Matt Ridley

Il gene agile

ADELPHI Milano 2005

1.

Più volte ho affermato che la scienza ormai, al di là delle applicazioni tecniche che, nel bene e nel male, stanno cambiando il mondo, ha raggiunto uno statuto che implica una straordinaria densità filosofica. Non è certo una novità. Espressione di una passione conoscitiva radicalmente umana, la Scienza è nata sulla base della contestazione del sapere tradizionale (religione, filosofia) e del senso comune. Da Galilei a Darwin e a Freud (che non si può considerare in senso stretto uno scienziato, ma applicava all’oggetto dei suoi studi uno spirito scientifico), si sono succedute rivoluzioni epistemologiche che hanno radicalmente cambiato la visione del mondo degli esseri umani, e i cui sviluppi sono ancora in atto.

In questa ottica, la biologia è una disciplina di frontiera. Essa persegue, infatti, l’intento di chiarire il mistero dell’origine della vita e di mettere a fuoco i meccanismi e le tappe della sua evoluzione. Inoltre si protende, non senza rischi, verso l’obiettivo di incidere sul corredo genetico per renderlo più adeguato ai bisogni umani. Infine, ed è la frontiera più recente, mira a penetrare i segreti del cervello umano.

A questo inquietante fervore, purtroppo, non corrisponde un’adeguata partecipazione collettiva. Le persone, in genere, sono interessate agli sviluppi tecnici della scienza, ma molto meno alla metodologia e all’epistemologia che consente di raggiungerli. La cultura media in Occidente continua ad essere gravemente carente sotto il profilo scientifico. Si legge poco, ma le preferenze di gran parte dei lettori vanno ancora oggi ai romanzi, ai thriller, alla saggistica psicologica che pretende di insegnare a vivere bene, alla culinaria, ecc. Il lettore medio occidentale, anche colto, reagisce con disagio quando si trova di fronte ad una formula matematica o ad un ragionamento portato avanti sulla base di dati forniti dalla ricerca scientifica.

Ben vengano, dunque, i saggi divulgativi nell’attesa che la riforma della scuola e l’integrazione tra sapere umanistico e sapere scientifico possa mettere i cittadini in grado di disporre di strumenti adeguati per partecipare con una qualche consapevolezza all’avventura umana, che è un’incessante ricerca sul senso dell’essere e dell’esserci.

Matt Ridley ha avuto un notevole coraggio nell’affidare alla stampa un volume di 400 pagine scritto con mano felice, ma denso di dati, di concetti e di termini complessi. Per accattivarsi il lettore, ha scelto un’éscamotage suggestivo. Immagina una fotografia montata in maniera tale da raccogliere dodici personaggi che hanno contribuito a sondare i rapporti tra natura e cultura (Sigmund Freud, Franz Boas, John Watson, William James, Jean Piaget, Konrad Lorenz, Emile Durkheim, Hugo de Vries, Ivan Pavlov, Charles Darwin, Francis Galton, Emil Kraepelin) e affronta i loro diversi punti di vista in un dialogo ideale a distanza. La scelta dei personaggi è ovviamente arbitraria e, almeno per due di essi – Hugo de Vries, che tentò di far passare come propri i risultati conseguiti da Gregorio Mendel - ed Emil Kraepelin - che fondò la psichiatria nosografica – contestabile.

L’artificio, però, permette all’autore di affrontare l’annoso problema dell’interazione tra natura e cultura da vari punti di vista. Tale problema, di fatto, è stato un nodo cruciale nel dibattito scientifico, che ha visto la contrapposizione frontale tra innatisti o deterministi genetici e empiristi o deterministi ambientali (nature versus nurture), che ha assunto in alcuni periodi il tono di una guerra di religione. Oggi quasi nessun genetista ignora l’ambiente e nessun ambientalista pone tra parentesi la biologia. Si tratta però di un compromesso formale, al di sotto del quale la tensione persiste perché innatismo e ambientalismo continuano a tirare l’acqua al proprio mulino.

Matt Ridley intende superare dialetticamente il conflitto tra nature e nurture sulla base di una nuova formula (nature via nurture) che assegna ai geni il ruolo di agenti aperti alle influenze ambientali, la cui attivazione e disattivazione consentono plasticità e apprendimento.

Egli scrive nel Prologo:

“Voglio mettere subito le carte in tavola. Io sono convinto che il comportamento umano debba essere spiegato invocando entrambe le influenze: non intendo sostenere una delle due a scapito dell'altra. Ciò non significa, però, che io stia abbracciando una posizione di compromesso «a metà strada»…

Intendo invece dimostrare che la conoscenza del genoma ha effettivamente cambiato tutto. Non lo ha fatto mettendo definitivamente una pietra sopra le polemiche o conquistando la vittoria per l'uno o l'altro dei due schieramenti, ma arricchendo i termini della disputa su entrambi i fronti, fino a farli incontrare nel mezzo. La scoperta dei reali meccanismi grazie ai quali i geni influenzano il comportamento umano, e di come il comportamento umano influenzi a sua volta i geni, ci costringe a reimpostare il dibattito in chiave del tutto nuova. Non si tratta più di contrapporre eredità e ambiente - non più nature versus nurture -, ma di considerare invece come la prima si esprima attraverso il secondo: nature via nurture. I geni sono fatti per raccogliere i suggerimenti dell'ambiente. Per comprendere che cosa sia accaduto nell'arena del dibattito, dovremo […] entrare in un mondo nel quale i geni non sono burattinai che muovono i fili del nostro comportamento, ma piuttosto burattini alla mercé di quel comportamento; un mondo in cui l'istinto non è opposto all'apprendimento e a volte le influenze ambientali sono meno reversibili di quelle genetiche; ancora, un mondo dove la «natura» incontra l'ambiente, l'esperienza e la cultura.

Per la prima volta, nella scienza, queste affermazioni a buon mercato, apparentemente vuote, stanno prendendo vita. Voglio raccontare storie bizzarre che originano dai recessi più profondi del genoma per dimostrare come il cervello umano sia davvero fatto per l'esperienza. Essenzialmente, la mia tesi è questa: più solleviamo il velo che copre il genoma, più i geni ci appaiono vulnerabili all'esperienza.” (p. 16-17)

“Sono i geni che mettono la mente umana in condizioni di apprendere, ricordare, imitare, «imprintarsi», assorbire cultura ed esprimere istinti. I geni non sono burattinai - e nemmeno progetti. Né sono semplicemente i veicoli dell'informazione ereditaria. Essi sono attivi durante la vita; si attivano e disattivano reciprocamente; reagiscono all'ambiente. Possono dirigere la formazione del corpo in generale e del cervello in particolare già nel grembo materno; poi, però, in risposta all'esperienza, si accingono quasi immediatamente a smantellare e ricostruire quanto hanno appena edificato. I geni sono al tempo stesso causa e conseguenza delle nostre azioni. In qualche modo, coloro che nella controversia sono a favore dell'influenza dell'ambiente, si sono fatti scioccamente spaventare dal potere e dall'inevitabilità dei geni, lasciandosi sfuggire la cosa più importante, e cioè che anch'essi, i geni, sono schierati dalla loro parte.” (p. 21)

Il problema, ovviamente, non sta tanto nel riconoscere che l’uomo è figlio dei suoi geni come dell’ambiente culturale, quanto piuttosto nel quantificare le influenze degli uni e dell’altro. Già complesso a livello di organizzazione biologica, tale problema raggiunge il suo acme quando ci si trasferisce sul terreno della personalità, del comportamento, della malattia mentale.

Matt Ridley riconosce che i limiti della scienza sono attualmente ancora tali da non poter sciogliere tutti i nodi. Egli però li affronta con un piglio in alcuni momenti francamente temerario, ma nel complesso equilibrato, al fine di illuminare le possibili vie attraverso cui se ne potrà venire a capo.

Data la mole del libro, e la densità dei dati che vengono in esso esposti e discussi, penso che la cosa migliore sia estrapolare alcune tematiche di particolare interesse. Mettendole a fuoco, risulterà anche la ricchezza concettuale della genetica e la sua capacità di promuovere riflessioni sull’umano di grande spessore filosofico.

2.

Il primo nodo ovviamente riguarda la discendenza dell’uomo dai primati e il significato di tale “parentela”. In quale misura essa, poco contestabile sotto il profilo dell’organismo biologico, riguarda anche la struttura cerebrale e le funzioni mentali?

Occorre naturalmente partire da Darwin, che per primo si è posto ed ha affrontato tale problema:

“Fu Darwin […] a cambiare il modo in cui gli esseri umani considerano la propria natura e riuscì ad assistere a tale cambiamento nell'arco della sua vita: le persone istruite, infatti, finirono per accettare l'idea che il corpo degli esseri umani fosse semplicemente quello di un'altra antropomorfa modificatasi a partire da un antenato comune.

Darwin ebbe tuttavia meno successo quando cercò di persuadere i suoi contemporanei che lo stesso ragionamento poteva applicarsi anche alla mente. Nella sua concezione - che si mantenne coerente a partire dai primi taccuini, scritti dopo aver letto il Trattato sulla natura umana di David Hume, fino all'ultimo scritto sui lombrichi - Darwin ravvisava una somiglianza, più che una differenza, fra il comportamento dell'uomo e quello degli animali. […] Continuò a riflettere sulle origini evolutive di emozioni, gesti, motivazioni e abitudini umani, e sui loro possibili paralleli nel mondo animale. Dichiarò a chiare lettere che l'evoluzione era necessaria per la mente non meno che per il corpo.

Su questo fronte, però, Darwin fu abbandonato da molti dei suoi sostenitori. […].

Alfred Russel Wallace, per esempio, che aveva scoperto contemporaneamente a Darwin il principio della selezione naturale, sosteneva che la mente umana fosse troppo complessa per essere prodotta da quel meccanismo. Doveva trattarsi, invece, del risultato di un atto creativo soprannaturale.[…]

Oggi noi sappiamo che la premessa di Wallace era del tutto corretta, mentre quella di Darwin era sbagliata. La distanza fra il più « basso » livello umano e il più « alto » livello animale - quello cioè di una antropomorfa « superiore » - è enorme. Dal punto di vista della genealogia, noi esseri umani discendiamo tutti da un antenato comune molto recente vissuto solo centocinquantamila anni fa, mentre l'ultimo antenato comune fra uomo e scimpanzé visse almeno cinque milioni di anni orsono. Dal punto di vista genetico, le differenze tra un essere umano e uno scimpanzé sono almeno dieci volte tanto quelle tra i due esseri umani più diversi che si possano trovare. Tuttavia, la deduzione che Wallace fece a partire da questo assunto, e cioè che la mente umana richiedesse una spiegazione diversa da quella animale, non è giustificata. Il fatto che due animali siano diversi non significa che non possano anche essere simili.” (p. 26-28)

Darwin però non desistette:

“Nel 1871 [egli] stilò un elenco di peculiarità umane che si riteneva formassero una barriera invalicabile tra uomo e animali. Poi procedette a demolirle, una alla volta, sistematicamente. Sebbene egli pensasse che solo l'uomo avesse un senso morale completamente sviluppato, dedicò un intero capitolo alla tesi secondo la quale, sebbene in forma primitiva, esso sarebbe presente anche in altri animali. Le sue conclusioni erano severe e rigorose:

«Nondimeno, per quanto grande sia la differenza che passa fra la mente dell'uomo e quella degli animali più elevati, è differenza solo di grado e non di qualità. Abbiamo veduto che i sensi e le intuizioni, le varie emozioni e facoltà, come l'amore, la memoria, l'attenzione, la curiosità, l'imitazione, la ragione, eccetera, di cui l'uomo va altero, si possono trovare in una condizione incipiente, o talora anche bene sviluppata negli animali sottostanti » .

Ovunque si guardi, si riscontrano somiglianze tra il nostro comportamento e quello degli animali, somiglianze che non possiamo limitarci a nascondere sotto il tappeto cartesiano. Tuttavia, sarebbe aberrante sostenere che gli esseri umani non sono diversi dalle scimmie antropomorfe. La verità è che siamo diversi. Rispetto a qualsiasi altro animale, l'uomo ha una maggiore coscienza di sé, nonché una superiore capacità di agire intenzionalmente e di modificare l'ambiente. Tutto questo, per certi versi, ci distingue.” (p. 35-36)

Il dibattito avviatosi tra Darwin e Wallace si è ravvivato di recente in seguito alla scoperta dell’estrema somiglianza tra il corredo genetico umano e quello degli scimpanzè:

“La maggior parte delle stime collocano la somiglianza al 98,5 per cento, sebbene da due recenti studi dettagliati eseguiti sull'analisi reale di porzioni del genoma sia emerso un 98,786 per cento.” (p. 49)

“Per la scienza fu sconvolgente scoprire quanto fosse piccola la distanza genetica fra le due specie. King e Wilson scrissero: «La somiglianza molecolare fra esseri umani e scimpanzé è straordinaria se si pensa che per anatomia e stile di vita essi differiscono molto di più di numerose altre specie [strettamente imparentate]». Un colpo ancora più forte sarebbe arrivato nel 1984, quando Charles Sibley e Jon Ahlquist, di Yale, scoprirono che il DNA dello scimpanzé era più simile a quello umano che a quello del gorilla. Per l'Uomo, questo fu un momento di detronizzazione simile a quello in cui Copernico collocò la Terra nel sistema solare, alla stregua di qualsiasi altro pianeta: Sibley e Ahlquist avevano ora collocato la specie umana nella famiglia delle scimmie antropomorfe, alla stregua di qualsiasi altra antropomorfa.” (p. 49-50).

Il problema della distanza genetica tra uomo e scimpanzè non può prescindere da ciò che oggi si sa sulla funzione dei geni:

“Il genoma umano contiene circa tre miliardi di «lettere» di codice. In senso stretto, esse sono le basi azotate presenti nella molecola del DNA, ma poiché la natura dei prodotti cui esse danno luogo è determinata dal loro ordine e non dalle loro proprietà individuali, possiamo trattarle come informazione digitale. La differenza fra due esseri umani ammonta, in media, allo 0,1 per cento: pertanto, fra me e il mio vicino di casa vi sono tre milioni di lettere diverse. La differenza fra un essere umano e uno scimpanzé è di circa quindici volte maggiore, ovvero dell'1,5 per cento. Ciò equivale a quarantacinque milioni di lettere di codice diverse - dieci volte il numero di caratteri contenuti nella Bibbia o in settantacinque libri della lunghezza di questo che avete in mano. In altre parole un libro che contenesse le differenze digitali fra le due specie - solo testo senza note - riempirebbe tre metri di libreria (quanto agli scaffali contenenti le somiglianze, si estenderebbero invece per ben duecentocinquanta metri).

Consideriamo la cosa da un'altra prospettiva. Oggi gli scienziati calcolano che i geni umani siano circa venticinquemila. In altre parole, dispersi nel nostro genoma ci sono venticinquemila porzioni distinte di informazione digitale che vengono direttamente tradotte per sintetizzare il macchinario proteico indispensabile alla costruzione e al funzionamento dell'organismo: il gene è, insomma, la ricetta di una proteina. Quasi sicuramente, gli scimpanzé hanno pressappoco il nostro stesso numero di geni. Poiché l'1,5 per cento di 25000 è 375, sembra derivarne che l'uomo possiede 375 geni differenti, unicamente umani. Non è un così gran numero. Gli altri 24 625 geni sarebbero identici, negli esseri umani e negli scimpanzé. In realtà, però, questo scenario è estremamente improbabile. Può darsi invece che ogni singolo gene umano sia diverso da ogni singolo gene di scimpanzé, e che in ogni gene tale differenza testuale ammonti solo all'I,5 per cento. La verità deve trovarsi da qualche parte, fra queste due ipotesi. Presumibilmente, in specie strettamente imparentate molti geni saranno identici; molti altri presenteranno leggere differenze. Pochissimi saranno completamente diversi.” (p. 51)

“Moltissimi geni non vengono attivati finché diversi loro promotori non si sono legati ai rispettivi fattori di trascrizione. Ogni fattore di trascrizione è, a sua volta, il prodotto di un gene che si trova da qualche altra parte nel genoma. La funzione di molti geni è dunque quella di contribuire ad attivare o disattivare altri geni. E la suscettibilità di un gene a essere attivato o disattivato dipende dalla sensibilità dei suoi promotori. Se i suoi promotori si sono spostati, e la loro sequenza è cambiata, così che i fattori di trascrizione li trovano più facilmente, il gene potrà essere più attivo. In altri casi, invece, se il cambiamento è tale che i promotori attraggono i fattori che bloccano la trascrizione invece di quelli che la promuovono, il gene sarà meno attivo.

Leggeri cambiamenti del promotore possono quindi esercitare effetti sottili sull'espressione del gene. Forse, più che a degli interruttori i promotori somigliano a termostati. E qui, a livello dei promotori, che gli scienziati si aspettano di trovare la maggior parte dei cambiamenti evolutivi verificatisi negli animali e nelle piante - in netto contrasto con i batteri…

Il bello di questo sistema è che lo stesso gene può essere riutilizzato in tempi e luoghi diversi semplicemente collocando accanto a esso un diverso corredo di promotori.” (p. 61)

“Per apportare modifiche anche radicali al piano corporeo degli animali non c'è alcun bisogno di inventare nuovi geni, proprio come non c'è alcun bisogno di inventare nuove parole per scrivere un romanzo originale (a meno. di non chiamarsi Joyce). In realtà, basta attivare e disattivare sempre gli stessi geni in configurazioni diverse. All'improvviso, ecco un meccanismo per creare cambiamenti evolutivi grandi e piccoli partendo da piccole differenze genetiche. Limitandosi a correggere la sequenza di un promotore o ad aggiungerne uno nuovo, è possibile alterare l'espressione di un gene. E se quel gene codifica esso stesso un fattore di trascrizione, la sua espressione altererà quella di altri geni. Il minuscolo cambiamento di un promotore basterà a produrre, a livello di organismo, una cascata di differenze. Tali cambiamenti potrebbero essere sufficienti a creare una specie interamente nuova senza modificare affatto i geni in quanto tali.” (p. 62)

Quale insegnamento si ricava da queste considerazioni? Né più né meno che la natura è capace di cavar fuori la complessità dalla semplicità, vale a dire specie radicalmente diverse da un corredo genetico estremamente simile.

3.

Il secondo nodo, fondamentale per la panantropologia, riguarda l’influenza dei geni sulle dimensioni del cervello e del comportamento. Per illustrare questo aspetto, l’autore parte da lontano:

“I promotori si esprimono nella quarta dimensione: nel loro caso, la tempistica è tutto. La testa di uno scimpanzé è diversa da quella di un essere umano non tanto perché i progetti sono diversi, ma perché nello scimpanzé lo sviluppo delle mascelle prosegue più a lungo e il cranio si completa più rapidamente. La differenza sta tutta nei tempi.

Il processo della domesticazione, attraverso il quale il lupo ha dato origine al cane, illustra il ruolo dei promotori. Negli anni Sessanta, il genetista Dmitn Belyaev dirigeva un grande allevamento di animali da pelliccia vicino a Novosibirsk, in Siberia. Egli aveva osservato che le volpi - non importa quanto bene venissero trattate e da quante generazioni vivessero in cattività - erano invariabilmente creature schive e nervose (presumibilmente per ottimi motivi) e pensò allora di incrociare gli esemplari più docili. Cominciò allora a selezionare come riproduttori le volpi che si lasciavano avvicinare di più prima di fuggire. Dopo venticinque generazioni ottenne effettivamente volpi molto più mansuete che, lungi dal fuggire, si avvicinavano a lui spontaneamente. Le volpi del nuovo ceppo non solo si comportavano in modo simile ai cani, ma sembravano davvero cani: il mantello era pezzato, come quello dei collies, e la coda era arricciata all'insù; le femmine andavano in calore due volte all'anno, e avevano orecchie flosce, muso più corto e cervello più piccolo delle volpi selvatiche. Il fatto sorprendente era che, sebbene si fosse limitato a selezionare la docilità, Belyaev aveva accidentalmente ottenuto gli stessi caratteri a cui era pervenuto l'originario domesticatore del lupo - probabilmente una razza di lupo che aveva autoselezionato la capacità di non darsi troppo prontamente alla fuga, se disturbato, allontanandosi dai mucchi di rifiuti intorno agli antichi insediamenti umani. E ragionevole presumere che a carico di alcuni promotori si fossero verificate modificazioni tali da influenzare non uno, ma molti geni. E infatti evidente che in entrambi i casi aveva avuto luogo un'alterazione nella tempistica dello sviluppo, così che gli animali adulti conservavano molte delle caratteristiche, e dei comportamenti dei cuccioli: le orecchie flosce, il muso corto, il cranio più piccolo e il comportamento giocoso." (pp. 63-64)

Si tratta del fenomeno della neotenia, noto agli specialisti ma ben poco alla gente comune: un fenomeno che io ritengo essere una delle chiavi esplicative della nascita della specie umana con le sue particolari caratteristiche. Per apprezzarne appieno il significato occorre valorizzare la relazione tra il comportamento dell’animale e le caratteristiche anatomiche, compreso il cervello:

“Gli animali giovani non esibiscono ancora paura o aggressività, poiché questi comportamenti emergono in seguito, durante lo sviluppo del sistema limbico che si trova alla base del cervello. Pertanto, il modo migliore per ottenere un animale dall'indole amichevole e mansueta consiste nel bloccarne prematuramente lo sviluppo cerebrale. L'effetto sarà un cervello di dimensioni più piccole e soprattutto una riduzione dell' «area 13», una parte del sistema limbico che si sviluppa tardivamente e sembra avere la funzione di disinibire reazioni emozionali tipiche dell'adulto, quali la paura e l'aggressività. E particolarmente interessante osservare che un tal processo di domesticazione sembra essere avvenuto spontaneamente nei bonobo a partire dal momento in cui si separarono dagli scimpanzé, più di due milioni di anni or sono. In rapporto alle sue dimensioni corporee, il bonobo non solo ha la testa piccola, ma anche una minore aggressività, e conserva nell'età adulta diversi aspetti giovanili, compreso un ciuffo caudale bianco, vocalizzazioni acute e genitali femminili insoliti. I bonobo hanno inoltre un'area 13 insolitamente piccola."

Il linguaggio cifrato si chiarisce quando il concetto di neotenia si applica all’uomo. Lo stesso, infatti, “vale per gli esseri umani. Sorprendentemente, la documentazione fossile indica che negli ultimi quindicimila anni ha avuto luogo una riduzione molto drastica delle dimensioni del cervello: un fenomeno che riflette in parte, ma non completamente, la riduzione delle dimensioni corporee che sembra aver accompagnato la comparsa di insediamenti umani «civilizzati» e densamente popolati. Questo fenomeno fece seguito a diversi milioni di anni caratterizzati da un aumento più o meno costante delle dimensioni del cervello. Nel Mesolitico (circa cinquantamila anni fa) il cervello umano aveva un volume medio di 1468 cc (nelle femmine) e di 1567 cc (nei maschi). Oggi quei valori si sono rispettivamente assestati su 1210 e 1248 cc: anche tenendo conto di una certa diminuzione del peso corporeo, sembra trattarsi di una netta riduzione. Forse, in tempi recenti, c'è stata una domesticazione della nostra specie…

Nella nostra specie, d'altra parte, sembra che questa autodomesticazione sia stata un fenomeno recente, che quindi non può spiegare le pressioni selettive responsabili della divergenza degli esseri umani da antenati simili agli scimpanzé, avvenuta più di cinque milioni di anni fa. Essa però conferma l'idea secondo la quale l'evoluzione avverrebbe con la modificazione dei promotori dei geni, più che dei geni stessi: da qui deriverebbe l'alterazione
di diversi caratteri irrilevanti, nella scia della riduzione dell'aggressività impulsiva." (p. 64-65)

Nel passaggio all’uomo i geni promotori hanno funzionato incrementando la neotenia, presumibilmente attraverso la selezione di soggetti caratterialmente pedomorfi, che mantenevano da adulti una dimensione emozionale in qualche misura da cuccioli.

L’uomo ha seguito le tracce della natura addomesticando gli animali, ma ciò è avvenuto perché egli aveva bisogno di servirsene per la caccia, per procurarsi più facilmente cibo, per farli “lavorare” al suo posto, ecc.

Come spiegare la domesticazione della specie umana?

Matt Ridley, riprendendo un’ipotesi di Richard Wrangham, ritiene che si sia trattato di un processo di selezione culturale. Diventando sedentari e cominciando a vivere in insediamenti permanenti, le comunità umane avrebbero espulso o eliminati gli individui più antisociali o violenti.

L’ipotesi non è credibile, perché la nascita di insediamenti permanenti risale alla rivoluzione neolitica, vale a dire all’avvento dell’agricoltura e alla formazione dei primi nuclei urbani, avvenuti circa novemila anni a. C. La neotenizzazione della specie umana si è avviata invece cinquantamila anni fa.

C’è da considerare inoltre che, con la nascita degli insediamenti permanenti, è nata anche la casta dei guerrieri, nella quale sono confluiti individui non necessariamente antisociali ma sicuramente in grado di esercitare violenza, i quali dunque non erano stati eliminati dalla comunità.

Nella mia ottica, la neotenizzazione della specie umana rappresenta l’avvento dell’empatia che promuove rapporti di solidarietà almeno all’interno del gruppo di appartenenza e dà all’affettività un ruolo primario nella strutturazione dei rapporti interpersonali. Essa definisce un processo di “ingentilimento” della specie di enorme significato.

L’evoluzione della specie umana, comporterebbe, dunque, due fenomeni correlati: il pedomorfismo emozionale e lo sviluppo del lobo frontale. Nel complesso, questi due fenomeni, dovuti senz’altro ai geni, hanno determinato una capacità emozionale e una capacità cognitiva incommensurabili rispetto agli altri animali, aperte entrambe su di un registro indefinito.

E’ quando l’uomo si è ritrovato a poter usare tali capacità, si è posto il problema dell’uso da farne. L’uso che ne ha fatto, come noto, è riconducibile alla cultura, vale a dire alla strutturazione di un sistema sociale caratterizzato da regole, alla trasformazione dell’ambiente naturale al fine di adattarlo ai bisogni umani e all’esplorazione dell’universo dei simboli.

Da questo punto di vista, identificare nella specie umana una sfida evolutiva o, meglio, un azzardo non è affatto illecito.

4.

Dal momento in cui si avvia la cultura, il confine tra ciò che è innato e appreso diventa ambiguo. E’ su questa ambiguità che si è edificato il conflitto tra innatisti, che valorizzano il potere deterministico dei geni, ed empiristi, che danno maggior peso alle influenze ambientali.

E’ stato Galton a coniare “la famosa allitterazione nature and nurture scrivendo nel 1874:

“L’espressione “nature and nurture” è un comodo gioco di parole, poiché separa, collocandoli sotto due titoli distinti, gli infiniti elementi di cui si compone la personalità”” (p. 116)

Di Galton è anche l’intuizione che “i gemelli umani forniscono un bellissimo esperimento naturale per discriminare i contributi di eredità e ambiente.” (p. 122)

A quali conclusioni è arrivata la ricerca sui gemelli? Ridley ne offre questa sintesi:
“Nella società occidentale, quasi tutte le misure della personalità hanno dimostrato un'elevata ereditabilità: in altre parole, quando sono allevati separatamente, i gemelli monozigoti sono molto più simili dei gemelli dizigoti. La differenza fra un individuo e l'altro va dunque attribuita più alle differenze genetiche che a fattori riconducibili all'ambiente familiare.

Oggi gli psicologi definiscono la personalità servendosi di cinque dimensioni: i cosiddetti « cinque grandi fattori»: apertura mentale, coscienziosità, estroversione, amabilità e nevroticismo - in inglese openness, conscientiousness, extroversion, agreeableness e neuroticism, condensati nell'acronimo OCEAN. I questionari possono ricavare punteggi per ciascuna di tali dimensioni, che sembrano variare in modo indipendente. Un individuo può avere una mente aperta (O), essere pignolo (C), estroverso (E), invidioso (A) e tranquillo (N).

In ciascun caso, poco più del 40 per cento della variazione nella personalità è da ascriversi a fattori genetici diretti, meno del 10 per cento alle influenze ambientali condivise (principalmente alla famiglia) e circa il 25 per cento a influenze ambientali che rappresentano esperienze esclusive dell'individuo (comprendenti di tutto: dalle malattie e gli incidenti, alle compagnie frequentate a scuola). Il restante 25 per cento costituisce, semplicemente, l'errore di misura.

In un certo senso, questi studi sui gemelli hanno dimostrato che la parola «personalità » significa effettivamente qualcosa. Quando si descrive qualcuno dicendo che ha una certa personalità, si intende far riferimento a una particolare componente intrinseca della sua natura, che va oltre l'influenza delle altre persone - il contenuto del suo carattere, tanto per prendere a prestito un'espressione famosa. Per definizione, si intende qualcosa che è esclusiva di quell'individuo. D'altra parte, dopo un secolo di certezze freudiane, va contro alle normali aspettative scoprire quanto poco quel carattere intrinseco sia influenzato dalla famiglia in cui l'individuo è cresciuto." (p. 132)

La sintesi è corretta, le conclusioni meno. Gli studi sui gemelli attestano indubbiamente che il rapporto con l’ambiente non avviene su di un cervello che è una tabula rasa, bensì su di un organo che riconosce vincoli genetici. Tali vincoli però non possono essere intesi in senso deterministico, non fosse altro che per il fatto che essi incidono per il 40% sulla strutturazione della personalità. Occorre, dunque intenderli, come vincoli che definiscono un insieme definito di possibili sviluppi. E’ evidente che la fenotipizzazione all’interno di tale insieme dipende dall’ambiente.

Per quanto riguarda poi la famiglia, Ridley trascura che la sua influenza sull’evoluzione e la strutturazione della personalità è attestata da troppi dati per poter essere smentita dalla genetica. Come è possibile interpretare i dati forniti dalla psicologia evolutiva e dalla psicoanalisi con quelli prodotti dalla genetica. Penso che la cosa non sia impossibile, se si tiene conto dei vincoli genetici di cui s’è parlato.

L’influenza della famiglia non va ricondotta al fatto che essa determina il carattere di una persona, bensì alla sua capacità di selezionare e fare sviluppare alcuni aspetti del carattere che sono intrinseci al corredo genetico individuale. Da questo punto che i tratti di carattere siano da ricondurre per il 40% a fattori genetici è ammissibile e non sorprende. C’è da chiedersi però cosa avviene allorché la famiglia tenta inconsapevolmente di seleziona aspetti del carattere che sono al di fuori dei vincoli genetici o, pur essendo intrinseci ad essi, sono molto meno rilevanti di altri vissuti visceralmente come vocazionali.

In questo caso è chiaro che l’influenza del 10% può creare rilevanti problemi per cui il carattere di base deve fare i conti con una serie di conflitti che inducono distorsioni e nevrotizzazioni.

Ciò che si fenotipizza a livello di carattere adulto è dunque espressivo del corredo genetico ma anche delle influenze ambientali. Il problema è che se queste sono negative, la fenotipizzazione fa affiorare sviluppi negativi e disfunzionali del corredo genetico.

E’ evidente l’importanza che questo aspetto assume per quanto concerne l’introversione e la psicopatologia. Considerando che l’introversione, che spesso ha sviluppi di tipo psicopatologico, è all’estremo dello spettro di distribuzione tra componenti introverse ed estroverse, ad essa sembra facilmente riferibile una considerazione che Ridley enuncia:

“Nel gergo degli scienziati, l'effetto dell'ambiente è non-lineare: in altre parole, l'ambiente ha effetti drastici nelle regioni estreme della curva. D'altra parte, un leggero cambiamento ambientale produrrà effetti trascurabili nella regione centrale della curva, cioè in quella che descrive condizioni moderate.” (p. 145)

E’ il problema della varietà dei corredi genetici che va riconsiderata, tanto più se essa si configura ancora oggi come un mistero per i genetisti:

“La principale conclusione della genetica comportamentale è estremamente inattesa: essa ci dice che la biologia ha un ruolo importante nel determinare la personalità, l'intelligenza e la salute - in altre parole, i geni contano. Non dice, invece, che essa esercita questo ruolo a spese dell'ambiente. Se non altro, dimostra in modo decisamente impressionante che l'ambiente conta quanto i geni, sebbene si riveli inevitabilmente meno incisiva nel discernere come (non esiste, infatti, un equivalente ambientale dell'esperimento naturale creato dai gemelli identici e fraterni). Su un punto importante, Galton aveva completamente torto: i geni non prevalgono sull'ambiente; le due influenze non sono in competizione, non sono rivali; non c'è alcuna contrapposizione nature versus nurture.” (p. 147)

“La genetica comportamentale rivela molto chiaramente che esistono differenze genetiche comuni, le quali influenzano la nostra personalità all'interno delle esperienze umane normali...

Queste mutazioni non sono rare; sono comuni...

Dal punto di vista del biologo evoluzionista questo è uno scandalo. Perché mai esiste una tale variazione genetica « normale » - o per chiamarlo col suo vero nome, un tale polimorfismo? Di certo le varianti genetiche « intelligenti » dovrebbero a poco a poco condurre all'estinzione quelle « stupide », e le varianti « flemmatiche » dovrebbero avere lo stesso effetto su quelle «eccitabili». E inevitabile che uno dei due tipi sia superiore all'altro in termini di sopravvivenza o successo riproduttivo. Il possesso di una delle due varianti, pertanto, dovrebbe conferire una maggior capacità di diventare un riproduttore fecondo. D'altra parte, non esiste alcuna prova del fatto che i geni si estinguano in questo modo. Nella popolazione umana, sembra esserci una sorta di felice coesistenza fra le diverse versioni dei geni.

In modo alquanto enigmatico, nella popolazione umana esiste una variazione maggiore di quella che la scienza avrebbe ragione di aspettarsi. Come ricorderete, la genetica comportamentale non scopre che cosa determini il comportamento, ma punta il dito su ciò che varia. La risposta è che a variare sono i geni. Contrariamente all'opinione comune, la maggior parte degli scienziati ama gli enigmi. Il loro lavoro consiste nel trovare nuovi misteri, e non nella catalogazione di dati. Chi lavora in un laboratorio, con un camice bianco addosso, vive nella tenue speranza di imbattersi in un enigma o un paradosso affascinante. E questo è uno di quelli davvero belli.

Esistono moltissime teorie per spiegare l'enigma, sebbene nessuna di esse sia del tutto soddisfacente. Forse, noi esseri umani abbiamo a tal punto smorzato la pressione della selezione naturale, resistendole con l'aiuto della tecnologia, che le nostre mutazioni hanno potuto proliferare. Ma allora perché quella stessa variazione è presente anche negli altri animali? Forse esiste una delicata forma di selezione equilibratrice che favorisce sempre le varianti rare dei geni, impedendone così l'estinzione. Di sicuro quest'idea sembra spiegare la variabilità riscontrata nel sistema immunitario, poiché le malattie favoriscono rare versioni dei geni aggredendo quelli più comuni; tuttavia, non è immediatamente ovvio perché dovrebbe perseverare un polimorfismo a livello di personalità.” (pp. 148-150)

La risposta più semplice, peraltro in parte scientifica in parte filosofica, è che, a differenza di altri animali, il progetto-uomo è ancora del tutto aperto e forse non si può ricondurre all’ideologia adattamentista: essa comporta anche potenzialità cerebrali exattate (nel gergo di Gould) delle quali l’uomo sta ancora cercando di capire cosa fare.

5.

Alla psicopatologia, e in particolare al mistero della schizofrenia, è dedicato l’intero capitolo 4, che merita una citazione quasi integrale:

“Quando la psichiatria era una scienza ancora agli albori, prima ancora di Sigmund Freud il suo protagonista fu Emil Kraepelin. Nato nel 1856, Kraepelin si specializzò in psichiatria a Monaco verso la fine degli anni Settanta, senza peraltro trovare gratificante l'esperienza. Poiché aveva problemi di vista, detestava cavarsi gli occhi al microscopio, a osservare sezioni istologiche di cervello. A quell'epoca, la psichiatria - che era una specialità tedesca - fondava le proprie basi sull'idea che le cause della malattia mentale sarebbero state scoperte studiando il cervello. Se la mente era prodotta da quest'ultimo, ne seguiva che i disturbi mentali potevano essere ricondotti ai cattivo funzionamento di alcune parti di esso, proprio come una cardiopatia era causata da parti del cuore difettose. Gli psichiatri si accingevano a diventare come cardiochirurghi, impegnati a diagnosticare e curare difetti fisici.

Kraepelin ribaltò questo ragionamento. Dopo un periodo di nomadismo accademico, si stabilì a Heidelberg e si fece pioniere di un nuovo metodo di classificazione dei pazienti psichiatrici, basato non sui sintomi che essi presentavano, e tanto meno sull'aspetto dei loro cervello, ma sulla loro storia personale. Egli raccoglieva la documentazione in una cartella distinta per ciascun paziente, in modo da poterne seguire la storia individuale. Malattie mentali diverse, sosteneva, presentano un decorso tipicamente diverso. Solo raccogliendo informazioni su ciascun paziente per un lungo periodo di tempo era possibile cominciare a discernere gli aspetti distintivi di ciascuna malattia. La diagnosi era figlia, non madre, della prognosi.

All'epoca, gli psichiatri visitavano un numero sempre più cospicuo di pazienti afflitti da un disturbo particolare: si trattava di soggetti giovani, d'età prevalentemente compresa fra i venti e i trent'anni, i quali soffrivano di deliri, allucinazioni, indifferenza emotiva e insensibilità sociale. Kraepelin fu il primo a descrivere questa malattia apparentemente nuova, denominandola dementia praecox - demenza precoce. Oggi essa è nota con un nome ancor meno utile - «schizofrenia» -, coniato nel 1908 da Eugen Bleuler, seguace di Kraepelin. Attualmente si discute molto per cercare di stabilire se davvero in quegli anni la schizofrenia divenne improvvisamente più frequente, o se, più semplicemente, i casi cominciarono a essere oggetto di osservazione quando, per la prima volta, i malati di mente emersero dall'ambiente familiare ed entrarono negli istituti. Se si soppesano i dati, nonostante l'esistenza di tali influenze confondenti, sembra in primo luogo che nel corso del diciannovesimo secolo si sia effettivamente verificato un aumento di malattie mentali; e, in secondo luogo, che la schizofrenia, in particolare, fosse stata una patologia rara prima della metà del secolo...

Kraepelin distinse la dementia praecox da una sindrome differente, caratterizzata da oscillazioni dell'umore fra gli stati estremi della mania e della depressione, da lui denominata «depressione maniacale» - quello che noi chiamiamo «disturbo bipolare». Ciò che caratterizzava ciascuna malattia era il decorso e l'esito e non la sua presente manifestazione; meno che mai le patologie mentali potevano essere distinte identificando, nel cervello, differenze visibili. Kraepelin stava praticamente affermando che la psichiatria avrebbe dovuto abbandonare l'anatomia per assumere un atteggiamento agnostico sulle cause: «Finché non saremo in grado, dal punto di vista clinico, di raggruppare le malattie in base alle loro cause, e di separare le diverse cause, le nostre teorie sull'eziologia rimarranno necessariamente poco chiare e contraddittorie.»

E comunque sia, che cos'è una causa? Le cause dell'esperienza umana comprendono geni, accidenti, infezioni, l'ordine di nascita, maestri, genitori, circostanze, opportunità e caso, solo per nominare le più ovvie. A volte, ma non sempre, c'è un'unica causa che si profila più importante delle altre... La situazione è di gran lunga più complessa quando, come probabilmente avviene nel caso della schizofrenia, sono senza dubbio coinvolti molti geni diversi e molti diversi fattori ambientali.

In questo capitolo, dunque, studiando le cause della schizofrenia, spero di fare un po' di confusione su tutto il concetto di «causa». La causa della schizofrenia è infatti una questione ancora molto aperta, in cui numerose spiegazioni antagoniste coprono tutte le possibilità...

MADRI COLPEVOLI

Il primo testimone che voglio convocare affinché spieghi la causa della schizofrenia è lo psicoanalista. Per gran parte del periodo compreso fra il 1920 e il 1970 dello scorso secolo,costui ha dominato la scena...

La straordinaria diffusione della psicoanalisi fra gli anni Venti e gli anni Sessanta del secolo scorso è dipesa più dalla sua capacità di proporsi che non dai trionfi terapeutici. Intrattenendosi a parlare con i pazienti della loro infanzia, gli analisti mettevano a loro disposizione un'umanità e una comprensione mai visti prima. Giacché in quel periodo le alternative erano rappresentate dal sonno profondo indotto dai barbiturici, dal coma insulinico, dalla lobotomia o dall'elettroshock - tutte alternative spiacevoli, che inducevano dipendenza o erano decisamente pericolose -, l'approccio degli analisti incontrò un grande favore...

Rispetto alle alternative contemporanee, la «terapia della parola» rappresentò un grande passo avanti. Come spesso accade, però, la psicoanalisi si spinse troppo lontano e cominciò ad asserire non solo che le spiegazioni di altra natura non erano necessarie, ma erano addirittura sbagliate - sul piano morale come su quello fattuale. Le spiegazioni biologiche della malattia mentale finirono per esser trattate alla stregua di eresie. Come tutte le religioni efficaci, la psicoanalisi ridefini in modo geniale lo scetticismo, presentandolo come un'ulteriore dimostrazione di quanto fossero necessari i suoi servigi: il medico che prescriveva un sedativo o avanzava un dubbio sulla lettura in chiave psicoanalitica di un caso stava semplicemente esprimendo la propria stessa nevrosi.

In un primo tempo, i freudiani evitarono di occuparsi dei casi di psicosi grave, concentrandosi invece sulle nevrosi. Lo stesso Sigmund Freud fu cauto nel trattare i pazienti psicotici, giacché riteneva che si trovassero in un territorio oltre i limiti del suo metodo - sebbene avesse azzardato l'ipotesi ardita che la schizofrenia paranoide fosse il risultato di impulsi omosessuali repressi. Ma quando la fiducia e il potere degli analisti aumentò, soprattutto negli Stati Uniti, la tentazione di affrontare anche le psicosi divenne irresistibile. Nel 1935, l'analista Frieda FrommReichmann, una rifugiata tedesca, arrivò a Chestnut Lodge, un istituto di Rockville che già praticava i metodi freudiani. Ben presto la Fromm-Reichrnann sviluppò una nuova teoria della schizofrenia, asserendo che fosse causata dalla madre del paziente. Nel 1948, scriveva: «Lo schizofrenico nutre nei confronti degli altri un tormentoso senso di sfiducia e risentimento, causato dalla grave distorsione e dal rifiuto precoce incontrato nelle figure importanti dell'infanzia, di regola principalmente in una madre schizofrenogena».

Subito dopo, Bruno Bettelheim, sedicente erede di Freud, divenne famoso formulando una diagnosi simile per l'autismo - causato a suo dire da una «madre frigorifero», la cui indifferenza e freddezza nei confronti del figlio renderebbero quest'ultimo incapace di acquisire abilità sociali...

Per i genitori dei giovani schizofrenici, già sottoposti a un terribile stress, l'accusa freudiana di responsabilità diretta fu un colpo del quale avrebbero potuto fare a meno. Il dolore che essa causò a un'intera generazione di genitori sarebbe stato più sopportabile in presenza di un qualsiasi dato che la sostenesse. Ben presto, però, agli occhi di un qualsiasi osservatore neutrale, fu chiaro che il trattamento freudiano non curava affatto la schizofrenia: anzi, negli anni Settanta alcuni psichiatri ebbero il coraggio di ammettere che in realtà la psicoanalisi sembrava peggiorare i sintomi: «Nei pazienti che avevano ricevuto solo la psicoterapia, i risultati erano significativamente peggiori di quelli riscontrati in un gruppo di controllo non sottoposto ad alcun trattamento » osservò cupamente uno di loro.

All'epoca, la psicoanalisi era stata impiegata per curare decine di migliaia di schizofrenici.

Come accadde spesso nel periodo compreso fra gli anni Venti e gli anni Sessanta, le «prove» si basavano su una premessa di vasta portata - e cioè che gran parte della somiglianza fra genitori e figli fosse da ascriversi all'ambiente e non all'eredità. Nel caso della schizofrenia, se gli analisti non avessero ignorato i biologi, avrebbero saputo che gli studi sui gemelli avevano già svuotato tale assunto di ogni fondamento.

Negli anni Venti e Trenta, Aaron Rozanov, un ebreo russo immigrato negli Stati Uniti, raccolse dati su gemelli californiani e li utilizzò per verificare l'ereditabilità della malattia mentale. In un campione di oltre mille coppie di gemelli in cui uno dei due aveva una malattia mentale, identificò 142 schizofrenici. Nel 68 per cento delle coppie identiche, anche l'altro gemello sviluppava la malattia, mentre questo avveniva solo nel 15 per cento delle coppie fraterne. Rozanov scoprì una differenza simile fra gemelli anche nel caso del disturbo maniaco-depressivo. Tuttavia, poiché in psichiatria i geni non andavano di moda, Rozanov fu

ignorato. Secondo lo storico Edward Shorter: «Nonostante gli studi sui gemelli condotti da Rozanov rappresentino, probabilmente, il maggiore contributo fornito dagli studiosi americani alla letteratura psichiatrica internazionale negli anni compresi fra le due Guerre, gli storici della psichiatria americani appartenenti alla corrente «ufficiale» per lo più di orientamento psicanalitico - fecero passare queste ricerche sotto assoluto silenzio »

Franz Kallmann, emigrato dalla Germania nel 1935, effettuò uno studio simile a New York su 691 gemelli schizofrenici, ottenendo un risultato ancor più netto (86 per cento di concordanza nel caso delle coppie di gemelli identici, 15 per cento in quelle di gemelli fraterni). Al Congresso mondiale di psichiatria del 1950, fu zittito a forza di urla dagli analisti. Rozanov e Kallman, peraltro entrambi ebrei, furono addirittura tacciati di nazismo per il solo fatto di essersi serviti dei gemelli. La teoria materna della schizofrenia fu così tenuta al riparo da questi dati scomodi per altri vent'anni.

Oggi è generalmente riconosciuto che i «fattori psicosociali» esercitano un effetto limitato, ammesso che ne abbiano uno. In uno studio finlandese sui figli adottivi, emerse chiaramente che la prole biologica di genitori schizofrenici aveva una possibilità leggermente superiore di presentare disturbi di pensiero se anche le madri adottive presentavano quella che eufemisticamente era definita una « devianza di comunicazione». Non c'era, tuttavia, alcun effetto del genere per la prole di genitori biologici sani. Pertanto, ammesso che esista, una madre «schizofrenogena» può influenzare solo i figli che abbiano una suscettibilità genetica in tal senso.

GENI COLPEVOLI

La schizofrenia ricorre chiaramente nelle famiglie. Avere un cugino di primo grado schizofrenico raddoppia il rischio di un individuo di sviluppare egli stesso la malattia, portandolo dall'1 al 2 per cento. Avere un fratellastro o una zia schizofrenici triplica quel rischio, portandolo al 6 per cento. Avere un fratello o un gemello fraterno affetto dal disturbo comporta, rispettivamente, un rischio del 9 e del 16 per cento. Avere entrambi i genitori schizofrenici pone un soggetto a rischio nella misura del 40 per cento. Infine, avere un gemello identico schizofrenico è il maggiore fattore di rischio conosciuto: in tal caso il soggetto ha una probabilità all'incirca del 50 per cento di essere a sua volta schizofrenico. (Questa percentuale è considerevolmente più bassa di quella emersa dagli studi di Rozanov e Kallmann, poiché si avvale di criteri diagnostici più prudenti).

I gemelli, d'altra parte, non condividono solo i geni, ma anche l'ambiente. A partire dagli anni Sessanta, Seymour Kety smantellò a poco a poco questa obiezione con uno studio sui figli adottivi danesi (la Danimarca vanta una banca dati ineguagliabile sui bambini adottabili). Kety scopri che la schizofrenia era dieci volte più comune nei consanguinei degli schizofrenici adottati di quanto non fosse nelle famiglie adottive. L'esperimento inverso - su bambini adottati da schizofrenici - è, ovviamente, molto raro.

Tutte queste cifre rivelano due cose importanti.

In primo luogo, che nella società occidentale l'ereditabilità della schizofrenia è elevata, collocandosi intorno all'80 per cento: circa la stessa del peso corporeo e molto superiore a quella della personalità.

In secondo luogo, però, esse svelano il coinvolgimento di numerosi geni. Se così non fosse, il dato relativo ai gemelli fraterni dovrebbe essere molto più vicino a quello dei gemelli identici.

Il testimone che sostiene la causa dei geni è pertanto molto convincente. Poche malattie - salvo quelle causate da singoli geni - presentano un'ereditarietà così chiaramente evidente. In quest'era di ricerche sul genoma, l'identificazione dei geni della schizofrenia dovrebbe essere un compito banale. Negli anni Ottanta i genetisti, fiduciosi, si accinsero all'impresa. I geni della schizofrenia divennero la preda più ambita fra i cacciatori di geni. Confrontando i cromosomi di persone malate con quelli dei loro parenti sani, i genetisti cercarono di identificare le regioni che presentavano differenze costanti, per farsi un'idea di dove cercare i geni implicati. Nel 1988, servendosi dei pedigree ben documentati della popolazione islandese, un gruppo di ricercatori ottenne un importante risultato: avevano individuato un tratto del cromosoma 5 inequivocabilmente anomalo negli schizofrenici, ma non nei loro stretti parenti. Pressappoco nello stesso periodo, un gruppo di ricerca rivale si imbatté in un fenomeno simile: sembrava che la schizofrenia fosse associata alla presenza di un segmento extra sul cromosoma 5.

Le congratulazioni piovvero sui vincitori; i giornali annunciarono la scoperta del «gene della schizofrenia». Esso fu uno dei molti geni associati al comportamento - geni per la depressione, per l'alcolismo e per altri problemi psichiatrici -, la cui scoperta venne proclamata all'incirca in quel periodo. Gli scienziati, prudentemente, misero le mani avanti avvertendo (fra le righe) che si trattava di un risultato preliminare e che quello era uno dei geni della schizofrenia, e non il gene.

Ad ogni modo, pochi erano preparati alla doccia fredda che ne seguì. Altri cercarono di replicare il risultato, senza riuscirci. Alla fine degli anni Novanta, ormai, arrivò l'ammissione: l'associazione con il cromosoma 5 era un «falso positivo» - in altre parole, si era trattato di un miraggio. Nel caso dei geni che influenzano malattie complesse della mente, questa è stata la norma: più e più volte, negli ultimi dieci anni, le scoperte si sono dimostrate illusorie, e l'entusiasmo iniziale si è risolto in una bolla di sapone. Ora gli scienziati si sono fatti molto più cauti nell'annunciare la scoperta di associazioni fra un disturbo e un tratto di cromosoma. Finché gli esperimenti non sono stati replicati, nessuno prende più sul serio tali annunci.

La schizofrenia è stata oggi associata a marcatori presenti sulla maggior parte dei cromosomi umani. I cromosomi umani che non hanno alcun presunto legame con la schizofrenia sono solo sei (3, 7, 12, 17, 19 e 21). Tuttavia, pochi di tali legami si dimostrano duraturi e ogni studio sembra scoprire nuove associazioni. A giustificare questo fenomeno potrebbero esserci buone ragioni. Popolazioni diverse potrebbero avere pure mutazioni diverse. Quanto più numerosi sono i geni implicati nel predisporre gli esseri umani alla schizofrenia, tanto più probabile è l'esistenza di mutazioni diverse in grado di produrre effetti simili...

Nel cervello, che è un sistema di gran lunga più complesso di quello del nostro esempio, gli elementi che possono incepparsi non sono tre o quattro, ma migliaia. I geni attivano altri geni che a loro volta ne attivano altri, e così via, fino a chiamarne in causa decine e decine, anche nella via biochimica più semplice. Se uno solo di essi fosse messo fuori combattimento, l'intera via risulterebbe bloccata. D'altra parte, noi non ci aspettiamo che in tutti gli schizofrenici sia messo fuori uso lo stesso gene. Quanto più numerosi sono i geni che possono causare un inceppamento, tanto più difficile sarà confermare, replicando gli esperimenti, l'associazione fra un gene particolare e la malattia. I falsi positivi non sono quindi necessariamente scoraggianti né indizi di errori (sebbene possa trattarsi, in qualche caso, di puri accidenti statistici). Né il fallimento degli studi sull'associazione dimostra, come alcuni hanno sostenuto, che l'idea del «determinismo neurogenetico» sia da buttare. Il ruolo dei geni nella schizofrenia è dimostrato dagli studi sui gemelli e sui figli adottivi, e non dal riuscire o meno a trovare particolari geni. Per correttezza, tuttavia, va detto che gli studi sull'associazione, rivelatisi tanto utili nel caso di malattie - come la corea di Huntington - determinate da un singolo gene, hanno in larga misura fallito in quello delle psicosi.

SINAPSI COLPEVOLI

Alcuni scienziati, invece di cercare di scoprire che cosa ci fosse di diverso nei geni degli schizofrenici, riproposero di decifrare le differenze nella loro biochimica cerebrale. Da queste conoscenze, sarebbero poi risaliti ai geni che controllano quelle vie biochimiche e avrebbero studiato i cosiddetti «geni candidati ». La prima tappa di questo viaggio fu il recettore della dopamina: quest'ultima è un «neurotrasmettitore», ossia un sistema di trasmissione chimica fra taluni neuroni cerebrali.

Un neurone libera la dopamina nello spazio intersinaptico, inducendo così il suo vicino a iniziare la conduzione di segnali elettrici.
Dopo il 1955, l'anno in cui la clorpromazina cominciò a essere ampiamente usata nel trattamento degli schizofrenici, era inevitabile che l'attenzione si concentrasse sulla dopamina. Per gli psichiatri, fino ad allora costretti a scegliere fra la brutalità di una lobotomia e l'inutilità della psicoanalisi, il farmaco fu una benedizione. La clorpromazina ripristinava la salute mentale; per la prima volta gli schizofrenici poterono uscire dagli istituti e tornare a condurre una vita normale. I pesanti effetti collaterali del farmaco emersero solo in un secondo tempo, e a quel punto si presentò il problema dei pazienti che rifiutavano la cura: in alcuni individui, la clorpromazina induceva una progressiva degenerazione del controllo del movimento, simile al morbo di Parkinson.

Sebbene non fosse la soluzione sperata, la clorpromazina sembrò comunque offrire un indizio fondamentale sulle cause della malattia. Tanto la clorpromazina quanto i suoi derivati bloccano i recettori della dopamina impedendo loro di interagire con il neurotrasmettitore.

Inoltre, i farmaci che aumentano i livelli cerebrali di dopamina, come le anfetamine, provocano o aggravano le crisi psicotiche. In terzo luogo, infine, le tecniche di imaging mostrano che le regioni del cervello stimolate dalla dopamina sono molto atipiche negli schizofrenici: la schizofrenia deve essere un disturbo dei neurotrasmettitori, e inparticolare della dopamina.

Sui neuroni riceventi esistono cinque diversi tipi di recettori dopaminergici. Negli schizofrenici, due di essi (D2 e D3,) si sono dimostrati difettosi; ancora una volta, però, questo risultato ha deluso perché debole e difficile da replicare. Inoltre, il miglior farmaco antipsicotico blocca preferenzialmente i recettori D4. A peggiorare le cose, il gene D3 si trova sul cromosoma 3, che è uno di quelli per i quali nessuno è mai riuscito a trovare un'associazione con la schizofrenia.

A poco a poco, la teoria dopaminergica della schizofrenia passò di moda, soprattutto dopo la scoperta di topi con una segnalazione dopaminergica difettosa, il cui comportamento non presentava tuttavia alcuna somiglianza con quello degli esseri umani schizofrenici.

Recentemente l'attenzione si è concentrata su un diverso sistema di segnalazione cerebrale, quello del glutammato. Sembra che gli schizofrenici abbiano un'attività troppo scarsa a livello di uno dei recettori cerebrali del glutammato (denominato recettore NMDA), così come hanno troppa dopamina. Una terza possibilità, poi, sta nel sistema di segnalazione serotoninergico. Qui le cose sono andate meglio: non solo negli schizofrenici uno dei geni candidati, il 5HT2A, sembra effettivamente essere molto spesso difettoso, ma si trova su uno dei cromosomi (il 13) più spesso chiamati in causa dagli studi di concatenazione. L'effetto, tuttavia, è ancora deludente, perché troppo debole.

All'alba del terzo millennio, né gli studi di concatenazione né la ricerca di geni candidati erano riusciti a risolvere il problema e a individuare una volta per tutte i geni responsabili dell'ereditabilità della schizofrenia. Nel 2000, il Progetto Genoma era vicino al completamento, e quindi tutti i geni erano presenti, almeno sotto forma di sequenza, nelle viscere dei calcolatori: ma come trovare i pochi davvero importanti? Patt Levitt e i suoi colleghi a Pittsburg prelevarono in sede autoptica campioni di corteccia prefrontale di individui schizofrenici per scoprire quali geni vi fossero espressi in modo anomalo. Abbinarono attentamente i loro soggetti in base al sesso, al tempo trascorso dalla morte, all'età e all'acidità cerebrale. Poi usarono la tecnica dei microarray per campionare quasi ottomila geni e identificare quelli che sembravano espressi in modo diverso nei pazienti schizofrenici. Il primo a essere individuato fu un gruppo di geni implicati nelle «funzioni secretorie presinaptiche ». In linguaggio corrente, significa che erano geni implicati nella produzione dei segnali chimici neuronali - segnali come la dopamina e il glutammato. In particolare, negli schizofrenici due di questi geni erano meno attivi. Sorprendentemente, però, essi si trovano sui cromosomi 3 e 17 - ossia su due dei sei cromosomi per i quali gli studi di concatenazione non hanno trovato un'associazione con la schizofrenia.

Da questo studio emerse tuttavia un altro gene che presentava una stretta concatenazione con una delle regioni cromosomiche «giuste» (sul cromosoma 1): si tratta del gene RGS4, che si esprime sulla membrana postsinaptica, ossia sul versante della sinapsi che riceve i segnali chimici. Nei dieci schizofrenici studiati da Levitt e dal suo gruppo, l'attività di RGS4 era drasticamente ridotta. Negli animali, una riduzione simile si riscontra in condizioni di stress acuto. Forse questo spiega una caratteristica universale degli schizofrenici, e cioè che lo stress tende a scatenare i loro episodi psicotici... D'altra parte, questo non significa affermare che il gene RGS4 è una causa della schizofrenia, ma solo che la sua ridotta espressione è una delle cause dei peggiori sintomi osservati negli schizofrenici in seguito a stress - insomma, è più simile a un sintomo.

Ma teniamo a freno tutte queste speculazioni con un poco di prudenza. La tecnica dei microarray sta identificando sia i geni che modificano la propria espressione come reazione alla malattia, sia i geni che inducono la malattia stessa: potrebbe dunque confondere causa ed effetto. I livelli di espressione dei geni non sono necessariamente ereditati...

Comunque sia, sebbene aiutino poco a discriminare la causa dall'effetto, i dati provenienti dalle ricerche con i microarray almeno confermano le indicazioni derivanti dai trattamenti farmacologici - e cioè che la schizofrenia è una patologia sinaptica. In alcune regioni del cervello degli schizofrenici - soprattutto nella corteccia prefrontale - c'è qualcosa che non funziona a livello delle giunzioni interneuronali.

VIRUS COLPEVOLI

La ricerca dei fattori non genetici responsabili della schizofrenia ha preceduto la ricerca dei geni. Essa andò tuttavia incontro a una svolta drammatica nel 1988 - e cioè nello stesso anno in cui fu scoperta, negli islandesi, la prima inequivocabile concatenazione genetica. Anche questa è una storia nordica, poiché mentre Robin Sherrington stava studiando i cromosomi di Reykjavik, Sarnoff Mednick era impegnato a riflettere sulle cartelle cliniche dell'Ospedale psichiatrico di Helsinki. Mednick stava cercando di spiegare un dato ben noto: nascono più schizofrenici d'inverno che non d'estate. Questo è vero in entrambi gli emisferi, nonostante la differenza di sei mesi nella data delle stagioni. Non è un effetto di grandi dimensioni, ma indubbiamente esiste e non si cancella, per quanto si manipolino le statistiche.

Le epidemie di influenza tendono a verificarsi d'inverno: forse, pensava Mednick, c'era qualcosa, nell'influenza, che predisponeva le madri a generare potenziali schizofrenici. Così esaminò le cartelle cliniche dell'Ospedale di Helsinki per scoprire l'effetto di un'epidemia influenzale del 1957: sicuramente i soggetti che durante l'epidemia erano al secondo trimestre di gestazione presentavano una maggiore probabilità di ammalare rispetto agli altri.

Mednick studiò quindi le cartelle ostetriche delle donne che, durante l'epidemia del 1957, erano gravide e avevano poi generato futuri schizofrenici.
Scoprì che queste donne avevano una maggior probabilità di aver contratto l'influenza nel secondo trimestre di gravidanza. Nel frattempo, in Danimarca, un approccio storico produsse una conferma: negli anni compresi il 1911 e il 1950, quando c'erano state molte epidemie di influenza, erano nati più schizofrenici. Il periodo in cui l'influenza della madre si rivelava più rischiosa era il sesto mese di gestazione, in particolare la ventitreesima settimana.

Era nata così l'ipotesi virale della schizofrenia: l'infezione influenzale contratta dalla madre durante la gravidanza, soprattutto nel secondo trimestre, può causare un danno al cervello immaturo del feto - un danno che molti anni dopo predisporrà l'individuo alla psicosi. Naturalmente, non tutti i figli di madri che hanno contratto l'influenza in gravidanza diventeranno schizofrenici. L'effetto deve dipendere in qualche modo dai geni: alcuni individui sono geneticamente vulnerabili all'impatto del virus, o infettivamente vulnerabili all'impatto dei loro geni, a seconda del modo in cui preferite considerare la questione.

I gemelli «monocoriali» ci offrono un interessante suggerimento che potrebbe confermare la teoria dell'influenza. Circa due terzi dei gemelli identici sono legati ancor più intimamente degli altri: non solo infatti derivano dallo stesso uovo fecondato, ma all'interno dell'utero si sviluppano dentro un'unica membrana esterna, il corion, e condividono la stessa placenta. (Alcuni poi si spingono ancora oltre, e si sviluppano in un'unica membrana interna, l'amnios, e sono per questo detti «monoamniotici»). Quanto più l'evento che produrrà i gemelli è tardivo, tanto maggiori sono le probabilità che essi siano monocoriali. Poiché durante la gravidanza i gemelli monocoriali sono immersi nello stesso fluido, probabilmente sono esposti alle stesse influenze non genetiche. Essi condividono addirittura il sangue che circola nella placenta comune. Forse, sono anche esposti agli stessi virus. Sarebbe quindi particolarmente interessante sapere se, relativamente alla schizofrenia, i gemelli monocoriali siano più concordanti di altre coppie di gemelli identici. Dati di questo tipo, tuttavia, sono difficili da raccogliere. Non basta infatti trovare dei gemelli: occorrono gemelli schizofrenici dei quali siano disponibili le cartelle cliniche alla nascita - e queste ultime devono essere abbastanza dettagliate da permetterci di capire se erano monocoriali o no. Non sorprende che dati simili non siano disponibili.

Esistono tuttavia alcuni segni eloquenti. Almeno alcuni gemelli monocoriali presentano, fra di loro, una specularità: i riccioli dei loro capelli, come pure le volute delle impronte digitali, seguono un verso opposto; inoltre essi scrivono con mani diverse. Nei gemelli monocoriali, poi, i dettagli delle impronte digitali, che si formano pressappoco nel quarto mese di gestazione, sono più simili. Lavorando nel Missouri, James Davis utilizzò questi caratteri come segni, certamente rozzi, di gemellarità monocoriale e scoprì che la concordanza per la schizofrenia era molto più alta nei gemelli monocoriali rispetto ai dicoriali. Egli ipotizzò che questa poteva essere una prova del ruolo dei virus, giacché i gemelli che condividono il liquido amniotico condivideranno probabilmente anche le infezioni virali. D'altra parte, la concordanza osservata nei gemelli monocoriali potrebbe semplicemente indicare un'esposizione condivisa a eventi accidentali di ogni genere, e non solo alle infezioni.

La catena di eventi che porta alla suscettibilità nei confronti della schizofrenia potrebbe essere innescata anche da altri agenti infettivi, per esempio dall'herpes virus e dal toxoplasma, il protozoo responsabile della toxoplasmosi a volte trasmessa all'uomo dai gatti. In una donna gravida, il toxoplasma può attraversare la barriera placentare e causare cecità o ritardo nel feto. Probabilmente può anche causare, in seguito, la schizofrenia. Sappiamo da tempo che altri insulti arrecati al feto durante lo sviluppo - ivi comprese, soprattutto, le complicanze del parto possono rappresentare fattori di rischio per la schizofrenia...

SVILUPPO COLPEVOLE

Il gene della «reelina» fu localizzato nel 1995 sul cromosoma 5 del topo, e ben presto, nel 1997, seguì l'identificazione del gene corrispondente nell'uomo: localizzato sul cromosoma 7, quest'ultimo codifica una proteina omologa per il 94 per cento a quella del topo. Si tratta di un gene molto lungo, con più di dodicimila lettere, suddiviso in almeno sessantacinque «paragrafi» di testo distinti, denominati esoni. Esperimenti successivi hanno dimostrato che la reelina è fondamentale per l'organizzazione del cervello fetale - nel topo come nell'uomo. Essa dirige la formazione bene organizzata degli strati del cervello, a quanto pare prescrivendo ai neuroni dove svilupparsi e quando fermarsi.

Ma che cosa ha a che fare tutto questo con la schizofrenia? Nel 1998 un gruppo di ricerca dell'Università dell'Illinois misurò la quantità di reelina nel cervello di schizofrenici da poco deceduti e scoprì che essa era la metà di quella rinvenuta nel cervello di individui normali.

Un nuovo potenziale sospetto fece così il suo ingresso in scena. La migrazione neuronale disturbata è una caratteristica della schizofrenia, e la reelina è una delle molecole che organizzano il processo. Essa contribuisce anche al mantenimento delle «spine dendritiche» a livello delle quali si formano le sinapsi - e pertanto una carenza di questa proteina potrebbe tradursi nella formazione di sinapsi difettose. Per i seguaci della teoria virale della schizofrenia, emerse ben presto che un modo per causare una transitoria riduzione del 50 per cento nell'espressione di reelina nel cervello del topo consisteva proprio nell'infettarlo, nel periodo prenatale, con l'influenza umana. In altre parole, la reelina sembrava stabilire un collegamento con le altre teorie della schizofrenia.

Il povero topo reeler si ritrovò immediatamente al centro di una grande attenzione: forse si sarebbe rivelato un buon modello animale della schizofrenia. Il comportamento reeling è evidente solo se il topo ha ereditato il gene difettoso da entrambi i genitori. Se ne ha solo una copia, a un esame superficiale sembra normale. In realtà, però, non lo è: impara a districarsi in un labirinto molto più lentamente e comunque non diventa mai abile come un topo normale. Rispetto a quest'ultimo, poi, è meno socievole. Sebbene questa potesse difficilmente definirsi una schizofrenia murina, forse esisteva qualche parallelo.

Le speranze che la reelina dimostrasse di essere la causa principale della schizofrenia, comunque, cominciarono a naufragare quando, negli scorsi anni Novanta, furono scoperte due distinte famiglie di reeler umani, una in Arabia Saudita e l'altra in Inghilterra. In entrambe queste famiglie erano stati contratti matrimoni fra cugini, unioni che avevano dato luogo, nella prole, all'unione di due versioni difettose del gene della reelina; la presenza del gene mutato in doppia copia causa un disturbo denominato «lissencefalia con ipoplasia cerebellare» (LCH), solitamente fatale entro i primi quattro anni di vita. Se la carenza ereditaria di reelina fosse responsabile della schizofrenia, alcuni dei parenti apparentemente sani di questi sfortunati bambini dovrebbero essere schizofrenici, in quanto portatori della mutazione in uno dei loro geni. Finora, però, non si ha notizia di casi di schizofrenia in nessuna delle due famiglie, sebbene quella araba non sia stata studiata approfonditamente.

Ancora una volta, come accade spesso nella storia della schizofrenia, un inizio promettente ha condotto in un vicolo cieco. Una ridotta concentrazione di reelina fa parte della schizofrenia e forse ne costituisce una componente essenziale; probabilmente però, non è una delle sue cause primarie...

Tanto la reelina quanto l'influenza puntano il dito su eventi che avvengono in utero - il che a prima vista è sconcertante, giacché l'aspetto più caratteristico della schizofrenia è che colpisce gli adulti. Sebbene i bambini che in seguito diventeranno schizofrenici possano essere identificati retrospettivamente come soggetti ansiosi, lenti a camminare e dotati di scarsa comprensione verbale, la maggior parte di essi non è assolutamente patologica fino a dopo la pubertà. Com'è possibile che una malattia causata da una situazione verificatasi in utero si esprima solo in età adulta?

Il modello della schizofrenia imperniato sullo sviluppo neurale tenta di spiegare questo enigma. Nel 1987 Donald Weinberger affermò che la schizofrenia era diversa da altri disturbi cerebrali, in quanto - nel momento in cui compaiono i sintomi - la causa non è più presente. Il danno era stato arrecato molto tempo prima, ma diventava evidente solo a causa di qualche normale processo di maturazione cerebrale che ha luogo in seguito: i primi effetti sono «smascherati» dal successivo sviluppo, all'approssimarsi dell'età adulta. A differenza, per esempio, del morbo di Alzheimer o della corea di Huntington, la schizofrenia non è una patologia cerebrale degenerativa, ma una patologia dello sviluppo cerebrale. Verso la fine dell'adolescenza e l'inizio dell'età adulta, il cervello subisce estesi rimaneggiamenti. Molte delle sue connessioni vengono isolate per la prima volta, e molte subiscono un processo di «potatura»: diverse sinapsi interneuronali sono cancellate, e rimangono solo le più forti. Può darsi che negli schizofrenici abbia luogo un'eccessiva potatura a livello della corteccia prefrontale, come conseguenza di un'incapacità delle sinapsi di svilupparsi in modo appropriato molti anni prima; o forse i neuroni che sono migrati o si sono estesi fino a raggiungere i loro bersagli sono troppo pochi.

Molti saranno i geni in grado di attenuare o amplificare questi effetti o forse di reagire ad essi - geni che pertanto potrebbero essere denominati «geni della schizofrenia»: tuttavia, essi somigliano più a sintomi che non a cause. Invece, le vere «cause» della malattia andrebbero cercate fra i geni che influenzano lo sviluppo precoce originale. (Forse non è una coincidenza il fatto che la schizofrenia si manifesti a un'età in cui i giovani - maschi e femmine - competono intensamente per trovarsi uno spazio in un mondo adulto che è loro estraneo e per conquistarsi un partner sessuale).

Molti scienziati concordano nel ritenere che in questo senso la schizofrenia è una patologia organica, una malattia dello sviluppo - una malattia, insomma, della quarta dimensione: la dimensione temporale. E causata dall'incepparsi di qualcosa nel normale processo di sviluppo e differenziamento del cervello...

DIETA COLPEVOLE

La chiave per comprendere la schizofrenia sta in ciò che mangiamo? In particolare, durante lo sviluppo il cervello umano ha un disperato bisogno di particolari lipidi, denominati acidi grassi essenziali, e il cervello degli individui schizotipici ne ha bisogno in quantità superiore al normale. Se non introducono tali sostanze con la dieta, questi soggetti possono diventare schizofrenici.

Nel febbraio del 1977, in una giornata luminosa ma terribilmente fredda, un ricercatore inglese stava passeggiando per Montreal quando ebbe un'illuminazione, il suo personale eureka. David Horrobin stava cercando di far combaciare i pezzi di un rompicapo intellettuale, costituiti da strani dati riguardanti la schizofrenia, tutti legati ai suoi aspetti non mentali e spesso dimenticati. Ecco di che si tratta. Primo, gli schizofrenici soffrono raramente di artrite; secondo, sono sorprendentemente insensibili al dolore; terzo, spesso si osserva un notevole miglioramento - anche se transitorio - delle loro condizioni quando hanno la febbre (per quanto possa stupire, un tempo si sperimentò l'infezione malarica come cura per la schizofrenia; sebbene solo temporaneamente, la terapia funzionava). Il quarto pezzo del puzzle che Horrobin aveva in testa era un elemento nuovo. Aveva appena osservato che una sostanza chiamata niacina, all'epoca utilizzata per curare l'ipercolesterolemia negli schizofrenici non induceva l'improvviso rossore cutaneo osservato invece negli altri individui.

All'improvviso, ecco che tutti i pezzi combaciavano. Il rossore cutaneo, l'infiammazione artritica e la risposta al dolore sono tutti fenomeni dipendenti dalla liberazione di una molecola lipidica, l'acido arachidonico (AA), dalle membrane cellulari. L'AA viene poi convertito in prostaglandine, sostanze responsabili di alcuni dei segni dell'infiammazione, quali il rossore e il dolore. Anche un accesso di febbre libera AA. Pertanto, gli schizofrenici forse non riuscivano a liberare quantità normali di AA dalle cellule e questo causava sia i loro problemi mentali sia la loro resistenza al dolore, all'artrite e al rossore cutaneo. Solo un attacco di febbre riusciva ad aumentare i loro livelli di AA, portandoli a valori simili a quelli normali e ripristinando così la loro normale funzione cerebrale. Horrobin pubblicò la sua ipotesi su «Lancet» e poi si preparò a ricevere l'applauso. Il silenzio, però, fu assordante. A quell'epoca, gli esperti di schizofrenia erano troppo concentrati sull'ipotesi della dopamina per potersi anche solo accorgere di una teoria diversa - figuriamoci, poi, se erano disposti a prenderla in considerazione. La schizofrenia era una malattia cerebrale: che cosa c'entravano tutti quei discorsi sui grassi?

Rispetto agli altri tessuti, il cervello necessita di una maggior quantità di acidi grassi polinsaturi: circa un quarto del suo peso secco consiste di soli quattro tipi di grassi polinsaturi. Questi lipidi sono noti come acidi grassi essenziali (EFA), in quanto i nostri negligenti progenitori non impararono mai a sintetizzarli ex novo; i loro precursori provengono dal cibo e si fanno strada nella catena alimentare a partire da organismi semplici - alghe e batteri - che sanno come produrli. Se un individuo consuma una dieta ricca di grassi saturi e povera di EFA, finirà probabilmente per avere membrane cellulari cerebrali meno flessibili di chi, per esempio, consumi grandi quantità di pesci grassi. (Questo non spiega come mai la schizofrenia sia ugualmente frequente in paesi come la Norvegia e il Giappone, dove il pesce costituisce una componente importantedella dieta tradizionale).

Il modo più ovvio per verificare le idee di Horrobin è quello di trattare gli schizofrenici con gli EFA. Il suo collega Malcolm Peet e, insieme a lui, altri ricercatori hanno cominciato a farlo. I risultati, sebbene non spettacolari, sono incoraggianti. Una cospicua dose quotidiana di olio di pesce - ricco di EFA - produce effettivamente un modesto miglioramento della sintomatologia schizofrenica...

La teoria degli acidi grassi non è rivale delle varie ipotesi genetiche. Molti sintoni neurali della schizofrenia potrebbero essere messi in relazione con gli acidi grassi. Si sa che gli EFA regolano la potatura delle connessioni neuronali al momento della pubertà. Le donne sono più efficienti nel sintetizzare gli EFA dai loro precursori alimentari, e hanno in effetti una minor probabilità di ammalare di schizofrenia. E stato dimostrato che il digiuno durante la gravidanza, l'ipossia durante il parto, lo stress e anche l'influenza sono tutti fattori che possono ridurre la disponibilità di EFA nel cervello embrionale e fetale. Il virus dell'influenza inibisce la sintesi di AA, forse perché quest'ultimo è una componente necessaria delle difese dell'organismo.

Dimostrazioni più dirette della teoria degli acidi grassi provengono da alcuni dei geni effettivamente implicati nella schizofrenia. Essi comprendono il gene della fosfolipasi-A2, una proteina la cui funzione consiste nel rimuovere il rebbio centrale della forchetta dei fosfolipidi, quello che solitamente è un EFA. Il gene dell'apoD, una sorta di camion che trasporta gli acidi grassi nel cervello, è tre volte più attivo negli schizofrenici, proprio nelle regioni cerebrali maggiormente implicate nei sintomi della malattia - la corteccia prefrontale -, ma non nel resto del cervello e del corpo. E quasi come se la corteccia prefrontale, trovandosi a corto di questi acidi grassi, aumentasse l'espressione del gene per l'apoD, in un tentativo di compensazione (il gene per l'apoD, per inciso, si trova sul cromosoma 3, dove gli studi di concatenazione non avevano rivelato alcun gene associato alla schizofrenia). Una delle ragioni per cui la clozapina è efficace contro la schizofrenia, potrebbe essere proprio la sua capacità di promuovere l'espressione del gene apoD. L'ipotesi di Horrobin è che per sviluppare la schizofrenia occorrano due difetti genetici: uno che riduca la capacità di incorporare gli EFA nelle membrane cellulari; e un altro che ne induca un troppo facile prelievo (ciascuna di queste situazioni potrebbe essere influenzata da diversi geni). Perfino in presenza di entrambi i difetti genetici, comunque, per innescare la psicosi occorre anche un evento esterno, e altri geni possono modificare o addirittura bloccare l'effetto.” (pp. 154-187)

L’analisi delle cause della schizofrenia si conclude con due paragrafi piuttosto interessanti, che cito integralmente:

“CONFUSIONE MENTALE

Nel corso del ventesimo secolo, le forze ideologiche di nature e nurture, simili a eserciti medioevali, hanno cinto d'assedio le malattie come se fossero castelli fortificati. Lo scorbuto e la pellagra, spiegate come malattie da carenza vitaminica, capitolarono ai sostenitori dell'ambiente, mentre l'emofilia e la corea di Huntington, spiegate come mutazioni, si arresero alla genetica. La schizofrenia era una fortezza di confine di importanza strategica, per gran parte del secolo controllata dai «nurturisti » quale roccaforte della teoria freudiana. Ma sebbene i freudiani, i Templari del lunghissimo conflitto, fossero stati messi in fuga da decenni, i genetisti non sono mai riusciti a occupare in modo definitivo la fortezza e probabilmente saranno costretti a chiedere una tregua d'armi e a dare il benvenuto ai rivali d'un tempo richiamandoli al di qua del fossato.

A un secolo dalla sua prima descrizione, l'unica cosa di cui siamo certi è che attribuirne la colpa alla presunta freddezza e indifferenza materna fu un errore; e che la sindrome stessa ha qualcosa di ereditabile. Detto questo, è possibile qualsiasi combinazione di spiegazioni, o quasi. E chiaro che molti geni influenzano la suscettibilità alla schizofrenia e che molti possono rispondere ad essa per compensazione: pochi, però, sembrano esserne la causa.

Sebbene siano numerosi i casi in cui un'infezione prenatale pare essere fondamentale, probabilmente essa non è né necessaria, né sufficiente. La dieta può esacerbare i sintomi della schizofrenia e forse addirittura innescarne l'insorgenza, ma probabilmente solo nei soggetti geneticamente suscettibili.

Quando si tratta di affrontare le psicosi, né le teorie che propendono per i geni, né quelle che favoriscono l'ambiente sono molto efficaci nel distinguere causa ed effetto. Il cervello umano è fatto per cercare semplici nessi causali. Esso rifugge gli eventi privi di una causa, e preferisce dedurre che quando A e B sono osservati insieme, o A causa B, o B causa A. Questa tendenza è massima negli schizofrenici, che vedono connessioni causali anche nelle più ovvie coincidenze. D'altra parte, A e B spesso sono solo sintomi paralleli di qualcos'altro. Oppure, peggio ancora, A potrebbe essere, al tempo stesso, causa ed effetto di B.

Ecco dunque una perfetta illustrazione del fatto che tanto i geni quanto l'ambiente contano. Vi avevo promesso che la schizofrenia avrebbe creato una certa confusione, e in effetti così è stato. Kraepelin fu molto saggio ad assumere un atteggiamento agnostico sulle sue cause: pur avendo alle spalle tutto il peso della scienza moderna, anche i suoi successori non sono riusciti a venirne a capo. Non sono nemmeno arrivati a discriminare la causa dall'effetto.

Sembra invece decisamente possibile che la spiegazione ultima della schizofrenia finisca per includere, simultaneamente, geni e ambiente, nature e nurture, nessuno dei quali potrà pretendere il primato.” (pp. 190-191)

“Metodo nella Follia

La schizofrenia è comune, all'incirca nella stessa misura, in tutto il mondo e in tutti i gruppi etnici: pressappoco un caso ogni cento persone. Essa presenta la stessa forma negli aborigeni australiani e negli eschimesi. Questo è insolito; molte malattie influenzate geneticamente sono tipiche di certi gruppi etnici, oppure molto più comuni in un gruppo rispetto all'altro.

Tutto questo potrebbe implicare che le mutazioni predisponenti alcuni esseri umani alla schizofrenia sono antiche, essendo comparse prima che gli antenati di tutti gli esseri umani non africani lasciassero l'Africa e si disseminassero nel resto del mondo. Poiché all'età della pietra essere schizofrenici di certo non era vantaggioso ai fini della sopravvivenza, e sicuramente non facilitava la prolificità, questo carattere universale è sconcertante: come mai quelle mutazioni non si sono estinte?

Spesso è stato osservato che gli schizofrenici sembrano comparire nelle famiglie di persone intelligenti e di successo. (Tale argomentazione indusse Henry Maudsley, contemporaneo inglese di Kraepelin, a respingere l'eugenetica, essendosi reso conto che sterilizzando i portatori di una tara mentale si sarebbero spazzati via anche moltissimi individui geniali). I soggetti affetti da una forma leggera del disturbo - a volte definiti «schizotipici» - sono spesso insolitamente brillanti, sicuri di sé e determinati. Come disse Galton: «Sono rimasto sorpreso nel constatare quanto spesso la follia sia comparsa fra i parenti stretti di uomini eccezionalmente capaci ».

Questa eccentricità potrebbe addirittura aiutare ad avere grandi successi. Forse non è un caso che molti grandi scienziati, leader politici e profeti religiosi abbiano parenti schizofrenici e sembrino essi stessi muoversi sull'orlo della psicosi, come lungo il bordo del cratere di un vulcano . James Joyce, Albert Einstein, Carl Gustav Jung e Bertrand Russell ebbero tutti dei parenti stretti schizofrenici. Isaac Newton e Immanuel Kant potrebbero essere descritti entrambi come «schizotipici».

In uno studio improntato a un'assurda precisione si stima che il 28 per cento degli scienziati insigni, il 60 per cento dei compositori, il 73 per cento dei pittori, il 77 per cento dei romanzieri, e uno sbalorditivo 87 per cento dei poeti abbiano dimostrato un certo grado di disturbo mentale. Nash, il matematico di Princeton, dopo essersi ripreso da trent'anni di schizofrenia, nel ricevere il premio Nobel per il suo lavoro nel campo della teoria dei giochi, disse che gli interludi di razionalità fra un episodio psicotico e l'altro non erano affatto graditi. « Il pensiero razionale impone un limite al concetto che una persona ha del proprio rapporto con il cosmo ».

Lo psichiatra del Michigan Randolph Nesse ipotizza che la schizofrenia possa essere un esempio di «effetto soglia» evolutivo, in cui le mutazioni di diversi geni sono in sé tutte benefiche, salvo quando si presentano tutte insieme nella stessa persona, o quando la loro evoluzione si spinge troppo lontano, nel qual caso improvvisamente si combinano producendo effetti disastrosi...

Forse la schizofrenia è la conseguenza dell'eccesso di qualcosa che di per se stesso sarebbe positivo: in altre parole, deriverebbe dalla concomitanza, in un unico individuo, di troppi fattori genetici e ambientali che in genere hanno un effetto positivo sulla funzione cerebrale. Questo spiegherebbe perché i geni che predispongono gli esseri umani alla schizofrenia non si estinguono; fintanto che non si ritrovano insieme, ciascuno di essi favorisce la sopravvivenza del suo portatore.” (pp. 188-190)

Ritengo che, per quanto ipotetiche, queste ultime considerazioni sono di straordinaria importanza.

Con buona pace degli psichiatri organicisti, la genetica, che pure comprova una predisposizione genetica di alcuni individui ad interagire con l’ambiente in modo disfunzionale, non depone affatto a favore del riduzionismo cui fanno riferimento. Tanto più se si tiene conto che essi, facendo riferimento allo studio sui gemelli, confondono eredità e ereditabilità. Ridley definisce quest’ultimo termine come segue:

“Quello di ereditabilità è un concetto ambiguo, in larga misura frainteso. Tanto per cominciare, si riferisce a una media calcolata sulla popolazione, e pertanto è privo di significato per il singolo individuo: non si può dire che Erminia ha un'intelligenza più ereditabile di Elena.

Quando qualcuno afferma che l'altezza è ereditabile al 90 per cento, non intende dire - né potrebbe farlo - che il 90 per cento dei miei centimetri derivano dai miei geni e il restante 10 per cento da quello che mangio. Significa invece che la variazione dell'altezza in un particolare campione della popolazione può essere attribuita per il 90 per cento ai geni e per il 10 per cento all'ambiente. Poiché in un individuo non esiste alcuna variabilità di altezza, non si può parlare di ereditabilità.

Inoltre, l'ereditabilità misura unicamente la variazione, e non valori assoluti. La maggior parte degli esseri umani nasce con dieci dita. Chi ne ha di meno in genere le ha perse a causa di incidenti - ossia per effetto dell'ambiente. L'ereditabilità del numero delle dita è dunque prossima a zero. Ciò nondimeno, sarebbe assurdo sostenere che il fatto di avere dieci dita si deve all'ambiente. Se ne abbiamo dieci è perché siamo genericamente programmati ad averne dieci. A esser determinata dall'ambiente è la variazione nel numero delle dita; ma il fatto che ne abbiamo dieci è genetico.

Paradossalmente, quindi, i caratteri della natura umana meno ereditabili sono con buone probabilità quelli che presentano la massima determinazione genetica.” (p. 123)

Che cosa varia dunque nei corredi predisposti a sviluppare sintomi schizofrenici?

Ho avanzato l’ipotesi che in un numero elevato di soggetti il definirsi e l’attivarsi di conflitti psicodinamici destinati a produrre sintomi sia da ricondurre ad un’iperdotazione emozionale e, talora, intellettiva.

Alla luce della genetica e della clinica, sono portato ancora oggi a confermare tale ipotesi.

6.

L’opposizione tra nature e nurture, dunque, appare più complessa e articolata di quanto si pensasse in passato.

Occorre anche considerare che la cultura, per quanto con la sua velocità di trasmissione incida sull’esperienza umana, individuale e collettiva, in una misura che permette di comprendere, senza convalidarlo, il determinismo ambientale, è pure essa un’espressione fenotipica delle potenzialità cerebrali, della natura umana quindi.

Cosa può dire a riguardo la genetica? A questo problema, Ridley dedica l’ottavo capitolo, il cui titolo - Gli enigmi della cultura - è già di per sé significativo.

La premesse del discorso sono ovvie:

“Oggi, un bambino che viene al mondo eredita un corredo di geni e apprende molte cose per esperienza diretta. Acquista però anche qualcos'altro parole, pensieri e strumenti inventati da altri esseri umani in luoghi o in tempi molto lontani. La ragione per cui la specie umana domina il pianeta mentre i gorilla sono in pericolo di estinzione non sta in quel 5 per cento di DNA esclusivo dell'uomo e nemmeno nella nostra capacità di apprendere associazioni o di avere una cultura e agire in base ad essa; è invece da ricercarsi nella nostra capacità di accumulare e trasmettere cultura e informazioni superando gli abissi dello spazio e del tempo.” (p. 298)

“Chiediamoci perché la natura umana sembri universalmente capace di produrre cultura - ossia di generare tradizioni tecnologiche ereditabili e cumulative. Date a esseri umani neve, cani e foche - e quelli inventeranno uno stile di vita completo di canti, divinità, slitte e igloo. Che cos'è, all'interno del cervello umano, che consente quest'impresa? E poi: quando emerse un simile talento?

Si noti, in primo luogo, che la creazione di cultura è un'attività sociale. Una mente umana solitaria non può secernere cultura. Negli anni Venti, fu il giovane antropologo russo Lev Semenovi Vygotskij a sottolineare come la descrizione di una mente umana isolata non colga l'essenziale: le menti umane non sono mai isolate. Più di quanto accada in qualsiasi altra specie, le menti umane nuotano in un mare chiamato cultura. Esse apprendono il linguaggio, usano tecnologie, osservano rituali, condividono credenze, acquisiscono abilità. Hanno un'esperienza che non è solo individuale, ma anche collettiva.” (pp. 307-308)

Sulla base di queste premesse, Ridley espone una tesi affascinante, per quanto azzardata:

“Se voglio sostenere la mia tesi - e cioè che i geni sono alla radice non solo della eredità, ma anche delle nostre interazioni con l'ambiente - allora devo in qualche modo spiegare in che modo essi rendano possibile la cultura. Ancora una volta, intendo farlo senza invocare «geni della cultura», ma proponendo invece l'esistenza di geni che rispondono all'ambiente: geni intesi come meccanismi, e non come cause. Si tratta di un compito formidabile e sinceramente dubito di riuscirci.

Io credo che la capacità umana di produrre cultura non derivi da alcuni geni che si sono evoluti insieme alla cultura umana, ma da una gamma di preadattamenti fortuiti che improvvisamente dotarono la mente umana di un talento pressoché illimitato nell'accumulare e trasmettere idee. Ebbene: quei preadattamenti sono sostenuti da geni.

La scoperta che a livello genetico gli esseri umani sono al 95 per cento degli scimpanzé non fa che complicare il mio problema. Quando si trattava dei geni coinvolti nell'apprendimento, nell'istinto, nell'imprinting e nello sviluppo, potevo facilmente trovare esempi nel mondo animale, giacché sotto questi aspetti la differenza fra mente umana e mente animale è una differenza di grado. Ma quando si parla di cultura le cose cambiano. La distanza culturale fra un essere umano e anche il più brillante fra i delfini o le scimmie antropomorfe è abissale. La conversione del cervello di una antropomorfa ancestrale in un cervello umano non richiese che qualche ritocco di minore entità alla ricetta: stessi ingredienti, solo che il soufflé resta un po' più a lungo nel forno. E tuttavia, questi cambiamenti minori ebbero conseguenze di portata vastissima” (p. 308)

La tesi è difficile da comprendere se non si chiarisce cosa si intende per preadattamenti, termine che fa riferimento ad un nodo problematico della teoria evoluzionistica. Si tratta in breve di strutture o funzioni che, nel momento in cui sono selezionate, non sembrano avere un significato adattivo, ma che lo assumono nel corso del tempo. Quali preadattamenti hanno contribuito alla nascita della cultura. al suo accumulo e alla sua trasmissione?

Sostanzialmente:

- la capacità empatica che, presente anche in altri animali, ha una rilevante specificità:

“Michael Tomasello, della Harvard University, ha eseguito una lunga serie di esperimenti su scimpanzé adulti e bambini, giungendo alla conclusione che «solo gli esseri umani interpretano [gli altri esseri umani] come agenti intenzionali alla stregua di se stessi, e quindi solo gli esseri umani possono impegnarsi nell'apprendimento culturale». Questa differenza emerge a nove mesi di età, in quella che Tomasello definisce la « rivoluzione dei nove mesi». A quell'età gli esseri umani si lasciano dietro le antropomorfe nello sviluppo di determinate abilità sociali. A nove mesi, per esempio, i bambini indicano un oggetto al solo scopo di condividere l'attenzione su quell'oggetto con altri. Guarderanno nella direzione che qualcuno indica loro e seguiranno il suo sguardo. Le antropomorfe non arrivano mai a farlo, né ci arrivano (se non molto più tardi) i bambini autistici, i quali sembrano avere difficoltà a considerare le altre persone come agenti intenzionali dotati di una mente propria. Secondo Tomasello, nessuna scimmia, antropomorfa o meno che sia, ha mai mostrato la capacità di attribuire una falsa credenza a un altro individuo - cosa che, in genere, a un essere umano riesce spontanea a quattro anni di età. La capacità di mettersi nei panni degli altri, conclude TomaselIo, è prerogativa esclusiva dell’uomo.” (pp. 311-312);

- l’imitazione, che ha ricevuto una clamorosa conferma con la scoperta dei neuroni specchio;

- il bipedismo che, liberando la mano, ha permesso la nascita del linguaggio gestuale

“Indipendentemente dal fatto che in origine a consentire l'accidentale preadattamento alla comunicazione simbolica delle regioni del cervello prossime alla scissura del Silvio sia stata l'attività di lancio, la fabbricazione di strumenti o i gesti stessi, è fuori di dubbio che la mano vi abbia avuto la sua parte...

William Stokoe, un pioniere nello studio del linguaggio dei segni, ha ipotizzato che i gesti della mano arrivino a rappresentare due distinte categorie di parole: gli oggetti, attraverso la loro forma; e le azioni, attraverso il loro movimento - inventando così la distinzione fra sostantivo e verbo che ricorre tanto profondamente in tutti i linguaggi. Finora, i sostantivi sono stati localizzati nel lobo temporale, i verbi nel lobo frontale a cavallo della scissura del Silvio. Fu il loro confluire che trasformò un protolinguaggio di segni e simboli in un autentico linguaggio grammaticale. E forse fu proprio la mano, e non la voce, a operare per prima quella confluenza.” (p. 325)

Ridley giunge alla seguente conclusione:

“Sui dettagli storici è possibile cavillare, e io non sono certo un irriducibile sostenitore dell'ipotesi della mano; per me, la bellezza di questa storia sta nel modo in cui riesce a collocare nello stesso quadro concettuale imitazione, mano e voce: tutti aspetti essenziali della capacità umana di produrre cultura. Imitare, manipolare e parlare sono tre cose che gli esseri umani sanno fare particolarmente bene. Non solo sono operazioni fondamentali per la cultura: sono esse stesse cultura - la quale è stata definita come la mediazione dell'azione attraverso gli artefatti...

Ciò che quelle tre abilità portarono in essere fu un sistema di simboli, in modo che la mente potesse rappresentare sia dentro se stessa sia nel discorso sociale e nella tecnologia qualunque cosa - dalla meccanica quantistica alla Gioconda o a un'automobile. Ancor più importante, però, è forse il fatto che esse consentirono il contatto fra i pensieri di altre menti; esternalizzarono la memoria. Consentirono agli esseri umani di acquisire dal proprio ambiente sociale molto più di quanto avrebbero mai potuto sperare di apprendere da soli. Le parole, gli strumenti e le idee venute in mente a qualcuno in luoghi e tempi remoti possono far parte del patrimonio ereditato da ogni singolo individuo nato al giorno d'oggi.

Indipendentemente dal fatto che la teoria della mano sia o meno corretta, il ruolo centrale del simbolismo nell'espansione del cervello umano è un punto su cui molti possono trovarsi d'accordo. La cultura stessa può essere «ereditata » e può selezionare le modificazioni genetiche che le sono favorevoli. I tre scienziati più legati a questa teoria della coevoluzione gene-cultura si sono espressi così: «Un processo guidato dalla cultura, operante per un lungo periodo della storia evolutiva dell'uomo, potrebbe facilmente aver condotto a una fondamentale ristrutturazione delle attitudini psicologiche umane »."

Il linguista e psicologo Terence Deacon sostiene che a un certo punto i primi esseri umani combinarono l'abilità di imitare a quella di provare empatia ritrovandosi con la capacità di rappresentare idee mediante simboli arbitrari. Questo consentì loro di riferirsi a idee, persone ed eventi anche in loro assenza e quindi di sviluppare una cultura sempre più complessa; ciò, a sua volta, esercitò una pressione verso lo sviluppo di un cervello sempre più voluminoso che consentisse di «ereditare» elementi di quella cultura attraverso l'apprendimento sociale. Pertanto, l'evoluzione culturale e quella propriamente genetica procedono di pari passo." (pp. 326-327)

Ma è una conclusione provvisoria, che implica un’interazione tra accumulazione della cultura e crescita del cervello che non corrisponde a ciò che si sa. Il cervello ha continuato ad espandersi senza alcun aiuto da parte del progresso tecnologico, che è rimasto praticamente statico sino a 50000 anni fa. Solo da allora la cultura ha acquistato un carattere cumulativo senza aspettare che i geni si mettessero in pari.

Come interpretare questo dato? Ridley scrive:

“Il grande cervello che rese gli esseri umani capaci di rapidi progressi culturali... si formò ben prima che si fosse accumulata molta cultura. La cultura progressiva e cumulativa apparve molto tardi nell'evoluzione umana; essa ebbe quindi ben poche possibilità di plasmare il modo in cui gli esseri umani pensano, e ancor meno di influenzare le dimensioni del loro cervello - che peraltro avevano già raggiunto il massimo senza bisogno di grandi stimoli culturali. II cervello capace di pensiero, immaginazione e ragionamento evolse con un proprio ritmo al fine di risolvere i problemi di ordine pratico e sessuale che si presentavano nella vita di creature sociali, non per far fronte alle esigenze di una cultura trasmessa da altri.

Sto sostenendo che gran parte di ciò che tanto apprezziamo del nostro cervello non ha nulla a che fare con la cultura. L'intelligenza, l'immaginazione, l'empatia e le capacità di previsione di cui noi umani diamo costantemente prova vennero in essere in modo graduale e inesorabile, ma senza alcun aiuto da parte della cultura. Furono queste abilità a rendere possibile la cultura - e non quest'ultima a generare loro...” (p. 334)

Egli giunge, dunque, ad una singolare conclusione:

“Tutto questo ragionamento, [porta a ritenere] che l'evoluzione progressiva della cultura a partire dalla rivoluzione del Paleolitico superiore abbia avuto luogo senza alterare la mente umana. La cultura sembra avere avuto il ruolo del carro, non quello del cavallo; in altre parole, sarebbe la conseguenza, e non la causa, di un qualche cambiamento avvenuto nel cervello umano...

Ma allora che cosa fu a cambiare, pressappoco duecento-trecentomila anni fa, così da consentire agli esseri umani di realizzare una simile esplosione culturale? Dovette trattarsi di un cambiamento genetico - nel senso banale che il cervello è costruito dai geni, e qualcosa dovette cambiare nel modo in cui era costruito il cervello. Dubito che si sia trattato solo di una questione di dimensioni...

Prevedo invece - semplicemente considerando il carattere esplosivo del fenomeno - che i cambiamenti siano avvenuti in un piccolo numero di geni, e che probabilmente tra non molto la scienza riuscirà a identificarli.” (pp. 338-339)

Se questa conclusione viene ricondotta a ciò che Ridley ha scritto sulla neotenia umana, il senso del discorso risulta chiaro. I geni mutati hanno inciso sul tasso di crescita del cervello, mantenendolo elevato molto a lungo. La neotenia ha prodotto l’intensificazione dell’empatia, la solidarietà di gruppo, il bisogno di comunicare, e, attraverso l’uso delle potenzialità cognitive, la nascita del linguaggio gestuale, la produzione e la manipolazione dei simboli, l’accumulo e la trasmissione della cultura, ecc.

Tutto ciò, però, è avvenuta non solo sulla base della selezione naturale, ma di cambiamenti strutturali del cervello che solo lentamente sono stati utilizzati dagli esseri umani.

7.

Del saggio di Ridley ho restituito solo i nodi che avverto più consonanti con lo sviluppo delle tematiche che sto attualmente affrontando nella stesura del saggio sulle emozioni. Spero, però, nonostante la sintesi estrema, di aver fornito in qualche misura il fascino dell’impresa scientifica legata alla genetica. Disciplina rigorosa, difficile, per il linguaggio e per alcuni aspetti tecnici, esoterica, essa peraltro è una delle frontiere della conoscenza dell’uomo su se stesso. Studiarla, capirla, approfondirla e utilizzarla nella cornice di un modello panantropologico è un duro lavoro, ma anche fonte di indefinite soddisfazioni.