più occasioni, si espone in anticipo alle possibili obiezioni e risponde con ipotesi aggiuntive) è che la selezione naturale promuova soltanto il vantaggio individuale: «La selezione naturale non produrrà mai in un essere una qualsiasi struttura che sia più dannosa che benefica per detto essere, poiché la selezione naturale agisce soltanto mediante il bene e per il bene di ciascuno» (ivi, p. 260).

Eppure, è ugualmente evidente che i comportamenti animali sono frequentemente altruistici - al punto da minacciare in alcuni frangenti la vita stessa dell'individuo - e che la cooperazione è ampiamente riconosciuta come una potente strategia evoluzionistica (2). Una parte di questi comportamenti può essere facilmente interpretata alla luce della selezione naturale, in quanto essi offrono vantaggi al contempo individuali e di gruppo, come nei casi di cooperazione nella caccia (si ottengono migliori risultati, sia individuali sia di gruppo, cacciando insieme), di mutualismo e di alleanze difensive. Con qualche accorgimento in più, che non era a disposizione di Darwin ma avrebbe dovuto attendere l'era della genomica, è possibile ricondurre a delicati e instabili equilibri fra competizione e cooperazione anche le diversissime associazioni fra ospiti e parassiti, nonché i fenomeni di simbiosi e di endosimbiosi. E' invece assai più difficile spiegare l'origine di comportamenti sociali all'apparenza puramente altruistici, poiché essi producono simultaneamente uno svantaggio per l'altruista e un vantaggio indiretto per l'egoista, che può approfittare delle azioni degli altruisti attorno a lui senza costi per se stesso. Che cosa innesca questi comportamenti? Perché gli egoisti non prevalgono immediatamente, interrompendo ogni «esperimento» di cooperazione sociale incipiente?

Ecco come Darwin pone il problema, discutendo il caso dell'evoluzione delle caste sterili in formiche e api: «Non vedo perciò grande difficoltà nel fatto che un carattere venga a trovarsi in relazione con la condizione di sterilità di certi membri delle comunità degli insetti: la difficoltà sta nel comprendere come tali correlate modificazioni di struttura abbiano potuto essere lentamente accumulate per selezione naturale» (ivi, p. 332).

Il paradosso della gradualità di comparsa e della funzionalità dell'altruismo sembra aver bisogno di una soluzione a più livelli. Qui per Darwin una logica di soli individui non è più sufficiente: «Questa difficoltà, sebbene appaia insuperabile, si riduce o, come credo, scompare, quando si ricordi che la selezione può applicarsi alla famiglia, così come all'individuo, e può così raggiungere lo scopo desiderato» (ibidem). Ma come può la selezione essere applicata, precisamente, a famiglie o a gruppi o all'associazione fra individui che rinunciano ad alcune delle loro prerogative? La nozione centrale per Darwin è quella di istinto sociale, che si sviluppa per selezione naturale da stadi più elementari a espressioni più complesse: il fondamento delle qualità morali e sociali risiede negli istinti sociali viepiù raffinati, inclusi i vincoli familiari, l'«amore» e le emozioni di «simpatia». Nelle conclusioni dell’Origine dell'uomo, Darwin scrive che gli animali dotati di istinti sociali traggono piacere dalla compagnia l'uno dell'altro, si avvisano del pericolo, si difendono e si aiutano in molti modi. Tuttavia, «questi istinti non si estendono a tutti gli individui della specie, ma solo a quelli della stessa comunità. Poiché sono assai utili per la specie, probabilmente sono stati acquisiti attraverso la selezione naturale» (L'origine dell'uomo, trad. it. in Ch. Darwin, L'evoluzione, Newton Compton, Roma 2009, p. 969).

Un beneficio per la specie è dato per garantito, ma poco si dice di come questi comportamenti possano prendere le mosse nei primi cooperatori: «Gli animali sociali sono in genere spinti ad aiutare i membri della propria comunità, ma più comunemente a compiere certe azioni definite» (ibidem). Rapidamente la discussione sulla socialità si sposta sulla specie umana, la quale manifesta pochi, deboli e non speciali istinti sociali (comunque radicati nel principio più generale di ricerca della massima felicità possibile e nelle emozioni di simpatia, «rinforzate dall'esercizio o dall'abitudine») e può esprimere i desideri attraverso le parole e il ragionamento, non più vincolata com'è da impulsi istintuali ciechi e cogenti ma ben più influenzata dalla (alquanto vittoriana) approvazione o disapprovazione dei propri simili. Biasimo e stima di cui gli esseri umani tengono conto anche quando aiutano, o non aiutano, gli altri.

E’ così che, in modo abbastanza sorprendente, Darwin individua il potere adattativo della socialità non già nelle relazioni fra individui soltanto ma anche fra gruppi e «tribù» umane: «Non si deve dimenticare che, sebbene un alto livello di moralità non dia che un leggero o nessun vantaggio a ciascun individuo e ai suoi figli sugli altri uomini della stessa tribù, tuttavia un aumento di numero degli uomini ben dotati e un progresso nel livello della moralità recherà certamente un immenso vantaggio a una tribù nei riguardi di un'altra (ivi, p. 627).

Le tribù di altruisti sarebbero cioè più equipaggiate nella lotta per l'esistenza, e dunque si tratterebbe ancora di selezione naturale dopo tutto: «Non può esservi dubbio che una tribù che includa parecchi membri che, in quanto posseggono in misura elevata lo spirito di patriottismo, fedeltà, obbedienza, coraggio e simpatia, siano sempre pronti ad aiutarsi l'un l'altro e a sacrificarsi per il bene comune, potrebbe riuscire vittoriosa su parecchie altre tribù: e questa sarebbe selezione naturale» (ibidem).

Così al termine dell’Origine dell'uomo, poco prima di ricordare il «disgusto» ingiustificato che provocherà a molti la scoperta delle umili origini animali dell'uomo, Darwin scriverà che quando la socialità istintuale evolve nella «parte più elevata della natura umana» la lotta per l'esistenza e la selezione naturale perdono l'esclusività della loro efficacia: «Le qualità morali sono progredite, sia direttamente sia indirettamente, molto di più per l'effetto dell'abitudine, delle facoltà raziocinanti, dell'istruzione, della religione, ecc.. che per la selezione naturale, sebbene a quest'ultima si possano sicuramente attribuire gli istinti sociali, che hanno costituito la base per lo sviluppo del senso morale» (ivi., p. 974).

In sostanza, adottando il linguaggio odierno, potremmo sintetizzare la soluzione teorica darwiniana in tre punti:

1 ) si propone una cornice concettuale per la spiegazione evoluzionistica dei comportamenti altruistici composta da una pluralità di fattori e di schemi integrati, che includono la normale selezione fra individui, la selezione tra famiglie e tribù, e il successivo ruolo assunto dall'apprendimento e dalla cultura, soprattutto (ma, oggi sappiamo, non esclusivamente) nella specie umana;

2) l'altruismo è selezionato positivamente almeno negli stadi incipienti, ma a livello di gruppo: è una buona strategia per gruppi e tribù in competizione fra loro; in tal modo, Darwin attribuisce all'altruismo una funzione sostanzialmente «difensiva»; infatti altruismo e cooperazione all'interno della comunità avrebbero come contropartita l'ostilità e l'aggressività nei confronti di chi è esterno alla comunità;

3) l'evoluzione della «parte più elevata della natura umana» suggerisce che il potere di ragionamento e la libertà di scelta fra opzioni comportamentali diverse possano disinnescare un aspetto o l'altro di quella paradossale ambiguità umana che permette una spiccata cooperazione e al contempo la capacità di organizzare la violenza persino nella guerra e nel genocidio; suggerisce inoltre che nelle nicchie culturali e simboliche umane precedenti adattamenti (o «precursori naturali») possano assumere funzioni nuove.

La comparsa di comportamenti altruistici nei singoli e le relazioni fra beneficio individuale e collettivo non hanno però smesso di suscitare controversie nel mondo evoluzionistico, anche se vedremo che questa eredità «pluralista» darwiniana oggi riscuote la sua rivalutazione.

L'approccio genetico costi-benefici e il tema irrisolto della struttura delle popolazioni

Con la teoria genetica della selezione naturale e lo studio delle componenti genetiche del comportamento animale, il paradosso dell'altruismo ha assunto un aspetto nuovo, per certi aspetti ancor più radicale, a causa del fatto che - nei modelli matematici e quantitativi della genetica di popolazioni - la fitness di un individuo precede, e prevale su, qualsiasi vantaggio incidentale di specie, famiglie e «tribù». Se gli individui generosi trascurano i loro interessi diretti, e dunque hanno un tasso riproduttivo più basso mentre gli egoisti al contrario non rinunciano a nulla e godono dell'aiuto altrui, perché i geni connessi ai comportamenti altruistici sono tollerati dalla selezione naturale?

Anche se l'altruismo fosse gratificante per l'individuo, dovrebbe essere soverchiato di generazione in generazione fino a non lasciare alcuna traccia di sé. Gli unici comportamenti pro-sociali ammessi dal modello sarebbero l'accoppiamento sessuale e le cure parentali. L'altruismo sembra dunque estremamente improbabile da un punto di vista strettamente selettivo. Tuttavia, e torniamo al punto, sappiamo che altruismo, cooperazione e attitudini sociali sono ampiamente diffusi e hanno successo in numerose specie, le più diverse e non strettamente imparentate fra loro. Vediamo chiaramente che diversi tratti neurofisiologici e processi ormonali rinforzano i comportamenti pro-sociali.

La mera presenza, oggi, di condizioni fisiologiche che rendono possibile la cooperazione (le «cause prossime») ci racconta però soltanto metà della storia. Abbiamo bisogno di comprendere anche le cause remote, cioè evoluzionistiche, dell'emergenza di questi comportamenti. Nella storia del pensiero biologico del XX secolo sono state fornite in tal senso due risposte prevalenti:

a) il paradosso in realtà non sussiste e l'altruismo è un illusione, essendo una tipologia indiretta e sofisticata di egoismo; pertanto, non esistono atti di puro altruismo in natura;

b) il paradosso è dovuto a un compromesso: l'altruismo è una realtà evoluzionistica, ma è coerente, a un differente livello, con la logica evoluzionistica di base, egoistica, del darwinismo riveduto e corretto sulla scorta della genetica di popolazioni.

La cornice per la prima soluzione risale al lavoro di J.B.S. Haldane, Ronald A. Fisher e Sewall Wright, padri della sintesi evoluzionistica moderna. Nel 1930 Fisher notava che un gene per un tratto che è svantaggioso per l'individuo ma utile per il gruppo (come il gusto cattivo di un insetto come arma contro i predatori) potrebbe evolversi soltanto in popolazioni in cui molti altri presentano lo stesso gene che predispone a essere disgustosi. Diversamente, il sacrificio dell'individuo sarebbe inutile. Ciò è possibile in gruppi di organismi sia strettamente imparentati gli uni con gli altri, sia fortemente gregari. Il gene dell'insetto mangiato diffonderà copie di se stesso attraverso la sopravvivenza degli altri, perché il predatore eviterà la cattiva esperienza di assaporare di nuovo qualcosa di disgustoso o di velenoso. Tuttavia, il problema della «sovversione interna» rimane irrisolto: un gene per la difesa diretta dell'individuo dal predatore sarebbe molto più efficace per l'individuo egoisticamente inteso (che avrà salva la vita e si riprodurrà da sé).

Haldane nel 1932 propose un modello di diffusione dei geni altruisti in cui la fitness riproduttiva più bassa dell'altruista è bilanciata dai vantaggi dati dalla presenza di un'alta proporzione di altruisti in una piccola popolazione. Secondo Haldane e Wright, l'accumulo di una mutazione casuale in un piccolo numero di individui che si incrociano fra loro potrebbe permettere all'allele che conferisce altruismo di diffondersi rapidamente, benché vada a danno del successo riproduttivo individuale. Tuttavia, questo vantaggio potrebbe essere sovvertito da un sottogruppo di egoisti aggressivi, con un doppio vantaggio per la loro strategia. A questo punto, altruismo e cooperazione potrebbero sopravvivere solo attraverso un «trucco» in cui la popolazione si divide in differenti gruppi isolati, alcuni composti da egoisti e altri no, con i secondi aventi un vantaggio selettivo sui primi (3).

Nel 1955 Haldane aggiunse un'altra possibile ragione per l'evoluzione di geni apparentemente altruisti: calcolò i costi e i benefici degli atti altruistici in una popolazione i cui membri siano strettamente imparentati. Se la generosità agisce in favore di parenti, la fitness genetica dell'altruista (anche se non la sua fitness riproduttiva diretta) potrebbe crescere, perché l'individuo perde i suoi geni ma favorisce i geni che condivide con i suoi parenti. Una soluzione davvero brillante a una prima occhiata: l'altruismo funziona se l'individuo mettendo a repentaglio se stesso salva più di due figli, o di quattro nipoti, o di otto cugini, e così via. Tuttavia, dato che gli animali non possono misurare i loro gradi di parentela, la selezione naturale favorirà questi comportamenti solo in piccole popolazioni di individui strettamente imparentati fra loro. L'altruismo sarebbe cioè una forma di egoismo genetico indiretto (purché in piccole popolazioni) (4).

Il grande biologo evoluzionista William D. Hamilton formalizzò questo modello di vantaggio individuale esclusivo nei primi anni Sessanta, includendo una possibile soluzione per l'iniziale diffusione del «gene dell'altruismo» in popolazioni di egoisti, al fine di spiegare la socialità degli imenotteri (5). L'idea centrale è che il comportamento altruistico sia una buona strategia per l'individuo ogniqualvolta i membri del gruppo attorno siano strettamente imparentati geneticamente, indifferentemente dal loro comportamento. Se sono sufficientemente imparentati con un altruista, avranno sicuramente alleli per l'altruismo in una qualche percentuale, dunque l'altruismo del singolo avrà un «effetto inclusivo di fitness» sugli altri nel suo ambiente sociale. Come risultato, gli alleli dell'altruismo si diffonderanno. L'individuo conferisce la sua. fitness ai parenti, producendo una più grande «fitness inclusiva», che è il contributo alla parte di alleli condivisi con altri, cioè in pratica una misura della fitness dei parenti (e non semplicemente la somma della propria fitness individuale diretta e di quella dei parenti).

Se però l'ambiente sociale è di fatto composto in modo prevalente da egoisti, il genotipo altruista verrà rapidamente «diluito» nella massa. Se un individuo guadagna un incremento nella propria fitness individuale e la somma degli effetti sui membri del gruppo sociale sono pure positivi, si avrà mutualismo. Se il singolo invece guadagna in fitness senza influenzare quella degli altri, sarà egoismo, che sia tra parenti o no. L'altruismo è possibile, in altri termini, solo se la fitness inclusiva è decisamente phi alta della perdita contingente di fitness individuale. La selezione naturale agisce sul comportamento animale in base alla presenza di parenti: sono loro a portare i miei geni, dunque è una buona strategia per me essere generoso verso di loro (si tratta della «selezione di parentela» o kin selection, secondo la terminologia introdotta da John Maynard Smith). L'altruismo sarebbe insomma un calcolo inconscio dell'interesse genetico individuale, ma la possibilità di spiegarlo senza un'attenta considerazione della struttura demografica di una specie (per esempio, la sua divisione in tante piccole popolazioni isolate, come proponeva Wright) rimane controversa.

È infatti possibile distinguere tre assunzioni metodologiche ed epistemologiche in questo approccio:

1) l'interesse riproduttivo individuale ha la priorità, nella spiegazione, rispetto alla sopravvivenza materiale ed ecologica (gli organismi, cioè gli «interattori», sono soltanto strumenti per la massimizzazione degli interessi dei «replicatori», i geni);

2) dall'organismo darwiniano, inteso come unità centrale di evoluzione, si passa al gene e alle discendenze genetiche (dunque i parenti sono portatori di percentuali di alleli condivisi, secondo una correlazione di cuginanza);

3) la logica esplicativa è quella di un'economia evoluzionistica basata sui costi-benefici dei replicatori.

Geni in conflitto o 'altruismo localistico'?

Quando nel 1964 Maynard Smith respinse la versione forte dell'ipotesi della «selezione intergruppale» proposta l'anno prima da Vero C. Wynne-Edwards per spiegare l'evoluzione dei sistemi sociali (6), un'interessante versione «debole» della «selezione fra gruppi» fece timidamente il suo ingresso nel dibattito e rinfrescò la vecchia intuizione darwiniana (7). Secondo questa teoria, un gene vantaggioso per il gruppo potrebbe avere successo anche se fosse svantaggioso per l'individuo in tutti i sensi. Una popolazione di altruisti avrebbe infatti una sua fitness più alta e indipendente, cosicché la crescita interna di sottogruppi egoisti verrebbe controbilanciata dall'espansione del gruppo dovuta alla stia coesione cooperativa. La versione forte di selezione di gruppo, basata su meccanismi spontanei di auto-regolazione e sul sacrificio degli individui indotto dalla capacità di autocontrollo del gruppo, ha sempre presentato molti problemi teorici e sperimentali. Prima Maynard Smith e poi Hamilton ebbero gioco facile nel mostrare come i comportamenti vantaggiosi per la società evocati da Wynne-Edwards potessero facilmente essere ricondotti agli effetti, in termini di costi-benefici, di una normale selezione naturale fra individui, oltre che agli equilibri fra comportamenti aggressivi. Non sembravano necessarie «leggi di gruppo», né sacrifici per il gruppo.

Secondo Maynard Smith, le strategie di aggressione ed espansione e quelle antagoniste di cooperazione e regolazione sono mescolate in ogni popolazione (e persino in ogni individuo) di generazione in generazione, in una dinamica di equilibrio che dipende dalla frequenza relativa nella popolazione di una strategia rispetto all'altra in un dato momento. Esiste dunque una pluralità di «strategie evolutivamente stabili», con un intreccio di variabili che giocano il loro ruolo nei comportamenti animali, anche se in ultima istanza si tratta sempre di geni costantemente in conflitto fra loro che «usano» differenti strategie dei loro portatori, scontrandosi anche all'interno dei genomi e durante il processo di fecondazione, insinuandosi persino nelle discrepanze di interessi fra genitori e figli (8).

Eppure, anche se non abbiamo bisogno della selezione fra gruppi in senso forte per spiegare la gestione naturale delle risorse e dei territori da parte delle popolazioni biologiche, Maynard Smith notava che l'altruismo rimaneva la grande questione da dirimere per un approccio basato sulla massimizzazione delle performance individuali. Così, nei suoi modelli successivi (9), sottolineò un tipo di selezione di parentela in cui molti gruppi di altruisti e di egoisti in competizione (capaci di riconoscere se stessi come separati) erano coinvolti nell'evoluzione di forme apparenti (anche se piuttosto marginali) di altruismo, come del resto nel modello proposto da George e Doris Williams nel 1957. Sembra dunque, come notarono Elliott Sober e David Sloan Wilson in Unto Others nel 1998 (10), che una qualche focalizzazione sui «gruppi» come entità indipendenti sia necessaria, anche nei modelli di comportamento sociale basati sulla kin selection.

La competizione fra gruppi di cooperatori e di egoisti produce una sopravvivenza differenziale (dei gruppi, e dunque degli individui che li compongono). I gruppi in cui l'altruismo è dominante sono più efficienti e coesi. Anche nei modelli ultimi di Hamilton, quando la competizione fra gruppi diminuisce, la frequenza di alleli svantaggiosi per gli individui tende a ridursi: l'altruismo ha bisogno quindi di un certo grado di competizione fra gruppi. Potremmo definire questo tipo di ipotesi una versione debole della selezione di gruppo, dove non si prevede alcuna problematica autodisciplina fra animali e dove i tre assunti metodologici prima elencati continuano a essere rispettati. In tutti questi casi, le qualità sociali dipendono dal successo differenziale di geni, siano essi portati da individui o da gruppi.

Il problema però di questa ipotesi, evidenziato anche da Hamilton (11), è come delineare i gruppi affinché la dinamica si realizzi: essi dovrebbero essere infatti abbastanza isolati ma non troppo; avere un basso grado di migrazione e di flusso di individui da un gruppo all'altro; presentare forti sistemi di riconoscimento e di separazione fra egoisti e altruisti, e così via; ovvero condizioni non necessariamente adattative che in certi casi vanno a detrimento della gamma di possibilità di scelta del partner e alzano troppo il livello di incrocio fra potenziali consanguinei. Condizioni insomma molto restrittive che rendono alcuni sospettosi circa la reale esistenza di strutture demografiche siffatte.

Nonostante ciò, è interessante che in questi modelli l'altruismo si fondi sul conflitto fra gruppi e sull'esclusione degli outsider. Come nelle tribù di Darwin, il criterio selettivo decisivo sta nell'efficienza raggiunta nella lotta per la sopravvivenza fra gruppi. Abbastanza evidentemente, sia la kin selection sia la versione debole di selezione di gruppo, cercando di spiegare la socialità attraverso la selezione naturale (a differenti livelli), assumono che il conflitto e le «guerre» fra gruppi siano l'espressione di specifici comportamenti aggressivi verso gli «stranieri» e i non parenti. E allora, come ha recentemente osservato Samuel Bowles su Nature (12), presentando i risultati di alcune simulazioni di teoria dei giochi, «il conflitto è la levatrice dell'altruismo»: «la generosità e la solidarietà verso i propri simili possono essere emerse soltanto in combinazione con l'ostilità verso gli esterni al gruppo».

In altre parole, questa ambiguità cruciale sarebbe storicamente radicata nella socialità animale e umana. Quando compaiono separatamente, l'altruismo e il localismo della difesa del proprio gruppo producono svantaggi selettivi, ma potrebbero aver agito insieme nell'evoluzione delle specie più sociali, al livello di selezione fra gruppi che competono per le risorse, con l'effetto di conferire una fitness riproduttiva migliore (specialmente in periodi di stress ambientale intenso) ai gruppi dotati del più efficiente «altruismo localistico» (parochial altruism). Come aveva anticipato Darwin, la cooperazione all'interno del gruppo è l'altro lato della medaglia dell'aggressività fra membri di gruppi diversi.

Ponti fattuali fra socialità animale e umana

Come risultato di queste considerazioni, notiamo che quando si cerca di spiegare la biologia della socialità in termini di «cause remote» emerge un'inaspettata continuità teorica fra i modelli basati sulla fitness inclusiva e quelli basati sulla selezione di gruppo, per quanto in versione debole e sottomessa a speciali condizioni circa la struttura e la disposizione fisica delle popolazioni. Allo stesso modo Edward 0. Wilson, padre della sociobiologia, e il suo collega David Sloan Wilson hanno di recente proposto una teoria in cui la selezione agirebbe a «livelli multipli» e in differenti «unità» di evoluzione (13).

A parte la notizia in sé della conversione di E.O. Wilson alla selezione di gruppo, nel quadro di un profondo ripensamento delle basi teoriche della sociobiologia, nel saggio non compaiono idee particolarmente innovative (14): è piuttosto un manifesto del diffuso ruolo della selezione di gruppo e dei processi associativi nell'evoluzione. Vi si distingue fra «selezione intrademica» (all'interno della stessa popolazione) e «selezione di tratti-gruppo» (cioè l'evoluzione di tratti portati da un gruppo, rispetto a quelli di un altro), ma senza specificare se il vantaggio sia individuale o di gruppo né come i due possano interagire, come se la questione potesse essere saltata a pie pari evocando la forza trainante dei gruppi come unità di livello superiore. Il risultato è un irrisolto dualismo individuo-gruppo che pervade il saggio, nonostante la teoria «multilivello» annunciata nei propositi. Come Hamilton considerava la fitness inclusiva un modello più generale che includeva i casi speciali di selezione di gruppo, così E.O. Wilson e D.S. Wilson sembrano incorporare la kin selection come caso speciale di selezione di gruppo. La differenza sta nel peso esplicativo dato ai livelli più bassi o più alti della gerarchia evolutiva dove avverrebbe il gioco competitivo: non siamo di fronte a spiegazioni alternative o incompatibili.

Che dire invece delle relazioni fra le «due forze selettive» individuate da Hamilton: sono antagoniste o complementari? La selezione di gruppo si applica soltanto a forme di altruismo reciproco (in cui la cooperazione è tutto sommato premiata da una ricompensa sociale) oppure anche a forme più estreme di altruismo, quando l'atto di generosità è espresso in un contesto in cui non ci si può attendere una reciprocità immediata, un ritorno percepibile, una gratificazione affidabile? E che dire poi di forme di altruismo che si esercitano, in gruppi estesi, fra non consanguinei, fra non parenti, o persino fra individui di specie diverse? E soprattutto, come si trasforma l'altruismo in specie dotate di apprendimento sociale e di evoluzione culturale?

La stranezza è che quando sono poste queste domande, inevase nel saggio dei due Wilson, nella maggior parte della letteratura contemporanea - inclusi sia il saggio teorico di Bowles sia i lavori etologici più fortemente impegnati sul piano sperimentale - compare spesso un tipico richiamo rituale alla «discontinuità» della socialità umana, a una sorta di gap concettuale basato sull'idea che nella specie umana, l'animale culturale per eccellenza, tutto cambi. E in effetti non possiamo nascondere che, pur in una sequenza di gradi intermedi, la nostra specie più di altre mostra come non vi possa essere una determinazione genetica lineare di comportamenti complessi quali l'altruismo, come la plasticità fenotipica e di sviluppo sia influente, come gli istinti siano molto meno cogenti e le interazioni fra geni, individui e culture abbiano schemi differenti. La gamma di opzioni comportamentali a nostra disposizione non ha obiettivamente equivalenti e dipende da una molteplicità di fattori biologici, di sviluppo, culturali. Questo è senz'altro il quadro di cautele in cui inserire un'aggiornata e non semplicistica biologia evolutiva della socialità umana.

I primati di oggi non sono i nostri diretti antenati, ma cugini per gradi differenti, e milioni di anni di evoluzione separata in nicchie ecologiche eterogenee ha reso le nostre storie naturali divergenti e dunque diverse. Chiaramente siamo una specie unica, in molti e non univoci sensi: non solo abbiamo idee astratte sull'altruismo, sulla giustizia e sulla dignità umana - fino al punto di coltivare il sogno emancipatore di diritti umani universali - ma abbiamo anche la prerogativa di essere malvagi in modo gratuito e del tutto svincolato da qualsiasi vantaggio apparente (la «strategia non adattativa della malevolenza» di Hamilton: danneggiare gli altri senza alcun ritorno per sé, qualcosa di simile alla teoria della stupidità fine a se stessa di Carlo Maria Cipolla). Eppure, una mera rivendicazione di discontinuità non aiuta molto nello spiegare le inusuali, ma non per questo «speciali» o «eccezionali», condizioni umane. Torniamo così al passaggio stretto che indicava Darwin, solo tradotto in linguaggio attuale: gli esseri umani esibiscono enormi differenze comportamentali rispetto agli altri primati e, al contempo, interessanti analogie e omologie con essi. Affinché le continuità evolutive siano discernibili pur all'interno dell'unicità umana, una direzione di ricerca torna a essere quella dei «molteplici fattori» integrati, una via che il naturalista inglese a suo tempo poteva soltanto abbozzare ma che oggi presenta robuste evidenze a favore (15).

Se dunque vogliamo che natura e cultura non siano più due domini giustapposti e incommensurabili e decidiamo di comprenderne gli intrecci e le reciproche influenze, avremo bisogno di «ponti» che permettano di cogliere le peculiarità del nostro status di animali culturali e morali, tenendo insieme continuità evolutiva e innovazioni specie-specifiche. In tal senso, anche per capire le forme di altruismo non reciproco della socialità animale e umana, un conto è sostenere che i nostri «istinti» animali, le nostre attitudini emozionali profonde, o i nostri limiti cognitivi, sono «vestigia» di un lontano passato evolutivo; altro conto è ipotizzare che essi siano «precursori naturali» ancora presenti e attivi, per quanto inseriti in un nuovo contesto e a più riprese «cooptati» per nuovi usi in nicchie ecologiche inedite. Nel primo caso la nostra natura evolutiva è intesa come un'inerzia passiva, nel secondo caso come un vincolo ancora operante di cui sarebbe meglio essere consapevoli per coglierne le trasformazioni.

Da questa prospettiva possiamo abbracciare gli innumerevoli «ponti fattuali» che le ricerche etologiche degli ultimi anni stanno lanciando. Il pacchetto esplicativo costituito da kin selection, selezione sessuale, giochi cooperativi e punizioni per i free riders sembra un buon punto di partenza per spiegare fenomeni come l'eusocialità negli insetti, la cooperazione opportunistica (per esempio nella caccia), il mutualismo, il parassitismo, il commensalismo, il reciproco altruismo fra non parenti, e altri casi di convergenza ed equilibrio fra interessi genetici diversi. Che dire invece della gamma di fenomeni che comprende l'endosimbiosi, la reciprocità indiretta, i comportamenti sessuali senza funzioni riproduttive, l'altruismo fra estranei non imparentati, la cooperazione senza ritorni, l'empatia che si manifesta anche fra individui di specie diverse? Qualcosa qui sembra spezzare la logica selettiva dello scambio e del calcolo immediato di costi-benefici. E dato che le casistiche in tal senso stanno crescendo notevolmente in frequenza, per non incorrere in riedizioni di argomenti «per discontinuità» abbiamo bisogno di nuove spiegazioni evoluzionistiche soddisfacenti.

La funzione della cooperazione come difesa di gruppo contro i predatori, anziché per la promozione di più coordinate e aggressive azioni di caccia, è un altro dei ponti tra i comportamenti sociali osservati fra i primati attuali e gli ipotetici comportamenti sociali presenti nei gruppi di ominini nostri antenati e cugini. A molti sembra poco edificante, ma, più che una storia epica di feroci predatori e cacciatori, la nostra vicenda evolutiva è stata per lo più una sequenza di tentativi (riusciti) di sfuggire alla predazione da parte di felini e di altri abili cacciatori (16). L'insieme dei comportamenti osservati che non si conformano ai dettami della sola selezione di parentela si sta espandendo (17). Si accumulano le evidenze di animali sociali che reagiscono empaticamente alle emozioni degli altri, non soltanto fra membri della stessa specie. Si conoscono casi, ancora dibattuti, di repulsione alle sofferenze altrui che si spinge fino al sacrificio di sé (in particolare, al digiuno) pur di non arrecare dolore all'altro. È documentata la possibilità di altruismo spontaneo e di assistenza incondizionata fra gli scimpanzé. Dal 1996 si osservano situazioni in cui dopo un conflitto alcuni membri del gruppo consolano lo sconfitto, anziché adulare il vincitore (come converrebbe per fitness riproduttiva e di sopravvivenza) (18). Allo stesso modo, sappiamo che sia in alcuni cercopitechi sia negli scimpanzé esiste la gratitudine a medio e lungo termine per il grooming (ossia la pulizia) ricevuto, implicante un altruismo reciproco e una notevole memoria relazionale. Altri studiosi hanno addirittura ipotizzato in alcuni cebi la presenza di un primordiale senso di giustizia, o quanto meno di una reazione contro l'iniquità in scambi che non avevano un'aspettativa di ricompensa (19). Secondo Marc Bekoff e Jessica Pierce, gli animali appartenenti a una vasta schiera di specie sociali mostrerebbero chiari segni di un'intelligenza emotiva e «morale» in un set di comportamenti che implicano fiducia, reciprocità, lealtà e una «giustizia selvaggia» (20).

Siamo insomma molto oltre l'aneddotica di altruismo eroico fra mammiferi, presente anche nell'Origine dell'uomo di Darwin, e la frequenza dei casi sembra escludere il rischio di un'antropomorfizzazione del comportamento animale. Cooperazione e altruismo non sembrano essere contingenze marginali «tollerate» da un algoritmo ultradarwinista universale, ma ciò detto non significa certo che essi diventino la norma, giacché sono altrettanto documentate e note - in quelle stesse specie fra l'altro - le capacità di violenza e di aggressività, anche organizzata, sia fra singoli sia fra gruppi. Come districarsi allora nel rebus evoluzionistico della socialità animale e umana? Forse abbiamo bisogno di ponti anche teorici, oltre che fattuali, perché la semplice enucleazione dei casi ci restituisce l'idea che nelle specie sociali, la nostra inclusa, vi sia una vasta gamma di opzioni comportamentali ambigue e contraddittorie. E ragionevole supporre che in tutti i frangenti in cui si assume che il comportamento cooperativo offra un beneficio individuale immediato (riducendo lo stress, promuovendo la conformità sociale), ciò sia coinciso nella storia naturale con un beneficio evoluzionistico per il gruppo. Lo stesso vale per i comportamenti coordinati e la formazione di alleanze per raggiungere un obiettivo: le azioni collettive sono comportamenti a basso costo, con ritorni individuali oltre che di gruppo molto alti, e dunque sono «sperimentabili» all'inizio senza troppi rischi di sovversione interna. Se è così, però, significa che la logica stessa delle spiegazioni evoluzionistiche deve allargarsi: non è solo materia di «interattori» che trasportano passivamente i loro pool genetici, ma anche di economia della sopravvivenza, di benefici fisici ed emotivi immediati, di risposte alle condizioni contingenti del contesto sociale, di plasticità comportamentale, di abilità e rapidità di apprendimento delle novità, di flessibilità degli schemi di interazione. Si tratta in sostanza di una gerarchia a più livelli di fattori micro e macroevolutivi, che coinvolgono sia la trasmissione del materiale genetico sia gli scambi ecologici ed economici delle popolazioni con le loro nicchie (21).

Le competizioni genetiche non bastano

Una prima mossa teorica potrebbe allora essere quella di estendere i fattori pertinenti e di partire dall'assunto che non tutte le ipotesi per spiegare la cooperazione e l'altruismo siano completamente riducibili ad argomenti basati sulla competizione genetica. In tale contesto, un secondo «ponte teorico» importante per tenere insieme la continuità del processo evoluzionistico neodarwiniano, da una parte, e le innovazioni che scorgiamo fra le socialità animali e quella umana, dall'altra, è offerto dalla nozione di «cooptazione funzionale», che Darwin introdusse nella sesta edizione dell’Origine delle specie per rispondere all'obiezione su come la selezione naturale potesse render conto degli stadi incipienti di strutture particolarmente complesse (come lo sono anche i tratti comportamentali sociali).

Il meccanismo fu poi ridefinito da Ernst Mayr come «pre-adattamento». nei casi in cui un tratto si sviluppa per una certa funzione in un dato contesto selettivo e viene poi ingaggiato per svolgere compiti differenti al mutare delle condizioni, e poi ulteriormente rilanciato ed esteso da Stephen J. Gould e da Elisabeth Vrba nel 1982 e 1986 fino a includere quei casi (gli spandrels o pennacchi) in cui un tratto non nasce per ragioni selettive - bensì come effetto di struttura, effetto collaterale di altro, o comunque neutrale rispetto alla selezione - e viene poi «ex-attato» per la funzione che assolve attualmente (22). La selezione naturale, quindi, non plasma gli organismi a proprio piacimento, ma a partire dal «materiale» che trova disponibile, cercando di volta in volta compromessi con i vincoli interni che la storia pregressa ha sedimentato a tutti i livelli dell'evoluzione, dal genoma agli organismi alle specie. In questo gioco darwiniano di «espedienti» (contrivances) fra strutture e funzioni, non è detto che l'utilità attuale di un tratto, e di un comportamento, coincida con la sua origine storica: pensare che le ali si siano evolute «per» volare sarebbe un errore, tipico di una mente come la nostra attratta da spiegazioni teleologiche (23). Qualcosa di simile potrebbe dunque essere successo nell'evoluzione dei comportamenti animali, come già nell'ipotesi darwiniana secondo cui gli affetti parentali e filiali si sarebbero «estesi» e riadattati più volte nell'evoluzione fino a trasformarsi in più generali sentimenti pro-sociali. L'altruismo gratuito serve a cementare il gruppo, ma si è evoluto «per» questa funzione? O non è forse un exaptation di comportamenti emersi per altre ragioni nella storia naturale degli animali sociali?

Un exaptation è dunque l'«effetto» (secondo il termine coniato da George Williams) di qualcosa che si è evoluto per altre ragioni e non inficia l'esistenza dei normali adattamenti funzionali diretti, ma integra ed estende la tassonomia dei possibili processi che conducono a strutture dotate ài fitness. Il potere esplicativo dei processi di exaptation sta crescendo nella letteratura scientifica recente in molti campi di studio, come la biologia evoluzionistica dello sviluppo (24) e la paleoantropologia (25). Pre-adattamenti ed exaptation potrebbero essere coinvolti nell'evoluzione del linguaggio, secondo Philip Lieberman (26). Persino alcune delle più importanti abilità attuali del cervello umano, come la lettura e la scrittura, sembrano derivare da cooptazioni funzionali (o «riciclaggi») di circuiti neurali evolutivamente più antichi, come nell'interessante ricostruzione proposta dal neurofisiologo Stanislas Dehaene (27). Nei mass media una psicologia evoluzionistica «pop» di grande successo - con le sue ricostruzioni adattative del tutto speculative, che spiegano poco ma soddisfano le nostre menti attratte dalle «storie proprio così» e da mitici «ambienti ancestrali» - ha trasformato l'evoluzione della socialità umana nell'ultimo territorio di applicazione di un ultradarwinismo stereotipato che punta soltanto sulla continuità di meccanismi evolutivi ipersemplificati. Non è certo una soluzione quella di contrapporre a queste visioni una psicologia evoluzionistica di senso opposto, basata su accezioni edificanti di cooperazione e di altruismo. Sarebbe un modo per perpetuare la fallacia naturalistica di chi sovrappone alla natura le proprie convinzioni etiche, cercando nell'essere (in una sorta di «biologia della generosità») un fondamento del dover-essere.

Né la pace né la guerra sono destini biologici necessari inscritti nei nostri geni. Con la nozione di exaptation., e con il pluralismo darwiniano a cui si ispira (28), possiamo invece laicamente interpretare le grandi transizioni evolutive - inclusi i «bricolage» e le innovazioni nei comportamenti umani - come eventi reali e dirimenti, i quali però non implicano alcuna «discontinuità» e soprattutto non ci liberano da un'eredità ambigua. Possiamo inoltre evitare così di ricorrere a ipotesi in cui l'evoluzione culturale appare come qualcosa di completamente nuovo e «disobbediente» rispetto agli interessi biologici, come in alcune storie «memetiche» in cui questi supposti equivalenti un po' antropomorfici dei geni (i memi) inaugurerebbero non si sa perché un percorso evolutivo indipendente e divergente rispetto a quello biologico. E' un dualismo conflittuale con nobili origini, se pensiamo che anche Thomas H. Huxley descriveva l'avvento delle «squisite facoltà» sociali e morali del ben educato uomo vittoriano con la metafora del giardiniere che addomestica e disbosca una giungla selvaggia e gladiatoria. Darwin contrapponeva a questa visione la sfida di pensare insieme la stretta continuità fra mente e natura, da una parte, e la capacità dell'evoluzione di produrre innovazioni formidabili, dall'altra.

Il comportamento altruistico come exaptation negli animali che vivono in gruppo

In particolare, nella prospettiva di estensione dei «ponti teorici» necessari per comprendere continuità e specificità umane, ciò che chiamiamo «rivoluzione paleolitica» potrebbe essere stato un evento cruciale di exaptation di facoltà mentali e linguistiche, già potenzialmente presenti e innescate da un'opportunità ecologica o da un avanzamento culturale. Un nuovo processo di «costruzione di nicchia» si è quindi avviato, conducendo in ultima istanza alla nostra inusuale nicchia simbolica e cognitiva, dove molte abilità pregresse del nostro cervello da Homo sono state «ex-attate». In questo modo, anche i nostri attuali comportamenti sociali potrebbero essere comparsi come effetti collaterali di vincoli adattativi più ancestrali ed essere stati poi sporadicamente «ex-attati» nel quadro di pressioni selettive (e a quel punto culturali) inedite.

Potremmo dunque esplorare la possibilità che la cooperazione e l'altruismo puro nella specie umana abbiano trovato nella storia naturale antichi precursori (non vestigia) in caratteristiche come l'empatia, il rifiuto della sofferenza altrui e la reciprocità sociale, emerse da processi di selezione di gruppo e di parentela in popolazioni suddivise in gruppi (localisticamente altruistici, per dirla con Bowles). Questi vincoli ambigui (perché producono cooperazione e altruismo all'interno del gruppo, ma in concomitanza con la separazione aggressiva da altri gruppi) potrebbero poi essere stati trattenuti in varie specie di ominini come meccanismi anti-predazione, in tribù di bipedi raccoglitori e cacciatori opportunisti ancora soggette a intensa predazione. Successivamente, queste attitudini radicate potrebbero essere state «ex-attate» in diversi frangenti: prima nella transizione verso pratiche meglio articolate di caccia in gruppo, nelle specie più recenti del genere Homo; poi nella transizione paleolitica che porta ai sapiens cognitivamente moderni.

Dunque si tratterebbe di un exaptation dell'altruismo e della socialità umana (ma con il lascito ambiguo della conflittualità fra gruppi) da un adattamento difensivo (da prede) a un modello di organizzazione sociale di successo, con divisione del lavoro e nuove forme di sfruttamento degli ecosistemi (inclusa la caccia di grosse prede). Attraverso ripetuti exaptations in transizioni successive (invenzione dell'agricoltura, urbanizzazione, crescita demografica, scrittura), questi comportamenti mantennero ciò nonostante le loro relazioni, ambigue e contraddittorie, con i vecchi precursori naturali: così osservando diversi animali a noi imparentati (il gesto di solidarietà di uno scimpanzé verso il compagno, e poi il suo brandire il bastone in un'altra occasione) ci sembra di ascoltare l'eco di queste somiglianze, e rimaniamo altresì turbati quando improvvisamente quelle che paiono attitudini istintuali ed emozionali profonde irrompono nei comportamenti umani in contesti culturali che non hanno quasi più nulla a che vedere con la loro storia evolutiva. In conclusione, un'ipotesi «exattativa» circa l'evoluzione della cooperazione animale e umana presenta tre interessanti vantaggi teorici:

1) non scorge conflitti fra la selezione per il beneficio genetico dell'individuo e quello del gruppo; è compatibile sia con la selezione naturale standard sia con la versione debole della selezione di gruppo; un adattamento, o un non adattamento neutrale, al livello individuale può diventare un exaptation a livello di gruppo;

2) è coerente con una teoria dell'evoluzione neodarwiniana «a più livelli», dove una pluralità di fattori, organizzati in due gerarchie inclusive, genetica ed ecologica, interagiscono sia all'interno delle rispettive gerarchie sia fra le due; la sopravvivenza ecologica e fisica, da una parte, e l'interesse genetico, dall'altra, devono interagire e trovare di volta in volta compromessi come due logiche separate ma interdipendenti;

3) una serie continuativa di exaptations multipli (da verificare nelle ricostruzioni evoluzionistiche con le prove convergenti - comparative, fossili e molecolari - oggi a disposizione) e di compromessi fra spinte antagoniste all'egoismo e all'altruismo potrebbe spiegare meglio la transizione dei comportamenti pro-sociali umani da una precedente nicchia prevalentemente biologica (che ora lascia le sue tracce sottopelle) a un'attuale nicchia prevalentemente culturale e simbolica, senza ricorrere a discontinuità di alcun tipo;

4) evitando ogni fallacia naturalistica, l'inedito intreccio fra precursori naturali ed evoluzione culturale nella specie umana fa sì che oggi la preferenza etica per la costruzione di comportamenti condivisi improntati alla cooperazione e alla solidarietà spetti in larga misura all'elaborazione culturale di una società e alla responsabilità individuale.

Si tratta di assunti diversi dai tre prima individuati nei modelli novecenteschi, anche se non incompatibili con essi. Sono invece piuttosto simili a quelli indicati originariamente da Darwin. La loro cornice di riferimento è una versione «estesa» e multifattoriale della teoria neodarwiniana, che non riconduce più casi come questi al solo meccanismo competitivo dell'interesse genetico ottimizzato, e che forse può gettare qualche luce sull'unicità e sull'ambiguità dei comportamenti sociali dell'ultimo rappresentante rimasto del genere Homo*

* Una versione estesa di questo saggio è in corso di stampa negli Stati Uniti in: R.W. Sussman, C.R. Gloninger (a cura di), Origins of Cooperation and Altruism., Springer, New York.

(1) T. Pievani, «The World after Charles R. Darwin: Continuity, Unity in Diversity, Contingency», Rendiconti Lincei: Scienze Fisiche e Naturali, Springer, 20, 2009, pp. 355-361.

(2) A riprova di quanto anche Darwin ne fosse convinto è interessante ricordare che nel contesto della controversia riguardante il grado relativo di cuginanza tra esseri umani e gorilla, da una parte, e tra esseri umani e scimpanzé, dall'altra, Darwin - in questo caso in contrasto con l'opinione di Thomas H. Huxley (proprio come era successo sul tema del gradualismo) - argomentò che gli scimpanzé, e non i gorilla, dovevano essere i parenti più stretti di Homo sapiens., proprio in virtù dei loro sentimenti di «simpatia» e di «amore» più sviluppati e degli istinti cooperativi che sono alla base anche della socialità umana. L'ipotesi evoluzionistica era corretta, anche se la socialità del gorilla meriterà successivamente una robusta rivalutazione.

(3) S. Wright, «Tempo and Mode in Evolution. A criticai review», Ecology, 26, 1945, pp. 415-419. E più recentemente: D.S. Wilson, E. Sober, «Reintroducing group selection to the human behavioural science», Behavioural and Brain Sciences, 4, 17, 1994, pp. 585-654.

(4) J.B.S. Haldane, «Populalion Genetics», New Biology, 18, 1955, pp. 34-51.

(5) W.D. Hamilton, «The evolution of altruistic behaviour», The American Naturalista 97, 1963, pp. 354-356; W.D. Hamilton, «The genetical evolution of social behaviour, Part 1», Journal of Theoretical Biology, 7, 1964, pp. 1-16. Per una piacevole e argomentata ricostruzione, basata anche su appunti inediti di Hamilton, dei dibattiti di quegli anni sulla storia naturale dell'altruismo, si veda: E. Coco, Egoisti, malvagi e generosi, Bruno Mondadori Editore, Milano 2008.

(6) Gli studi etologici e biogeogral'ici di Wynne-Edwards avevano indotto a pensare che gli animali sociali fossero capaci di controllare sia le dimensioni sia l'impatto ecologico dei loro gruppi, gestendo la distribuzione dei territori e controllando la densità della popolazione come sistemi omeostatici capaci di mantenere la propria sostenibilità ecologica. Dato che ogni gruppo è una piccola società che compete con altre, gli organismi secondo Wynne-Edwards non sono programmati per massimizzare i loro interessi particolari, ma quelli della loro società. V.C. Wynne-Edwards, Evolution through Group Selection, Blackwell Scientific, Oxford 1986.

(7) J. Maynard Smith, «Group Selection and Kin Selection», Nature, 201, 1964, pp. 1145-1146.

(8) A. Burt, R. Trivers, Geni in conflitto, Codice Edizioni, Torino 2008.

(9) J. Maynard Smith, «Group Selection» Quarterly Review of Biology, 51 1976, pp. 277-283

(10) E. Sober, D.S. Wilson, Unto Others. The Evolution andPsychology ofUnselfish Behaviour, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1998.

(11) W.D. Hamilton, Narrow Roads of Gene Land. Evolution of Social Behaviour., W.H. Free-man, New York 1996.

(12) S. Bowles, «Conflict: Altruism's Midwife», Nature, 456, 2008, pp. 326-327.

(13) D.S. Wilson. E.O. Wilson, «Rethinking the theoretical foundation of Sociobiology», QuarterlyReview of Biology, 4, 82, 2007, pp. 327-348.

(14) Già presenti per esempio in S.J. Gould, E. Lloyd, « Indivi duality and Adaptation Across Le-vels of Selection», Proceedings of the National Academy of Sciences, 96, 1999, pp. 11904-11909. Si veda anche S. Okasha, Evolution and the Levels of Selection., Oxford University Press, Oxford 2006.

(15) R. Boyd, P.J. Rieherson, Non di soli geni. Come la cultura ha trasformato l'evoluzione umana. Codice Edizioni, Torino 2006.

(16) D. Hart, R.W. Sussman, Man the Hunted. Primates, Predators, and Human Evolution, We-stview Press, Boulder (CO) 2009.

(17) T. Clutton-Brock, «Breeding together: Kin Selection and mutualisni in cooperative verte-brates», Science, 296, 2002, pp. 69-72.

(18) F.B.M. de Waal, Primates and Philosophers, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2006; F.B.M. de Waal, «With a Little Help front a Friend», PLoS Biotqgy, 5, 7, 2007, p. 190; F.B.M. de Waal, «Putting altruism back into altruism», Annual Review of Psychology, 59, 2008, pp. 279-300; M. Tomasello Altruisti nati. Perché cooperiamo fin da piccoli, Bollati Boringhieri, Torino 2010.

(19) S.F. Brosnan, F.B.M. de Waal, «Monkeys reject unequal.pay», Nature, 425, 2003, pp. 297-299.

(20) M. Bekoff, J. Pierce, Wild Justice. The Moral Lives ofAnimals, The University of Chicago Press, Chicago 2009.

(21) N. Eldredge, Le trame dell'evoluzione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002; S.J. Gould, La struttura della teoria dell'evoluzione. Codice Edizioni, Torino 2003.

(22) SJ. Gould, E. Vrba, Exaptation. Il bricolage dell'evoluzione. Bollati Boringhieri, Torino. 2008. T. Pievani, «Rhapsodic Evolution: Essay on Exaptation and Evolutionary Pluralism». World Futures., 59, 2, 2003, pp. 63-81. Per una trattazione, di questi concetti si veda anche: E. Boncinelli, Perché non possiamo non dirci darwinisti, Rizzoli, Milano 2009.

(23) V. Girotte, T. Pievani, G. Vallortigara, Nati per credere, Codice Edizioni, Torino 2008.

(24) S.B. Carroll, Infinite forme bellissime. Codice Edizioni, Torino 2006.

(25) G. Manzi, L'evoluzione umana, il Mulino, Bologna 2007.

(26) P. Lieberman, Toward ari Evolutionary Biology of Language, Harvard University Press. Cambridge (MA) 2006.

(27) S. Dehaene, I neuroni della lettura, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009. Si veda anche il saggio di Dehaene pubblicato in questo stesso volume.

(28) T. Pievani (in corso di stampa), «The Evolving Structure of Evolutionary Theory: a Neo-Lakatosian Hypotbesis», Paradigmi, 2010.