M. Piattelli Palmarini, J. Fodor

Gli errori di Darwin

Feltrinelli, Milano 2010

1.

Come onestamente riconoscono gli autori stessi nell’Introduzione, l’oggetto del libro è meno Darwin che il neodarwinismo, cioè quella corrente della biologia che, integrando la teoria dell’evoluzione con la genetica e la paleontologia, è giunta a configurare un modello incredibilmente elegante e sintetico, che enfatizza il ruolo della selezione naturale fino al punto di rimuovere le riserve espresse da Darwin stesso a riguardo.

Ne L’origine dell’uomo (1871) questi, infatti, scrive:

“Si può sicuramente dare un’ampia se pure indefinita estensione ai risultati diretti e indiretti della selezione naturale; ma ora ammetto, [...], che nella prima edizione del mio Origine delle specie forse ho dato eccessiva importanza all’azione della selezione naturale o alla sopravvivenza dei più adatti. Ho mutato la quinta edizione dell’Origine in modo da limitare le mie osservazioni a quei mutamenti di struttura passibili di adattamento, ma sono convinto, in base alle conoscenze raggiunte negli ultimi pochi anni, che di moltissime strutture, che ora ci appaiono inutili, si potrà dimostrare appresso l’utilità e quindi rientreranno nell’ambito della selezione naturale. Nondimeno precedentemente non ho considerato a sufficienza l’esistenza di quelle strutture che, per quanto possiamo giudicare al momento, non sono né benefiche né dannose; credo che questo sia uno dei maggiori errori, tuttora evidenti, nella mia opera. Mi si deve permettere di dire, come scusa, che avevo in mente due argomenti distinti; il primo che le specie non sono state create separatamente, il secondo che la selezione naturale è stato l’agente principale dei mutamenti, anche se largamente aiutato dagli effetti ereditari delle abitudini e chiaramente dall’azione diretta delle condizioni ambientali. Non sono stato tuttavia capace di annullare l’influenza della mia primitiva opinione, allora quasi universale, che ogni specie è stata creata intenzionalmente e ciò ha portato al tacito assunto che ogni particolare della struttura, tranne i rudimenti, fosse di una determinata, anche se ignota, utilità. Chiunque, con tale assunto in mente, potrebbe naturalmente estendere molto l’azione della selezione naturale sia nel presente che nel passato. Alcuni di coloro che ammettono il principio dell’evoluzione, ma respingono la selezione naturale, sembrano dimenticare, quando criticano il mio libro, che avevo almeno due obiettivi in mente, per cui, se ho sbagliato nell’attribuire alla selezione naturale una eccessiva importanza, che oggi sono ben lunghi dall’ammettere, o nell’aver esagerato il suo potere, che è in se stesso probabile, spero almeno di aver reso un buon servizio nell’aiutare a rovesciare il dogma delle creazioni separate.”

Nella sesta ed ultima edizione dell'Origine delle Specie (1872), Darwin aggiunge:

“Poiché le mie conclusioni sono state recentemente travisate, e si è detto che io attribuisco la modificazione delle specie esclusivamente alla selezione naturale, mi permetto di sottolineare che nella prima edizione di questo lavoro, e anche successivamente, ho collocato in una posizione preminente – cioè alla fine dell'Introduzione – le seguenti parole: «Sono convinto che la selezione naturale sia stato il principale, ma non esclusivo, mezzo di modificazione». Ciò non è stato di alcuna utilità. La portata del costante fraintendimento è ancora grande.”

Maggioritario dagli anni ’40 alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, il neo-darwinismo ha perso progressivamente peso, anche se alcuni suoi rappresentanti attuali mantengono un notevole prestigio, dovuto più alla vis polemica che alle argomentazioni scientifiche. Tra questi, una figura di spicco è R. Dawkins che, dopo aver ipotizzato che sia il gene anziché l’individuo l’unità fondamentale su cui si esercita la selezione (Il gene egoista, 1976) ed avere portato all’esasperazione il ruolo assolutamente casuale di quest’ultima (L’orologiaio cieco, 1986), è caduto, negli ultimi libri (L’illusione di Dio del 2006 e Il più grande spettacolo della Terra del 2008), nella trappola dell’iperadattamentismo, per cui la negazione di un Creatore viene compensata dalla Natura che, nonostante la sua cecità, crea un’infinità di forme viventi “spettacolari” e di moduli comportamentali adattivi.

Il verbo dell’adattamentismo, per cui tutte le strutture e le funzioni degli esseri viventi in tanto esistono in quanto sono state originariamente selezionate, ha inquinato contagiosamente le discipline umane e sociali, che si accodano sempre con un certo ritardo alla scienza. C’è ormai una psicologia evoluzionistica (S. Pinker), un’etica evoluzionistica (P. Singer) e addirittura un’estetica evoluzionistica (N. Etcoff), ecc.

Piattelli Palmarini e Fodor sono letteralmente indignati dal ruolo culturalmente egemonico dell’iperadattamentismo, tanto più che essi ritengono ingiustificato, in rapporto ad una serie di dati biologici ormai disponibili, il primato che esso assegna alla selezione naturale in rapporto all’evoluzione della vita. Essi scrivono:

“La teoria (neo-)darwiniana dell'evoluzione (per brevità TE) è formata da due parti distinte ma in relazione fra loro: una spiegazione storica della genealogia delle specie (GS) e la teoria della selezione naturale (SN). La tesi di fondo di questo libro è che SN sia irreparabilmente difettosa. Non abbiamo invece alcuna critica da muovere alla genealogia delle specie; è perfettamente possibile in effetti, del tutto probabile che GS sia vera anche se SN non lo è. Perciò siamo pronti a concedere, almeno ai fini della discussione che segue, che la maggior parte o tutte le specie siano in relazione fra loro in grazia della loro discendenza storica, magari da un comune progenitore primitivo; e che si possa assumere come regola empirica che, più simili sono i fenotipi di due specie, meno lontano nel tempo sia il primo antenato che hanno in comune. Anche se assumiamo che GS e SN siano indipendenti, non immaginiamo che siano prive di collegamenti. Pensate la genealogia delle specie come un albero (o forse un cespuglio) costituito da nodi e archi (rami); ogni nodo rappresenta una specie e ogni specie è un antenato di tutti i nodi (di livello successivo) che le sono collegati.

A questo punto sorge la domanda: com'è successo che la tassonomia delle specie diventasse quello che è? Che cosa determina quali nodi ci sono e quali cammini esistono fra di essi? In particolare, per quali processi una specie progenitrice si differenzia nei suoi discendenti? Queste sono le domande a cui l'adattamentismo di Darwin pretende di dare una risposta. E la risposta che propone è che se, nell'albero genealogico, esiste un cammino a ritroso che porta da A a B, allora A è derivato dalla specie B attraverso un processo di selezione naturale e il cammino da un nodo all'altro corrisponde al dispiegarsi di quel processo. Sosteniamo che questa risposta proprio non è giusta; qualsiasi cosa sia SN, non può essere il meccanismo che genera la tassonomia storica delle specie. Jared Diamond, nella sua Introduzione a Mayr (2001, p. X) osserva che Darwin non si è limitato a presentare "una teoria dell'evoluzione ben elaborata. Cosa di gran lunga più importante, ha proposto anche una teoria della causazione, la teoria della selezione naturale".

Beh, se abbiamo ragione, questo è proprio quello che Darwin non ha fatto; o, se preferite, Darwin ha effettivamente proposto un meccanismo causale per il processo di speciazione, ma non era quello giusto.” (pp. 115-116)

In relazione all’iperadattamentismo, e la sua recezione acritica nell'ambito delle scienze umane e sociali, è difficile non condividere le critiche di Piattelli Palmarini e di Fodor. L’evoluzionismo, nella versione neo-darwinista, anche semplicemente orecchiato o malinteso, è ormai una moda, il fiore ideologico all’occhiello di ogni laico che si rispetti, e - quel che è peggio - una sorta di carta di credito per gli autori che pubblicano libri divulgativi.

Il problema, come ha chiarito Th. Khun, è che ogni paradigma scientifico, originariamente rivoluzionario, corre il rischio di andare incontro ad una fase di normalizzazione nel corso della quale i problemi irrisolti che esso necessariamente implica vengono ad essere velati, rimossi, quando non addirittura negati dalla comunità scientifica internazionale che lo convalida; finiscono, insomma, negli “interstizi” (efficace locuzione degli autori) della teoria in questione. Proprio nelle fasi di normalizzazione, però, gli studiosi maggiormente dotati di spirito critico cominciano a lavorare su quei problemi, ponendo le basi per un loro superamento, che prima o poi determina un'integrazione o un cambiamento paradigmatico.

Nell’ambito della biologia evoluzionistica,la critica del neodarwinismo si è avviata trent’anni fa con S. Y. Gould e N. Eldredge, la cui teoria degli equilibri punteggiati, che sormonta il gradualismo darwiniano, ammette l’esistenza negli organismi di strutture e potenzialità funzionali non originariamente selezionate (exaptation) e assume la specie come unità evoluzionistica, si pone come un’integrazione del darwinismo e non come un nuovo paradigma. E’ vero che questa teoria, non è stata ancora accettata da tutti i biologi evoluzionisti (per esempio, essa è aspramente osteggiata da Dawkins). Le lacune del paradigma neodarwinistico da essa poste in luce sono ormai, però, riconosciute da gran parte dei biologi evoluzionisti, anche se pochi di essi dubitano che, sulla scia dei dubbi avanzati originariamente da Darwin, la teoria della selezione naturale vada integrata con altri meccanismi (regolazioni genetiche, vincoli strutturali, ecc.) ma non abbandonata.

Piattelli Palmarini e Fodor sanno bene tutto questo. A pag. 136, infatti, scrivono:

"Free rider"

Nel 1979, Gould e Lewontin scrissero un articolo che da allora (giustamente) è diventato un'icona. E' un buon punto da cui partire per una discussione delle spiegazioni selettiviste dell'evoluzione. Secondo noi, uno dei punti principali dell'articolo di Gould e Lewontin era il suggerimento di un modo in cui potrebbero esserci eccezioni alla tesi che i tratti fenotipici sono adattamenti; eccezioni, cioè, alla tesi che (sul lungo periodo e trascurando le variabili non sistematiche) i tratti fenotipici evolvono nella direzione di una fitness crescente. L'adattamentismo, così inteso, ha un legame intrinseco con la teoria della selezione naturale come causa principale dell'evoluzione fenotipica, poiché si immagina che la selezione per la fitness spieghi perché i fenotipi diventino sempre meglio adattati con il trascorrere del tempo. Viceversa, se esistono tratti fenotipici che non aumentano la fitness, sarebbero prima facie controesempi alla generalità della selezione naturale.

Gould e Lewontin esaminano parecchi modi in cui potrebbero presentarsi casi del genere: il free riding è uno. Siamo invitati a considerare la relazione fra archi e pennacchi nel progetto delle cattedrali che hanno cupole. (I pennacchi sono i piccoli triangoli formati dalla convergenza degli archi che sostengono una cupola). Che le chiese dotate di cupola appoggiata a sostegni con geometria quadrangolare abbiano degli archi non è un problema: se non li avessero, le cupole crollerebbero. Perciò è ragionevole pensare gli archi come l'analogo degli adattamenti; come gli adattamenti, sono spiegati teleologicamente, facendo riferimento alla funzione che svolgono: gli archi sono lì per tener su la cupola. Le chiese che hanno gli archi hanno regolarmente anche i pennacchi; stando così le cose, è nello spirito del modo di teorizzare darwinista supporre che, come c'è qualche cosa per cui sono lì gli archi, forse c'è anche qualcosa per cui sono lì i pennacchi. Uno allora è portato a chiedersi: che cosa c'è nelle chiese dotate di cupola a cui i pennacchi sono adattamenti? Come per il collo lungo della giraffa e la pelliccia bianca dell'orso polare o le orecchie grandi degli elefanti, si possono immaginare varie ipotesi, con un grado variabile di plausibilità: forse sono lì per offrire degli spazi interessanti da decorare; oppure sono lì per produrre una parvenza di prospettiva.

Il punto di Gould e Lewontin è che, di fatto, tutte queste teorie adattamentiste dei pennacchi sono false; sono storie "proprio così", storie ad hoc, elaborate a posteriori, per santificare spiegazioni teleologiche di quelli che, in realtà, sono elementi senza funzione. I pennacchi non fanno proprio nulla; sono puri free rider: la geometria ci assicura che, se si scelgono gli archi, volenti o nolenti si debbono prendere anche i pennacchi come prodotto collaterale. Sono gli archi ciò per cui gli architetti operano la loro selezione; i pennacchi semplicemente vengono al traino, sono free rider. L'articolo di Gould e Lewontin (il cui titolo completo è "The spandrels of San Marco and the Panglossian paradigm: a critique of the adaptationist programme") solleva molte considerazioni che sono coerenti con questo nostro libro.

Da una parte Gould e Lewontin criticano il programma adattamentista ... per la sua incapacità di distinguere l'utilità corrente [di un tratto fenotipico] dalle ragioni della sua origine...; per la sua mancanza di disponibilità a considerare alternative alle storie fondate sull'adattamento; per il suo fare affidamento sulla sola plausibilità apparente come criterio per accettare favole speculative; e per il non considerare adeguatamente temi concorrenti come la fissazione casuale di alleli, la produzione di strutture non adattative per correlazioni nello sviluppo con caratteristiche selezionate (allometria, pleiotropia, compensazione materiale, correlazione meccanica), la separabilità di adattamento e selezione, la molteplicità dei picchi adattativi e l'utilità corrente come epifenomeno di strutture non adattative. (Gould e Lewontin 1979)

Poi procedono a smantellare, in modo specifico e persuasivo, alcune "storie proprio così" cioè invenzioni gratuite ad hoc, esempi perspicui di pseudospiegazioni adattamentiste allora appena pubblicate. Concludono ammonendo che "non si deve confondere il fatto che una struttura sia usata in un certo modo... con la ragione evolutiva primaria della sua esistenza e della sua conformazione".”

Ma se l’ideologia iperadattamentista è stata sormontata da molti anni, e occorre aspettare solo che la comunità scientifica dei biologi evoluzionisti accetti il cambiamento intervenuto, che senso ha riproporne la critica? Il motivo è espresso chiaramente nelle righe che seguono quelle citate:

“Ammiriamo moltissimo l'articolo di Gould e Lewontin per la sua chiarezza e la forza degli argomenti, ma siamo ciononostante perplessi di fronte ad alcune delle cose che dicono. Così, dopo aver messo in guardia il lettore contro le interpretazioni semplicistiche e banalizzanti di Darwin, Gould e Lewontin dichiarano la loro fedeltà alla selezione come "il più importante dei meccanismi evolutivi". Non l'unico di tali meccanismi, come lo stesso Darwin aveva riconosciuto, ma comunque, secondo Gould e Lewontin, ancora il più importante. Se questa è la morale, allora quello che propongono Gould e Lewontin, anche se visto da molti (a torto) come estremamente tendenzioso, è in realtà un aggiustamento piuttosto conservatore della tradizione adattamentista. Non negano che la selezione naturale sia la storia centrale per l'evoluzione di molti tratti fenotipici, forse della maggior parte. Per di più, nonostante mettano l'accento sulle "leggi della forma", non negano che la selezione sia l'effetto di variabili esogene. Le chiese hanno pennacchi perché gli architetti le hanno progettate dotandole di archi, al cui seguito sono arrivati non invitati i pennacchi. Le giraffe hanno colli lunghi perché quando le giraffe con colli relativamente lunghi sono entrate in competizione con giraffe dal collo relativamente corto, variabili ecologiche (perciò esogene) hanno favorito le prime. La differenza saliente è solo che, mentre nessuno aveva intenzione di produrre giraffe dal collo lungo, o le ha progettate, nel caso di arco e pennacchi fra le variabili esogene vanno incluse le intenzioni dell'architetto. In breve, sia la presenza dei pennacchi che la lunghezza del collo delle giraffe sono trattati o come adattamenti o come free rider dell'adattamento.

Quello che Gould e Lewontin offrono è un tipo molto sofisticato di adattamentismo, ma è comunque un tipo di adattamentismo. Noi pensiamo che Gould e Lewontin avessero ragione nel postulare meccanismi dell'evoluzione la cui azione può produrre tratti fenotipici privi di funzione. Ma pensiamo anche che i difetti dell'adattamentismo arrivino molto più in profondità di quel che immaginavano Gould e Lewontin. In effetti, quello che è più problematico (così sosterremo) è qualcosa che Gould e Lewontin accettano, sia pure con cautela, e che Darwin annunciava spesso ed esplicitamente in L'origine delle specie: che la selezione artificiale (nel caso di Gould e Lewontin, la selezione dei progetti da parte degli architetti; in L'origine delle specie, la selezione dei fenotipi da parte degli allevatori) è un modello appropriato per la selezione naturale. Gli adattamentisti dicono spesso che si tratta semplicemente di un'innocua metafora esegetica, ma noi sosterremo invece che la supposta analogia con la selezione artificiale in realtà porta tutto il peso dell'adattamentismo. E’ un po' come con gli archi e le cupole: togliete quelli e queste crollano. La nostra vuole essere una critica del programma adattamentista molto più radicale di quella offerta da Gould e Lewontin. Se abbiamo ragione, c'è qualcosa di sbagliato nel nucleo centrale dell'adattamentismo, e non basterà revisionarlo con qualche nota di cautela per sistemare il tutto.” (pp. 129-130)

L’obiettivo del saggio risulta sufficientemente chiaro: secondo gli autori, l’adattamentismo, che implica il primato della selezione naturale, sia pure integrato da altri meccanismi, è il problema di fondo della teoria darwiniana, che va letteralmente smantellato. La prima parte del libro, di fatto, verte sull’opporre, sulla base di una documentazione tratta dalla biologia contemporanea, all’ambientalismo implicito nella teoria della selezione naturale il problema dei vincoli interni agli organismi:

“I neo-darwinisti stretti sono, ovviamente, ambientalisti per definizione: il genotipo genera fenotipi candidati più o meno a caso, l'ambiente filtra, conservando i tratti che aumentano la fitness. Ma nella teoria dell'evoluzione contemporanea emergono segni di un revisionismo profondo: la biologia moderna ci spinge a concludere (cosa che lo stesso Darwin aveva riconosciuto) che l'effetto delle variabili ecologiche sui fenotipi non è l'unica cosa che conta nell'evoluzione. In realtà la nuova biologia va anche oltre, spingendoci a concludere che le variabili ecologiche non hanno nemmeno la parte più importante nella storia dell'evoluzione.” (pp. 23-24)

“E’ convinzione comune che le distribuzioni di tratti fenotipici nelle popolazioni varino lentamente ma costantemente nel tempo. Detto questo, però, bisogna sottolineare che questi equilibri mobili non spiegano la distribuzione dei fenotipi; sono invece fra i fenomeni che le teorie dell'evoluzione dovrebbero spiegare. Oggi i biologi hanno buoni motivi per credere che la selezione fra varianti di poco conto, e generate a caso, di tratti fenotipici non possa proprio spiegare la comparsa di nuove forme di vita. Non aiuta ipotizzare che l'evoluzione abbia luogo nell'arco di periodi di tempo molto, molto lunghi, se (come pensiamo) fattori endogeni e regolazioni genetiche su molti livelli hanno un ruolo essenziale nel determinare le opzioni fenotipiche fra cui le variabili ambientali possono scegliere. Contrariamente all'opinione tradizionale, bisogna sottolineare che la selezione naturale fra tratti generati in modo casuale non può essere il principio base dell'evoluzione. Devono esserci invece vincoli endogeni forti, spesso decisivi, e schiere di regolazioni delle opzioni fenotipiche su cui opera la selezione esogena. In questo senso, per noi la selezione naturale è come accordare il pianoforte, non come comporre delle melodie.” (p. 25)

Detto in parole povere, secondo gli autori, i fattori endogeni, che fanno riferimento all'organizzazione della materia vivente, minimizzati se non addirittura trascurati da Darwin, sarebbero più importanti di quelli esogeni, ambientali, che egli ha enfatizzato.

L’esistenza di vincoli endogeni comprometterebbe, infatti, il dogma centrale della teoria della selezione naturale - la sua unidimensionalità:

“La dottrina tradizionale della selezione naturale (SN) è a una sola dimensione. Si assume che la struttura ecologica sia la spiegazione par excellence della struttura fenotipica; il contributo delle fonti interne (endogene) di variazione e dei vincoli interni è considerato, nel migliore dei casi, marginale. Questo spinge a pensare che, ai fini di una spiegazione evoluzionistica, si possa fare astrazione dal carattere delle connessioni fra i geni e le loro espressioni fenotipiche, nonché dal carattere del genoma stesso. Tutta questa struttura interna è vista come ampiamente irrilevante per spiegare il corso dell'evoluzione: la selezione naturale troverà le sue soluzioni indipendentemente dai particolari genetici.” (p. 26)

2.

L’analisi minuziosa dei vincoli interni, che occupa tutta la prima parte del libro, porta a pensare che il rapporto tra genotipo e fenotipo sia indefinitamente più complesso rispetto a quello ipotizzato dal neodarwinismo, che fa sostanzialmente riferimento alle mutazioni e alla deriva genetica.

Tra i numerosi dati riportati dagli autori per convalidare il ruolo dei vincoli interni, tre sembrano particolarmente importanti. Il primo riguarda il ruolo dello sviluppo ontogenetico, che ha assunto valore all'interno del cosiddetto Evo-Devo:

"Vincoli interni e filtri: "evo-devo"

"You can't get there from here", dicono gli americani, talvolta con accento del New England: non si può andare da qui a là. Il "là", nel nostro caso, sono nuove specie possibili in teoria, il "qui"  una specie esistente, con tutti i vincoli imposti dalla sua struttura interna. Abbiamo visto prima che il modello classico del neo-darwinismo rappresentava le conseguenze manifeste (fenotipiche) dei cambiamenti interni ai geni (varianti genotipiche) come una freccia a una sola dimensione che va dai genotipi ai fenotipi. In sostanza, astraeva da tutti gli effetti dello sviluppo su tratti visibili, a parte gli effetti delle mutazioni genetiche, che erano considerate a loro volta in gran parte indipendenti l'una dall'altra. Ma i filtri interni relativi allo sviluppo da cui il neo-darwinismo cercava così tenacemente di astrarre ora sembrano sempre di più trovarsi invece proprio al cuore dell'evoluzione.

Geni e fenotipi continuano a contare, ovviamente; ma la rivoluzione evo-devo ha messo in evidenza che l'evoluzione  essenzialmente l'evoluzione della freccia che li collega. 'Lo slogan : l'evoluzione  l'evoluzione delle ontogenesi. In altre parole, l'intero processo dello sviluppo, dall'uovo fecondato all'adulto, modula gli effetti fenotipici dei cambiamenti genotipici, e quindi "filtra" le opzioni fenotipiche fra le quali le variabili ecologiche hanno qualche possibilità di operare una selezione. La rivoluzione evo-devo cambia in misura davvero notevole il quadro classico.

Affermazioni chiare in questo senso si trovano ovunque nella letteratura evodevo:

Considerando l'evoluzione un albero ramificato di adulti o geni, i teorici hanno trascurato quello su cui la selezione agisce veramente: fotogenesi. Evolvono le ontogenesi, non i geni e non gli adulti. I geni mutati vengono passati alla progenie solo nella misura in cui favoriscono la sopravvivenza delle ontogenesi; lo stato adulto  solo una frazione dell'ontogenesi. (McKinney e Gittelman, 1995)

In una prospettiva evo-devo, non c'è motivo per trattare la prima fase di un ciclo di vita come se fosse semplicemente una fase preparatoria per la produzione di un organismo vivente su cui poi in seguito si eserciterà il crivello dell'ambiente. Da un punto di vista formale, una volta che si  verificata la produzione (cioè quando ci sono nuovi individui e sono stati avviati nuovi processi di sviluppo, per esempio a partire da un uovo fecondato), un processo a valle che orienti la composizione del "fascio di traiettorie ontogenetiche" che costituisce una popolazione è funzionalmente un processo di setacciatura, casuale come la lotteria della vita, non casuale come la selezione naturale, o una combinazione delle due. (Fusco, 2001)

Un compito prevedibile dell'evo-devo  stabilire i limiti fra omologia e bricolage, che consistono nel reclutamento indipendente di una rete di geni, e, in ultima istanza, stabilire a quali livelli i vincoli evolutivi favoriscono l'invenzione ricorrente di certe caratteristiche, mentre impediscono ad altre di emergere. (Baguna e Garcia-Fernandez, 2003)

La scoperta principale dell'evo-devo  è stata la notevole invarianza dei "mattoni" genetici dell'evoluzione. Geni master ben conservati possono passare indenni per centinaia di milioni di anni di evoluzione, perciò è possibile eseguire esperimenti che presentino aspetti di "salvataggio" generico. Questo vuol dire che una variante "sana" di un dato gene, se opportunamente inserita nell'embrione a uno stadio iniziale e poi attivata, può compensare efficacemente una variante "difettosa" dello stesso gene (salvando la funzione del gene). Questo è un risultato biotecnologico che colpisce, ma si capisce bene perché funziona. Quel che è veramente straordinario è  che questo salvataggio genetico possa verificarsi anche fra organismi di specie distanti, il che illustra sia l'estrema complessità delle relazioni fra genotipo e fenotipo sia la realtà della conservazione dei geni lungo i tempi dell'evoluzione. Per esempio, la versione standard, che si presenta in natura, di uno specifico gene (l'allele wild type, in gergo tecnico) dei moscerino della frutta  in grado di "salvare" un gene difettoso del topo, e viceversa. Gli esempi della corrispondenza funzionale stretta fra geni di specie distanti sono troppo numerosi per poterli elencare. Nuove scoperte della profonda somiglianza fra geni in specie, famiglie, ordini e addirittura phyla distanti continuano a essere pubblicate quasi ogni mese.

La conservazione di geni e di complessi di geni non  soltanto compatibile con la variazione del piano generale dell'organismo tipica della speciazione, è la fonte principale di tale variazione, grazie alle duplicazioni, alle quadruplicazioni dei geni e ai commutatori alternativi nella regolazione di quei geni. Le immagini speculari (inversioni binarie di polarità) di antichissimi complessi di geni spiegano la differenza, per esempio, fra l'organizzazione ventrale del sistema nervoso negli insetti e la sua posizione dorsale nei vertebrati.

Ci sono dunque delle invarianti nella dinamica dello sviluppo in forme animali evolutivamente distanti, e ci sono anche molte specificità genetiche che si conservano da phylum a phylum e da specie a specie. Inoltre, confrontare adulti con adulti o genomi con genomi può essere poco illuminante, quando le unità della trasmissione dei tratti sono interi percorsi di sviluppo. Con buona pace di Ernst Mayr (vedi sopra) l'identità di geni e di complessi di geni  di enorme importanza nel determinare il processo grazie al quale proprietà fenotipiche possono convergere in tipi diversi di organismi: la conservazione dei geni e i loro ruoli nello sviluppo in phyla molto distanti e lungo centinaia di milioni di anni di evoluzione sono cruciali per capire tali convergenze. Secondo le parole del Premio Nobel Christiane Nusslein-Volhard: "Questa notevole conservazione [di geni e complessi di geni]  stata una grande sorpresa. Non era stata prevista né immaginata". Certamente è notevole, dato che secondo i modelli attuali la struttura fenotipica  considerata in gran parte l'esito di variabili endogene...

In sintesi, che cosa abbiamo imparato dall'evo-devo

Il minimo che si possa dire, alla luce dell'evo-devo,  è che una teoria monodimensionale dell'evoluzione non può proprio essere adeguata. La frequenza con cui si conservano geni e complessi di geni confuta l'idea che le convergenze morfologiche e funzionali vadano considerate, quasi sempre e ovunque, come "soluzioni" adattative a "problemi" di sopravvivenza parimenti onnipresenti. Ma non vogliamo essere accusati di un sofisma: di voler suggerire cio che, se una teoria non può spiegare tutto, allora non può spiegare nulla. Per amor di discussione, ammettiamo che esistano casi prima facie plausibili di convergenza evolutiva non spiegabili con un ascendente comune.

Esistono poi casi prima facie plausibili di adattamento morfologico e comportamentale con tutta probabilità causati da cambiamenti ambientali (come nei cambiamenti della densità del sangue e nella perdita di emoglobina in varie specie di pescighiaccio nell'Antartide. Tuttavia progressi recenti nell'evo-devo mostrano che la convergenza fenotipica è più spesso l'effetto di invarianti genetici e dello sviluppo. Inoltre, sono stati trovati parecchi esempi, alcuni replicati anche in laboratorio, di differenze notevoli nelle forme di arrivo prodotte da leggere variazioni nella regolazione degli stessi complessi di geni o nella cronologia di attivazione di questi complessi. La conseguenza interessante  che l'enorme varietà di forme di vita attuali e fossili (le "infinite forme bellissime", giusta il titolo del libro di Sean Carroll [2005], mutuato da Darwin) non solo è pienamente compatibile con l'elevata conservazione dei geni, ma  anche pienamente spiegata da questa. E' spiegata, in altre parole, dal complesso intreccio di conservazione genetica e variabilità delle regolazioni dei geni, a vari livelli." (pp. 32-38)

Il secondo dato, correlato al primo, riguarda i moduli dello sviluppo:

"Moduli dello sviluppo

Cominciamo con una definizione. Un modulo è una unità fortemente integrata all'interno e relativamente insensibile al contesto all'esterno. Esistono moduli di sviluppo a livelli di organizzazione diversi, dalla regolazione dei geni alle reti di geni interagenti agli abbozzi di organi. Sono relativamente insensibili al contesto circostante e quindi possono comportarsi in modo invariante, anche quando sono realizzati più volte in tessuti diversi, in specie diverse e in fasi diverse dello sviluppo. Combinazioni diverse di moduli di sviluppo in ciascun contesto, però, producono una differenza per quanto riguarda le loro funzioni nello sviluppo. Ci sono dati a favore dell'integrazione di più elementi interagenti in un modulo quando la perturbazione di un elemento dà come risultato perturbazioni degli altri elementi in quel modulo, o nell'interazione fra geni (epistasi) all'interno del modulo, in in modo tale da alterare la relazione complessiva input-output dello sviluppo. Questo è un altro caso in cui la conservazione dei blocchi da costruzione genetici e dello sviluppo, insieme con le loro molteplici ricombinazioni in tessuti e organismi diversi, spiega la diversità delle forme viventi così come l'invarianza dei piani strutturali fondamentali. Il carattere a doppio taglio (per così dire) dei moduli dello sviluppo consiste nella loro relativa insensibilità al contesto, ai fattori esterni, e nella loro relativa sensibilità al contesto locale, interno, per esempio ad alcune sostituzioni interne di sottocompo

Attualmente questo è un campo di ricerca molto attivo e molto complesso. Nell'evoluzione, i moduli dello sviluppo possono mantenere la loro integrità pur essendo incorporati in variazioni ereditabili differenti del loro contesto esterno e, in parecchi casi, anche nonostante la sostituzione di alcuni dei loro sottomoduli con altri. Scrive Gerhard Schiosser: "[I moduli di sviluppo] possono formare unità coerenti e quasi autonome nell'evoluzione (moduli di evoluzione) che sono ripetutamente ricombinabili con altre unità dello stesso genere" (Schiosser, 2004, p. 520).

In sostanza, il ruolo "logico" di un modulo sta nel presentare elementi interagenti in cascata, dove l'output di uno fornisce parte dell'input agli altri. I moduli dello sviluppo sono attivati, un po' come interruttori, da tutta una gamma di input a cui sono collegati solo debolmente. Questo collegamento debole ammette variazioni e lascia spazio a input relativamente nuovi. Questi input sono degli "inneschi" (trigger, in questa letteratura), non modelli di forme. II modo in cui i moduli influenzano diversi processi a valle dipende dal contesto genetico complessivo. Vai la pena sottolineare che il meccanismo interno  predisposto a reagire in modo complesso a una classe di interruttori. Tutto questo rende lo sviluppo degli organismi una rete intricata di processi indipendenti dal contesto (i moduli) e di processi internamente dipendenti dal contesto (interazioni fra moduli e interazioni dei moduli con altre strutture). Il riverbero degli effetti delle mutazioni genetiche di solito  molteplice e solo il risultato complessivamente vitale  poi accessibile alla selezione.

Esistono classi diverse di moduli. La classe più fondamentale, che si attiva per prima, influenza la regolazione della trascrizione dei geni a livelli distinti fra loro, ma interagenti. Di conseguenza le sequenze di DNA che fungono da promotori e intensificatori possono essere scambiate fra un gene e l'altro. Si dà anche il caso che esistano più intensificatori (enhancer) per un singolo gene, e ciascuno controlla un particolare dominio di espressione di quel gene. Questi si possono ricombinare più volte. L'apparato fondamentale di trascrizione (BTA, Basic Transcriptional Apparatus)  a sua volta è modulare, e la sua specificità può cambiare mediante lo scambio di fattori di trascrizione diversi.

Una classe di moduli particolarmente interessante è quella delle reti di segnalazione, famiglie (o classi) di proteine che agiscono di concerto in cascate che costituiscono cicli o reti complete, e rappresentano "segnali" biochimici che hanno come loro destinazione tipi specifici di cellule, in tessuti diversi; queste cellule bersaglio spesso si trovano fianco a fianco di cellule che non rispondono ai segnali (non sono bersagli). Solo cinque grandi famiglie risultano, per il momento almeno, importanti nel corso del primo sviluppo embrionale (poiché sono state scoperte separatamente, portano nomi che suonano bizzarri al non iniziato: hedgehog, TGF, Wnt, receptor tyrosine kinases [RTK] e Notch). Ogni famiglia  relativamente autonoma rispetto alle altre; ogni classe ha il suo ruolo principale, ma molte possono avere anche più ruoli nello sviluppo di tessuti molto diversi. Per esempio, il sistema Notch funge anche da anello, di retroazione positiva fra cellule adiacenti, amplificando le differenze iniziali (e spingendo cellule adiacenti verso destini diversi). Questo sistema complesso di segnali master regola tessuti molto diversi fra loro, dal sistema nervoso centrale alla faringe, le cellule dei capelli, gli odontoblasti, i reni, le piume o le scaglie, lo stomaco, i polmoni, il pancreas, le cellule epidermiche pilifere e ciliate di molte specie diverse di vertebrati e invertebrati. Ogni mutazione in uno qualsiasi dei geni coinvolti modificherà molti organi e le loro funzioni. Siamo proprio ben lontani dalla "genetica della cesta di semi"...

Alcuni moduli sono sistemici, cio sono distribuiti in tutto l'organismo. L'esempio migliore sono i processi mediati dagli ormoni, in cui solo un sottoinsieme delle cellule in vari tessuti risponde a un particolare ormone, in mezzo a cellule che invece non vi rispondono. Ciononostante, la risposta è sostanzialmente la stessa ovunque, con molti cambiamenti coordinati: si attiva una nuova espressione di enzimi metabolici; la morte programmata di molte cellule (o la sua inibizione) e la differenziazione di nuovi tipi di cellule (stomaco, epidermide); il rimodellamento di muscoli e di parti del sistema nervoso. Negli anfibi, la metamorfosi dipendente dall'ormone tiroideo  modulabile a piacere semplicemente somministrando dosi diverse dell'ormone.

La lezione qui è che la modularità ci dà un'immagine nuova e complessa dell'evoluzione, in cui vincoli interni e dinamiche interne costituiscono filtri che determinano su che cosa - e in che misura - può agire la selezione. Proprio perché così tante cose non possono cambiare, altre possono invece cambiare alla (diciamo così) periferia genetica degli organismi." (pp.57-59)

Un terzo dato di interesse riguarda le leggi della forma che comportano, per un verso, la necessità di tenere conto di una quarta dimensione dei sistemi viventi e, per un altro, la definizione di soluzioni ottimali incomprensibili nel quadro del neodarwinismo:

"La "quarta dimensione" dei sistemi viventi

La massa del corpo degli organismi viventi varia, fra i l0 grammi dei batteri e i 108 grammi delle balene, di ben 21 ordini di grandezza. E interessante vedere se e come variano, con la massa, altre proprietà e altri processi fisico‑chimici e biologici, e i loro rapporti. Come variano con la massa, per esempio, le superfici e la velocità interna di trasporto, la velocità del metabolismo cellulare, la velocità del metabolismo dell'organismo nel Suo complesso, il battito cardiaco, il ritmo della circolazione del sangue e la durata complessiva della vita. Sono tutti, ovviamente, sistemi tridimensionali, perciò risulta stupefacente che tutti i fattori di scala che riguardano i viventi, dai microrganismi alle piante e agli animali, siano multipli di 1/4 e non di 1/3.16

Il rompicapo è stato risolto dal lavoro comune di fisici e biologi a Los Alamos, Santa Fe e Albuquerque, i quali hanno scoperto, in sostanza, una "quarta dimensione" dei sistemi biologici. La spiegazione delle leggi di scala "un quarto" è stata trovata "nell'architettura, simile a quella di un frattale, delle reti vascolari gerarchiche che distribuiscono le risorse all'interno degli organismi" (West et al., 1999, p. 1677). Gli articoli scritti da questi scienziati rivelano una convergenza notevole fra i valori sperimentali e quelli previsti (con un accordo che a volte arriva fino alla terza cifra decimale) sotto questa ipotesi di una struttura simile a un frattale per proprietà come, per esempio, il raggio, la pressione e la velocità del sangue nell'aorta, la frequenza cardiaca, il numero e la densità dei capillari, il tasso metabolico generale e molte altre. Il loro modello matematico dettagliato (perfezionato ne corso degli anni) (West et al., 2002) tiene conto di dati biologici come i circa 90.000 km dell'intero sistema circolatorio di un organismo umano (inclusi in particolare i capillari) e il fatto che il diametro dei capillari sia un invariante nel regno dei vertebrati.

I criteri guida sono stati la massimizzazione delle superfici di scambio interne ed esterne, minimizzando al contempo, le distanze del trasporto interno (e quindi massimizzando la velocità di trasporto). Un passaggio nel loro articolo del 1999 merita una citazione per esteso:

A differenza del codice genetico, che è evoluto una sola volta nella storia della vita, le reti di distribuzione di tipo simile a un frattale che conferiscono effettivamente una quarta dimensione hanno avuto origine molte volte. Ne sono esempi le ampie aree superficiali di foglie, branchie, polmoni, stomaco, reni, cloroplasti e mitocondrii, l'architettura arborescente complessiva di alberi, spugne, idrozoi e crinoidi e le reti dalla struttura simile ad alberi dei vari sistemi respiratori e circolatori. [...] Anche se i viventi occupano uno spazio tridimensionale, la loro fisiologia e anatomia interna operano come se fossero quadridimensionali. Le leggi di scala per potenze di un quarto sono forse tanto universali e tanto specificamente biologiche quanto i percorsi biochimici del metabolismo, la struttura e la funzione del codice genetico e il processo di selezione naturale. West et al., 1999, p. 1679

Nelle parole di questi autori, la selezione naturale ha "sfruttato variazioni di questo tema frattale per produrre l'incredibile varietà biologica di forme e funzioni", ma con "forti vincoli geometrici e fisici per i processi metabolici".

La conclusione è inevitabile: la forza che ha diretto queste leggi di scala invarianti non può essere stata la selezione naturale. E inconcepibile che così tanti organismi diversi, che fanno capo a regni e phyla tanto differenti, possano aver "tentato" alla cieca ogni genere di legge delle potenze e che abbiano potuto riprodursi e diffondersi solo quelli che per caso hanno "scoperto" la legge delle potenze di un quarto. I principi di massimizzazione che hanno vincolato una varietà tanto stupefacente di forme biologiche sono di natura fisico-chimica e topologica. I percorsi biochimici, il codice geneti‑co, i percorsi dello sviluppo e (sì) la selezione naturale non possono aver plasmato queste geometrie. Non hanno avuto, per così dire, alcuna "scelta" se non sfruttare quei vincoli e lasciarsene orientare.

Lo stesso tipo di conclusione si raggiunge partendo dai calcoli, e dai dati, nel campo della connettività cerebrale." (pp.95-96)

Per quanto riguarda le soluzioni ottimali, l'esempio seguente è significativo:

"La vespa che pilota il suo zonnbie

Infine, un caso (anche qui, fra i molti) in cui la programmazione genetica di un comportamento complesso non lascia alcun dubbio. Si può provare che questi comportamenti sono completamente automatici lungo la sequenza completa, e non appresi. Per farla breve, una particolare specie di vespa (Ampulex compressa) usa un cocktail di veleni per manipolare il comportamento della sua preda, uno scarafaggio. Come in dcune altre specie di vespe solitarie, la vespa femmina parIjzza lo scarafaggio senza ucciderlo, e poi lo trasporta nel nido e deposita le sue uova nel ventre della preda, in modo che i neonati possano nutrirsi del corpo vivente dello scarafaggio. Quel che è peculiare di questa specie di vespe è il fatto che, mediante due punture consecutive, se parate da un intervallo temporale molto preciso, in due parti diverse e scelte con precisione del sistema nervoso dello scarafaggio, la vespa riesce letteralmente a "guidare" nel suo nido già predisposto la preda trasformata in uno zombie. La vespa non deve trascinare fisicamente lo scarafaggio nel suo rifugi, perché può manipolare le antenne della preda, o letteraImeonte cavalcarla, dirigendola come se fosse un cane al guinzaglio o un cavallo alla briglia (Libersat, 2003).

La prima puntura nel torace provoca una paralisi momentanea delle zampe anteriori, che dura qualche minuto, bloccando alcun comportamenti ma non altri. La seconda puntura, parecchi minuti più tardi, è direttamente sul capo.

Il risultato è che la vespa può afferrare una delle antenne dello scarafaggio e farlo andare fino al luogo adatto all'ovodeposizione. Lo scarafaggio segue la vespa docilmente come un cane al guinzaglio (Williams, 1942; Fouad et al., 1994). Pochi giorni più tardi, lo scarafaggio, immobilizzato, funge da fonte di cibo fresco per la prole della vespa.

Questa macabra storia entomologica fa sorgere qualche questione chiave per l'evoluzione. In un simile comportamento complesso, sequenziale, rigidamente pre‑programmato, molte cose avrebbero potuto andare storte, in molti modi, in ciascuno dei suoi passi. La natura biochimica del cocktail di veleni avrebbe potuto essere molto diversa, risultando o del tutto inefficace o, per eccesso, letale per la preda. La scelta del momento e dei punti in cui pungere avrebbe potuto essere sbagliata in molti modi, per esempio consentendo allo scarafaggio di riprendersi e di uccidere la vespa, di lui molto più piccola. La vespa avrebbe potuto non "capire" che la preda può essere guidata al guinzaglio, dopo le due magistrali punture, e avrebbe potuto tentare di trascinare faticosamente il corpo piuttosto voluminoso nel suo nido. E via di questo passo. I modi in cui questa sequenza comportamentale avrebbe potuto uscire di strada sono in effetti innumerevoli.

Neanche il più convinto fra gli adattamentisti neodarwinisti suppone che gli antenati della vespa abbiano tentato alla cieca tutti i tipi di alternative e che siano state progressivamente selezionate soluzioni sempre più valide, fino a che non è stata trovata la soluzione ottimale, che è stata conservata e codificata nei geni. Vero: le vespe sono in circolazione da moltissimo tempo (circa 400 milioni di anni, forse più), ma anche questo non è un tempo abbastanza lungo per tentare a casaccio un numero enorme di soluzioni comportamentali alternative, con possibilità alternative concepibili a ogni passo della sequenza comportamentale. E allora? Nessuno lo sa, al momento. Simili casi di programmi comportamentali innati complessi (raffinate ragnatele, procacciamento del cibo nelle api, e molti altri) non possono essere spiegati direttamente mediante fattori ottimizzanti fisico‑chimici o geometrici. Ma non possono essere spiegati nemmeno dall'adattamento gradualistico. E’ corretto ammettere che, anche se siamo disposti a scommettere che un giorno si troverà una spiegazione naturalistica, per il momento non ne abbiamo nessuna. E se insistiamo che la selezione naturale è l'unica via da esplorare, non ne avremo mai una." (pp.197-199)

Sono in gioco, dunque, nell'evoluzione, non solo molteplici meccanismi di regolazione genetica ma addirittura leggi della forma che danno luogo a soluzioni ottimali non previste nella cornice del neo-darwinismo. La selezione naturale, infatti, “non ottimizza mai, ma si limita a trovare soluzioni localmente soddisfacenti” (p. 109). Dunque “se la selezione naturale non può ottimizzare, deve essere coinvolto qualcosa d'altro. Molto plausibilmente, il "qualcosa d'altro" comprende: fisica, chimica, processi autocatalitici, strutture dissipative e principi di auto-organizzazione, e sicuramente altri fattori che il progresso della scienza al momento opportuno ci rivelerà.” (pp. 110)

La conclusione della prima parte è la seguente:

"La morale qui è una sorta di dilemma per i neo-darwinisti: anche se supponiamo, per amor di discussione, che la selezione naturale operi nel modo in cui il neo-darwinismo canonico sostiene che operi, i suoi gradi di libertà debbono essere fortemente limitati. La piccolissima parte effettivamente occupata dei morfospazi della vita è qualcosa che la teoria della selezione naturale non può spiegare. Siamo comprensibilmente meravigliati davanti alla varietà e diversità delle forme della vita, ma è importante sottolineare che, a un livello astratto, quando si riportano in grafico le possibili variazioni continue dei parametri della forma, le forme di vita attuali ed estinte occupano un piccolissimo sottoinsieme di quello che in astratto  possibile,

Come abbiamo appena detto, il dilemma resterebbe anche se la teoria della selezione naturale fosse per altro fondamentalmente corretta. Ma il problema  puramente accademico, poiché i capitoli che seguono (nella Parte seconda) dimostreranno che corretta non è." (pp.110-111)

Alla luce di questo proposito, sostanzialmente demolitivo della teoria della selezione naturale, va letto l'atto di fede laico nella scienza naturalistica che gli autori recitano all'inizio del libro:

“Questo non è un libro su Dio; non è un libro sul "disegno intelligente"; non è un libro sul creazionismo. Nessuno di noi ha a che vedere con queste cose. Ci è sembrato opportuno metterlo ben in chiaro subito, perché la nostra affermazione principale, nelle pagine che seguono, sarà che c'è qualcosa di sbagliato molto probabilmente di fatalmente sbagliato nella teoria della selezione naturale; e ci rendiamo conto che, persino fra quelli che non sono nemmeno molto sicuri di che cosa sia, l'adesione al darwinismo è diventata una cartina di tornasole per stabilire chi possiede una concezione del mondo "realmente scientifica", e chi no. "Bisogna scegliere fra fede in Dio e fede in Darwin; e se si vuol essere umanisti laici, meglio optare per la seconda." Così ci dicono. Non siamo affatto convinti che queste due opzioni esauriscano tutte quelle possibili. Ma vogliamo decisamente aderire all'albo degli umanisti laici. In effetti entrambi ci proclamiamo atei, completamente, ufficialmente, fino all'osso e irriducibilmente atei. Perciò cerchiamo spiegazioni esclusivamente naturalistiche dei fatti dell'evoluzione, anche se pensiamo che si dimostreranno molto complesse, come spesso sono le spiegazioni scientifiche. Siamo convinti che l'evoluzione sia un processo totalmente meccanico e siamo convinti che questo escluda non solo cause divine ma anche cause finali, élan vital, entelechie, interventi di alieni extraterrestri e altre cose simili. Il che è, in linea generale, coerente con lo spirito con cui Darwin affrontava il problema dell'evoluzione. Siamo felici almeno da questo punto di vista di essere dalla parte di Darwin. Tuttavia, questo libro è soprattutto un lavoro di critica; prevalentemente parla di quello che pensiamo sia sbagliato nel darwinismo. Verso la fine, muoveremo qualche passo nella direzione in cui crediamo possa trovarsi un'alternativa percorribile, ma saranno passi ancora molto vaghi. In realtà, non sappiamo molto bene come funzioni l'evoluzione; non lo sapeva neanche Darwin, e non lo sa esattamente (per quel che possiamo stabilire) nessun altro. "Sono necessarie ulteriori ricerche", come si usa dire. Può darsi che siano necessari secoli di ulteriori ricerche.” (p.11)

3.

La tesi centrale del libro è enunciata subito dopo questo atto di fede. Dopo avere espresso la consapevolezza che, in rapporto alla comunità dei biologi evoluzionisti, eccezion fatta per gli ultradarwinisti alla Dawkins, la loro critica è un po’ fuori tempo, Piattelli Palmarini e Fodor scrivono:

“Forse vi state chiedendo se valga ancora la pena di scrivere una critica del programma darwinista classico. Buoni amici sperimentalisti, che lavorano nel campo della biologia per così dire "umida", ci dicono che nessuno di loro è più "quel tipo" di darwinista; nessuno che lavori nella biologia strutturale è un genuino adattamentista… Ci fa piacere sapere di questi riallineamenti, ma dubitiamo che siano la norma nella biologia in generale (si pensi, per esempio, alle attuali elaborazioni di modelli matematici per la selezione naturale ottimale). Certo non sono la norma per l'opinione informata in campi in cui ciascuno di noi ha lavorato, come la filosofia della mente, la semantica del linguaggio naturale, la teoria della sintassi, le teorie del giudizio e della decisione, la pragmatica e la psicolinguistica. In tutte queste discipline il neodarwinismo è assunto come un assioma: non viene mai, letteralmente, messo in questione (si veda l'Appendice). Una concezione che sembri contraddirlo, direttamente o per implicazione, è ipso facto rifiutata, per quanto plausibile possa sembrare. Interi dipartimenti, riviste e centri di ricerca operano secondo questo principio. Di conseguenza il darwinismo sociale cresce rigoglioso, come il darwinismo epistemologico, il darwinismo psicologico, l'etica evoluzionistica e, il cielo ci scampi, l'estetica evoluzionistica. Se volete vedere i loro monumenti, date uno sguardo alle pagine scientifiche dei quotidiani. Abbiamo dedicato entrambi energie e inchiostro per controbattere alcune delle più famose fra queste derive neodarwiniste, ma pensiamo che sia necessario estirpare l'albero dalle radici; dimostrare che la teoria di Darwin della selezione naturale ha delle falle fatali. Questo è l'obiettivo del libro.

Nel corso di queste pagine, cederemo un po' alla tendenza alla digressione. In realtà, la nostra critica del darwinismo solleva questioni collaterali che non possiamo fare a meno di discutere. Perciò ci siamo permessi qualche deviazione che pensiamo sia interessante. Abbiamo comunque una buona scusa: molte questioni che a tutta prima sembrerebbero trasversali rispetto alle nostre finalità, una volta esaminate da vicino, si rivelano invece molto pertinenti. Ogni tanto qualcuno ci chiede se siamo davvero convinti di aver trovato delle "falle fatali" in un corpo teorico che, per così tanto tempo, è stato al centro del consenso scientifico. Ci viene ricordato che la hybris è un peccato e che è bene tenerla a freno. Rispondiamo che, se obiezioni come quelle che solleveremo contro il darwinismo non sono state notate prima, in parte è perché sono finite negli interstizi. Ma è ora di fare un po' d'ordine e riportarle alla luce.

Per esempio, seguiremo una linea di argomentazione che procede in questo modo: al cuore delle teorie adattamentiste dell'evoluzione si fa confusione fra (i) l'asserzione che l'evoluzione è un processo in cui vengono selezionati organismi con tratti adattativi e (ii) l'asserzione che l'evoluzione è un processo in cui gli organismi vengono selezionati per i loro tratti adattativi. Sosterremo che il darwinismo è costretto a inferire (ii) da (i); che questa inferenza non è valida (si tratta di quella che i filosofi chiamano "fallacia intensionale"); e che non c'è modo di riparare il danno in modo coerente con il naturalismo, che consideriamo terreno comune. Chiarire tutto questo sarà uno degli obiettivi principali del libro.” (pp. 12-13)

La contrapposizione tra selezione con e selezione per è fondamentale in tutta la seconda parte del saggio. Essa implica l’accettazione del fatto che gli organismi che sopravvivono e si riproducono debbano avere capacità adattive all’ambiente, ma la negazione che tali capacità siano prodotte solo o prevalentemente da mutazioni casuali e filtrate dall’ambiente per il loro valore adattivo. La differenza sembra di poco conto, ma invece è essenziale. La selezione per dà come scontato che i fenotipi rappresentano il materiale sperimentale per l‘ambiente, implicano insomma la “passività” delle forme viventi in rapporto ad esso; la selezione con, viceversa, implica che l’adattamento dipende prevalentemente da vincoli interni alle forme viventi, tali che l’ambiente prende semplicemente atto che esse sono in grado di sopravvivere e di riprodursi. In questa ottica, il ruolo dell’auto-organizzazione della vita diventa preminente e ciò significa che la casualità dell’evoluzione è molto minore rispetto a quella ipotizzata da Darwin. E’ evidente il nodo filosofico legato alla selezione con. L’ammettere una capacità auto-organizzativa della materia vivente significa condividere uno dei punti fermi dell’ipotesi del Disegno intelligente.

Ma, come si è visto, gli autori sono del tutto avversi al Creazionismo e all’ipotesi dell’Intelligent Design, che ne rappresenta una forma edulcorata. Essi ribadiscono tale avversione in più punti del libro. Scrivono, per esempio, a pag. 158, riprendendo la discussione sull’ipotesi dei pennacchi di Gould e Lewontin:

“La differenza saliente fra gli architetti e i processi della selezione evolutiva è che gli architetti hanno menti e i processi evolutivi no. Le menti sono cose utili da possedere; fra le loro virtù c'è anche la capacità di rappresentare cose che non sono successe, o cose che sono successe molto tempo fa, o cose che sono successe molto, molto lontano, o cose che succederanno, o cose che possono succedere, o cose che succederebbero se... e così via. Qui rientrano, ovviamente anche gli eventi controfattuali e i loro effetti controfattuali. Perciò, come abbiamo osservato prima, un architetto può dire a se stesso: "Se togliessi i pennacchi, dovrei togliere anche gli archi; e se dovessi togliere gli archi, la cupola cadrebbe. Data una scelta fra non eliminare i pennacchi e far crollare la cupola, opto per la prima". Questo è un caso classico di analisi delle situazioni prima di decidere come agire. Per questo i pensieri possono "morire al posto nostro".

Non sosteniamo di sapere come le menti possano rappresentare eventi controfattuali (e nemmeno eventi futuri o passati); né, se è per quello, come possano rappresentare cose che sono proprio di fronte alloro naso. Basta che possano farlo, e lo fanno. Perciò non sorprende che, quando Gould e Lewontin volevano un buon esempio, solido e del tutto intuitivo, della distinzione fra selezionato e free rider, abbiano scelto un caso di causazione mentale, un caso in cui realmente c'è un "progettista intelligente". E lo stesso ha fatto Darwin quando ha cercato di spiegare come funziona la selezione naturale; l'idea era che la selezione naturale funziona come l'allevatore, solo che, nel caso della selezione naturale, non c'è alcun allevatore. Ma, ovviamente, non c'è un progettista intelligente nel caso dell'evoluzione; in effetti, non c'è alcun progettista. Questo rende la situazione molto scabrosa per chi fa teoria.

"Selezione per un tratto" è la nozione chiave nell'adattamentismo; l'idea centrale dell'adattamentismo è che ci sia un meccanismo completamente naturalistico di selezione- per i tratti fenotipici. E’ pertanto di primaria importanza che il successo del progetto di spiegare i tratti fenotipici in termini di quello per cui sono selezionati non dipenda dall'assunto che la selezione per un tratto sia l'effetto di cause mentali. La selezione-per è, ovviamente, l'effetto di cause mentali nel caso dell'architetto, e lo è ancora nel caso dell'allevatore. Darwin (e, immaginiamo, Gould e Lewontin) pensava di poter iniziare con i processi mentali e poi passare alla selezione naturale facendo astrazione dalle menti. Ma, in sintesi, questo è quello che diciamo che non si può fare.”

E perché mai? La risposta è la seguente:

“Perché una teoria dell'evoluzione deve poter distinguere la forza causale di tratti coestensivi; e (per quanto ne sappiamo) la forza causale di tratti coestensivi non può essere distinta solo facendo ricorso alle distinzioni fra controfattuali; e (per quanto ne sappiamo) solo le menti sono sensibili alle distinzioni fra controfattuali. Aggiungiamo ora che una linea di argomentazione sostanzialmente identica funziona per qualsiasi spiegazione evoluzionistica che (implicitamente o meno) chiami in causa la nozione di selezione-per un tratto. La distinzione fra tratti localmente coestensivi può essere tracciata se si tengono in considerazione i controfattuali. Ma i controfattuali hanno effetto su quel che avviene nel mondo reale solo grazie alla mediazione delle menti, ed è convinzione condivisa che nessuna mente medi i processi della selezione naturale. In effetti è molto difficile trovare una spiegazione dell'evoluzione che elimini veramente il deus dalla machina. Anche Darwin non sapeva come farlo. E non sappiamo farlo neanche noi, se dobbiamo stare attaccati all'adattamentismo. Perciò non ci resteremo attaccati.” (p. 159)

Nonostante il linguaggio filosofico, poco comprensibile a chi non è studioso di logica, la citazione precedente si può ritenere la chiave dell’intero saggio. Non è dunque inopportuno soffermarsi su di essa per chiarirla terminologicamente e per connetterla ad altre considerazioni che gli autori fanno. A livello di logica, l’estensione di un’espressione è l’insieme delle cose che essa denota, mentre l’intensione è una funzione che associa valori di verità a mondi possibili. La caratteristica propria delle leggi scientifiche è di essere intensionali. La legge di gravità, per esempio, non spiega in sé e per sé il crollo di un edificio, che fa riferimento alla sua struttura, ai materiali utilizzati, al logoramento, ecc., ma è pur sempre a causa sua che l’edificio crolla. Piattelli Palmarini e Fodor identificano nella selezione naturale un processo estensionale, ma obiettano che essa non ha un valore intensionale.

Basta un esempio, tratto dal saggio, per capire il significato di tale obiezione:

“Consideriamo il famigerato rompicapo delle rane e delle mosche. La rana estrae la lingua in direzione delle mosche; quando ne cattura una, poi la mangia. Plausibilmente, è nell'interesse della rana fare così, dato che, a parità di ogni altra cosa, la fitness complessiva di una rana che ingerisce delle mosche è probabile che superi la fitness complessiva di una rana che non lo fa. Supponiamo che sia parimenti plausibile che le rane cerchino di catturare le mosche con l'intenzione di mangiarle. (Se non vi va giù l'idea di attribuire intenzioni alle rane, potete tranquillamente risalire la scala filogenetica fino a che non trovate un essere vivente per il quale vi sembra ammissibile una simile attribuzione.) Ora, le intenzioni sono proprio il tipo di cose che hanno contenuti intenzionali/semantici, che servono a distinguerle una dall'altra. L’intenzione di una rana di catturare una mosca, per esempio, è un'intenzione di catturare una mosca e perciò è diversa, poniamo, dall'intenzione di una rana di scaldarsi al sole sdraiata su una foglia di ninfea. Ecco dunque un caso plausibile e rudimentale su cui mettere alla prova una teoria causale del contenuto: forse l'intenzione della rana di catturare una mosca riguarda le mosche perché è un'intenzione del tipo che in genere è causato "nel modo giusto" (qualsiasi cosa questo possa essere) dalla vicinanza di mosche.

Ci sono cose sbagliate di ogni genere, in questa idea; cose che dovrebbero essere sistemate, perché una spiegazione causale del contenuto possa sembrare anche vagamente plausibile. Solo una delle cose sbagliate, però, è parallela a quello che ci interessa qui. Un'intenzione di catturare mosche non è ipso facto un'intenzione di catturare un oggetto volante fastidioso (OVF, d'ora in poi, per esempio un pallino di piombo); neanche in base all'assunzione che questi due modi di descrivere le mosche siano localmente coestensivi, il che, se fosse vero, comporterebbe che ogni estensione della lingua causata da una mosca è causata ugualmente da un OVF, e ogni estensione della lingua causata da un OVF è causata ugualmente da una mosca. In sintesi: se vale l'assunzione della coestensione locale (come potrebbe benissimo essere), allora fissare la causa dell'estensione della lingua della rana non fissa il contenuto della sua intenzione nell'estendere la lingua: un'intenzione di catturare con la lingua una mosca o un'intenzione di catturare con la lingua un OVF sarebbero compatibili con una spiegazione causale di quello che la rana ha in mente quando estende la lingua.

Così le spiegazioni causali del contenuto incontrano un problema della "selezione-per": se qualcosa è una mosca se e solo se è un OVF, allora il comportamento della rana è descritto correttamente sia come causato dalle mosche che come causato dagli OVF. Perciò, a quanto pare, una teoria causale del contenuto non può distinguere fra estensioni della lingua che manifestano l'intenzione di catturare le une da estensioni della lingua che manifestano l'intenzione di catturare gli altri.

Come al solito, un ricorso ai controfattuali annulla la supposta coestensione: che cosa succederebbe in un mondo in cui tutto fosse identico, tranne per il fatto che alcuni OVF non sono mosche o viceversa? Verso che cosa estenderebbe la sua lingua la rana in un simile mondo controfattuale? Se queste rane cercano di catturare mosche che non sono OVF, allora (a parità di ogni altra cosa) le nostre rane devono essere cacciatrici di mosche; se queste rane cercano di catturare OVF che non sono mosche, allora (a parità di ogni altra cosa) le nostre rane devono essere cacciatrici di OVF. La morale è: la causa non determina il contenuto; ma forse lo determina la causa insieme con il controfattuale pertinente.

Un punto che vogliamo sottolineare: questo problema della "selezione-per" relativo al contenuto comporta un problema della "selezione-per" corrispondente, relativo alla selezione naturale. La disposizione della rana a catturare mosche appartiene, in fin dei conti, al suo fenotipo comportamentale; e l'evoluzione dei fenotipi, comportamentali o altro, è ciò che la teoria della selezione naturale è impegnata a spiegare. E allora: che cosa ha evoluto la rana? Una disposizione a catturare le mosche o una disposizione a catturare OVF? (O entrambe? O nessuna delle due?) Dobbiamo dire che la selezione della cattura di mosche è un free rider dell'evoluzione della cattura di OVF, o il contrario? E che cosa è stato, nelle pressioni selettive sulle rane, che ha determinato l'evoluzione di fenotipi catturatori di mosche (se è questo che hanno fatto) o di fenotipi catturatoti di OVF (se è questo che hanno fatto)? Se, insomma, ci sono tratti fenotipici che si distinguono per il loro contenuto, allora per ciascuno di questi tratti deve esistere una distinzione corrispondente fra le storie evolutive. In che cosa consistono queste distinzioni? Che cosa rende veri i controfattuali pertinenti e che cosa li rende falsi?” (pp. 149-150)

In altri termini: una rana può afferrare e mangiare le mosche perché ha una lingua prensile. Da ciò segue, in termini darwinistici, l’affermazione che l’evoluzione ha selezionato la lingua prensile della rana per cacciare le mosche. Tale affermazione è intensionale, ma, secondo gli autori, errata perché la selezione naturale non può distinguere l’intenzione di catturare mosche da quella di catturare piccoli oggetti neri volanti, perché le due intenzioni sono solo estensionalmente equivalenti.

Il problema evidentemente è il per, che implica l’introduzione di un controfattuale, vale a dire l’affermazione per cui se non ci fossero state le mosche le rane avrebbero una lingua diversa. Questa introduzione, però, postula il ricorso o ad un’intenzionalità di ordine superiore (Dio, Intelligent Design) o ad una legge scientifica.

Scartata la prima possibilità, neppure la seconda è valida secondo gli autori perché, in termini generali, la natura non può distinguere tra tratti adattivi e free rider, vale a dire tratti che si “accodano” ai primi ma non hanno un immediato significato adattivo e quindi rientrano nell’ambito dell’exaptation. Il discorso, insomma, ritorna sull’ipotesi di Gould e di Lewontin forzandone il significato (o, secondo gli autori, portandolo alle estreme conseguenze):

“A questo punto possiamo annunciare la nostra strategia polemica generale: abbiamo aperto il capitolo ricordando l'intuizione di Gould e Lewontin, che una teoria della selezione naturale deve in qualche modo consentire la possibilità di tratti fenotipici che non sono adattamenti. Pensiamo che Gould e Lewontin avessero completamente ragione in proposito, ma pensiamo che sia sfuggito loro un punto più profondo: una volta che il carattere dei problemi di "selezione-per" sia compreso correttamente, diventa evidente che la domanda sollevata dai free rider fenotipici non può avere una risposta nella cornice delle teorie adattamentiste dell'evoluzione. Se è vero, allora l'adattamentismo semplicemente non può fare quello che si presume debba fare una teoria dell'evoluzione: spiegare come i tratti fenotipici siano distribuiti nelle popolazioni di organismi. Detto in modo diverso ma equivalente: la teoria della selezione naturale non può prevedere/spiegare per quali tratti sono selezionati gli individui in una popolazione.” (p. 152)

“[…] Il problema di distinguere fra tratti coestensivi sorge con grande urgenza ogni volta che una teoria selettivista vuole spiegare quale fra i suoi tratti fenotipici rende adatto un certo tipo di organismo in un certo tipo di ecologia. Spiegazioni di questo genere sono, ovviamente, al centro delle teorie selettiviste: gli organismi sopravvivono e fioriscono perché, nella loro ecologia, certi dei loro tratti fenotipici sono "correlati con la fitness". Il problema scientifico è stabilire quali siano questi tratti, e perché influenzino la fitness in quel dato modo. Per quel che ne sappiamo, nessuna di queste osservazioni è tendenziosa. Ma, ovviamente, può succedere - e spesso succede - che i tratti fenotipici che influenzano la fitness siano confusi con tratti fenotipici che non la influenzano. In tali casi entrambi i tratti sono "correlati con la fitness"; il tratto T è, per così dire, direttamente correlato con la fitness e il tratto T' vi è correlato indirettamente, in virtù della sua correlazione con T. La cosa non sorprende per nulla; in effetti è solo un modo di descrivere casi in cui si seleziona per T e la selezione di T'arriva al traino.

Molto bene: ma ora ci si para davanti la domanda: come è possibile che un processo di selezione dia come risultato questa situazione? In fin dei conti, la storia adattamentista doveva essere che i tratti sono selezionati quando sono correlati con la fitness, cosa che per ipotesi sono entrambi, T e T'. E allora come può essere vero che c'è selezione per l'uno e non per l'altro? In particolare, come può essere vero che uno dei tratti arriva al traino, è un free rider della selezione per l'altro?

"Ma non avete appena detto che T e T'influenzano la fitness in modi diversi? Che uno l'influenza direttamente e l'altro solo tramite il primo? Allora forse basta che rappezziamo il principio adattamentista: dobbiamo dire 'i tratti fenotipici sono selezionati per i loro effetti diretti sulla fitness'. Non andrebbe altrettanto bene?" Beh, sì, l'abbiamo detto, ma non è questo che intendevamo. Perché che cos'è, esattamente, questo "essere diretto" grazie al quale la selezione-per può agire su uno ma non sull'altro di due tratti coestensivi, perché uno ha un collegamento con la fitness che è diretto, mentre l'altro non ce l'ha? Si può immaginare che qui entrino in scena i controfattuali.

Supponiamo che T e T' siano coestensivi. Allora, se T viene selezionato "direttamente" e T' viene selezionato grazie alla sua correlazione con T, allora deve essere vero il controfattuale seguente: Se T non fosse stato selezionato, non sarebbe stato selezionato nemmeno T' (ma non viceversa). In effetti, l'idea è che T' è correlato con la fitness attraverso una catena di cause ed effetti che passa per T e si conclude con qualche modulazione della fitness. Se T venisse eliminato, allora l'effetto di T' sulla fitness svanirebbe; ma se venisse eliminato T', allora (a parità di ogni altra cosa) T rimarrebbe intatto e il suo effetto sulla fitness rimarrebbe inalterato. Ovviamente, né T né T' vengono effettivamente eliminati; per ipotesi, i due sono coestensivi nel mondo reale e la loro estensione non coincide più solo in mondi controfattuali. Eppure, possiamo vedere ora come la selezione potrebbe distinguere fra T e se la selezione fosse sensibile ai contro fattuali relativi al modo in cui l'eliminare uno di essi influenza l'adattatività dell'altro.

Ma siamo ancora in alto mare. Perché adesso sorge la domanda: "Come è possibile che la selezione sia sensibile alle conseguenze dell'eliminare controfattualmente T ma non (e/o alle conseguenze di eliminare controfattualmente T' ma non T) se, di fatto, né T né T' vengono realmente eliminati?". La risposta è che non può. La selezione, per principio, non può dipendere da esiti (puramente) controfattuali. Questo, in poche parole, è il perché pensiamo che il selettivismo non possa essere vero.” (pp. 154-155) E ancora: “"Perché è così importante che una teoria dell'evoluzione debba ricostruire le distinzioni fra free rider e non?" Abbiamo già visto la risposta: la teoria dell'evoluzione si prefigge di spiegare la distribuzione di tratti fenotipici in popolazioni di organismi; e la spiegazione si suppone dipenda dal collegamento fra tratti fenotipici e la fitness degli organismi a cui i fenotipi appartengono.

Ma, come si vede, quando i tratti fenotipici sono coestensivi (localmente o altrimenti), la teoria della selezione non può distinguere il tratto da cui dipende la fitness dal tratto che su di essa non ha alcun effetto (ed è semplicemente un free rider). Nonostante tutta la pubblicità contraria, la selezione naturale non può essere un meccanismo generale che collega la variazione fenotipica con la variazione nella fitness. E quindi la selezione naturale non può essere il meccanismo dell'evoluzione.” (p. 157)

4.

Quanto ci sia di capzioso, anche inteso nell’accezione più blanda di sottilmente insidioso, nel modo di argomentare di Piattelli Palmarini e Fodor è abbastanza evidente. Ma il senso ultimo del loro discorso risulta chiaro laddove, anticipando le critiche dei biologi evoluzionisti, si chiedono che tipo di teoria è quella della selezione naturale:

“Voce dell'esasperazione: "Ma voi volete proprio dire che le spiegazioni adattamentiste non valgono mai niente; che le storie di selezione non spiegano mai i tratti fenotipici, che siano psicologici o d'altro genere? Vi rendete sicuramente conto che i manuali sono semplicemente pieni di buoni esempi in contrario. Queste spiegazioni da manuale intendono dare, e spesso chiaramente danno, le ragioni per cui i fenotipi sono così come sono; perché ci sono molte popolazioni di t1, ma poche o nessuna popolazione di t2. E allora, che cosa ce ne facciamo dei paradigmi da manuale di spiegazioni adattamentiste se, come dite voi, l'adattamentismo non è vero ma vuoto?". Pensiamo che in effetti ci siano davvero alcune genuine spiegazioni adattamentiste e che quello che sono sia precisamente quello che sembrano essere superficialmente: sono spiegazioni storiche.

Molto alla buona, le spiegazioni storiche offrono (non leggi, ma) narrazioni plausibili; narrazioni che intendono articolare la catena causale degli eventi che porta all'evento da spiegare. Le spiegazioni nomologiche riguardano relazioni (metafisicamente necessarie) fra proprietà; le narrazioni storiche riguardano relazioni (causali) fra eventi. Per questo le prime sostengono dei controfattuali, ma le ultime no. Le narrazioni storiche, per quanto ne sappiamo, vanno benissimo; certo spesso sono del tutto persuasive. Ma non sussumono eventi sotto leggi e perciò non sostengono controfattuali. E, come abbiamo visto, sono i controfattuali di cui abbiamo bisogno per risolvere i problemi dei free rider nello schema adattamentista. Se le teorie adattamentiste sono storiche anziché nomologiche, questo spiega perché i problemi dei free rider non si possono risolvere entro la cornice adattamentista.

"E’ caduta perché è scivolata su una buccia di banana." E’ molto probabile che sia andata così; ma non c'è alcuna legge nemmeno una legge statistica che abbia "buccia di banana" nel suo antecedente e "scivola e cade" nel suo conseguente. Analogamente, Napoleone fu sconfitto a Waterloo perché pioveva da giorni e il terreno era troppo fangoso per la carica della cavalleria. (Così, perlomeno, ci dicono; e chi siamo noi per sostenere altrimenti?) Ma proprio non ne segue che esistano leggi che collegano la quantità di fango sul terreno con l'esito delle battaglie. I naturalisti metafisici (nelle cui file militiamo) supponiamo debbano dire che quello che è successo a Waterloo deve essere sussunto sotto qualche legge di copertura. Senza dubbio, per esempio, esemplifica (fra le altre cose) leggi della meccanica degli oggetti di medie dimensioni. Ma non ne segue che esistano leggi del fango così descritto, o delle battaglie così descritte, ancor meno delle connessioni causali fra di essi, così descritti; che è quel che sarebbe necessario se «fu sconfitto a causa del fango" deve essere un caso di un tipo di spiegazione per sussunzione sotto una legge o se deve sostenere dei controfattuali su quello che sarebbe successo se non avesse piovuto.

Supponiamo, analogamente, che quando un t1 compete con un t2, qualche legge deve governare le interazioni causali fra di loro. La questione, però, è se si tratta di leggi della competizione, o se addirittura sono leggi della macrobiologia. Immaginiamo che Darwin non sarebbe contento se si scoprisse che, anche se c'è davvero una spiegazione della mutabilità delle specie, questa non sfrutta il vocabolario della competizione, della selezione e simili, bensì (e sarebbe possibile) il vocabolario della meccanica quantistica. Va di conserva con il fatto che non facciano ricorso a leggi di copertura, che le spiegazioni basate su narrazioni storiche sembrino spesso a posteriori. E’ il motivo per cui spesso sembrano tali è che di solito lo sono. Dato che sappiamo già chi ha vinto, possiamo raccontare una storia molto plausibile (del tipo "troppo fango sul terreno") sul perché non vinse Napoleone. Ma, non essendoci legge di copertura da citare, dubitiamo che Napoleone o Wellington o chiunque altro avrebbe potuto prevedere l'esito, prima dell'evento.

La difficoltà è che ci sarebbe stata una storia plausibile per spiegare quello che era avvenuto, chiunque avesse vinto: previsione e retrovisione sono famose per questa asimmetria. Stando così le cose, ci sono moltissime spiegazioni storiche ragionevoli dello stesso evento, e non c'è nulla per scegliere l'una o l'altra. Wellington ha davvero vinto a causa del fango? O perché i reggimenti prussiani sono riusciti ad arrivare proprio per il rotto della cuffia? O semplicemente perché Napoleone aveva perso il suo tocco? (E intanto che siamo in tema di storia, che cosa, esattamente, ha causato la Riforma?) Non si discute del fatto che le competizioni fra individui con fenotipi diversi spesso abbiano esiti diversi; e ovviamente, in ogni caso, deve esserci qualche spiegazione del perché il vincitore ha vinto e il perdente no. Ma non c'è alcuna ragione per supporre che queste spiegazioni normalmente chiamino in causa leggi che si applicano agli individui in virtù dei loro tratti fenotipici. Stando così le cose, non deve per forza esserci qualcosa da scegliere fra affermazioni relative ai controfattuali corrispondenti.

I piccoli mammiferi hanno vinto la loro competizione con i grandi dinosauri. Ma ci sono riusciti grazie alla loro piccolezza? Dipende (fra le altre cose) dal fatto se avrebbero vinto anche se non ci fosse stato un meteorite. Possiamo raccontarvi una storia plausibile sul perché avrebbero potuto: gli animali di piccole dimensioni sono in grado di trafugare le uova di dinosauro, quando i dinosauri non vedono, per mangiarsele (il che è un male per la fitness dei dinosauri). D'altra parte, possiamo raccontarvi una storia plausibile del perché, se non ci fosse stato il meteorite, i mammiferi non avrebbero vinto: non ci sarebbe stata selezione per la tolleranza al cambiamento climatico, che i mammiferi avevano ma i dinosauri no. (Si noti che, secondo l'ultima storia, non c'è stata selezione per la piccolezza o la rapidità dei mammiferi, ma per la gamma di temperature che erano in grado di sopportare.) E allora, a quali controfattuali offrono sostegno le nostre narrazioni evoluzionistiche sull'estinzione dei dinosauri? A nessuno dei due? A entrambi? E, analogamente, per quale tratto l'evoluzione ha operato la selezione, quando ha selezionato individui che proteggevano i loro piccoli? Un interesse altruistico per la prole o un interesse egoistico per i propri geni?...

C'è, tuttavia, un modello di spiegazione adattamentista che sembra corrispondere piuttosto bene ai fatti. Se è altrimenti percorribile, suggerisce che queste spiegazioni, anche se non sono nomiche e non offrono sostegno ai controfattuali, hanno precedenti perfettamente rispettabili. Se le spiegazioni adattamentiste sono specie di narrazioni storiche, dal disastro si può salvare tutto tranne la selezione-per. E va tutto bene, perché il meccanismo dell'evoluzione non è la selezione-per tratti fenotipici. I meccanismi dell'evoluzione sono i soggetti non della teoria evoluzionistica ma delle vignette che la storia naturale ritaglia caso per caso. L'evoluzione è un tipo di storia ed entrambe sono solo una dannata cosa dopo l'altra.” (pp. 180-185)

Risulta evidente, a questo punto, che, spinti da una furia iconoclasta, Piattelli Palmarini e Fodor scivolano su di una buccia di banana. Tutti gli epistemologi sanno che, nell’ambito delle scienze, vale la distinzione tra scienze sperimentali, che hanno come oggetto eventi ripetibili, e scienze induttive o storiche, che hanno come oggetto eventi irripetibili. Le prime, riproducendo eventualmente in laboratorio gli eventi cui si dedicano, possono giungere a definire leggi universalmente valide. Le seconde, alle quali è precluso il metodo sperimentale, possono solo tentare di definire ipotesi generali, più o meno probabili.

Lo studio dell’evoluzione delle forme viventi, i cui primi esemplari risalgono a tre miliardi e mezzo di anni fa, rientra, ovviamente, nell’ambito della seconda categoria. L'evoluzionismo, insomma, è di necessità una scienza storica, tal che imputare ad essa di ricostruire l’evoluzione sotto forma di narrazione è assurdo. In rapporto al suo oggetto (cosa che vale, per esempio, anche per l’astronomia) essa non potrà mai pervenire a leggi nomologiche. Se si esclude che Piattelli Palmarini e Fodor confondano così ingenuamente scienze sperimentali e scienze storiche, rimane solo da pensare intendono mettere in discussione la narrazione neo-darwinista perché non convincente o non in accordo con tutti i dati attualmente disponibili.

E’ senz’altro vero, ed è il motivo per cui quella narrazione è stata messa in crisi da Gould e da Lewontin, che però, pure attaccando aspramente il gradualismo e l’adattamentismo, non hanno mai messo in dubbio quanto in essa c’era di scientificamente valido, cioè la sua capacità di dare senso ad una miriade indefinita di dati biologici. Piattelli Palmarini e Fodor intendono eliminare il “male” alla radice, vale a dire invalidare definitivamente la teoria della selezione naturale.

C’è da chiedersi, però, se essi abbiano letto con attenzione La struttura dell’evoluzione di Gould, che non viene citata nella bibliografia. Si tratta di un saggio teorico di ben 1700 pagine nel quale l’autore affronta da biologo evoluzionista quasi tutti i problemi cui essi fanno riferimento, giungendo a conclusioni affatto diverse. Il penultimo capitolo (Vincoli strutturali, pennacchi, ruolo centrale dell’exaptation nella macroevoluzione) dedica ben 150 pagine ai problemi cari a Piattelli Palmarini e a Fodor ed è un autentico capolavoro.

Il tema centrale del capitolo è il rapporto tra microevoluzione e macroevoluzione. I neo-darwinisti sostengono che la macroevoluzione non è altro che la somma di indefiniti eventi microevolutivi. Gould sostiene, invece, che a livello di macroevoluzione i fenomeni exattativi sono i più importanti. Ma che cos’è, in ultima analisi, l’exaptation se non l’espressione della indefinita “creatività” della natura, cos’è se non un insieme di potenzialità strutturali e funzionali maturate senza un’immediata finalità adattiva, che, però, nel momento in cui vengono ad essere utilizzate e si traducono in comportamento si espongono comunque al vaglio della selezione naturale? Un’ulteriore narrazione - direbbero Piattelli Palmarini e Fodor.

Il problema è che, al di là della critica del neodarwinismo, per molti aspetti giusta e ormai scontata, anche quella di Piattelli Palmarini e di Fodor, in ultima analisi, è una narrazione nella misura in cui, esasperando il ruolo dei vincoli interni, pone quasi tra parentesi quello dei fattori ambientali. In questa ottica, il fenotipo è più "istruito" dall'ambiente interno che non "selezionato" da quello esterno, le leggi di struttura prevalgono ampiamente sulla selezione esogena, ecc. Ma ciò comporta come conseguenza che gli aspetti exattivi delle forme viventi, che solo casualmente possono essere utilizzati a fini adattivi, giungono ad essere molto più importanti di quelli selezionati dall'ambiente.

In un certo qual senso, Piattelli Palamarini e Fodor raccolgono l'eredità di Gould, ma estendono il concetto di free rider, che egli ha valorizzato e forse introdotto soprattutto in riferimento alla comparsa dell'uomo, a tutte le forme viventi. Sembra francamente un eccesso. Se, infatti, fosse vero, diventerebbe del tutto misteriosa l'esistenza di corrispondenze affidabili fra organismi e ambienti, che consentono ai primi di sopravvivere e di riprodursi.

Nell'ultima parte del libro, gli autori si rendono conto di questo. Essi scrivono:

"La Parte prima ha passato in rassegna alcune fra le considerazioni empiriche che militano contro l'idea che gli organismi siano generatori casuali di fenotipi. La selezione naturale non offre alcuna intuizione sul perché non ci siano i fenotipi che non ci sono (perché ci siano vasti "buchi" nello spazio biologico delle forme...

Non ci sono, e non ci sono mai stati, maiali con le ali. Che non ci siano e non ci siano stati deve essere spiegato; ma la spiegazione certo non può essere selettivista. Madre Natura non ha mai avuto maiali con le ali da selezionare (negativamente); perciò il fatto che i maiali non abbiano le ali non può essere un adattamento. Pensiamo che considerazioni di questo genere facciano pensare fortemente che esistono vincoli endogeni (e forse anche molto profondi) ai fenotipi. Per quel che possiamo dire, questa sta lentamente diventando la concezione condivisa nella biologia evolutiva.

Se, però, è sbagliato supporre che i fenotipi siano generati a caso, è altrettanto sbagliato supporre che le varie corrispondenze fra ecologie e fenotipi siano fortuite. Su questo Darwin aveva ragione; ed è quello che pensava di spiegare dicendo che i tratti fenotipici sono sostanzialmente adattamenti. Noi pensiamo che le solite sviolinate sulla "raffinata", "perfetta", "meravigliosa", "stupefacente" (e così via) corrispondenza fra gli organismi e i loro ambienti siano francamente eccessive; molto di ciò su cui insiste questa retorica è un artefatto della definizione circolare di "ecologie" e "fenotipi". Ma siamo d'accordo, sarebbe perfettamente folle dubitare che i fenotipi molto spesso "portano informazioni" sugli ambienti in cui gli organismi sono evoluti. Quello di cui dubitiamo è che il tentativo di sussumere le eziologie dei fenotipi sotto una teoria uniforme sia sensato. Come la ricerca della storia naturale sembra suggerire, le fonti delle corrispondenze fra gli organismi e i loro ambienti sono profondamente eterogenee.

Darwin pensava che la selezione ecologica per la fitness mettesse a nudo la somiglianza di fondo di tutti (o almeno della maggior parte di) questi casi, ma aveva torto. O le teorie adattamentiste non possono sostenere i controfattuali pertinenti in merito alla selezione dei tratti oppure staccano assegni a vuoto su nozioni chiave (come quelle di ecologia e di fenotipo) che a un esame ravvicinato si rivelano definite circolarmente. Sospettiamo che, in prima approssimazione, la storia naturale della fissazione dei fenotipi sia aneddotica quanto sembra essere. Nonostante molte affermazioni ben note in senso contrario, Darwin non è riuscito a escludere le cause mentali dalla sua spiegazione di come funziona l'evoluzione. Semplicemente le ha nascoste nell'analogia, non messa in questione, fra selezione artificiale per incrocio e selezione naturale. Perciò Darwin alla fine non ha chiarito i meccanismi grazie ai quali si costruiscono i fenotipi.

Ecco una metafora che preferiamo a quella di Darwin: gli organismi "prendono" i loro fenotipi dalle loro ecologie in modo simile a come prendono i loro raffreddori dalle loro ecologie. Il processo eziologico in virtù del quale i fenotipi rispondono alle ecologie è più simile al contagio che alla selezione. Ci sono almeno due rispetti per cui le cose stanno così. In primo luogo, le malattie che un organismo prende dipendono non solo dal tipo di mondo in cui abita, ma anche, e forse in modo ineliminabile, dalle caratteristiche della sua struttura endogena: caratteristiche che possono essere innate, o che può avere acquisito in seguito alle precedenti interazioni con la sua ecologia. I parameci non prendono il raffreddore e per noi prendere un raffreddore non ci impedisce di prenderne un altro. (Fate il confronto con la varicella.) Entrambi i fatti debbono essere spiegati; ma non c'è alcuna ragione per supporre che ci sia stata selezione per questi tratti fenotipici oppure che portino informazioni sulle ecologie in cui noi o i parameci siamo evoluti. (Presumibilmente, ciò su cui portano informazioni sono le rispettive fisiologie.)

In secondo luogo, il contagio dipende (e forse in modo ineliminabile) da fattori che agiscono su moltissimi livelli di organizzazione differenti; e lo stesso fa, pensiamo, la fissazione dei fenotipi. Parte della storia su quel che accade quando ci si prende un raffreddore riguarda la microstruttura dei patogeni e quella del nostro sistema immunitario. Parte della storia sta in quello che l'avere il virus fa alle nostre mucose. E parte ha a che fare con l'età, il sesso, lo stato di salute, il grado di esposizione, e così via, dell'ospite. Ammassi difatti di tutti questi generi (e senza dubbio di molti altri) contribuiscono alla spiegazione del come e perché prendiamo il raffreddore, quando lo prendiamo. Quel che sorprende non è che qualche spiegazione empirica si riveli semplicemente una storia causale; ma che non tutte le spiegazioni lo siano.

Certamente, qualche tipo di interazioni fra gli organismi e i loro ambienti è causalmente coinvolto nella fissazione evolutiva di qualche tratto fenotipico; se così non fosse, sarebbe davvero miracolosa l'esistenza di corrispondenze affidabili fra i due. Ma non c'è alcuna ragione ovvia di dubitare che queste interazioni siano strutturate simultaneamente a molti livelli di analisi; ed è perfettamente possibile che il racconto dell'eziologia delle corrispondenze organismo/ambiente possa essere diverso da un tipo di tratto fenotipico all'altro. Se così è, allora la risposta giusta a "qua! è il meccanismo della fissazione dei fenotipi?" sarebbe: "Beh, in realtà ce ne sono molti". Lo ripetiamo: con questo non vogliamo affatto dire che la fissazione dei fenotipi sia qualcosa di diverso da un processo completamente deterministico, causale e sottoposto a leggi. Non c'è bisogno di una Fata Turchina. Quello che neghiamo, però, è che esista una teoria unitaria (per esempio una teoria unitaria delle interazioni organismo‑ambiente) nei cui termini si spiegano questi fenomeni, tutti o la maggior parte di essi; o che i vari tipi di resoconti che li spiegano in generale comportino l'esistenza di leggi di selezione esogena.

Forse non vi sembra un granché; forse preferireste che esistesse una teoria unificata la selezione naturale ‑ della fissazione evolutiva dei fenotipi. E così sia; ma noi possiamo sostenere qualcosa che i darwinisti non possono sostenere. Non c'è fantasma nella nostra macchina; né Dio, né Madre Natura, né Geni egoisti, né lo Spirito del Mondo, né intenzioni che volano libere; e neanche allevatori fantasma. Quel che nutre i fantasmi nel darwinismo è il suo ricorso nascosto spiegazioni biologiche intensionali, di cui noi qui proponiamo di fare a meno.

Darwin ha indicato la direzione per arrivare a una teoria pienamente naturalistica ‑ in effetti pienamente ateistica - della formazione dei fenotipi; ma non ha visto come arrivarci fino in fondo. Ha eliminato Dio, se volete, ma Madre Natura e altri pseudo‑agenti ne sono usciti indenni. Pensiamo che sia ora di liberarci anche di loro." (pp. 211-214)

Escludendo che la corrispondenza tra organismi biologici e ambiente sia "miracolosa", e non potendo per ora ricondurla in toto ad altri meccanismi, la selezione naturale non può essere esclusa dall'evoluzionismo. Essa di sicuro andrà integrata con la scoperta di altri meccanismi, tra cui il più rilevante per ora rimane l'exaptation. E' difficile o imprevedibile, però, che il suo ruolo possa essere annullato. Il motivo è semplice.

Allorché Piattelli Palmarini e Fodor fanno riferimento alla necessità di liberarsi di Madre Natura, che nell'ottica neodarwinistica ha preso il posto di Dio, hanno ragione, ma ripetono un'autocritica chiaramente avanzata da Darwin stesso nell'ultima edizione de L'origine delle specie.

5.

Il saggio di Piattelli Palmarini e Fodor, con il suo radicalismo, è manifestamente provocatorio, ma, come risulta da un intervista rilasciata da Piattelli Palmarini a Repubblica il suo vero obiettivo sono di fatto gli ultradarwinisti.

Il testo dell'intervista, pubblicata il 29 marzo 2010, è il seguente:

"Professore, ma come si fa a intitolare un libro Gli errori di Darwin, oggi, qui in America, in piena polemica creazionista? E si figuri che cosa succederà in Italia. Lei dice che è una lettura laica e scientifica: ma non teme di finire strumentalizzato?

«Guardi, basta con questa storia che a dire la verità si fa il gioco dell’opposizione...».

Ce ne freghiamo del politicamente corretto: questo si può dire?

«Magari in un modo un pochino più garbato».

In modo garbato, Massimo Piattelli-Palmarini, fisico e biologo, uno dei più grandi cognitivisti del mondo, professore all’Università dell’Arizona, e Jerry Fodor, il filosofo e studioso del linguaggio, hanno fatto a pezzi la selezione naturale nelle 264 pagine di What Darwin Got Wrong, il libro che a metà aprile Feltrinelli tradurrà appunto con Gli errori di Darwin e che dalla Boston Review al Guardian è già un caso mondiale. Perché se crolla la selezione naturale crollano anche le traduzioni culturali del darwinismo. «Proprio quello che ci ha spinto a scrivere questo libro. Il fastidio enorme provato per anni verso i neodarwiniani in psicologia, in sociologia, nella filosofia del linguaggio, della mente: in tutti i settori delle scienze umane».

Facciamo dei nomi.

«La sacra triade. Daniel Dennett, filosofo americano. Richard Dawkins, biologo inglese. Steven Pinker, canadese, psicologo ad Harward. I tre corifei del neodarwinismo».

Che cos’è che non va nell’evoluzione?

«Per carità: l’evoluzione è un fatto. Non è più un ipotesi ma è un dato acquisito. Il problema sono i neodarwiniani che con la selezione naturale pensano di poter spiegare tutto».

Riproviamoci: cosa c’è che non va nella selezione naturale…

«Primo. I cosiddetti vincoli interni. Come avviene l’evoluzione biologica? L’evo-devo ha scoperto che i geni sono sostanzialmente quasi sempre gli stessi da centinaia di milioni di anni. Altro che babbuini: dividiamo tutto con i moscerini e i topi. Naturalmente maggiori sono i vincoli interni e maggiore è la struttura genetica che condiziona lo sviluppo. Minore è quindi l’importanza della selezione naturale».

Punto due.

«Fisica e chimica ci dicono che i principi di autorganizzazione comuni a tante specie non hanno niente a che fare con la selezione naturale. La legge di gravitazione, per esempio: è una legge della fisica. C’è una storiella che spiega bene l’atteggiamento dei neodarwiniani che non si arrendono. Il bambino chiede al babbo: come mai, quando li si lascia andare, gli oggetti cadono a terra? E il babbo neodarwiniano: perché quelli che tendevano a volare in alto sono stati persi dalla selezione naturale».

Punto tre.

«Due grandi evoluzionisti come Jay Gould e Richard Lewontin l’hanno chiarito da tempo: tratti tra loro molto diversi spesso si sviluppano insieme. Impossibile dire quale è stato selezionato e quale si è solo accompagnato».

Allora questa selezione naturale non spiega un bel niente?

«Attenzione: ogni anno ci dobbiamo rivaccinare perché i virus mutano, e mutano a loro vantaggio e non a nostro. La selezione naturale è una realtà: ma non è il motore delle specie nuove».

Riassunto: l’evoluzione è un dato di fatto, la selezione naturale esiste, ma non è il motore dell’evoluzione.

«Non è il motore della speciazione: della creazione di specie nuove. L’affinamento delle specie sì. La creazione di sottospecie sì. Gli unici esperimenti di evoluzione per selezione naturale hanno portato alla creazione di sottospecie. Da un tipo di moscerino della frutta viene creata la sottospecie di moscerini della frutta. Da un tipo di ranocchio un sottotipo. Ma sempre di ranocchie e moscerini si tratta».

Quindi la selezione naturale non spiega il principio ultimo?

«Non spiega l’evoluzione biologica. Non spiega la creazione delle specie. Noi usiamo una metafora: la selezione naturale è l’accordatore di pianoforti ma non il compositore di sinfonie».

Scusi, e il compositore chi sarebbe?

«Tanti. Via la selezione naturale non è che c’è un solo altro principio che lo sostituisce: i meccanismi sono molteplici».

E invece i neodarwiniani continuano ad applicare quel concetto onnicomprensivo al resto della scienza.

«Prenda la semantica. Daniel Dennett spiega il linguaggio con l’adattamento, i bisogni essenziali, la riproduzione, il cibo. Una balla enorme».

Richard Dawkins?

«The God Delusion è un libro infausto. Io sono ateo, integralmente ateo. Ma sbeffeggiare la religione nel nome di Darwin è una cosa infame».

E Steven Pinker?

«Il campione della psicologia neodarwiniana. Spiega tutto con i geni: dall’omicidio alla gelosia».

Professore, lei vive in America e sa bene che i giornali sono pieni di questo tipo di interpretazioni scientifiche. Così ci smonta tutto.

«Ma se io le offro una teoria neordarwiniana, che posso dire?, della omosessualità, è chiaro che il giorno dopo ho la prima pagina del New York Times. Se invece le dico, vattelapesca, fattori molteplici, eccetera, io non vado né in prima, né in seconda, né in trentesima pagina».

Che peccato.

«Altro caso famoso. Le violenze all’interno della coppia, delle famiglie. La violenze dei padri sulle figlie adottive. La storia darwiniana spiega tutto. Gene contro gene...».

E che cosa cambia quando spostiamo la selezione naturale dal piedistallo?

«Si reintroducono le scienze sociali: la filosofia, la filosofia del diritto, dell’estetica. Si reintroducono quei grandi temi che per fortuna non sono mai morti».

Non la perdoneranno mai.

«Le faccio già un nome. Giorgio Bertorelle è il presidente della Società italiana di Biologia evoluzionista. Qualche anno fa tentò di far firmare un manifesto agli scienziati di mezzo mondo. Contro di me. Arrivò al mio amico Richard Lewontin. E lui: ma siete completamente matti?».

Figuriamoci adesso che se la prende direttamente con Darwin.

«Un genio, per carità, e forse è un pochettino disonesto criticarlo così, dopo 150 anni. Ma in fondo lo diceva lui stesso che ci sono tante cose che la sua teoria non arrivava a spiegare».

Sta dicendo che a Darwin il suo libro sarebbe piaciuto?

«Beh, sicuramente lui avrebbe capito»."

A Piattelli Palamrini ha risposto puntualmente pochi giorni dopo, sempre su Repubblica,  Luigi Luca Cavalli-Sforza:

"Colleghi scienziati non sparate su Darwin  

Caro Massimo Piattelli Palmarini, leggo la tua intervista comparsa su Repubblica il 29 marzo e sono un po’ meravigliato, perché mi è difficile accettare varie tue affermazioni. Ti conosco come persona molto intelligente, e colta (ma forse meno sulla genetica, che è la mia materia).

Ci sono alcune tue affermazioni con le quali non posso andare d’accordo e mi sento in dovere di dirlo. Esempi: «i geni sono quasi sempre gli stessi da centinaia di milioni di anni» (una scoperta attribuita all’evo-devo). «La selezione non è il motore della speciazione, della creazione di specie nuove» e inoltre «Non spiega l’evoluzione biologica».

Devo aggiungere che la "sacra triade" che tu nomini: Daniel Dennett, Richard Dawkins, Steven Pinker non è affatto sacra, e sono d’accordo che può essere irritante. Si tratta di divulgatori più attivi di molti altri che hanno senza dubbio anche la tendenza a fare affermazioni estreme, un difetto che non è raro tra i divulgatori che vogliono, fortemente vogliono essere molto letti. Ma condannare Darwin così violentemente non è giusto. Posso condividere la tua irritazione per l’invasione della psicologia e sociologia da parte di quello che tu chiami neodarwinismo ma a me sembra vi sia una confusione.

Gli autori sono piuttosto responsabili di una valutazione grossolanamente erronea del contributo relativo di fattori genetici e ambientali alla determinazione dei comportamenti umani. Darwin non c’entra per niente; tutt’al più è stato molto moderno tentando di dare una spiegazione di come qualche comportamento appreso possa divenire biologicamente ereditario, un argomento tuttora aperto e considerato nella evo-devo. Comunque, la selezione naturale favorisce anche quegli adattamenti che non sono trasmessi geneticamente ma per via culturale.

E la difficoltà di accettare la tua critica come essa è formulata nella intervista è che l’unico fattore evolutivo che dirige l’evoluzione verso un maggiore adattamento all’ambiente, e pertanto favorisce la crescita numerica relativa di certi tipi genetici e certe specie, è proprio la selezione naturale. Non c’è biologia senza selezione naturale, non c’è evoluzione senza selezione naturale.

Il merito di aver capito che la forza di adattamento è più importante, e più necessaria per generare gli esseri viventi e la loro evoluzione non può essere negato a Darwin (e a Wallace, che ebbe la stessa idea allo stesso tempo).

Sono il primo a dire che vi sono altri fattori di evoluzione. Anzi, in uno studio del Dna di oltre cinquanta popolazioni umane aborigene pubblicato con altri colleghi nel 2005 (sulla rivista dell’Accademia Nazionale delle scienze Usa), abbiamo scritto che la selezione naturale è responsabile di meno del 20% delle differenze di Dna osservate fra le popolazioni della nostra specie. Degli altri fattori responsabili dell’80% o più, i più importanti sono il fatto che le mutazioni genetiche sono casuali (e non dirette necessariamente a migliorare l’adattamento); le migrazioni di tutti i tipi; e i fattori statistici che determinano variazioni di ordine casuale nelle frequenze dei tipi genetici e chiamiamo deriva genetica o drift. Ma nessuno di questi fattori sono quelli che strettamente dirigono l’adattamento all’ambiente di vita, anche se sono importanti nel determinare le variazioni fra specie (almeno a livello di Dna).

Per rendercene meglio conto è necessario chiarire quello che misuriamo quando parliamo di selezione naturale e quello che chiamiamo "adattamento" nell’evoluzione. Può sembrare automatico che un individuo forte, sano e resistente alle malattie sia più "adatto all’ambiente" di un tipo deboluccio e malaticcio. Ma sul piano evolutivo non basta, bisogna che possa avere dei figli; se è sterile il suo buon adattamento fisiologico e la muscolosità non gli permettono di contribuire alla prossima generazione. In realtà l’adattamento di un individuo (o specie) che conta nell’evoluzione è la capacità relativa di lasciare discendenti che portano i caratteri che lo rendono più "adatto all’ambiente" rispetto agli altri membri della popolazione.

La misura della "fitness darwiniana", cioè dell’adattamento dei tipi genetici che compongono una popolazione, permette di prevedere come essa evolverà in termini di aumento o diminuzione degli individui che la compongono a confronto con altre popolazioni e specie, ed anche in termini della sua struttura in termini di tipi genetici. La si calcola per intero in base a due misure di natura demografica: la probabilità di sopravvivere fino alle età di avere figli, e la fecondità che determina il numero di figli, cui trasmettere i caratteri ereditari che rendono l’individuo più adatto all’ambiente. Queste quantità si possono misurare, determinano la fitness dei tipi genetici, e in base ad essa si può calcolare la velocità dell’evoluzione di tipi genetici o di specie.

È difficile accettare altre affermazioni, quale quella che i geni sono quasi eguali in tutti gli organismi e non sono cambiati – nei quattro o cinque miliardi di anni della comparsa di esseri viventi. Tutti gli esseri viventi hanno Dna (e un altro acido nucleico chiamato Rna più antico ma molto simile al Dna) che è organizzato in "geni", segmenti di Dna ciascuno dei quali ha la capacità di generare una sostanza chimica complessa, una "proteina". Una proteina può avere funzioni meccaniche, o produrre energia, o effettuare una specifica trasformazione chimica necessarie per fare cibo partendo direttamente dalla materia inanimata che ci circonda, o mangiando altri esseri viventi. Tutto ciò sembrerà molto misterioso ma non lo è più.

Qualunque essere vivente è un organismo di qualche complessità, dai più semplici come i batteri a noi che siamo migliaia di volte più grossi in termini di Dna e impieghiamo molto più tempo a fare un individuo come noi, che ha una caratteristica unica: è un organismo complesso capace di produrre altri individui estremamente simili a sé stesso. Questa è l’auto-riproduzione, la proprietà che definisce la vita. Può farlo perché ha un programma molto dettagliato, il Dna, che contiene istruzioni specifiche per generare quanto è necessario, in pratica creare il macchinario fatto di Rna e proteine per creare cellule e individui nuovi. Questo macchinario genera tutte le proteine capaci di soddisfare ai numerosi compiti che permettono di mantenere e creare nuovi individui, alla stregua di operai specializzati ciascuno dei quali fa uno dei tanti mestieri necessari per generare e mantenere un essere vivente, compreso anche quello di fare copie del Dna che lo ha generato e passarle ai figli per generare altri individui come sé stesso.

Naturalmente organismi più complessi come noi o altri mammiferi abbiamo bisogno di fare molte più cose che i batteri, come mostra anche la differenza del numero di geni. Ma vi sono molte attività in comune, come quella fondamentale dell’auto-riproduzione, che richiede funzioni molto speciali e comuni a tutti gli essere viventi, come duplicare il Dna e fare le proteine. Non c’è perciò da stupirsi se molti geni sono comuni a batteri, animali e piante, almeno come funzione, e inevitabilmente non possono essere cambiati troppo grossolanamente nella loro struttura, almeno nelle parti fondamentali per la loro funzione, che ci permette di riconoscere la lontana origine comune.

Qui c’entra di nuovo la selezione naturale. Se consideriamo una particolare proteina molto importante, come ad esempio l’emoglobina, responsabile del colore rosso del nostro sangue, che esiste in moltissimi animali, è praticamente identica in quasi tutti gli individui, e molto simile in specie assai diverse. Perché si è conservata così bene? Perché è troppo importante: come tutte le proteine è fatta di molte unità, gli aminoacidi, quasi trecento nel caso dell’emoglobina. Ve ne sono molti in posizioni critiche: se cambiano per mutazione genetica, cioè un errore di copia nel produrre il Dna finito nello spermatozoo o nella cellula ovo che ha dato origine a un individuo, il portatore della mutazione nell’emoglobina può avere un’anemia grave, e quindi la mutazione viene eliminata (dalla selezione naturale) col suo portatore, che non potrà diffonderla specie se muore presto. La genetica medica ha scoperto moltissime malattie genetiche gravi, tutte rare o rarissime perché la selezione naturale ne mantiene bassa la frequenza. Il trenta percento circa degli aborti nei primi tre mesi sono dovuti a mutazioni gravi: non è vero che la selezione non fa nulla o quasi.

Quando conosceremo meglio il Dna degli scimpanzé e altri Primati potremo capire quali sono le mutazioni che sono state selezionate per darci la bipedalità, il linguaggio, e le altre differenze tra la nostra specie e le scimmie. Anche se Lewontin ha detto che l’acquisizione delle ali negli uccelli è probabilmente passata per uno stadio intermedio che non aveva rapporti con il volo non credo possa pensare che la selezione naturale ha poca, o addirittura nessuna importanza nel creare differenze tra specie. Ma ha pensato che l’idea che esista un fenomeno del genere fosse abbastanza interessante e comune da dargli un nome (exaptation). Comunque, sono altri fenomeni di selezione naturale molto importanti che hanno creato non una specie diversa, ma addirittura la classe degli "Uccelli".

Non vi sono studi su altre specie come il nostro citato sopra sull’effetto della selezione naturale nel creare differenze a livello di Dna popolazioni rappresentative della specie. Vi sono due ordini di motivi che fanno pensare che altre specie mostreranno assai maggiore diversità fra popolazioni. La prima è che la nostra dispersione sul globo a partire da una piccola popolazione dell’Africa orientale è stata particolarmente rapida (meno di 60.000 anni) e l’evoluzione biologica è molto lenta: non c’è stato il tempo di creare grandi differenze. La seconda è che la nostra specie non aspetta le mutazioni genetiche per adattarsi: si adatta per meccanismi culturali. Quando 30.000 anni fa i primi uomini moderni sono arrivati in regioni Siberiane molto fredde, non avevano bisogno di aspettare il molto tempo necessario per farsi ricrescere il pelo: avevano ago e filo, e si sono tagliati e cuciti pelli di animali per coprirsi dal freddo. E hanno costruito vari tipi di case con pareti spesse, molto resistenti al freddo. Questa è evoluzione culturale, e siamo la specie che l’ha usata di più ad adattarsi nel modo più rapido e soddisfacente per i nostri gusti.

Fenomeni simili avvengono anche in linguistica. I cambiamenti subiti dalle parole che vengono accettati e trasmessi sono come mutazioni genetiche. La maggioranza di questi cambiamenti sono anch’essi casuali ma qualche volta hanno vantaggi che fanno preferire la parola nuova a quella vecchia, per esempio perché è più breve, semplice o chiara. C’è un esempio di mutazione linguistica dovuta a un errore casuale che sembra addirittura vantaggiosa: un errore di stampa in una poesia di Ronsard ha migliorato la qualità poetica di un verso. Nella poesia per la morte di una bambina appena nata, figlia di un amico, di nome Roselle, nella stampa è stata sostituita la parola Roselle come segue: «et, rose, elle a vécu comme vivent les roses, l’espace d’un matin».

Ci sono poi parole come i cognomi che si trasmettono un po’ come cromosomi (letteralmente come il cromosoma Y che determina il sesso maschile). Il cognome Piattelli Palmarini è un po’ lungo e può essere che qualcuno dei tuoi discendenti decida di semplificarlo in Piattelli, e come tale sarà ereditato (in biologia questo tipo di mutazione si chiama delezione). Se il discendente è proprio deciso può iniziare la lunga procedura burocratica che lo rende legale. Dopo molte generazioni potrebbe restare solo la forma semplificata. Anche a me, naturalmente, potrebbe succedere lo stesso."

Dopo Cavalli-Sforza, è intervenuto anche, su il Sole 24 ORE del 4 aprile 2010, Guido Barbujani con toni molto meno diplomatici:

"Due idee stanno al centro dell'opera di Charles Darwin, elaborate e scrupolosamente documentate nel corso di una vita. Primo, specie diverse discendono, con modifiche, da antenati comuni. Secondo, queste modifiche dipendono soprattutto dalla selezione naturale: le caratteristiche ereditarie vantaggiose si diffondono attraverso le generazioni perché, in media, chi le ha lascia più figli di chi non le ha. E così che si sono evoluti il nostro cervello grande e il pollice opponibile. Da tempo si è capito anche che la selezione migliora, ma non rende perfetti. E per questo che nella nostra specie il mal di schiena è comune, e partorire è complicato.

Nessuna di queste idee è tutta farina del sacco darwiniano, e non c'è da stupirsene. Nei fumetti capita che ad Archimede Pitagorico si accenda in testa una lampadina, ma la scienza procede per gradi. All'idea della comune origine dei viventi c'era arrivato anche Lamarck; il concetto di selezione naturale e le sue prove empiriche devono molto al contributo di un altro naturalista, Alfred Wallace.

Col libro Gli errori di Darwin,tradotto da Feltrinelli dopo essere stato stroncato dalla stampa specializzata al suo apparire negli Usa (per esempio, dalla rivista «Nature»: http://www. nature.com/nature/journal/v464/n7287/ full/464353a.html), JerryFodor e Massimo Piattelli Palmarini, filosofo il primo, psicologo cognitivo il secondo, cercano a modo loro di contribuire a questo dibattito. Ridotta all'osso, la loro tesi è la seguente: (a) Darwin vedeva tutto come prodotto della selezione; (b) la biologia evoluzionistica è darwiniana e dunque descrive tutto come prodotto della selezione; (c) psicologi, linguisti ed economisti pescano a piene mani da questa tradizione di pensiero ipersemplificato; (d) nuove conoscenze mettono in crisi le antiche certezze; (e) i biologi lo sanno benissimo ma non lo ammettono perché nel frattempo Darwin è diventato un totem impossibile da criticare. Se i biologi hanno cambiato il darwinismo in molti modi, concludono i due autori, ora bisogna rovesciarlo.

Novant'anni fa queste tesi avrebbero avuto qualche interesse. Da allora, però, si sono fatti parecchi passi avanti, apparentemente all'insaputa di Fodor e Piattelli Palmarini. Solo sul punto (c) si può essere d'accordo: dal darvinismo sociale in poi, chi ha cercato di mutuare metodi e concetti del pensiero evoluzionista ha spesso prodotto modelli deterministici e scientificamente fragili, come quelli di Skinner, contro cui Fodor e Piattelli Palmarini giustamente polemizzano. Il fatto è che, prima di applicare il metodo evoluzionista a problemi di altra natura, bisogna aver capito bene di cosa si parla. Purtroppo,non è dal pulpito di Fodor e Piattelli Palmarini che può venire una predica in questo senso.

Stupisce, in effetti, quanto poco gli autori di questo libro si siano sentiti in dovere di documentarsi. A parte gli strafalcioni (il 45% dei nostri geni ci deriva per trasferimento orizzontale da altre specie? E chi l'ha detto?), Darwin stesso aveva chiarito che attribuire alla selezione ogni cambiamento nei viventi significa travisare il suo pensiero. Era un pluralista, sapeva che per fenomeni molto complessi non esistono spiegazioni semplici. Ai primi del Novecento, la cosiddetta Nuova Sintesi riconcilia, dopo aspri dissensi, l'evoluzione con la nuova scienza della genetica, ma il dibattito continua e l'evoluzionismo continua a evolversi.

Sewal Wright comprende come la deriva genetica cioè la trasmissione dei geni in popolazioni piccole, introduca nell'evoluzione una componente casuale. Negli anni Settanta, Motoo Kimura propone un'alternativa ancora più drastica: la selezione elimina ciò che non funziona, ma sono deriva genetica e mutazione a determinare le differenze fra individui e popolazioni. Da allora sono emersi modelli ancora più sofisticati, in cui interagiscono selezione naturale, fenomeni casuali e meccanismi interni alla cellula.

Di questo dibattito non resta traccia nel libro, di Kimura non si fa parola. E come una storia del cinema in cui l'ultimo film recensito fosse La corazzata Potemkin, e sui novant'anni successivi si trovassero solo generiche affermazioni di filosofi della cinepresa.

L'origine delle specie è stato scritto 150 anni fa; Darwin aveva a disposizione forse un milionesimo dei dati scaricabili oggi da internet. L'evoluzionismo moderno si basa su Darwin, ma lo rilegge alla luce della genetica, della biologia molecolare e della biologia dello sviluppo. Si è fatta molta strada, e quando Fodor e Piattelli Palmarini troveranno il tempo di informarsi, per esempio leggendo il capitolo "What not to expect of natural selection and adaptation" del bellissimo Evolution di Doug Futuyma (Sinauer 2009) scopriranno cose che manco s'immaginano. Forse si renderanno anche conto che la loro polemica contro l'ortodossia darwiniana è inutile. La Michelin produce pneumatici tondi non perché stia aggrappata come una cozza al vecchio modo di pensare, ma perché pneumatici quadrati sono peggio di quelli tondi. Allo stesso modo, gli evoluzionisti si tengono Darwin, non perché criticarlo è tabù (il che dispiacerebbe per primo all'interessato, spirito critico quanto pochi altri), ma perché, finora, le sue idee hanno dimostrato di funzionare meglio di ogni alternativa.

Leggo che Fodor si sia vantato di poter scrivere un libro su Hume senza sapere niente di lui, e questo forse spiega molte cose. Nessun pregiudizio contro filosofi e psicologi, per l'amor di Dio, ma se il dentista che si sporge sulle vostre fauci spalancate vi confessasse che è laureato in psicologia, non gli strappereste il trapano di mano in attesa di chiarire da dove vengano le sue competenze odontoiatriche? Da qui, un suggerimento che potrebbe consentire a Fodor e Piattelli Palmarini di formulare, in futuro, una proposta più credibile: studiate; documentatevi; se volete criticare le teorie evoluzionistiche, accomodatevi: ma prima dimostrateci che ne comprendete il significato."

Oltre che dalla prestigiosa rivista Nature, il saggio di Piattelli Palmarini e Fodor è stato stroncato da gran parte dei biologi evoluzionisti. Com'era prevedibile, esso è stato invece immediatamente apprezzato e strumentalizzato dai Creazionisti e dai sostenitori dell'ipotesi dell'Intelligent Disegn.

Gli autori, insomma, hanno fatto un buco nell'acqua, per quanto ideologicamente pericoloso.

Trattandosi di due studiosi seri e prestigiosi, c'è da chiedersi cosa, al di là della dichiarata avversione per la "sacra triade", possa averli spinti ad imbarcarsi in un'impresa che, come essi stessi dichiarano, è costata tre anni di duro lavoro.

6.

Per rispondere a questa domanda, non si può prescindere dal fatto sia Piattelli Palmarini che Fodor sono cognitivisti, avversi al comportamentismo (che viene duramente criticato nel saggio), e convinti che la mente è un apparato strutturato da moduli (di carattere innato) che impone le sue leggi, i suoi vincoli alle informazioni che attinge dal mondo esterno.

Ma in quale misura la loro fede nel cognitivismo può entrarci con la critica della teoria della selezione naturale?

Il nesso si coglie immediatamente tenendo conto del fatto che quella critica si fonda su di un'accezione sostanzialmente errata del termine selezione. Selezione significa scelta. Operarla implica un potere decisionale che si realizza sulla base di valutazioni mentali.

E' fuori di dubbio che, estendendo alla Natura il principio seguito dagli allevatori di animali, Darwin è caduto nella trappola dell'antropomorfismo linguistico.

La selezione naturale, però, non implica alcuna scelta in senso proprio. La natura offre agli organismi la possibilità di sperimentare se stessi e, semplicemente, prende atto che alcuni sopravvivono e si riproducono, mentre altri no. Nella misura in cui alcuni organismi sopravvivono e si riproducono, c'è da pensare che essi abbiano capacità adattive in rapporto a quel determinato ambiente rispetto a quelli che non sopravvivono.

La natura non distingue tra tratti fenotipici adattivi e free rider perché non ne ha alcun bisogno, e non potrebbe farlo perché non dispone di competenze mentali.

Questa distinzione, casomai, compete agli scienziati.

Estendere il principio che sottende il rapporto della mente umana con la realtà a tutti gli organismi biologici, attribuendo ad essi vincoli interni omologabili a quelli che valgono per la prima: questo, a mio avviso, è l'errore concettuale di fondo di Piattelli Palmarini e di Fodor.

Errore, peraltro, denso di conseguenze, perché, negando alla natura la capacità di distinguere tra tratti fenotipici adattivi e free rider (capacità che essa manifestamente non ha né può avere), il problema dell'adattamento viene ricondotto ai vincoli interni, alle regolazioni genetiche e a misteriosi leggi fisico-chimiche, vale a dire alla complessità e all'auto-organizzazione della materia. Questa attribuzione, però, è estremamente pericolosa perché essa fa capo ai principi fondamentali dell'Intelligent Design. Contestare che la Natura possa agire scelte intenzionali è, più che legittimo, obbligatorio. Correre il rischio di dover fare implicitamente riferimento ad una qualsivoglia Intelligenza sottesa all'auto-organizzazione della materia sembra del tutto ingiustificato.

Rimane da fare solo un'ulteriore riflessione. In tutto il saggio di Piattelli Palmarini e Fodor non si fa alcun riferimento all'uomo. I problemi irrisolti dell'evoluzionismo di fatto si addensano proprio sulla comparsa della nostra specie.

E' ovvio che l'uomo appartiene al regno animale. Al tempo stesso, però, la sua comparsa, con caratteristiche oltremodo singolari (la neotenia, l'estremo ritardo nello sviluppo, una ricchissima dotazione emozionale, la plasticità intellettiva, il linguaggio, ecc.), contrassegna anche una rilevante discontinuità. Questo problema era ben presente a Gould, che non per caso riteneva che il concetto di exaptation trovasse una delle sue più brillanti applicazioni nell'uomo - animale frutto di processi adattivi ed exattativi.

Tutte le polemiche sull'evoluzionismo vertono, in ultima analisi, sulla comparsa della specie umana. E' su questo "mistero", sul quale si sa per certo solo che l'uomo discende dagli altri animali, che vale la pena riflettere.