Letture darwiniane


Introduzione al ciclo di letture

1.

Darwin, Marx, Nietzsche, Freud: quattro autori contestati in vita e dopo la morte, ritenuti dalla cultura restauratrice contemporanea obsoleti, se non addirittura (è il caso di Marx) sepolti dal verdetto della storia. Tra essi si danno diversità di ogni genere. Tre soli fattori li accomunano: il rifiuto di ogni trascendenza, il riferimento all'uomo come misura di tutte le cose, e la critica (implicita o esplicita) della coscienza “normale” in quanto preda delle tradizioni e delle apparenze.

Dedicarsi ad una riflessione approfondita (nei limiti del possibile) sul loro pensiero non può prescindere dal mettere in conto che, se per via può intervenire qualche “illuminazione”, il rischio di confondersi le idee è certo.

La lettura di Darwin impone di familiarizzare con la biologia, la paleontologia, la genetica, la neurobiologia, ecc.; quella di Marx con l'economia, la sociologia, la storia sociale, la politica, ecc.; quella di Nietzsche con la filosofia, l'epistemologia, la storia della cultura, la morale, ecc.; quella di Freud con la psicoanalisi, la psicopatologia, la psichiatria, ecc.

L'approfondimento di tutte queste tematiche richiederebbe un tempo indefinito. Occorrerà, per dare senso a questo ciclo di letture, proporsi un obiettivo. Penso che, a riguardo, non sussistano dubbi. Darwin, Marx, Nietzsche e Freud parlano dell'uomo e suggeriscono, implicitamente, che l'angolatura migliore per cogliere il senso di questo singolare animale e la sua avventura siano rispettivamente la biologia, la storia (economica e sociale), la filosofia, la psicologia. Si può ragionevolmente pensare, proprio sulla base dei loro sforzi, che, per arrivare a capire qualcosa dell'uomo, occorra integrare queste diverse prospettive.

Paradossalmente, forse, l'intento di un'integrazione (che io inclino a ricondurre ad una nuova disciplina, la Panantropologia) postula che tali prospettive siano adeguatamente conosciute nella loro diversità.

Non si tratterà, ovviamente, di un percorso accademico. Metterò in campo le riflessioni che ho fatto nel corso di quaranta anni di studio e le conclusioni (provvisorie) cui sono pervenuto. Non dò per scontato che esse debbano essere condivise. Sarà un buon risultato se risulteranno sufficientemente chiare.

Mi riprometto di utilizzare un linguaggio accessibile e di semplificare i concetti senza banalizzarli, Sarebbe ingenuo non anticipare, però, che l'impegno richiesto ai partecipanti potrà risultare, in alcuni momenti, duro. Se si decide di scalare le montagne, bisogna mettere nel conto qualche aspra pendenza.

Questa Introduzione è né più né meno un esercizio di “riscaldamento”.

La grandezza di Darwin, Marx, Nietzsche e Freud è ormai consegnata alla storia, ma il valore e il significato delle loro opere è ancora controverso.

La polemica dei creazionisti contro Darwin è fin troppo nota. Per quanto si tratti di una polemica che, per spiegare l'esistenza dell'uomo propone un'alternativa molto meno credibile dell'evoluzionismo, è fuor di dubbio che essa muove dal rilevare limiti della teoria darwiniana che sono reali. Nella sua versione integralista, il creazionismo, che fa riferimento alla Bibbia come testo ispirato da Dio da prendere alla lettera, è francamente ridicolo. Occorre, però, considerare che il cieco meccanicismo casuale che sottende la teoria dell'evoluzione è rifiutato da un numero rilevante di studiosi che, pur non essendo credenti, ritengono che la singolarità dell'essere umano, posta la sua discendenza dagli altri animali, sia tale da costringere ad ammettere un Disegno Intelligente che sottenderebbe non solo la nascita dell'uomo, ma l'evoluzione di tutto l'Universo verso forme sempre più elevate di organizzazione. L'uomo con la sua capacità di interrogarsi su di essa, sarebbe, dunque, il fine di questa evoluzione.

Riguardo a Marx, è noto che, nel 1989, in seguito alla caduta del muro di Berlino, ne è stata dichiarata la morte, con un sospiro di sollievo, da parte dei liberisti di tutto il mondo. Purtroppo, questa dichiarazione ha profondamente turbato i partiti di sinistra inducendoli o all'abiura o a tentativi maldestri di arroccamento dogmatico o di “rifondazione”. Di fatto, ciò che è morto è stato il primo tentativo storico di costruire un mondo socialista sulla base di un fraintendimento radicale del pensiero di Marx, che esaltava la libertà e la dignità dell'uomo. Il fraintendimento, però, c'è stato, e sarebbe ingenuo non tenere conto che esso non si sarebbe potuto realizzare se l'opera di Marx non contenesse un'ambiguità di fondo. Occorre capire di che si tratta.

Nietzsche è andato incontro a vari cicli di morte e di resurrezione. Il suo pensiero è stato fatto proprio dalle correnti irrazionaliste dei primi decenni del XIX secolo, che sono poi confluite nell'ideologia nazi-fascista. In conseguenza di questo, accusato di essere stato un ispiratore del nazismo, è andato incontro ad una rimozione dopo la fine della seconda guerra mondiale. La rinascita di Nietzsche è avvenuta in Francia in virtù della lettura di sinistra del suo pensiero e, in Italia, in conseguenza della sua assunzione come fautore del pensiero debole. Per questa via, però, egli è stato assunto, dai benpensanti, come progenitore del nichilismo e attaccato in quanto demolitore di ogni valore. Il pensiero di Nietzsche è, di fatto, intrinsecamente controverso poiché esso si dispiega a partire da un mondo interiore nel quale la genialità e la psicopatologia si intrecciano di continuo.

Le teorie di Freud, originariamente respinte dai benpensanti, hanno conseguito, nel corso del Novecento, una sorta di egemonia supportata da una vasta diffusione presso l'opinione pubblica finché la teoria dei sistemi comunicativi prima e il cognitivismo poi non lo hanno spinto nella riserva indiana di un pensiero dogmatico e, tra l'altro, inefficace sotto il profilo terapeutico. Dogmatico il pensiero freudiano lo è veramente, soprattutto per quanto riguarda la concezione di una natura umana animata solo da pulsioni primordiali, caotiche e “animalesche”. Affrancato da tale concezione, che è di ordine ideologico, esso conserva, però, una valenza culturalmente rivoluzionaria che non ha prodotto ancora, a livello di consapevolezza che l'uomo ha di se stesso, tutti gli effetti che essa implica.

A queste vicissitudini, che rendono difficile una valutazione serena del contributo che questi quattro Grandi hanno dato alla Cultura, occorre aggiungere una riflessione sui rapporti intellettuali che essi hanno intrattenuto tra loro.

Per quanto riguarda il rapporto tra Darwin e Marx qualcosa sappiamo. Darwin si interessava un po' di tutto, anche di economia, ma di sicuro non aveva letto il Manifesto del Partito Comunista. Marx, invece, probabilmente attraverso Engels, aveva letto L'origine delle specie e ne era rimasto entusiasta al punto da inviare, nel 1880, una lettera a Darwin chiedendogli l'autorizzazione per apporre una dedica a lui nel secondo libro de Il Capitale. Egli aveva dunque colto il materialismo e l'anticreazionismo impliciti nella teoria dell'evoluzione naturale. In nome di questo aspetto, forse, era stato indotto a minimizzare differenze ideologiche che non gli erano certo sfuggite. Darwin cortesemente rifiutò, adducendo la sua scarsa competenza in ambito economico. Non sappiamo se e quanto egli abbia letto del testo inviatogli. Di sicuro, se lo avesse letto, avrebbe confermato il rifiuto. Egli era, infatti, sostanzialmente un liberale moderato, il quale neppure a livello scientifico (come vedremo) prendeva in esame la possibilità di cambiamenti rivoluzionari.

Nietzsche conosceva l'evoluzionismo darwiniano, soprattutto attraverso Herbert Spencer. Non ci sono prove che egli abbia mai letto le opere originali di Darwin. Il suo atteggiamento, comunque, è critico nei confronti dell'evoluzionismo, poiché egli rifiuta il concetto della lotta per sopravvivere. Solo un fraintendimento può portare a vedere nel Superuomo un derivato darwiniano. Il Superuomo non si adatta alle circostanze, le contrasta, le lotta e fa violenza ad esse.

Per quanto se ne sa, Niezsche non ha mai letto Marx. La sua avversione nei confronti di qualunque forma di socialismo, inteso come sistema deputato a tutelare i “deboli”, è, però, esplicita e radicale.

Freud conosceva di sicuro l'opera di Darwin e quella di Nietzsche, ma ben poco quella di Marx. Darwin lo ha travisato, leggendo nell'evoluzionismo la prova delle origini animalesche dell'uomo e, dunque, della presenza nell'inconscio umano di pulsioni istintuali che ne rappresenterebbero l'eredità. Negando, però, l'esistenza nella natura umana di qualsivoglia istinto sociale, egli, forse senza rendersene conto, ha rimosso uno degli elementi centrali della concezione antropologica darwiniana.

Nietzsche era apprezzato profondamente da Freud per due aspetti. Per un verso, lo identificava come un precursore della scoperta dell'inconscio e dell'orientamento essenzialmente mistificante della coscienza. Ne apprezzava, insomma, le intuizioni di psicologo. Per un altro verso, egli riteneva che la volontà di potenza di Nietzsche rappresentasse una prefigurazione dell'Es pulsionale, che tende alla scarica della tensione istintuale senza alcuna preoccupazione per l'Altro, che, a livello inconscio, non esisterebbe se non come oggetto di soddisfazione.

Per quanto riguarda Marx o meglio il socialismo, Freud, dal fondo del suo conservatorismo pessimistico, lo considerava un nobile ideale utopistico, destinato forse anche a realizzarsi, ma in un futuro remoto e non prevedibile, e soprattutto in conseguenza della capacità della Civiltà di modificare gli assetti pulsionali della natura umana.

2.

Se le cose stanno così, c'è da chiedersi come sia possibile utilizzare i contributi eterogenei di questi quattro geni nel quadro di una Panantropologia (un nuovo sapere sull'Uomo e sui fatti umani). Sembra quasi assurdo valorizzare criticamente ed integrare il pensiero di Darwin, Marx, Nietzsche e Freud. Proprio questo, però, come ho già detto, è l'intento di questo ciclo di letture. Sarebbe inutile cercare di anticiparne le tracce.

Nell'immediato, a mo' di introduzione, sembra importante soffermarsi preliminarmente su di un aspetto che riguarda l'epistemologia, vale a dire il modo in cui procede la conoscenza.

Non è possibile comprendere appieno nessuna opera scientifica, filosofica, letteraria se si prescinde dal periodo e dal contesto storico entro i quali essa è stata prodotta. Ciò non significa adottare un rozzo criterio deterministico. Il contesto storico non spiega i contenuti scientifici o di pensiero innovativi, che sono prodotti da singoli soggetti. Esso, però, nella misura in cui implica un determinato quadro di mentalità, incide in qualche misura anche su quei contenuti. La circostanza più frequenta che si realizza laddove un soggetto è dotato di attitudini geniali è che le oggettivazioni di queste fuoriescono da quel quadro, mentre il suo modo di essere, per molteplici aspetti, vi rimaner dentro.

Su questo aspetto tornerò dettagliatamente in rapporto ai singoli autori. Adesso occorre fare qualche considerazione di ordine generale.

Charles Darwin nasce, in Inghilterra, nel 1809 e muore nel 1882; Karl Marx nasce a Treviri, (Prussia) nel 1818 e muore esule a Londra nel 1883; Friedrich Nietzsche viene alla luce a Röcken (nei pressi di Lipsia) nel 1844 e si spegne a Weimar, dopo dieci anni di immersione nella psicosi, nel 1900; Sigmund Freud nasce a Freiberg (in Moravia, allora territorio dell'Impero austriaco) nel 1856 e muore a Londra, ove si è rifugiato per scampare al nazismo, nel 1939.

Per quanto concerne le opere, L'origine delle specie esce nel 1859, L'origine dell'uomo nel 1871, il Manifesto del Partito Comunista nel 1848, i Lineamenti fondamentali di critica dell'Economia Politica (“Grundrisse”) nel 1859, il Primo libro de Il Capitale (l'unico portato a termine da Marx) nel 1867, Umano, troppo umano nel 1880, Aurora nel 1981, La gaia scienza nel 1982, Così parlò Zarathustra nel 1883-1885, Al di là del bene e del male nel 1886, Genealogia della morale nel 1887, L'Anticristo nel 1888, L'interpretazione dei sogni nel 1900, Psicopatologia della vita quotidiana nel 1901, Metapsicologia nel 1915, Introduzione allo studio della Psicoanalisi nel 1917, Al di là del principio del piacere nel 1920, Il disagio della Civiltà nel 1929.

Considerando la lunga gestazione de L'origine delle specie di Darwin e de Il Capitale di Marx, l'arco temporale che vede la fioritura dei capolavori citati riguarda la seconda metà del XIX secolo, vale a dire il periodo che gli storici riconducono al trionfo della civiltà borghese, il cui sviluppo addirittura tumultuoso coinvolge tutto il mondo sotto forma di Imperialismo colonialista, e si estende con Freud alla Prima Guerra Mondiale e al dopoguerra.

Tutte le opere citate partecipano ben poco del clima trionfalistico prevalso nella seconda metà dell'Ottocento, che peraltro declina verso la fine del secolo in conseguenza del sopravvenire di una crisi economica e si estingue con l'immane massacro della Grande Guerra. Esse, in maniera esplicita o implicita, sono anzi critiche, sia pure da punti di vista diversi, nei confronti della Civiltà borghese e dei suo miti (il progresso, la razionalità, la coscienza individuale, ecc.).

Per quanto riguarda Marx, la critica è del tutto esplicita. Proprio nell'epoca in cui la civiltà borghese trionfa in nome del Capitalismo, infatti, egli, identificando nella sua straordinaria vitalità una potenzialità disgregativa del legame sociale di solidarietà tra gli esseri umani, della moralità e della cultura, fa risuonare su di esso la campana a morte, prevedendone l'inesorabile superamento.

Darwin si interessa apparentemente solo di biologia evoluzionistica. Ma il suo rimarcare con decisione che, in quanto discendente da specie altamente socializzate, l'uomo non può non essere un animale radicalmente sociale, non sarebbe comprensibile se non si tenesse conto che la Civiltà borghese si edifica sulla base di una concezione dell'individuo (quella hobbesiana) che quel bisogno se non lo esclude, lo mortifica, riconducendolo ad un contratto intervenuto tra esseri per natura liberi e indipendenti (che, nell'ottica dell'evoluzionismo, non sono mai esistiti).

Il disprezzo di Nietzsche nei confronti dello stile di vita e della cultura borghese, che recepiscono il bisogno di felicità individuale, ma lo immiseriscono nella ricerca del benessere, non potrebbe essere più chiaro. All'uomo borghese egli contrappone l'oltreuomo, colui che accetta la sfida dell'esistenza sul piano del suo non senso. L'obiettivo critico costante di Nietzsche è la miscela tossica, vigente all'epoca, di principi cristiani e valori borghesi, che porta gli esseri umani sul terreno della presunzione di essere destinati alla felicità terrena e oltremondana.

Verso la fine del XIX secolo, Freud è ancora convinto della superiorità della Civiltà borghese su tutte le altre. Ciò nondimeno, con L'interpretazione dei sogni e Psicopatologia della vita quotidiana, egli, senza quasi rendersene conto, denuncia lo scarto tra la coscienza umana e il modo in cui il soggetto pensa di essere e il mondo brulicante di fantasie, desideri, emozioni e pensieri che caratterizzano l'inconscio. La denuncia non ha alcun significato specifico, di ordine storico, perché Freud ritiene, giustamente, che quello scarto sia universale. Essa, però, pone le premesse per un'analisi della coscienza borghese che Freud non porterà mai alle estreme conseguenze, limitandosi, a distanza di decenni, ne Il disagio della Civiltà, a constatare che essa postula un eccesso di repressione in rapporto ai bisogni della natura umana. A quell'epoca, però, per continuare ad attribuire un valore primario alla Civiltà, egli è stato costretto ad ipotizzare che la natura umana, contenga, oltre ad un'incoercibile pulsione sessuale, un'ancora più inquietante pulsione distruttiva (l'istinto di morte).

Nonostante le diverse prospettive e i diversi esiti cui pervengono, tra i quali sembra molto difficile trovare un fattore in comune, non sembra azzardato raccogliere Darwin, Marx, Nietzsche, Freud nella categoria dei Grandi Demistificatori, che hanno cercato di sciogliere quella sorta di velo ipnotico in virtù del quale la coscienza umana si recinta dietro una cortina di illusioni (l'eccezionalità della specie, il destino oltremondano, il progresso, l'oggettività dei principi morali e dei valori culturali, l'unità e la continuità nel tempo dell'io, la corrispondenza di ciò che l'individuo pensa di essere a ciò che è, ecc.).

Che la fioritura di questi geni sia avvenuta in un determinato periodo storico non significa certo che le loro opere sono contingenti, vale a dire strettamente legate ad esso o da esso determinate.

Lo statuto mistificato della coscienza che essi, sia pure da prospettive diverse, hanno messo in luce, è un problema di ordine universale, che riguarda il modo proprio di funzionare del cervello e della mente umana nell'interazione con l'ambiente naturale e culturale.

Escluso il determinismo socio-storico, che non permette di spiegare alcuna opera dell'ingegno umano, c'è da chiedersi però quale contributo possa avere fornito lo sfondo storico-culturale a questa singolare fioritura, che trova, forse, un equivalente solo nella cultura greca del V secolo a. C.

Per capire meglio questo aspetto, occorre illustrare alcuni tratti della Civiltà borghese nella seconda metà dell'Ottocento. Ovviamente, non essendo uno storico di professione, dovrò limitarmi all'essenziale.

3.

Con i moti rivoluzionari del 1848, che avranno una eco tragica nell'effimera esperienza della Comune di Parigi nel 1870, si conclude la stagione inauguratasi con la Rivoluzione francese. La borghesia non sconfigge politicamente del tutto l'Assolutismo, che rimarrà in vigore in alcune nazioni fino alla conclusione della Prima Guerra Mondiale, ma riesce a fare prevalere ovunque il suo modello di sviluppo socio-economico capitalistico.

In virtù di tale modello, essa comincia ad erodere progressivamente il potere della nobiltà, che rimane vincolata alla rendita parassitaria, ma, soprattutto, prende definitivamente le distanze dalle masse popolare, dal proletariato che, privato degli strumenti di produzione, deve subordinarsi, sul “libero” mercato, al capitale, vale a dire a vendere la sua forza-lavoro trasformandosi in un fattore di produzione, ovvero in una merce.

Il modello in questione è quello liberista, che implica la concorrenza e la competizione sul mercato di singoli individui ciascuno dei quali cerca di affermarsi. Esso assicura il successo della borghesia, poiché sembra valorizzare sia le pari opportunità di sviluppo tra gli individui (prima vincolate alla nascita e al sangue), sia la diversità naturale tra essi che si realizza sotto forma di merito personale.

Di fatto, il liberismo, in virtù dei progressi della scienza e della tecnologia, sprigiona potenzialità produttive incommensurabili rispetto al passato. Dal 1850 in poi la crescita della ricchezza nei paesi occidentali è impressionante. E' Marx a rilevare che l'esplosione del capitalismo avviene in maniera estremamente squilibrata in termini di distribuzione, sulla base non già delle pari opportunità, bensì della proprietà o meno dei mezzi di produzione, e quindi sulla base dello sfruttamento. Egli identifica, dunque, nel miracolo della crescita della ricchezza una faccia della medaglia del Capitalismo: l'altra non è solo la miseria, bensì la degradazione dell'uomo, la negazione dei suoi diritti dichiarati inalienabili, la tensione sociale permanente, ecc.

Nel clima di generale euforia, il messaggio di Marx cade praticamente nel vuoto. Esso, infatti, muove dalla contestazione degli economisti “classici” del libero mercato, che hanno fondato la “scienza” economica: Adam Smith, David Ricardo, Thomas Malthus, Jean-Baptiste Say.

Tra questi, il più noto e il più apprezzato è Adam Smith, che ha identificato nell'organizzazione “razionale” del lavoro l'arma vincente del Capitalismo e ha avanzato la celebre ipotesi della Mano Invisibile, vale a dire della capacità di autoregolazione del mercato per cui pur se ogni soggetto economico agisce in nome dei suoi interessi “egoistici”, la competizione comporta infine l'equilibrio economico tra la domanda e l'offerta.

La teoria di Smith implica che il mercato abbia la capacità di “selezionare” gli individui, concedendo il successo ai migliori. Su questa base, non c'è da sorprendersi che mentre il messaggio di Marx cade nel vuoto, quello di Darwin viene prontamente raccolto dalla cultura borghese, che vede in esso una conferma della “meritocrazia” legata alla libera concorrenza.

Si tratta di un fraintendimento del pensiero di Darwin. La selezione naturale darwiniana, infatti, fa riferimento infatti semplicemente alla capacità dei singoli organismi di adattarsi ai mutamenti dell'ambiente, che sono casuali. L'adattamento può essere di conseguenza un fatto semplicemente fortunoso.

L'ambiente di sviluppo socio-economico è, invece, un ambiente artificiale, culturale, prodotto dall'uomo. Esso può, di fatto, privilegiare singoli individui o un'intera classe, e svantaggiare altri non sulla base del caso, bensì di strategie economiche e politiche rivolte a conseguire tale risultato.

Omologando l'ambiente culturale a quello naturale, la borghesia, inconsapevole dello sfruttamento cui sottopone il proletariato (e cui sottoporrà dal 1875 in poi i Paesi colonizzati), ricava dal successo un'enorme fiducia nel suo valore.

Su cosa si fonda questa fiducia? Sulla ricchezza, certo, che è lo strumento essenziale per giungere ad appartenere alla classe borghese. Essa, però, è un mezzo, non un fine. Il fine è l'acquisizione, socialmente convalidata, di uno status borghese che implica uno stile di vita, un'organizzazione familiare, un sistema di valori che hanno una loro specificità e differenziano la borghesia dalla nobiltà per un verso e dal proletariato (e sottoproletariato) per un altro.

Lo stile di vita è incentrato sul decoro, in opposizione al lusso nobiliare e alla degradante miseria proletaria. Il decoro è una casa spaziosa con un arredo funzionale, un abbigliamento sobrio ma elegante, un modo di atteggiarsi composto, un linguaggio non volgare.

L'organizzazione familiare è incentrata sulla subordinazione della donna e dei figli al paterfamilias, la cui autorità è indiscussa. La gestione della casa è affidata alla donna che può avvalersi di numerosi aiuti (baby-sitter, governanti, camerieri).

Il sistema di valori è incentrato sulla rispettabilità, sul conservatorismo religioso, sulla libertà individuale, sulla moderazione, sulla competizione corretta.

La borghesia identifica se stessa con la classe che ha raggiunto il maggior livello di civiltà della storia umana, ed è protesa ad elevarlo indefinitamente.

In realtà, non è tutto oro quel che luce.

Ammassato nei suburbi, sradicato dalla campagna, il proletariato vive in condizioni subumane ben peggiori di quelle esperite dai progenitori contadini. Esso incarna, agli occhi della borghesia, il fantasma della natura umana allo stato nascente, incline alla pigrizia, al vizio (alcol, prostituzione, criminalità) e alla degradazione.

Nessuno, tranne Marx, legge in questa condizione l'espressione della violenza strutturale dell'uomo sull'uomo.

Di fatto, la borghesia è a tal punto infatuata dal mito dello sviluppo economico dal non capire che esso si è avviato sulla china di un sfruttamento sistematico delle risorse che coinvolgono l'uomo e la natura.

Sottesa da una spinta verso la civilizzazione che si estende al mondo intero, essa è preda di una smisurata volontà di potenza, che comporta un'inesauribile fame di materie prime, di macchine e di braccia da lavoro che trasforma il Pianeta in una riserva di caccia.

Si avvia l'epoca del Colonialismo e dell'Imperialismo, che smascherano, fuori dei confini dell'Europa, l'altra faccia della Civiltà borghese.

C'è avidità dietro la moderazione, negazione dei diritti dell'altro dietro l'uguaglianza, insensibilità sociale dietro la religiosità, sfrenatezza sessuale dietro la morigeratezza, competizione senza regole dietro la concorrenza.

Evidente nel rapporto che la Civiltà borghese intrattiene con il resto del mondo, lo scarto tra i principi liberali e l'organizzazione della società civile è reperibile anche in Occidente. Gli indizi di questo scarto sono molteplici. C'è intanto un problema politico. Il libero mercato – bon gré, mal gré – è accettato da tutti i Paesi occidentali. In alcuni, però, esso si realizza sotto l'egida della democrazia, in altri convive con regimi di assolutismo monarchico. Agli inizi del XX secolo, si intuisce che lo scontro tra democrazia e assolutismo è destinato a deflagrare.

C'è poi il problema sociale. Il potere borghese modella le istituzioni secondo i suoi interessi. Le masse proletarie sfruttate, però, cominciano ad organizzarsi e ad operare una tensione crescente nella direzione di una rivendicazione dei loro diritti. Il sistema funziona, ma si intuisce che Liberalesimo e Socialismo sono destinati a confliggere.

C'è, infine, il problema psicologico. Il trionfo della borghesia coincide, infatti, a partire dall'ultimo quarto del secolo XIX, con una crescente diffusione di disturbi nervosi che, a livello maschile, si configurano spesso sotto forma di nevrosi ossessiva, mentre, a livello femminile, danno luogo ad una sorta di epidemia isterica.

E' Sigmund Freud a penetrare per primo dietro la facciata della Civiltà borghese, ma egli non è in grado di capire che il mondo brulicante di fantasie, desideri, emozioni “selvagge” che scopre esplorando l'inconscio e il mondo onirico è l'espressione di una violenza che la cultura, lacerando il tessuto dell'appartenenza sociale, imponendo la competizione all'insegna della lotta per sopravvivere, reprimendo la sessualità, ecc., ha operato sulla natura umana. Ne Il disagio della Civiltà questa intuizione traspare ("l'uomo diventa nevrotico perché è incapace di sopportare il peso della frustrazione che la civiltà gli impone affinché egli possa mettersi al servizio dei suoi ideali civili" p. 578), ma è sovrastata da un radicale pessimismo: "l'uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d'amore, capace al massimo di difendersi quando è attaccata; è vero invece che bisogna attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale soccorritore e oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui può magari sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e uccidere. Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare quest'affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia? Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro scopo, che si sarebbe potuto raggiungere anche con mezzi meno brutali. In circostanze che le sono propizie, quando le forze psichiche contrarie che solitamente la inibiscono cessano di funzionare, essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell'uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto della propria specie" (p. 599)

4.

C'è un singolare paradosso che salta agli occhi se inquadriamo le opere dei Grandi Demistificatori nella cornice del loro tempo.

Il liberismo si afferma sulla base del presupposto per cui l'individuo libero e indipendente, dotato di diritti inviolabili, è la cellula della società la quale si edifica sulla base di un contratto che lega i soggetti tra loro e li vincola ad un quadro comune di regole condivise.

Darwin, che pure aderisce al liberismo, nega questo presupposto, identificando nell'istinto sociale, ereditato dagli animali superiori, l'aspetto più specifico della natura umana e, addirittura, la matrice della consapevolezza e della cultura.

Marx ironizza su quel presupposto, ritenendolo una robinsonata, e sostiene la radicale socialità dell'uomo, che nasce dallo scambio con l'Altro e, in conseguenza di questo, fa dell'uomo un fine e non un mezzo.

Nietzsche identifica nella socialità il pericolo dell'omologazione culturale, e rivendica la necessità che l'individuo dia spazio alla sua vocazione ad essere entrando in conflitto con la tradizione culturale del gruppo di appartenenza.

Freud, infine, nega che la natura umana contenga un qualunque bisogno sociale e vede nell'animalità dell'uomo una minaccia che solo la cultura può piegare alle leggi della convivenza civile.

In questa parabola che parte dalla radicale socialità dell'uomo (Darwin e Marx), la identifica con Nietzsche come una minaccia per l'individuazione e giunge con Freud alla sua negazione è difficile non intravedere il riflesso di una congiuntura storica che rende problematica la definizione della natura umana, dell'Io, dell'Altro e della relazione tra io e Altro.

Questa definizione, ancora oggi, è il problema.


Lettura I


La teoria "sconvolgente"

Richiamo all’Introduzione
La teoria “sconvolgente”
Una strana circostanza
La metodologia di Darwin
L’autoritratto di Darwin
La “malattia” di Darwin
Matrici ideologiche della teoria darwiniana
Le critiche non ostili

Richiamo all'Introduzione

Un breve richiamo all'introduzione, per chi non ha avuto ancora occasione di leggerla, si impone.

Il dato di fatto da cui partire è che la fioritura di quattro Geni, che hanno segnato la storia della cultura contemporanea, e la cui influenza persiste tuttora, avviene nell'arco di mezzo secolo: un'epoca che gli storici designano come il trionfo della borghesia. La circostanza non sorprende se si tiene conto che la genialità, di solito, si dispiega nei periodi storici caratterizzati da un intenso dinamismo evolutivo. Sotto questo profilo, la seconda metà del Novecento sembra corrispondere a questa formula con lo sviluppo dell’economia, della scienza, della tecnologia, dell’arte.

Il rapporto tra genialità e contesto storico può essere, però, consonante, quando i Geni interpretano lo spirito del tempo (come, nel periodo in questione, è il caso di Wagner), o dissonante, quando essi producono opere che, esplicitamente o implicitamente, contestano quello spirito o rivelano ciò che esso cela.

Darwin, Marx, Nietzsche e Freud sono geni dissonanti: le loro opere sono, sia pure da prospettive del tutto diverse, colpi di maglio scagliati contro la civiltà trionfante.

Darwin, con l’evoluzionismo, non riconduce solo l’uomo a prendere atto delle sue origini animali e del suo statuto biologico, bensì attenta al suo primato nella scala della vita, facendogli presente di essere nato casualmente e di rappresentare, per la sua relativa giovinezza, una specie precaria.

Marx, attraverso l’analisi di un capitalismo avviato a conquistare il mondo, giunge alla conclusione che il trionfo è effimero, e che il sistema è destinato inesorabilmente ad essere sormontato.

Nietzsche è non meno incisivo. L’uomo attuale – egli sostiene – è una patetica e ipocrita controfigura dell’uomo che verrà, libero dagli impacci della morale cristiana e dallo spirito “pratico” della borghesia.

Freud, infine, scopre che la fede nella coscienza, che non è mai stata assoluta come all’epoca, è del tutto ingiustificata, perché essa, nel suo statuto, serve meno ad illuminare la verità che non a celarla, e questo soprattutto per quanto concerne la verità dell’uomo su se stesso.

In un certo senso, i Grandi Demistificatori sembrano impegnati ad affrontare i dilemmi universali che, all’epoca, nell’esaltante atmosfera dello sviluppo capitalistico, sembravano risolti: da dove veniamo? chi siamo? dove andiamo?

Da dove veniamo: dal ventre della natura, sostiene Darwin; dal ventre della storia, afferma Marx. Chi siamo: animali come gli altri secondo Darwin, animali portatori di bisogni radicali secondo Marx, esseri inesorabilmente incompiuti secondo Nietzsche, esseri galleggianti sul turbolento mare dell’inconscio secondo Freud. Dove andiamo: verso un mondo fatto a misura d’uomo – sostiene Marx-, verso il Superuomo – afferma Nietzsche-, verso una civiltà che contenga, ma non reprima troppo le pulsioni – scrive Freud.

L’intento delle letture è di riprendere questi interrogativi alla luce delle riflessioni dei Grandi Demistificatori per capire se le loro “provocazioni” hanno ancora senso, oggi, per noi; per giungere, insomma, ad una comprensione più profonda dell'essere umano nella sua complessità attraverso lo studio critico delle loro opere.

La teoria “sconvolgente”

Darwin ha focalizzato un aspetto fondamentale di questa complessità: benché dotato di singolari potenzialità mentali che gli hanno consentito di trasformare radicalmente l'ambiente, l'uomo è un animale prodotto dall'evoluzione naturale. E' dunque, anzitutto, un essere biologico.

E' solo l'assuefazione culturale a impedirci di comprendere quanto c'è di sconvolgente in un'affermazione del genere. La stessa sua formulazione corrente, venuta a far parte del senso comune, secondo la quale l'uomo discende dalla scimmia, oltre ad essere inesatta (in quanto si tratta di due specie distinte che hanno solo un progenitore comune, il quale risale ad oltre tre milioni di anni fa), è riduttiva.

In realtà, il darwinismo comporta il presupposto per cui tutte le forme viventi – vegetali ed animali – derivano da pochi organismi unicellulari, comparsi circa tre miliardi e mezzo di anni fa, che hanno contrassegnato il passaggio dalla materia inanimata alla vita.

Finora inspiegabile, al punto che alcuni specialisti sostengono che la vita sia attecchita sulla Terra provenendo da un altro pianeta, questo passaggio ha avviato un processo di differenziazione delle specie viventi che, analizzato a posteriori, sembra attestare un progresso verso forme sempre più elevate e complesse, culminato nella comparsa dell'uomo.

Nell'ottica darwiniana, però, il progresso è solo apparente. Ogni organismo vivente, in quanto capace di adattarsi all'ambiente, di sopravvivere e di riprodursi, rappresenta una realtà a sé. In quanto dotati di capacità adattiva, tutti gli esseri viventi hanno lo stesso peso biologico.

L'apparente progresso sarebbe dovuto ad un unico meccanismo – la selezione naturale -, che agisce sulla base della varietà che si dà tra gli individui all'interno di ogni specie. La varietà è il presupposto della selezione in quanto essa, attraverso lentissimi processi di transizione che modificano le strutture e le funzioni di una specie, appare in grado di produrne delle nuove, riproduttivamente isolate.

Se non c'è progresso nell'evoluzione, l'uomo è un animale come gli altri, addirittura più precario data la sua recente comparsa. E' una legge della biologia che le specie si stabilizzano dopo 500mila anni dal momento in cui compaiono. L'uomo, con le sue singolari caratteristiche psichiche e comportamentali, è nato non più di 150mila anni fa.

La casualità della comparsa della specie umana e la sua precarietà, costitutiva di ogni specie biologica, che la destina ad una fine certa, per quanto remota: questi sono gli aspetti “sconvolgenti” della teoria darwiniana.

L'intento di queste letture prescinde dal farsi carico di tutti i problemi – scientifici e filosofici – che essa comporta.

Affronteremo, di fatto, un solo problema, che ci interessa più da vicino, e che può essere posto in forma interrogativa: l'evoluzionismo è in grado di spiegare l'“unicità” la “straordinarietà” dell'uomo, con la sua ricchezza e le sue miserie?

La risposta maturerà nel corso delle letture.

Anticipo solo che essa è positiva, a patto che la teoria darwiniana sia depurata da valenze ideologiche che fanno capo alla personalità di Darwin e alla sua visione del mondo, e revisionata alla luce di principi che consentono di valutare quella “straordinarietà” senza fuoriuscire da una cornice naturalistica.

Ci imbatteremo, dunque, in un problema che ritroveremo, in forme diverse, anche nell'analisi del pensiero di Marx, di Nietzsche e di Freud. I grandi geni sono dotati della capacità di mettere in gioco gli schemi culturali del mondo cui appartengono e di formularne di nuovi. Ciò nondimeno essi pagano un tributo alla storia personale e alla cultura del mondo con cui interagiscono.

Non si tratta di applicare la psicoanalisi al pensiero scientifico e filosofico o di ricondurlo pedissequamente ad un qualsivoglia determinismo ambientale, bensì semplicemente di riconoscere l'intreccio complesso tra genialità, soggettività e ambiente socio-culturale.

Per quanto riguarda Darwin, vedremo che il tributo che egli ha pagato gli ha impedito di considerare la possibilità che l'evoluzione naturale comporti “salti” repentini qualitativi in termini di tempo biologico (notoriamente lungo). L'uomo – anticipo la conclusione cui perverrò - non può essere compreso senza fare riferimento a tale possibilità.

Una strana circostanza

Trasferiamoci in Inghilterra, verso la metà del XIX secolo.

A Downe, nel Kent, contea a sud-est di Londra, in una residenza chiamata Down House, un naturalista inglese – Charles Darwin - vive di rendita con la moglie e figli. Apparentemente, non fa gran che, tranne che pubblicare periodicamente alcuni articoli su riviste di scienze naturali. Passa gran parte del suo tempo consultando appunti, leggendo, scrivendo. Nonostante disturbi nervosi periodici e sintomi psicosomatici che lo affliggono, egli studia di continuo e riflette su una serie imponente di dati raccolti nel corso di quattro lunghi anni trascorsi in mare, elaborando di continuo ipotesi. L'obiettivo della sua ricerca è capire se l'indefinita varietà delle forme viventi possa essere spiegato in termini scientifici, sulla base di meccanismi naturali che prescindono da qualsivoglia intervento divino. Cerca, in breve, le leggi che sottendono l'evoluzione della vita.

A Londra, Karl Marx, un filosofo tedesco costretto all'esilio dopo la fiammata rivoluzionaria nell'Europa continentale del 1848, frequenta quasi giornalmente la biblioteca del British Museum raccogliendo un'imponente quantità di dati sulla storia, l'economia, il commercio, ecc. Egli vive con la moglie e i figli in una casa angusta, in condizioni quasi miserabili. E' affetto da una serie di disturbi psicosomatici ricorrenti. Ciò nondimeno, passa gran parte della notte a scrivere un'opera il cui piano è a tal punto imponente da essere destinata a rimanere in gran parte incompiuta e il cui obiettivo è temerario: identificare le leggi che sottendono l’evoluzione della storia umana e l'obiettivo verso cui essa tende.

E' singolare che Darwin e Marx abbiano portato avanti la loro ricerca nello stesso periodo, a distanza di una decina di chilometri l'uno dall'altro.

La circostanza è del tutto casuale. Marx si è rifugiato in Inghilterra dopo essere stato espulso dall'Europa continentale per la sua attività sovversiva. Egli ha trovato asilo proprio nel “cuore pulsante” del sistema capitalistico, che ha cominciato a criticare e ad attaccare, preconizzandone il superamento.

Benché casuale, la circostanza è densa di significato.

Sia Darwin che Marx credono nella scienza, ed entrambi si trovano ad operare su due terreni ai quali non è applicabile il metodo sperimentale. La storia naturale della vita e la storia culturale della specie umana si svolgono, infatti, su di una dimensione temporale che non consente alcuna riproduzione sperimentale e comportano una serie indefinita di variabili che sembra impossibile ricondurre a leggi.

Darwin e Marx sono del tutto consapevoli della difficoltà del compito che si prefiggono: violare il “mistero” dell'evoluzione della vita e dell'evoluzione della storia riconducendolo sotto l'egida della ragione, identificandone cioè le cause.

La conclusioni cui giungono sono oltremodo diverse.

La teoria di Darwin fa riferimento ad un meccanismo ciecamente casuale, quello della selezione naturale, in conseguenza del quale l'ambiente, ponendo alla prova la capacità adattiva degli individui, consente a coloro che la superano di sopravvivere e di riprodursi. Frutto di questo meccanismo, la specie umana non ha altro fine che “cavarsela”, sulla base, peraltro, di una preziosa caratteristica ereditata dagli animali: l'istinto sociale.

La teoria di Marx, invece, si riconduce ad un fine intrinseco alla “seconda” natura umana, vale a dire alla storia che comporta, per una specie singolare, la necessità di trasformare culturalmente l’ambiente per adattarlo ai suoi bisogni. Via via che la trasformazione culturale del mondo procede essa fa affiorare un insieme di bisogni radicali – l'uguaglianza, la libertà, la giustizia – che promuovono, sia pure con indefinite vicissitudini, un progresso inesorabilmente orientato verso un mondo fatto a misura d’uomo.

La teoria darwiniana, dunque, è casualistica, quella marxiana finalistica.

Il casualismo darwiniano valorizza la biologia, l’eredità genetica, assume l’individuo come unità evolutiva ed esclude qualsivoglia salto.

Il finalismo marxiano, invece, valorizza la storia, l'eredità culturale e assume l'individuo come agente sociale che, giunto alla coscienza di specie, promuove una rivoluzione la quale segna la fuoriuscita dalla preistoria, caratterizzata dal dominio dell'uomo sull'uomo.

Non si potrebbe dare nulla di più diverso. L'unico dato apparentemente in comune tra le due teorie è il naturalismo o materialismo, vale a dire il rifiuto di ogni trascendenza e l'interpretazione della vicenda umana in un orizzonte mondano.

Trasferiamoci ora in Moravia, verso la metà del XIX secolo.

Nel giardino di un monastero situato a Brno (attuale repubblica ceca), Gregorio Mendel (1822–1884), un monaco laureato in scienze e in teologia, coltiva un infinito numero di piante di piselli, incrociandole tra loro. Il suo intento è di scoprire le leggi attraverso le quali si trasmettono i caratteri ereditari. A tal fine, egli adotta un metodo sperimentale piuttosto semplice: tiene conto solo di caratteri semplici (superficie liscia o rugosa, colore giallo o verde, ecc.) annotando scrupolosamente la loro comparsa o scomparsa nelle generazioni successive.

Elaborando gli imponenti dati raccolti con una metodologia statistica (e una pazienza letteralmente certosina), Mendel scopre, di fatto, l’esistenza dei geni e enuncia le tre leggi fondamentali dell'ereditarietà, valide ancora oggi. Egli pubblica i risultati delle sue ricerche nel 1866 su di una rivista di botanica, ma la pubblicazione non ha alcun riscontro.

L’opera di Mendel sarà “riscoperta” solo nel 1900, e avvierà la fondazione di una branca della biologia - la genetica - destinata ad influenzare tutte le scienze umane e sociali e ad animare il dibattito non ancora spento tra coloro che sostengono il primato della natura, vale a dire della biologia, e coloro che sostengono il primato della cultura, cioè dell'apprendimento.

Darwin e Marx si possono ritenere antesignani di tale dibattito.

Da punti di vista del tutto diversi essi tentano di rispondere alle domande che l’umanità si pone da sempre: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? Darwin è più interessato alle prime due, Marx privilegia la terza.

Non è superfluo osservare preliminarmente che Darwin e Marx sono “dilettanti”. Darwin ha frequentato due facoltà universitarie (medicina, teologia) ma con scarsi risultati, specializzandosi infine in geologia. Marx si è laureato in filosofia, ma si dedica all'economia.

All'epoca, evidentemente, c'era ancora la possibilità che il genio si esprimesse al di fuori di ambiti istituzionali: circostanza questa che, successivamente, è diventata sempre più rara dacché il sapere, come ha sostenuto Illich, si è tecnicizzato e si ritiene che specifiche competenze non sussistano se non in virtù di curricula e di titoli.

E' ovvio che il “dilettantismo”, per lasciare un segno nella storia della cultura, implica non solo un tasso elevato di genialità individuale, ma anche un'autodisciplina e una metodologia rigorosa.

La metodologia di Darwin

E’ stato sottolineato più volte che l’evoluzionismo non nasce con Darwin. Egli stesso, nella premessa a L'origine delle specie, cita scrupolosamente tutti gli autori che hanno espresso intuizioni evoluzionistiche. Prima di lui, però, si trattava, per l'appunto, di ipotesi poco argomentate e ancora meno corroborate da prove. Solo grazie al suo paziente lavoro l'evoluzionismo è divenuta una teoria scientifica (per quanto contestata).

Non potendo ovviamente fare uso della sperimentazione, Darwin segue un metodo induttivo. Egli osserva attentamente i “fatti” inerenti le forme viventi (vegetali e animali) e raccoglie quelli che gli appaiono significativi. I suoi taccuini di appunti, scritti nel corso del viaggio per mare che ha cambiato la sua vita, sono letteralmente impressionanti per densità e precisione descrittiva.

Raccogliere fatti evidenti all'osservazione sembra una cosa semplice, ma, in realtà, dipende dal contesto. Identificare in un branco di pecore una che ha il manto nero è un gioco da ragazzi. Allorché però il contesto è l'insieme delle forme viventi che occupano il pianeta, le cose si complicano. La capacità di cogliere, sullo sfondo di un contesto del genere, ciò che è indiziario e significativo differenzia l'occhio scientifico da quello comune.

La straordinaria capacità di osservazione di Darwin è riconosciuta da tutti. Per apprezzarla pienamente, però, occorre tenere conto che essa non fa riferimento all'acutezza dello sguardo, ma a quella della mente. Estrapolare dati significativi da un contesto estremamente differenziato implica cercare qualcosa alla luce di un'intuizione, di un'ipotesi.

E' del tutto sorprendente in Darwin che tale intuizione guida la ricerca dei dati significativi, ma precede la loro spiegazione, la teoria, che matura lentamente.

Formulata la teoria, poi, la metodologia di Darwin comporta un'altra strategia scientificamente significativa. Egli, infatti, cerca insistentemente fatti contrastanti con la teoria: falsifica, insomma, le ipotesi che gradualmente produce al fine di corroborarle, vale a dire di formularne altre di ordine più generale che riescono a spiegare anche i fatti inesplicabili nel quadro di quelle precedenti.

Orgogliosamente, nell'Introduzione alla sesta edizione de L'origine delle specie, Darwin afferma di non essere rimasto sorpreso da alcuna obiezione rivolta alla sua teoria perché se l'era già posta e l'aveva valutata per suo conto. Vedremo che le cose non stanno così. Almeno da una critica egli è rimasto spiazzato. Ma non anticipiamo i tempi.

E' importante ora operare una riflessione di più ampia portata sulla metodologia di Darwin, che compensa con l'osservazione la più attenta possibile l'incapacità di sottoporre a sperimentazione l'oggetto dell'indagine.

Propriamente parlando, Darwin non ha "scoperto" alcunché: le prove accumulate per costruire la teoria dell’evoluzione naturale sono da sempre sotto gli occhi di tutti, benché disperse nel vasto scenario del mondo. Egli ha avuto il merito di averle "viste", selezionandole sullo sfondo della realtà con cui si confondono, e di averle valorizzate come indizi di processi naturali significativi che egli poi ha tentato di teorizzare.

Questo ― presumibilmente ― è il motivo per cui Marx pensa, nel 1880, di dedicare a Darwin il secondo libro de Il Capitale. Egli coglie il parallelismo tra l’approccio indiziario e storico ai fenomeni dell’evoluzione naturale e il suo approccio all’evoluzione della società umana.

Darwinismo e marxismo, di fatto, concordano sul principio per cui la realtà, in tutti i suoi aspetti, ha un senso che si riconduce a forze o a leggi che ne spiegano l’organizzazione. Queste forze o leggi vanno ricostruite concettualmente, ma i loro indizi sono presenti nella realtà osservabile. Per reperirli, occorre solo aguzzare la vista sulla base dell’intuizione per cui ciò che appare è, al tempo stesso, indiziario e ingannevole.

Tale principio potrebbe essere adottato universalmente se si desse per scontato il fatto che l’apparenza non coincide con l’essenza, ma, in qualche misura, è sintomatica di ciò che si nasconde al di sotto di essa.

L'adozione di questo principio, per cui le stesse apparenze che ingannano la mente umana contengono gli indizi per cui esse possono essere sormontate, non porterebbe tutti gli uomini ad essere scienziati. Li aiuterebbe semplicemente, a mantenere un atteggiamento critico nei confronti della realtà, ad osservarne attentamente la superficie dando per scontato che, al di sotto di essa, si dà una realtà dinamica che permette di spiegarla.

Forse, l’insegnamento più profondo, implicito, di Darwin è proprio questo: la verità (almeno per quel tanto che è concesso agli uomini di afferrare) è sempre sotto gli occhi. Basta leggerla.

Un altro insegnamento, il cui significato si chiarirà successivamente, è che la lettura degli indizi, quando sono in gioco sistemi complessi, non può e non deve avere la pretesa di spiegare tutto. Nonostante una proverbiale scrupolosità e ponderatezza, Darwin si è un po' “incartato” sul problema dell'uomo. Non soddisfatto di avere dimostrato poco confutabilmente che egli appartiene a pieno titolo al regno degli animali, da cui ha tratto origine, ha preteso di ridurre al minimo le differenze tra l'uomo e gli altri animali commettendo non pochi errori di valutazione.

L'evoluzione naturale delle forme animali, vale a dire il loro discendere l'una dall'altra, è un fatto che si può ritenere inconfutabile. Il ruolo della selezione naturale è anch'esso fuori di dubbio, ma non spiega tutto. L'uomo, con il suo singolare cervello, è un prodotto dell'evoluzione naturale. La comparsa dell'uomo segna però una discontinuità nell'evoluzione che, soprattutto per quanto concerne le funzioni psichiche, richiede di essere spiegata.

Restituendo all'uomo la consapevolezza della sua appartenenza al mondo della natura, Darwin ha posto le premesse di una “naturalizzazione” della vicenda umana, che equivale ad una rivoluzione di grande portata. Rivoluzione non solo scientifica, ma culturale che mira a sormontare il secolare scarto tra biologico e mentale (o spirituale). Dopo Darwin l'uomo non può più pensare a se stesso come prima.

Ma chi è l'autore di questa rivoluzione?

L’autoritratto di Darwin

Le biografie di Darwin sono ormai numerosissime, ma nessuna di esse supera la pacata autenticità dell'autobiografia (reticente, come vedremo, per un solo aspetto) che Darwin scrisse negli ultimi anni della sua vita. Benché redatta in una forma del tutto scarna, tipica della mentalità di uno scienziato, essa merita interesse per molti aspetti.

Un primo aspetto - di ordine psicologico - concerne la personalità di Darwin non meno che le trasformazioni che essa subisce in conseguenza della dedizione all’attività scientifica.

Figlio di una famiglia di antiche tradizioni intellettuali, C. Darwin ha una carriera scolastica nel complesso mediocre, che non lascia minimamente presagire il suo futuro. Egli manifesta precocemente un vivo interesse per la natura: «Quando cominciai a frequentare la scuola, la predilezione per la storia naturale e specialmente il desiderio di far collezioni erano ben sviluppati. Tentavo di trovare il nome delle piante e facevo raccolta di ogni sorta di oggetti: conchiglie, sigilli, bolli, monete e minerali. La mania di far collezioni, che può condurre un uomo a diventare un naturalista sistematico, un conoscitore d'arte oppure un avaro, era molto pronunciata in me e sicuramente innata, poiché nessuno dei miei fratelli e sorelle ha mai avuto tale gusto.”

In conseguenza di questo interesse, egli ha difficoltà a dedicarsi allo studio scolastico che, all'epoca, assegnava un ruolo del tutto secondario alla scienza. Il suo curriculum è dunque senza infamia e senza lode: "Quando lasciai la scuola non ero né troppo avanti né troppo indietro per la mia età; credo che mio padre e i miei maestri mi giudicassero un ragazzo mediocre, un po’ al di sotto del livello intellettuale medio. Mio padre mi disse una volta, con mia profonda mortificazione: "Non fai altro che andare a caccia, occuparti di cani, e catturare i topi, e sarai perciò una disgrazia per te stesso e per tutta la famiglia"." (pag. 10)

Nonostante la severità del giudizio paterno, Darwin non è, certo, un “ragazzaccio”. Il problema piuttosto è che il senso del dovere non mobilita in lui una risposta se non si associa ad un vivo interesse: "le sole qualità che facevano sperare bene per il futuro erano gli interessi spiccati e diversi, l’ardore con cui mi applicavo a ciò che mi interessava e il vivo piacere che mi dava la comprensione di argomenti o fatti complessi." (p. 24)

Le cose non migliorano affatto con l’iscrizione alla facoltà di medicina dell’Università di Edimburgo. Darwin definisce le lezioni "insopportabilmente scialbe" (p. 28), coltiva molti interessi ma si dedica poco allo studio accademico, spende le vacanze estive a divertirsi, non ha alcuna intenzione di dedicarsi alla pratica medica.

Le cose peggiorano addirittura quando, su consiglio del padre, preoccupato che egli possa divenire un ozioso, si trasferisce a Cambridge per diventare un pastore evangelico. Sono tre anni sprecati miserevolmente. Alcune lezioni di geologia e di botanica suscitano il suo interesse, ma il complesso dell’insegnamento lo nausea.

A 22 anni, Darwin è uno “sbandato”. E’ l’assenza di un progetto definito di vita che lo porta, secondo una tradizione propria dell’epoca, a prendere la via del mare. Maturata occasionalmente, e all'inizio ostacolata dal padre, l’esperienza, durata cinque anni, è decisiva: "il viaggio sul Beagle è stato di gran lunga l’avvenimento più importante della mia vita e quello che ha determinato tutta la mia carriera." (p. 58) Nel corso del viaggio, infatti, l’amore per la scienza prende gradualmente il sopravvento su qualunque altro interesse, diventando una vocazione e trasformando radicalmente la personalità di Darwin: “Inconsciamente e insensibilmente scoprii che il piacere di osservare e di ragionare era di gran lunga superiore a quello della caccia e dello sport. Gli istinti primitivi del barbaro cedettero lentamente il campo ai gusti educati dell’uomo civile." (p. 60)

Il giudizio sembra improprio. La mente di Darwin, come capita spesso a persone geniali, funziona solo sulla base di un intenso interesse. Tendenzialmente oppositivo in rapporto all'apprendimento istituzionalizzato, egli avverte fin da bambino una viva curiosità per la natura. Quando si abbandona a lunghe passeggiate nei campi, osserva affascinato le rocce, le piante, gli animali. E’, insomma, uno “scienziato in erba”.

Il viaggio per mare, portandolo a contatto con gli ambienti più diversi, ha solo consentito alla sua vocazione di trovare la via giusta per esprimersi: quella della raccolta sistematica dei dati e della loro elaborazione teorica.

Quando torna in Inghilterra, nel 1836, Darwin ha già pubblicato numerosi lavori di geologia che hanno destato notevole apprezzamento. E’ diventato scienziato sul campo, senza prendere alcuna laurea: circostanza - questa - per cui ancora oggi alcuni creazionisti lo definiscono un naturalista “dilettante”.

Nel corso del viaggio ha però anche annotato una mole imponente di osservazioni sulle specie animali che gli hanno permesso di intuire la transizione tra una specie e un’altra.

La passione scientifica, e l'intuizione di essere su di una pista destinata ad esiti clamorosi, diventa rapidamente una sorta di “droga”. Darwin risiede a Londra per due anni e cerca di inserirsi in varie istituzioni scientifiche. La vita di società, però, non fa per lui. Cominciano a comparire a questa epoca strani malesseri nervosi e psicosomatici che lo perseguiteranno per sempre. Con la moglie Emma, sposata nel 1839, Darwin, che può permettersi di vivere di rendita, decide infine di ritirarsi in campagna per dedicarsi alle sue ricerche.

L'assidua concentrazione nell'attività intellettuale provoca, però, due significativi effetti. Per un verso, essa si associa ad una serie di disturbi psicosomatici che rendono oltre modo faticosa l'attività intellettuale e, in alcuni momenti, la inibiscono. Per un altro verso, essa induce una rilevante modificazione del carattere nella direzione dell’introversione:

“Quando ero giovane e in buona salute ero capace di affetti molto intensi, ma negli ultimi

anni, pur conservando sentimenti assai amichevoli verso molte persone, ho perduto la capacità di attaccarmi profondamente a chiunque, e anche il sentimento che mi lega ai miei cari amici Hooker e Huxley oggi non è più così profondo come un tempo. Credo che questa dolorosa attenuazione del sentimento si sia verificata gradualmente in me, e che sia stata provocata dal timore del grande abbattimento morale derivante da stanchezza, ch'io ritenevo inevitabilmente associato a visite e conversazioni che durassero più di un'ora, a eccezione di quelle di mia moglie e dei figli.

Il lavoro scientifico è stato il principale godimento e l'unica occupazione di tutta la mia vita, e nell'eccitazione che esso mi dà posso dimenticare, quasi annullare, il mio affanno quotidiano.”

(pp. 96-97)

Oltre a produrre un affievolimento degli affetti, la concentrazione intellettuale sul terreno della formulazione della teoria dell’evoluzionismo determina anche una netta diminuzione della sensibilità estetica, che impedisce a Darwin di godere della pittura, della musica e della letteratura classica:

“La mia mente è cambiata negli ultimi venti o trenta anni. Fino all'età di trent'anni o poco più la lettura dei poeti più diversi, come Milton, Gray, Byron, Wordsworth, Coleridge e Shelley, mi dava un gran piacere e già da ragazzo amavo moltissimo Shakespeare, specialmente i drammi storici. Ho anche detto che in passato avevo interesse per la pittura, e ascoltavo con gran piacere la musica. Ma già da molti anni non posso sopportare di leggere nemmeno un rigo di versi: recentemente ho cercato di leggere Shakespeare, ma l'ho trovato così insopportabilmente pesante da trarne disgusto. Ho perduto quasi interamente il gusto per la pittura e la musica. La musica di solito, anziché darmi piacere, mi fa pensare troppo intensamente al mio lavoro. Posso ancora godere dei bei paesaggi, ma non sono più capace di provare quell'incantevole gioia di un tempo. Invece per molti anni i romanzi di pura fantasia, anche se di modesto livello letterario, sono stati per me fonte di piacere e di straordinario sollievo e spesso benedico tutti i romanzieri. Me ne sono fatti leggere molti ad alta voce e mi piacciono tutti, purché siano appena passabili, e non finiscano tragicamente: cosa contro la quale si dovrebbe proporre una legge...

Questa strana e deplorevole perdita di un raffinato senso estetico è davvero singolare, tanto più che i libri di storia, di viaggi (indipendentemente dai fatti scientifici che possono contenere), le biografie e gli articoli sugli argomenti più vari m'interessano come nel passato. La mia mente sembra diventata una specie di macchina per estrarre delle leggi generali da una vasta raccolta di fatti, ma non riesco a capire perché ciò debba aver causato l'atrofia di quella parte di cervello da cui dipende il gusto estetico. Credo che un uomo con una testa meglio organizzata della mia non avrebbe subito questa menomazione; e se vivessi un'altra volta mi assegnerei il compito di leggere un po' di poesia e ascoltar musica almeno una volta la settimana, con la speranza di mantenere attive con l'esercizio quelle parti del cervello che oggi si sono atrofizzate. La perdita di questi gusti è una perdita di felicità, forse dannosa all'intelletto e più ancora alla forza morale, in quanto indebolisce la parte emotiva della natura umana.." (p. 121)

Vissuti simili a questi sono stati espressi (oltre da da filosofi, letterati, musicisti, pittori, ecc.) da molti geni impegnati nella ricerca scientifica. Riprenderò tra poco questo argomento. Non è fuori luogo, però, a questo punto fare un'osservazione di ordine generale.

La scienza richiede un prezzo da pagare. L’attrazione che un uomo avverte penetrando nel territorio del pensiero simbolico, che consente di organizzare la realtà in termini intellegibili, e perseguendo l’obiettivo di risolvere alcuni problemi di grande densità, ha un’inesorabile ricaduta sui legami affettivi che egli intrattiene con il mondo reale e sulla coltivazione di altri interessi. Rendendo onore ai grandi esploratori della verità, l’umanità dovrebbe tener conto anche di questo prezzo che essi pagano.

Un secondo aspetto, non meno importante, che emerge dalla biografia, è il progressivo declino e infine il superamento della fede religiosa in conseguenza di un approccio razionale alla teologia e, infine, di un’adesione al pensiero scientifico.

Il tragitto è ricostruito da Darwin in termini molto onesti. Quando egli si imbarca sul Beagle la sua fede è assolutamente ortodossa, anche se già sottesa da un orientamento critico che gli impedisce di prendere per oro colato i testi biblici: "A quel tempo ero pervenuto, gradualmente, a rendermi conto come il Vecchio Testamento, per la sua storia del mondo così manifestamente falsa, con la Torre di babele, l’arcobaleno come presagio, ecc., per la sua attribuzione a Dio dei sentimenti di un tiranno vendicativo, non meritasse più fede dei libri sacri degli Indù e della credenza di qualsiasi barbaro." (p. 67)

A partire da questi dubbi, il pensiero critico viene ad urtare contro una serie di ostacoli insormontabili: i miracoli, le contraddizioni dei testi evangelici, il dogma dell’inferno ("un’odiosa dottrina" p. 69). In conseguenza di ciò, la fede si attenua e subentra una certa incredulità che, alla fine, diviene totale.

Ma non è solo la critica dei contenuti dottrinari a provocare quest’incredulità. E’ evidente che la visione del mondo religiosa viene gradualmente ad essere sostituita da una visione scientifica. Tale visione comporta un aspetto destruens e uno costruens. Quello destruens è l’incompatibilità tra la fede e l’evoluzione naturale: "Oggi, dopo la scoperta della selezione naturale, cade il vecchio argomento di un disegno nella natura... che in passato mi era sembrato decisivo...

Un piano che regoli la variabilità degli esseri viventi e l’azione della selezione naturale, non è più evidente di un disegno che predisponga la direzione del vento. Tutto ciò che esiste in natura è il risultato di leggi determinate." (p. 69)

Se non c’è un disegno, ciò non significa che il mondo animale sia il regno dell’assurdo. Si può pensare infatti che "la maggior parte degli esseri viventi, se non tutti, si sono sviluppati per selezione naturale in modo tale che si valgano delle sensazioni piacevoli come loro guida abituale." (p. 71)

Applicato all’uomo questo principio, che rappresenta l’aspetto costruens, non porta all’edonismo egoistico: "Mi sembra che per un uomo che non abbia la costante certezza di un Dio personificato o di una vita futura con relativa ricompensa, l’unica regola della vita debba essere quella di seguire gli istinti e gli impulsi più forti o che gli appaiono migliori... D’altra parte l’uomo considera passato e futuro e confronta i suoi vari sentimenti, desideri e ricordi; e trova poi, con il parere di tutti i più saggi, che la massima soddisfazione deriva dal seguire certi impulsi e precisamente gli istinti sociali. Se agisce per il bene altrui riceve l’approvazione degli altri uomini e conquista l’amore delle persone con cui vive, cioè la cosa più piacevole che vi sia sulla terra. A poco a poco troverà insopportabile obbedire alle passioni dei sensi piuttosto che agli impulsi superiori, che quando diventano abituali possono quasi essere chiamati istinti. Talvolta la ragione gli suggerirà di agire contro l’opinione altrui; non riceverà allora segni di approvazione, ma avrà la sicurezza di avere seguito la sua guida più profonda, la coscienza." (p. 76)

L'uomo, dunque, secondo Darwin, è dotato di un potente istinto sociale che lo sollecita naturalmente a cercare e a godere dell'approvazione dei suoi simili, ma, al tempo stesso, può anche agire contro l'opinione altri in nome del suo dàimon. E' quello che egli ha fatto in nome dell'amore per la conoscenza, pagando un prezzo di cui ora occorre discutere.

La “malattia” di Darwin

Ho fatto riferimento ad una reticenza evidente nell'autobiografia. Essa riguarda la strana “malattia” di cui Darwin è stato affetto. Poco dopo il ritorno dal viaggio sul Beagle, egli inizia ad accusare i sintomi che lo accompagneranno e tormenteranno per il resto della sua vita: spossatezza cronica, dolori gastrointestinali, nausea, attacchi di vomito, forti mal di testa, tremori, insonnia, eruzioni cutanee, problemi ai denti e alle gengive, palpitazioni cardiache, bassa resistenza alle infezioni, depressione.

En passant, non è superfluo rilevare che una sintomatologia analoga è stata sperimentata anche da Marx e da Nietzsche e, in una forma più sfumata, da Freud.

Sulla malattia di Darwin sono state avanzate le spiegazioni più varie: infezione da tripanosoma, intolleranza al lattosio, ulcera, avvelenamento da farmaci contenenti arsenico, ecc. In realtà il quadro clinico e soprattutto il suo decorso, sostanzialmente cronico ma con fluttuazioni rilevanti, attestano inconfutabilmente una genesi psicosomatica.

Ma cosa si può dire a riguardo data la reticenza di Darwin sulla sua vita interiore? Penso che si debbano considerare tre fattori.

Il primo fa riferimento all'effetto di “cattura” esercitato sulla personalità di Darwin dall'intuizione di avere scoperto la chiave dell'evoluzione animale. Dal momento in cui tale intuizione si è presentata nell'orizzonte della sua mente, egli non ha potuto che assecondarla, accumulando dati, analizzandoli, avanzando ipotesi, studiando, ecc. Di sicuro questa attività intellettuale è risultata per alcuni aspetti appagante. Come sa, però, chiunque si dedica alla ricerca intellettuale, l'appagamento è pagato al prezzo di una tensione mentale incessante che il soggetto può controllare solo relativamente. Quando la mente imbocca un tragitto, che permette di scoprire un filone aureo che, per assumere valore, deve essere filtrato e depurato dalle scorie, essa sembra preda di un'incoercibile “passione” che può facilmente distogliere l'individuo rispetto a qualunque altro aspetto della vita. Darwin ha descritto con precisione questa alienazione della soggettività dovuta alla passione per la ricerca: "La mia mente sembra diventata una specie di macchina per estrarre delle leggi generali da una vasta raccolta di fatti." (p. 121)

La trasformazione della mente umana in una macchina che insegue la lepre meccanica della verità attesta l'attivazione di quello che oggi si chiama ufficialmente, in neurobiologia, il sistema della ricerca che è intimamente correlato alla produzione di dopamina. L'attivazione di questo sistema, anche se corrisponde ad un vissuto soggettivo di appagamento, realizza uno stato di stress che pone in atto meccanismi spontanei di autoregolazione, la cui conseguenza sono sintomi di vario genere che inibiscono l'attività intellettuale.

Che significa questa contraddizione? Semplicemente che tra le esigenze della conoscenza, spinte ad un certo livello, e le esigenze della vita si dà una qualche antitesi.

Un secondo fattore, che conferma quest'ipotesi, riguarda le conseguenze della tensione intellettuale sulla socialità e sull'affettività. Anche per questo aspetto l'onestà di Darwin è ammirevole, laddove confessa di avere registrato un calo continuo del suo piacere di stare con gli altri e di reggere la conversazione per più di un'ora. Ciò che egli non può dire (perché lo sappiamo solo oggi) è che, quando una mente è “drogata” dall’attività intellettuale, il calo del bisogno di socialità è dovuto ad un fastidio più o meno vivo, conscio e soprattutto inconscio, provato in presenza degli altri che distraggono e costringono a parlare del più e del meno. La conseguenza di tale fastidio è un senso di colpa inconscio riferito ad una presunta asocialità o antisocialità.

Non è affatto paradossale che siffatto senso di colpa si sia originato nelle viscere della mente di colui che, in un periodo in cui l'ideologia liberale, recuperando la concezione antropologica dell'uomo di Hobbes, tendeva ad esaltare l'individuo e a ricondurre la socialità, eccezion fatta per la dimensione familiare, nell'ambito dello scambio economico, sottolineava la potenza dell'istinto sociale nell'uomo.

Il terzo fattore è il più complesso. La lunga esitazione di Darwin nel pubblicare L'origine delle specie, che è stata sormontata solo in seguito alla minaccia che Wallace, pervenuto per conto suo all'ipotesi della selezione naturale, potesse passare alla storia come il naturalista che aveva scoperto la legge dell'evoluzione animale, non si può solo ricondurre alla scrupolosità dello scienziato e alla sua consapevolezza delle lacune della teoria. Darwin si rendeva perfettamente conto delle potenzialità culturalmente destabilizzanti dell'evoluzionismo e delle conseguenze che essa avrebbe prodotto su di una società borghese che, pur alimentando gli “spiriti animali”, sembrava impegnata, attraverso il suo stile di vita, a sottolineare la sua indefinita distanza dalla volgarità popolare e, a maggior ragione, dall'istintività degli animali.

Pur essendo dotato di una valenza oppositiva che si è espressa a lungo nell'interazione con il padre e che, nel rapporto con il capitano della Beagle, ha toccato alcuni vertici drammatici, Darwin, forse proprio in conseguenza di queste esperienze, non amava e non tollerava emotivamente situazioni di conflitto.

Il fatto di dover prendere una posizione teorica destinata ad attivare prevedibili reazioni da parte dei benpensanti, pure essendo coerente con la sua onestà intellettuale, deve avere prodotto non pochi problemi a livello cosciente e, ancora più, a livello inconscio, laddove la mente è programmata per consentire non per dissentire, per andare d'accordo con gli altri e non per contrapporsi ad essi.

Nel dramma privato di Darwin dobbiamo riconoscere una dinamica che vale per tutti gli esseri umani il cui tragitto intellettuale li porta ad entrare in conflitto con la cultura del gruppo di appartenenza.

Andare contro la corrente della tradizione, del senso comune, dell'opinione pubblica, dei codici normativi (anche scientifici) è un bisogno incoercibile in alcuni soggetti, ma esso deve fare i conti con il bisogno, ugualmente intenso di stare in armonia con il mondo.

Ci si può chiedere quale interesse possa avere la “malattia” di Darwin ai fini di un’analisi della sua teoria o, più precisamente, che significato abbia “frugare” in un mondo interiore privato, tra l’altro vissuto con estrema riservatezza, laddove si tratta di valutare le oggettivazioni di quel mondo sotto forma di idee, ipotesi, teorie, ecc.

Se si dà credito alle interpretazioni fornite, riesce evidente che, nel mondo interiore umano, si danno vicissitudini conflittuali - per esempio tra la passione della conoscenza e il desiderio di lasciarsi andare, o tra i doveri sociali e il bisogno di assecondare la propria individuale vocazione ad essere - che creano una stato di turbolenza emozionale, espresso da sintomi psichici e somatici, che non ha alcun riscontro negli altri animali.

Tali vicissitudini definiscono una discontinuità tra la complessa esperienza psichica umana e quella degli animali: una discontinuità che Darwin, come vedremo, è stato indotto a minimizzare per non esporsi agli attacchi dei creazionisti, ma la cui conseguenza è stata paradossalmente quella di renderla più vulnerabile.

L'esperienza di Darwin, insomma, confuta il punto debole della sua teoria: quello per cui non si dà alcuna differenza qualitativa tra la psiche animale e quella umana.

Le matrici ideologiche della teoria darwiniana

Benché fondata su di una capacità di osservazione e di elaborazione dei dati assolutamente straordinaria, la teoria darwiniana prende corpo molto lentamente. Le prime intuizioni risalgono al periodo del viaggio sul Beagle, una prima organizzazione dei dati avviene nel 1837, un abbozzo di 35 pagine è del 1842, una stesura più ampia, di 250 pagine, del 1844. La prima edizione de L’origine delle specie al 1859; ad essa seguono sei edizioni, l’ultima del 1872, nelle quali Darwin approfondisce alcune tematiche e, soprattutto, tenta di rispondere alle critiche che gli sono state rivolte.

E’ probabile che, se non fosse intervenuto un singolare “incidente”, la pubblicazione avrebbe dovuto ancora attendere per vedere la luce. Darwin era convinto della fondatezza scientifica della teoria evoluzionistica, ma era anche perfettamente consapevole delle sue carenze e dei problemi non risolti che essa conteneva.

L'incidente in questione è ricostruito nell'Autobiografia nei seguenti termini:

“Nei primi mesi del 1856, Lyell mi consigliò di scrivere piuttosto estesamente le mie idee e io incominciai subito a farlo, con un'ampiezza tre o quattro volte superiore a quella che adottai nella stesura definitiva dell'Origine delle specie; tuttavia era solo un compendio del materiale che avevo raccolto, e per circa la metà di questo lavoro continuai ad attenermi a tali proporzioni. Ma i miei progetti furono sconvolti, perché all'inizio dell'estate del 1858 il signor Wallace , il quale allora si trovava nell'arcipelago malese, mi mandò un saggio: Sulla tendenza delle varietà a distaccarsi indefinitamente dal tipo originale [On the Tendency of Varieties to depart indefinitely from the Original Type], in cui si esponeva una teoria identica alla mia. Il signor Wallace mi pregava di leggere il suo articolo e di passarlo in lettura a Lyell, se la mia opinione fosse stata favorevole.

Nel «Journal of the Proceedings of the Linnean Society» (1858, p. 45), ho spiegato i motivi che mi spinsero ad associarmi alla richiesta di Lyell e Hooker di pubblicare un riassunto del mio manoscritto [...], contemporaneamente alla pubblicazione del saggio di Wallace [...]

Nonostante tutto, le nostre due pubblicazioni richiamarono pochissimo l'attenzione...

Nel settembre del 1858, seguendo i ripetuti consigli di Lyell e Hooker, mi misi all'opera per preparare un libro sulle modificazioni delle specie, ma questo lavoro fu spesso interrotto dalle mie cattive condizioni di salute [...]. Ridussi il manoscritto incominciato nel 1856 e completai il volume secondo le stesse proporzioni, impiegandovi tredici mesi e dieci giorni d'intenso lavoro. Il libro fu pubblicato nel novembre 1859 con il titolo Origine delle specie.” (pp. 105-107)

All'incidente, Darwin attribuisce il merito di averlo costretto ad accelerare la stesura definitiva dell'opera e a ridurne alquanto le dimensioni che, nei suoi progetti originari, erano molto maggiori. Si può affermare con certezza, però, che se anche avesse rimandato la pubblicazione alla fine della sua vita, alcune lacune non sarebbero state colmate e alcuni problemi non risolti.

Come accennato, Darwin non è mai venuto a conoscenza delle ricerche di Mendel. Non ha potuto tenere, dunque, conto delle leggi della genetica.

Paradossalmente, però, almeno in parte i problemi non risolti dipendono dall’influenza esercitata su Darwin da due studiosi, ai quali egli attribuisce il merito di averlo messo sulla pista giusta per giungere a formulare la sua teoria: Lyell e Malthus. Non meno paradossalmente, quei problemi sono stati prontamente rilevati da tre studiosi che hanno aderito prontamente al darwinismo: Huxley, Wallace e Mivart.

Vediamo un po’ come sono andate le cose.

Quando Darwin si imbarca sul Beagle egli porta con sé il primo volume dei Principi di geologiadi Lyell, uscito appena due anni prima (1829) di cui riceverà in viaggio il secondo volume pubblicato nel 1832. L'influenza di questa lettura è confermata da Darwin in questi termini: “Il più grande merito dei Principi è stato di aver alterato l’intero modo di pensare, e di conseguenza, osservando una cosa mai vista da Lyell, si può ancora osservare attraverso i suoi occhi”.

Charles Lyell (1797-1875) ha avuto una carriera biografica simile, per alcuni aspetti, a quella di Darwin. Di agiata famiglia, precocemente interessato ai fenomeni naturali ma indirizzato dal padre verso la giurisprudenza, solo intorno ai trent'anni giunge a rompere gli indugi e a dedicarsi a tempo pieno alla geologia. Poco più che trentenne, pubblica (nel 1830) la prima edizione dei Principi di geologia, in cui sostiene la teoria dell'uniformatorismo, secondo la quale le cause naturali che hanno operato nei tempi passati nel modellare la Terra sono le stesse che possono essere osservate nel presente. Cause costanti e uniformi, dunque, nonostante la loro combinazione graduale possa dar luogo a fenomeni apparentemente catastrofici.

Adottato da Darwin, lo sguardo di Lyell, lo induce a presumere che l’evoluzione della vita animale abbia avuto un ritmo uniforme.

Al ritorno dal viaggio, Darwin conosce Lyell, e tra i due si sviluppa una solida amicizia. Lyell, anche se non condivide l'ipotesi della selezione naturale, diventa, di fatto, un sostenitore dell'evoluzionismo, al punto che nel 1863 pubblica “L'evidenza geologica dell'Antichità dell'Uomo”.

L'influenza di Lyell è decisiva per convincere Darwin che gli organismi biologici attuali, in tutte le loro strutture e funzioni, sono la conseguenza di antichi processi selettivi. In rapporto all'uomo, ciò significa che le strutture e le funzioni del cervello corrispondono ad una selezione intervenuta quando gli esseri umani vivevano di caccia e di raccolta.

Allorché, al ritorno dal viaggio sul Beagle, Darwin si pone a riflettere sui dati di cui dispone, consultando peraltro freneticamente gli allevatori di animali domestici, che egli intuisce impegnati, attraverso gli incroci, a “selezionare” empiricamente caratteri ritenuti positivi, egli si imbatte nell’opera principale di Thomas Robert Malthus(1766–1834), il “Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società” , pubblicato nel 1798.

Malthus è un economista e demografo inglese, che si riconduce ad Adam Smith, il fondatore dell’economia scientifica il cui saggio La ricchezza delle nazioni, pubblicato nel 1776, si può ritenere il “manifesto” del liberalismo. La teoria di Smith parte dal presupposto che la ricchezza, che ha cominciato a crescere in virtù della manifattura e dell’adozione delle macchine, sia dovuta all’attività di singoli individui ciascuno dei quali persegue il suo interesse privato. In un regime di concorrenza, l’attività dei singoli individui converge “naturalmente” verso una situazione di equilibrio economico, che comporta il migliore uso delle risorse in termini produttivi e la creazione di una ricchezza - il bene comune - che poi si distribuisce secondo i meriti personali.

Non esiste alcuna prova che Darwin abbia letto l’opera economica di Smith. Egli però di sicuro la conosceva indirettamente, e ne ha tenuto conto attraverso Malthus. Questi parte dallo stesso presupposto di Smith, secondo il quale il principio fondamentale dell’economia è rappresentato dalla scarsezza delle risorse in rapporto all’infinità dei bisogni umani, e lo analizza sulla base della demografia. Dato che la popolazione cresce secondo una proporzione geometrica (1-2-4-8, ecc),. per cui ogni singolo aumento è principio di moltiplicazione degli aumenti successivi, mentre, al contrario, le risorse per la sussistenza aumentano solamente in proporzione aritmetica (1-2-3-4, ecc), ne segue che l'aumento delle risorse non riesce a tenere il passo con la crescita della popolazione; vi saranno sempre più esseri umani e, proporzionalmente, sempre meno risorse sufficienti a sfamarli.

Il maltusianesimo fa della scarsità delle risorse in rapporto ai bisogni della popolazione crescente il tema centrale dell'economia, dal quale discende l'inesorabilità della lotta competitiva per assicurarsele e sopravvivere. Perché questa lotta privilegi i più forti, però, è necessario che ogni individuo sia libero e privo di assistenza sociale e solidarietà. Il maltusianesimo, di conseguenza, approda ad un modello che oggi chiameremmo di liberismo selvaggio.

E' la lettura di Malthus che suggerisce a Darwin l'ipotesi della selezione naturale, vale a dire della sopravvivenza del più adatto. Ciò non implica, però, l'adesione di Darwin al maltusianesimo. Il suo liberalesimo sta più dalla parte di Adam Smith che non dalla parte di Malthus. Prima di scrivere La ricchezza delle nazioni, Smith ha pubblicato nel 1759 La teoria dei sentimenti morali, che non solo attribuisce all’uomo un istinto sociale che comporta una certa solidarietà, ma addirittura un senso si compassione che impedisce di vedere soffrire un simile senza avvertire un moto tendente ad aiutarlo.

Con la sua consueta lucidità, Marx ha colto perfettamente l’ideologia implicita nel darwinismo scrivendo:

“E notevole il fatto che, nelle bestie e nelle piante, Darwin riconosce la sua società inglese con la sua divisione del lavoro, la concorrenza, l'apertura di nuovi mercati, le "invenzioni" e la malthusiana "lotta per l'esistenza". E il bellum omnium contra omnes di Hobbes.”

La riflessione è profonda, ma la conclusione è fuori misura. Nel mondo degli animali, come vedremo, esiste la competizione per le risorse naturali, ma non la guerra. La visione “gladiatoria” dell'evoluzionismo non è di Darwin, bensì del suo amico Huxley.

Nonostante questo fraintendimento, Marx ha sempre ammirato Darwin riuscendo a distinguere il valore della sua teoria dall’influenza “sovrastrutturale” esercitata su di essa dall’ambiente e dalla cultura.

La scienza non è una rivelazione, ma uno sforzo di approssimazione che, quando ha come oggetto il soggetto stesso che indaga (vale a dire l'uomo), deve per forza pagare un prezzo al fatto che il ricercatore ha un suo modo di vedere e di sentire riguardo all'oggetto, che fa capo alla sua esperienza personale e alla mentalità del mondo cui appartiene.

Non è formalmente scorretto affermare che la teoria darwiniana, privilegiando l’attività adattiva dei singoli individui rispetto, ritenendo che l’evoluzione sia un processo lentissimo e graduale, il quale comporta un’infinità di impercettibili cambiamenti, e escludendo salti e rivoluzioni di ogni genere ha una matrice liberale. Questo limite, però, non ne inficia il valore scientifico.

Le critiche non ostili

Il limite in questione - riconducibili ad un estremo gradualismo che porta a negare l’evidente discontinuità che si dà tra l’uomo e gli altri animali - è stato, peraltro, rilevato precocemente, dopo la pubblicazione de L’origine delle specie, da studiosi tutt’altro che ostili a Darwin.

Da Alfred Russel Wallace(1823-1913), anzitutto, un naturalista di umili origini, autodidatta, riuscito con enorme fatica a laurearsi in medicina. Come accennato, anche Wallace, per suo conto, e sorprendentemente anch’egli in seguito alla lettura di Malthus, è giunto a formulare l’ipotesi della selezione naturale.

Nel saggio fatto pervenire a Darwin il 18 giugno 1958, Wallace enuncia la seguente legge: "Ogni specie ha iniziato la sua esistenza in coincidenza sia spaziale che temporale con una specie preesistente ad essa strettamente affine".

Darwin rimane stupefatto. Anche se Wallace non parla di selezione naturale, la teoria è identica alla sua al punto da fargli scrivere: "Se Wallace avesse potuto disporre del manoscritto del mio abbozzo redatto nel 1842 non avrebbe potuto farne un riassunto migliore! Persino i termini che usa ora sono nei titoli dei miei capitoli" (Lettera a Charles Lyell del 18 giugno 1858).

L'imbarazzo di Darwin è grave. Il saggio di Wallace, pur nella sua stringatezza, è pronto per la pubblicazione, mentre Darwin ancora lavora sulla messe sterminata di appunti che ha accumulato nel corso degli anni e non ha pubblicato nulla sull'evoluzionismo.

Per fortuna, alcuni studiosi, tra cui Lyell, sanno delle sue ricerche.

La questione si risolve con la presentazione ad una società scientifica londinese (Linnean Society) del saggio di Wallace e dell'abbozzo di quello di Darwin scritto nel 1844. Quando nel 1859 questi pubblica L'origine delle specie, Wallace non ha alcuna difficoltà ad accettare che il saggio darwiniano ha uno spessore scientifica di gran lunga superiore al suo. Tra i due studiosi non c'è, vita natural durante, alcun contrasto di ordine interpersonale. Venuto a conoscenza, anni dopo, delle precarie condizioni economiche in cui versa Wallace, Darwin addirittura si da da fare, con successo, perché gli venga assegnata una pensione.

Al rapporto umano, reciprocamente corretto e cavalleresco, corrisponde però un contrasto teorico di assoluto rilievo. Nel 1864 Wallace pubblica sulla "Anthropological Review" l'importante saggio “L'origine delle razze umane e l'antichità dell'uomo dedotta dalla teoria della selezione naturale”. Egli sostiene che la selezione naturale ha cessato, ad un certo punto, di agire sul corpo dell'uomo: da quando l'uomo è diventato uomo, le sue caratteristiche fisiche hanno perso ogni valore per la sopravvivenza; questa è garantita da un fattore nuovo e sconvolgente, la mente, che rende l'uomo capace di esercitare sulla natura quello stesso potere a cui egli si è sottratto.

Pur rimanendo evoluzionista, insomma, Wallace non riesce ad accettare che il cervello umano, con le sue straordinarie funzioni, possa essere spiegato sulla base della selezione naturale. Per questa via, egli giunge a conclusioni spiritualistiche, che implicano l'intervento di un'Intelligenza superiore.

Darwin rimane colpito e sorpreso da queste conclusioni fino al punto di scrivere a Wallace: "Spero che lei non abbia assassinato del tutto il suo e mio figlio".

Le conclusioni di Wallace sull'eccezionalità del cervello umano, che, secondo lui, non può essere ricondotto alla selezione naturale, sono opinabili, ma, come vedremo, hanno un qualche fondamento.

Analoga alla posizione di Wallace, benché scientificamente più articolata, è quella di George Jackson Mivart(1827-1900). Nato in una famiglia evangelica e poi convertitosi al Cattolicesimo, anch'egli diventa avvocato prima di riconoscere la sua vocazione per gli studi scientifici. Attraverso Thomas Henry Huxley, amico e sostenitore pugnace di Darwin, studia a fondo L'Origine della speciee ne condivide la teoria, ma, a partire dagli anni Settanta, in seguito alla pubblicazione de L'origine dell'uomo, comincia a prenderne le distanze scrivendo il saggio “Sulla genesi delle specie”. In essa Mivart muove alla teoria evoluzionistica un'obiezione di grande portata: la difficoltà estrema della selezione naturale di spiegare gli stadi incipienti delle strutture utili. In altri termini, sembra impossibile comprendere, facendo appello a trasformazioni lente e graduali, l'affermarsi di strutture complesse come l'ala o l'occhio, dal momento che i supposti stati intermedi non sarebbero stati di alcuna utilità. A cosa può servire, insomma, un piumaggio che spunta sulle zampe di animali che non sono ancora in grado di volare? A che serve il 5 o il 10% di un'ala? Se l'ala “incipiente” non serve a volare, perché mai essa dovrebbe essere selezionata?

Darwin, come si evince dalle lettere scambiate con Mivart, inizialmente apprezza molto le obiezioni alla sua teoria, espresse "con abilità e forza mirabili" e, nella sesta ed ultima edizione dell'Origine delle Specie(1872) dedica un intero capitolo, il 7, a rispondere alle “obiezioni alla teoria della selezione naturale". La risposta al quesito posto da Mivart è il principio del preadattamento, secondo il quale un carattere che ha una determinata funzione nel progenitore è, per caso, molto adatto a trasformarsi per svolgere una funzione differente nei discendenti. Tale principio permette di postulare una transizione graduale per quelle strutture che non possono funzionare fino a quando non sono completamente formate.

Naturalmente, come è accaduto con Wallace, Darwin non si sofferma sulla deriva “metafisica” di Mivart che, facendo leva sul fatto che solo l'uomo possiede la coscienza di sé, la ragione, il senso morale e l'uso del linguaggio, giunge alla conclusione che il corpo dell'uomo è risultato di un'evoluzione mentre l'anima è invece creata direttamente da Dio.

La critica più sottile, però, che richiede, per essere sormontata, come vedremo, una revisione del darwinismo, viene, però, da un amico, Thomas Henry Huxley(1825–1895), la cui fedeltà è a tal punto fuori discussione che gli ha valso il soprannome di “mastino di Darwin” per la vis combattiva con cui ha sostenuto la teoria evoluzionistica, difendendola dagli attacchi dei critici.

Di umili origini, autodidatta prima, poi faticosamente laureatosi in medicina, va anche egli per mare per dare sviluppo ai suoi interessi naturalistici. Quando legge L'origine delle speciesi rimprovera di non essere giunto lui stesso a formulare una teoria che avrebbe potuto intuito. Riconosce però umilmente il primato scientifico di Darwin, ne diventa amico e si batte per l'affermazione dell'evoluzionismo, accentuando in maniera molto più radicale rispetto al Maestro il suo significato materialistico e antiteologico.

Fieramente materialista e ateo, Huxley, però, non è però accecato dalla stima nei suoi confronti. Con acume critico, egli coglie immediatamente il punto debole della teoria darwiniana scrivendo:“Vi siete sobbarcato una difficoltà non necessaria quando avete adottato senza riserve il principio del Natura non facit saltus”.

Il gradualismo, vale a dire il principio per cui la transizione da una specie ad un'altra avviene in virtù di piccoli e graduali cambiamenti che si succedono in un lunghissimo periodo di tempo, rappresenta ancora oggi, di fatto, il punto debole dell'evoluzionismo. Lo è in rapporto alla storia delle specie animali, ma soprattutto, come vedremo, in rapporto alla comparsa dell'uomo con il suo singolare cervello.

Darwin ha mutuato il gradualismo da Lyell e lo ha confermato attraverso la lettura di Malthus., difendendolo strenuamente dalle critiche di Wallace, Mivart, Huxley, che, sia pure da prospettive e con conclusioni diverse, sottolineando la precarietà dell’ipotesi gradualista, alludono alla possibilità di salti evoluzionistici. Secondo Darwin, ammettere una qualunque discontinuità nel processo evolutivo significa offrire il fianco all’attacco dei creazionisti.

Dato, infatti, che la selezione naturale prevede solo lentissime transizioni, ma non salti da una specie all'altra, ammetterli significa per Darwin postulare qualche altro principio o ricondursi ad un intervento divino.

Il problema del gradualismo o del "saltazionismo", ovviamente, riguarda elettivamente l'uomo. Lo scarto tra la specie umana e gli altri animali, soprattutto per quanto riguarda le funzioni psichiche, è tale da suggerire una discontinuità qualitativa. Darwin non nega la discontinuità, bensì che essa sia di ordine qualitativo.

Su questo problema si è giocato e si gioca il senso e il futuro dell'evoluzionismo darwiniano.

Per approfondirlo ci interesseremo dapprima alla teoria dell'evoluzione naturale e agli sviluppi che essa ha riconosciuto in seguito alla nascita della genetica. Passeremo poi al tentativo di Darwin di spiegare l'uomo nella cornice del gradualismo. Solo alla fine di questo tragitto conoscitivo sarà possibile verificare la possibilità di integrare e revisionare il pensiero di Darwin e di chiedersi in quale misura esso può essere utilizzato ai fini di un nuovo sapere sull'uomo.


Lettura II


Darwinismo e Neodarwinismo

Fissismo ed evoluzionismo
Bricolage evoluzionistico
I “pilastri” della teoria darwiniana
Il liberalesimo di Darwin e il darwinismo sociale
I problemi non risolti da Darwin
Le prove dell’evoluzione
La teoria sintetica dell’evoluzione o neodarwinismo
Gradualismo filetico e comparsa dell’uomo

Fissismo ed evoluzionismo

Quando l'Homo sapiens sapiens (dotato di un cervello biologicamente identico al nostro) compare, come ultimo arrivato, sul Pianeta (circa 150-100mila anni fa), si trova immerso in una realtà caratterizzata da un'estrema varietà di forme viventi vegetali e animali, ciascuna delle quali, nonostante la diversità tra individui, sembra fissa e immutabile. Su questa base non c'è da sorprendersi che, non appena acquisisce una capacità cognitiva, l'uomo avverte il bisogno di mettere ordine nel caos classificando tutte queste forme. E' ancora oggi motivo di sorpresa constatare che tali classificazioni, nella misura in cui sono reperibili ancora oggi presso le popolazioni primitive, coincidono per molti aspetti con quelle prodotte dalla botanica e dalla zoologia.

Indubbiamente, lo sforzo di classificare e di distinguere le specie corrisponde originariamente ad esigenze concrete, per esempio identificare cibi commestibili e non commestibili, cibi salutari e cibi potenzialmente tossici. Giustamente, però, Lévi-Strauss rileva che le esigenze concrete non bastano a spiegare la “mania” della classificazione, che sembra un tratto distintivo del rapporto della mente umana con il mondo: un tentativo di mettere ordine nel caos.

Se questa “mania” è comune a tutta l'umanità, è pur vero che osservare, distinguere, classificare ciò che esiste non significa spiegarne le origini. Mettere ordine nel caos, implica anche dare un senso a ciò che si classifica. Tentativi di spiegazione dell'origine del mondo, degli animali e dell'uomo si trovano in tutte le culture note. Pur nella loro diversità, essi sembrano riconducibili a due principi: l'intervento di una “forza” creatrice e l' “eccezionalità” dell'uomo, che rappresenterebbe il vertice della piramide della vita.

Nella Bibbia si trova l'espressione più famosa di questi due principi in una versione originale per cui la “forza” in questione è un Dio unico, personale, onnipotente e distinto dal mondo, il quale crea un'indefinita quantità di specie fisse e immutabili e la conclude con la creazione di un essere fatto a sua immagine e somiglianza. Dato che l'estrema varietà delle specie e la loro immutabilità coincide con ciò che appare ad occhio nudo alle generazioni degli esseri umani che si succedono, non c'è da sorprendersi che questa “gabbia ideologica” abbia irretito per secoli l'umanità (come, fino a Galilei, il sistema geocentrico).

Con la nascita della botanica e della zoologia, questa “gabbia” riceve una sorta di consacrazione scientifica con Linneo e Cuvier.

Carlo Linneo (1707–1778), un naturalista svedese, pubblica nel 1735 un'opera (Il sistema della natura) nel quale delinea il suo metodo di classificazione, che riconosce specie, generi, famiglie, ordini, classi, phyla e regni.

Fervidamente religioso, Linneo crede che studiando ciò che Dio ha creato sia possibile comprenderne la saggezza. A suo parere lo studio della natura rivelerebbe l'ordine divino della creazione di Dio: un ordine fisso e immutabile. Il principio “filosofico” che governa l’opera di Linneo è il seguente: “numeriamo tante specie quante in principio furono create dall’Ente infinito”.

Il sistema della natura è, dunque, l’espressione dei modelli o tipi ideali originariamente presenti nella mente di Dio.

La classificazione di Linneo si basa sul sistema binomiale che identifica ogni specie sulla base del nome del genere cui la specie appartiene (scritto in maiuscolo) e di un altro nome (scritto in minuscolo) che caratterizza e distingue quella specie dalle altre appartenenti al quel genere.

In questa ottica, per esempio, l’uomo appartiene alla specie Homo sapiens, al genere homo, alla famiglia degli ominidi, all'ordine dei Primati, alla classe dei Mammiferi, al phylum dei Cordati e al regno degli Animali.

George Cuvier (1769-1832), anatomista e zoologo, riconducendosi a Linneo, del quale condivide l’impostazione filosofico-teologica pubblica tra il 1815 e il 1817 un'opera (Il regno animale classificato secondo la sua organizzazione), nella quale esplicitamente contesta le ipotesi evoluzionistiche che stanno affiorando e, per conciliare la visione tradizionale, fissista con la realtà di fossili diversi dalle forme viventi attuali, elabora l'ipotesi del catastrofismo, secondo la quale, posta la creazione divina, catastrofi naturali, quali inondazioni, terremoti, eruzioni vulcaniche, ecc. avrebbero periodicamente distrutto gli esseri viventi di una regione che sarebbe stata poi ripopolata dalle specie provenienti dalle aree geografiche circostanti.

Il prestigio di Cuvier sembra porre fine al dibattito sull'origine delle specie. In particolare, Cuvier critica in maniera aspra J.-B. Lamarck, il quale ha pubblicato nel 1809 un libro (Philosophie zoologique) nel quale sostiene esplicitamente che le specie sono il risultato di un processo graduale di trasformazione che avviene sulla base di due fattori - una tendenza alla perfezione, intrinseca alla vita, e la pressione esercitata sugli organismi dai fattori ambientali – e di un meccanismo ereditario in virtù del quale gli adattamenti intervenuti nei genitori si trasmettono direttamente ai discendenti.

Nonostante l'ingegnosità di Lamarck, la sua teoria evoluzionistica ha molti punti deboli. Basta pensare al suo esempio più famoso, quello secondo il quale la giraffa si sarebbe originata da un antilope in conseguenza dello sforzo di arrivare a cibarsi delle foglie degli alberi, che avrebbe prodotto l'allungamento del collo e delle zampe. Cuvier ha buon gioco nel rilevare che l'ipotesi lamarckiana non è in grado di spiegare la trasformazione della pelle dell'antilope, che è uniforme, in quella maculata della giraffa.

Non è superfluo rilevare che il lamarckismo è stato di recente recuperato nell'ottica dell'evoluzionismo come adeguato a spiegare non già l'evoluzione naturale, ma quella culturale. I tempi delle trasformazioni genetiche che producono la speciazione, di fatto, sono straordinariamente lunghi; le “idee” invece si trasmettono rapidamente a livello sociologico e da una generazione all'altra.

R. Dawkins, ne Il gene egoista (Mondadori, Milano ), riprende esplicitamente il pensiero di Lamarck avanzando l'ipotesi dei memi – idee o complessi di idee che hanno la stessa capacità dei geni di trasmettersi di generazione in generazione per via, però, dell'apprendimento.

All’epoca di Darwin, dunque, il fissismo, vale a dire il riferimento a specie vegetali e animali immutabili in quanto create da Dio, è un paradigma ritenuto incontestabile. Esso, tra l’altro, coincide con le apparenze superficiali con cui la natura si offre all'occhio umano.

Lo sguardo di Darwin è particolarmente penetrante in quanto in grado di leggere nel presente gli indizi del passato, dell'evoluzione storica della vita, ma, come accennato, esso deve fare i conti sia con l'ideologia corrente fissista sia con la visione personale del mondo di Darwin – ispirata al liberalesimo – che rifiuta le discontinuità, i salti evoluzionistici, le “rivoluzioni.

Questi due fattori spiegano il valore quasi assoluto che egli accorda, nella prima edizione de L'origine delle specie, al principio della selezione naturale, le cui conseguenze sono il gradualismo e il funzionalismo. Secondo il gradualismo, l'evoluzione naturale avviene in virtù di impercettibili cambiamenti morfologici che riguardano gli individui all'interno di una specie, i quali promuovono la varietà e, ad un certo punto, la nascita di nuove specie. Il funzionalismo è una conseguenza del gradualismo. Le strutture organiche di un organismo, infatti, sono selezionate sulla base della loro utilità, vale a dire della loro funzionalità adattiva.

L'evoluzione degli esseri viventi basata sulla selezione giunge , dunque, ad attribuire ad essi la stessa perfezione implicita nel fissismo creazionista.

Darwin è consapevole dei limiti della ipotesi della selezione naturale. Nell'ultima edizione de L'origine delle specie (1872), egli scrive:

“Poiché le mie conclusioni sono state recentemente travisate, e si è detto che io attribuisco la modi-ficazione delle specie esclusivamente alla selezione naturale, mi permetto di sottolineare che nella prima edizione di questo lavoro, e anche successivamente, ho collocato in una posizione preminente – cioè alla fine dell'Introduzione – le seguenti parole: «Sono convinto che la selezione naturale sia stato il principale, ma non esclusivo, mezzo di modificazione». Ciò non è stato di alcuna utilità. La portata del costante fraintendimento è ancora grande.”

Ne L’origine dell’uomo (1871), c’è poi un brano che fornisce la prova del fatto che Darwin, pur non riuscendo a superare il presupposto gradualistico, che ritiene essenziale per l’ipotesi della selezione naturale, è consapevole dei problemi che esso comporta:

“Si può sicuramente dare un’ampia se pure indefinita estensione ai risultati diretti e indiretti della selezione naturale; ma ora ammetto, [...], che nella prima edizione del mio Origine delle specie forse ho dato eccessiva importanza all’azione della selezione naturale o alla sopravvivenza dei più adatti. Ho mutato la quinta edizione dell’Origine in modo da limitare le mie osservazioni a quei mutamenti di struttura passibili di adattamento, ma sono convinto, in base alle conoscenze raggiunte negli ultimi pochi anni, che di moltissime strutture, che ora ci appaiono inutili, si potrà dimostrare appresso l’utilità e quindi rientreranno nell’ambito della selezione naturale. Nondimeno precedentemente non ho considerato a sufficienza l’esistenza di quelle strutture che, per quanto possiamo giudicare al momento, non sono né benefiche né dannose; credo che questo sia uno dei maggiori errori, tuttora evidenti, nella mia opera.

Mi si deve permettere di dire, come scusa, che avevo in mente due argomenti distinti; il primo che le specie non sono state create separatamente, il secondo che la selezione naturale è stato l’agente principale dei mutamenti, anche se largamente aiutato dagli effetti ereditari delle abitudini e chiaramente dall’azione diretta delle condizioni ambientali. Non sono stato tuttavia capace di annullare l’influenza della mia primitiva opinione, allora quasi universale, che ogni specie è stata creata intenzionalmente e ciò ha portato al tacito assunto che ogni particolare della struttura, tranne i rudimenti, fosse di una determinata, anche se ignota, utilità. Chiunque, con tale assunto in mente, potrebbe naturalmente estendere molto l’azione della selezione naturale sia nel presente che nel passato. Alcuni di coloro che ammettono il principio dell’evoluzione, ma respingono la selezione naturale, sembrano dimenticare, quando criticano il mio libro, che avevo almeno due obiettivi in mente, per cui, se ho sbagliato nell’attribuire alla selezione naturale una eccessiva importanza, che oggi sono ben lunghi dall’ammettere, o nell’aver esagerato il suo potere, che è in se stesso probabile, spero almeno di aver reso un buon servizio nell’aiutare a rovesciare il dogma delle creazioni separate. ” (p. 86-87)

Il rovesciamento del dogma di fatto si è realizzato, ma al prezzo esorbitante di negare le imperfezioni e i limiti della selezione naturale, che implicano la necessità di associare ad essa altri meccanismi evoluzionistici.

La verità è che in ogni organismo si danno strutture che appaiono quasi perfette associate ad evidenti “imperfezioni”, che sottolineano il lavoro di bricolage della natura.

Bricolage evoluzionistico

Consideriamo quattro diverse situazioni

* In Inghilterra esiste una farfalla notturna chiamata Biston Betularia, che ha le ali grigio-chiaro, solita riposare sui tronchi delle betulle, che sono chiari per natura e solitamente ricoperti da licheni di colore analogo. Il mimetismo era perfetto. Raramente compariva una Biston scura, facile preda per gli uccelli. Con lo sviluppo delle industrie e l'inquinamento, i tronchi delle betulle cominciarono a scurirsi nella seconda metà dell'800, rendendo quasi tutte le farfalle ben visibili. Lentamente, la selezione naturale ha fatto aumentare le farfalle scure, che , verso la fine dell'Ottocento, rappresentavano il 90 % della popolazione.

Negli ultimi decenni, i provvedimenti anti-inquinamento hanno restituito ai tronchi delle betulle il loro colore naturale. Ciò ha prodotto di nuovo la selezione di una maggioranza di farfalle di colore chiaro.

Il cambiamento della Biston Betularia attesta che gli organismi dispongono di un patrimonio ereditario ridondante, tale da assicurare ad essi una riserva di potenzialità adattive da usare in caso di necessità. In condizioni normali il carattere grigio- chiaro ha quasi sempre la meglio su quello scuro. Quest'ultimo, però rimane nel patrimonio genetico della Biston betularia e, all’occasione, com’è avvenuto, può essere utilizzato.

* Il panda gigante è dotato di uno pseudopollice che gli consente di maneggiare con destrezza le canne di bambù di cui si nutre. Il panda, in realtà, ha regolarmente cinque dita. Il pollice non è per nulla un dito. Esso si è sviluppato da un osso del polso (sesamoide radiale) che si è ingrandito sino a raggiungere la lunghezza delle dita vere. Anche i muscoli che ne permettono la funzione, che nella maggior parte dei carnivori si attaccano alla base del vero pollice, nel panda sono ristrutturati per fare funzionare lo pseudopollice. Il vero pollice del panda ha un ruolo determinato ed è troppo specializzato in una funzione diversa per potersi trasformare in un dito opponibile adatto alla manipolazione. Così il panda deve utilizzare quanto ha a disposizione ed accontentarsi di un osso del polso ingrandito, e di una soluzione forse un po' rozza ma abbastanza efficace. Il pollice sesamoide è una bizzarra invenzione dell'evoluzione.

Con il panda gigante ci troviamo di fronte ad una “bizzarria” che funziona, confermando che l'evoluzione procede sulla base del bricolage: utilizza, in maniera talvolta strana, quello che già c'è. Basta il pollice del panda ad invalidare il creazionismo. Volendo Dio avrebbe potuto produrre un animale con sei dita o concedere al pollice del panda l'opposizione.

* Esistono molte specie di insetti che hanno forma, colore e dimensioni tali da renderli pressoché indistinguibili dai ramoscelli delle piante. Si tratta di un sorprendente fenomeno di mimetismo, analogo a quello di Biston betularia, che serve a ridurre la probabilità che l'insetto possa essere identificato dai predatori.

L’insetto-stecco pone di fronte ad un cambiamento morfologico che si è stabilizzato. Solo in Europa si contano venti diverse specie di Insetto-stecco. E' evidente, però, che il cambiamento intervenuto deve essersi realizzato gradualmente, attraverso la progressiva selezione di individui che, casualmente, avevano una forma o un colore simile ai ramoscelli.

* In un lago limitrofo a Città del Messico vive un animale - l'axolotl - che somiglia ad un girino gigante ma, a differenza del girino, è in grado di riprodursi. Si tratta cioè di un essere immaturo nell'aspetto, ma adulto nelle funzioni. Che si tratti di una specie neotenica è certo. Basta in laboratorio aggiungere un po' di iodio nell'acqua e si trasforma in salamandra. Se si immergono nel lago in questione girini di rana o di salamandra, essi muoiono. Lo iodio è il costituente essenziale dell'ormone che produce la metamorfosi. L'axolotl dunque è in grado sia di trasformarsi in salamandra se le acque in cui vive sono ricche di iodio, sia di rimanere allo stato embrionale e continuare a riprodursi sotto forma di girino, se le acque sono prive di iodio. Evidentemente è intervenuta una mutazione genetica che ha bloccato la crescita ma non la maturazione sessuale.

L’axolotl attesta che l'influenza dell'ambiente può modificare i ritmi di crescita di un organismo, e, in determinate situazioni, arrestarli. Si tratta di un animale neotenico, che raggiunge la maturità sessuale prima di diventare una salamandra.

In tutti e quattro i casi sono entrati in azione i geni: i fattori scoperti da Mendel che Darwin ignorava. Tenere conto di questa ignoranza, pone maggiormente in luce la genialità di Darwin, che si è però piegata al principio funzionalista, per cui, di fronte a cambiamenti di strutture, egli si pone la domanda che governerà, fino ad epoca recente, l'evoluzionismo: a che serve?

Il funzionalismo non è ovviamente infondato. Molte strutture organismiche intanto esistono e sono state selezionate in quanto hanno un valore evidentemente adattivo. Il problema è se tutte le strutture – compreso il cervello umano – possano essere ricondotte al principio funzionalista, vale a dire se l’origine storica delle strutture organismiche corrisponde in toto alla loro funzione attuale.

I pilastri della teoria darwiniana

Quando Darwin si imbarca sul Beagle, portando con sé il libro di Lyell, non ha alcuna idea precisa sul suo futuro. Nel corso del viaggio, come già detto, egli prende una quantità enorme di appunti corredati da schizzi. Uno dei fenomeni più sorprendenti che annota riguarda i fringuelli delle isole Galàpagos.

Visitando queste isole, Darwin scopre che esse ospitano ben tredici “varietà” di fringuelli, diversi per taglia, colore e morfologia del becco, che non si trovano in altri luoghi del mondo. Egli intuisce che i diversi becchi rappresentano adattamenti rispetto all’alimentazione dei fringuelli. Così il fringuello terrestre dal becco grande (magnirostris) si alimenta di semi grandi e duri; il fringuello arboreo grande (psittacula) mangia insetti grandi; il fringuello canterino (olivacea) si nutre di piccoli insetti; il fringuello terrestre piccolo (fuligginosa) mangia semi piccoli e duri.

Per quanto sorpreso dalla varietà delle “razze”, l'evidente somiglianza tra i fringuelli impedisce a Darwin di prendere atto di tredici specie diverse, isolate riproduttivamente. Solo al ritorno in Inghilterra, con l'aiuto di un ornitologo, egli si rende pienamente conto di questo e comincia a riflettere sullo strano fenomeno.

Il suo ragionamento è facile da ricostruire. Perché mai Dio avrebbe dovuto creare tante specie di fringuelli nelle Galàpagos? Per spiegare scientificamente un fatto del genere, basta ammettere

che una specie originaria sia giunta su di un’isola in epoca remota riuscendo ad adattarsi alle condizioni insulari. La specie poi si diffonde nelle varie isole, trovando nuovi ambienti e sviluppando nuovi adattamenti. L’isolamento dei vari gruppi dà luogo, infine, alla definizione di nuove specie che sono isolare riproduttivamente.

La varietà individuale, dunque, ha promosso l'adattamento ad ambienti diversi producendo cambiamenti morfologici che si sono trasmessi ai figli e determinando, infine, l'isolamento riproduttivo, vale a dire una speciazione.

Non è inopportuno, a questo punto, sottolineare che la speciazione, vale a dire la comparsa di una nuova specie rispetto a quelle precedenti, come attesta il titolo dell’opera maggiore, è il nodo centrale della teoria darwiniana.

L’analisi dei becchi dei fringuelli è una conferma della teoria della selezione naturale. Darwin, però, se non minimizza, non dà un dovuto rilievo al fattore geografico, cioè alla migrazione dei fringuelli su diverse isole e all’incidenza della separazione geografica sull’evoluzione. Vedremo successivamente l’importanza di questo fattore.

Dall’analisi dei dati raccolti nel corso del viaggio, Darwin ricava tre principi che sono stati giustamente denominati come i pilastri della sua teoria:

* il principio di variabilità

  Tutti gli organismi di una specie sono diversi l’uno dall’altro.

* il principio di ereditarietà

  I “figli” somigliano ai “genitori”. Le variazioni sono almeno in parte ereditate.

* il principio di prolificità

   Tutti gli organismi producono più prole di quella che può sopravvivere fino al momento della riproduzione.

Si tratta di principi sostanzialmente semplici ed evidenti. Solo il terzo, però, è immediatamente spiegabile. Gli organismi che non sopravvivono sono i più deboli o i più “sfortunati”.

In realtà, come sappiamo, solo dopo avere letto l'opera di Malthus Darwin ha l'illuminazione: se gli organismi variano e non tutti possono sopravvivere, coloro che lo faranno saranno quelli che possiedono le variazioni ereditarie che aumentano il loro adattamento all’ambiente locale.

Questo è il principio della selezione naturale ovvero della sopravvivenza del più adatto.

Cosa c'è di straordinario nell'ipotesi della selezione naturale darwiniana?

Anche i creazionisti pre-darwiniani, in fondo, la ammettono. Essi, però, la interpretano come meccanismo la cui finalità è la “purificazione del tipo”, cioè l'eliminazione degli individui devianti che si scostano eccessivamente dal modello ideale ed immutabile, presente nella mente di Dio all'atto della creazione. E' evidente che se un animale viene al mondo con una grave malformazione, e quindi con uno scostamento rilevante da quel modello, esso ha scarse chances di sopravvivere.

Per Darwin – questa è la novità - il tipo ideale non esiste. La selezione naturale non scarta ciò che si allontana dalla volontà divina. Essa funziona come un artigiano creativo o un bricoleur: presiede, cioè, al processo di modificazione organica accumulando le variazioni favorevoli poco a poco e generazione dopo generazione. Le variazioni sono favorevoli, peraltro, non perché avvicinano l'organismo individuale ad un'astratta perfezione, ma semplicemente perché, in quel determinato contesto ambientale, consentono ad esso di sopravvivere e di riprodursi. Non è, insomma, necessariamente il “migliore” che viene selezionato, ma il più “fortunato”, quello cioè il cui corredo genetico risponde meglio, casualmente, ai cambiamenti ambientali.

Se questo è vero, Dio semplicemente non serve più: è morto. Darwin non osa esplicitare quest’affermazione, come farà alcuni decenni dopo Nietzsche. Essa è però implicita nell’ipotesi della selezione naturale. Il suo radicalismo permette di comprendere le esitazioni per cui Darwin ha rimandato di venti anni la pubblicazione dell’esito delle sue ricerche.

Del tutto esplicito, invece, è il riferimento ad un inesorabile “struggle of life”. Darwin ha usato questa espressione per titolare il terzo capitolo de L'origine delle specie. Ho già fatto cenno al fatto che esso è stato equivocato e applicato impropriamente all'uomo.

La visione “gladiatoria” della selezione naturale non va ricondotta a Darwin, ma a Huxley, il quale

in Evolution and Ethics (1893), giunge ad affermare che etica ed evoluzione biologica sono fra loro incompatibili e pertanto è necessario che l'uomo combatta la sua natura per favorire il progresso della società civile. Egli era un materialista, fieramente ateo e anticlericale, fortemente impegnato sul terreno delle riforme sociali, che però, dando una versione pessimistica della natura umana del tutto diversa da quella di Darwin, non pensava certo di aprire la strada al darwinismo sociale.

Il liberalesimo di Darwin e il darwinismo sociale

Ho già accennato al fatto che Darwin aderiva ideologicamente al liberalesimo smithiano, un liberalesimo temperato dal riferimento alla socialità dell'uomo che comporta un orientamento al tempo stesso competitivo e solidale. Tale orientamento sicuramente è stato ereditato dalla famiglia: sia il nonno - il famoso Erasmus - che il padre stavano dalla parte dei Whigs, il cui programma politico, originariamente incentrato su di una monarchia costituzionale, vale a dire sull'egemonia del potere parlamentare rispetto a quello del re, nel corso del XIX secolo giunge a sostenere il libero scambio, l’abolizione dello schiavismo, e l’ampliamento del suffragio elettorale.

Il liberalesimo di Darwin non è però solo una replicazione di un modo di vedere familiare. Esso ha un impianto in una personalità ricca di valenze umanitaristiche. Si ha una prova di questo leggendo i taccuini redatti da Darwin durante il viaggio sul Beagle. In più momenti, infatti, il giovane naturalista esprime la sua avversione nei confronti della schiavitù.

In Brasile, visitando una collina, scrive: “Questa collina è famosa perché per lungo tempo fu il rifugio di alcuni schiavi fuggiaschi i quali, coltivando un po’ di terreno vicino alla cima, riuscivano a trovare quanto era loro sufficiente per vivere. Ma poi furono scoperti e venne inviato uno squadrone di soldati che li prese tutti, eccetto una vecchia che preferì morire sfracellata, buttandosi dalla montagna, piuttosto che cadere di nuovo in servitù. Se fosse stata una matrona romana sarebbe stato esaltato il suo nobile amore per la libertà, ma poiché era una povera negra, questo suo comportamento fu giudicato solo come be­stiale cocciutaggine".

Assiste ad una vendita all'asta di schiavi e commenta: “Io credo che al proprietario non passasse nemmeno per la testa che fosse disumano smembrare trenta famiglie costituite da tanti anni”.

Esulta quando riceve la notizia della riforma elettorale in Inghilterra, che allargava il numero degli elettori: “Il mio cuore si rallegra nell’apprendere ciò che avviene in Inghilterra. Hurrà per i buoni whigs! Spero che presto attaccheranno quella mostruosa macchina della nostra tanto vantata libertà: la schiavitù nelle colonie. Ho visto quanto basta per essere nauseato dalle bugie e dalle sciocchezze che si sentono dire a questo riguardo in Inghilterra. Grazie a Dio, i tories dal fred­do cuore che hanno entusiasmo solo per combattere l’entusiasmo hanno subito per il momento un arresto”.

In Patagonia vede le truppe del dittatore Rosas compiere stragi di indiani con una ferocia inaudita e così commenta: “Chi crede­rebbe che ai nostri tempi si possano commettere tali atrocità in un paese civile e cristiano?”.

In Cile si interessa delle condizioni dei lavoratori nelle miniere di rame e così li descrive: “Viene loro concesso solo un breve intervallo per i pasti, e poi, estate o inverno, cominciano alle prime luci dell’alba e smettono a buio fatto. Sono pagati una sterlina al mese, e vengono nutriti in questo modo: per colazione ricevono sedici fi­chi e due piccole pagnotte di pane, a pranzo fave bollite, a cena frumento triturato e arrostito”

In Australia, prendendo atto della condizione degli aborigeni, scrive: “ovunque l’europeo ponga piede, ecco la morte infierire fra gli indigeni. Si consi­derino le vaste distese dell’Australia e dell’Africa del Sud si troveranno dappertutto i medesimi risultati.”

Certo, Darwin ha una mentalità eurocentrica, che lo porta a giudicare gli abitanti della Terra del Fuoco – i fuegini – in maniera drastica (oggi diremmo non antropologica): “Non avrei mai pensato che ci fosse tale abisso fra un uomo civilizzato e un selvaggio. C’è una differenza più grande che tra un animale domestico e il suo equivalente selvaggio, pro­prio perché nell’uomo v’è maggiore capacità di miglioramento.” L'incomprensione della cultura fuegina non ha però alcun accento razzistico. Essa, anzi, dà luogo ad un commento singolare: “La perfetta eguaglianza tra i membri delle tribù fuegine ritarderà di molto la loro civilizzazione: come accade a quegli animali che, obbligati dall’istinto a vivere in società e a obbedire a un capo, sono capaci di maggior progressi, così accade alle razze della specie umana. [...] D’altra parte è difficile immagi­ìnare come un capo possa imporsi finché non vi sia qualche forma di proprietà, mediante la quale possa manifestare la propria superiorità e accrescere il proprio potere”.

Tanto è vero che Darwin ricusa il razzismo che, a contatto con gli abitanti di Tahiti, scrive: “Credo che in Europa sia difficile vedere tra la gente neppure la metà delle allegre e felici facce dei tahitiani”.

Alla luce di queste affermazioni, scritte tra l’altro da un giovane di poco più di venti anni, accusare Darwin di razzismo è ridicolo. Egli non intendeva, di certo, la lotta per la sopravvivenza nei termini della legge della giungla (ove peraltro gli individui appartenenti alla stessa specie competono lealmente senza sopprimersi vicendevolmente).

Il fraintendimento dello “struggle of life”, nella cornice di un liberalesimo “selvaggio”, ha prodotto, a partire dal 1870, la teoria del darwinismo sociale.

Un punto importante di riferimento a riguardo è Herbert Spencer (1820-1903) le cui opere (Primi principi, 1862; Principi di biologia, 1864-1867; Principi di psicologia (1870-1872); Principi di sociologia 1876-1896; Principi di etica 1879) ebbero un singolare successo ed influenzarono la cultura del tempo in maniera tale da fare dell’autore il filosofo più noto e importante dell’ultimo quarto del XIX.

A posteriori questa fama sorprende. E’ sicuramente merito di Spencer di avere integrato il darwinismo e il lamarckismo estendendo il concetto di evoluzione alla storia del cosmo, della vita, della società e della cultura: di avere, insomma, prodotto una filosofia evoluzionistica totalizzante.

L’intento di Spencer, però, di gran lunga superiore alle sue capacità filosofiche, ha determinato almeno due conseguenze che si possono ritenere culturalmente deleterie.

Per un verso, infatti, Spencer si può ritenere precursore di quell’ampio movimento culturale che vede nell’evoluzionismo cosmico il continuo passaggio «da una omogeneità indefinita e incoerente a un'eterogeneità definita e coerente», vale a dire una crescente complessificazione che implica un un Disegno Intelligente e un Fine.

Per un altro, però, pur dando grande valore alla cultura umana, egli ritiene che le leggi dell’evoluzionismo biologico debbano essere applicate alla società. Rifacendosi a Malthus, Spencer dunque si fa acceso propugnatore di un liberismo assoluto e di una totale astensione da parte dello Stato di qualunque intervento assistenziale che impedisca alla selezione naturale di funzionare.

Il pensiero di Spencer è più liberista che razzista. Fatto si è che da esso ha preso spunto il cosiddetto darwinismo sociale il quale, in conseguenza dell’estensione dei principi evoluzionistici biologi alla società, riconduce la diversità tra le varie culture, la differente potenza degli Stati e l’inuguale distribuzione del reddito all’interno del corpo sociale ricondotte a maggiori o minori potenzialità adattive di origine biologica.

Dall’epoca della sua comparsa, il darwinismo sociale ha giustificato, sostanzialmente, il razzismo, il colonialismo e la disuguaglianza sociale, giungendo ad affermare che ogni tentativo da parte dello Stato o della cultura di contrastare o inibire la selezione naturale – attraverso l’assistenza ai più deboli o agli individui ereditariamente “inferiori” - comporterebbe una “degenerazione” della popolazione.

E' superfluo rilevare la pesante incidenza di questa ideologia sulla cultura e sulla politica del Novecento. Il nazismo ne ha rappresentato l'espressione più estrema e tragica.

Il darwinismo sociale, di fatto, allargava la darwiniana lotta per l'esistenza a un più ampio programma eugenico, che considerava necessario e giustificava il declino dei soggetti meno capaci, socialmente inadatti.

L’Eugenetica e la Xenofobia sono due conseguenze storiche del darwinismo sociale, confluite entrambe nel nazismo e ancora vive nei movimenti di destra.

Anche il neoliberismo, che ha governato il mondo negli ultimi venti anni, si può ritenere una conseguenza, solo apparentemente temperata, del darwinismo sociale.

I problemi non risolti da Darwin

Posta nei termini dei tre principi cui ho fatto cenno (variabilità, ereditarietà, prolificità), la teoria darwiniana sembra di una sorprendente semplicità. Questo è uno dei motivi che ne ha assicurato il successo. A differenza di altre teorie scientifiche, come per esempio la fisica quantistica, che richiede conoscenze matematiche di livello superiore, quella di Darwin può essere spiegata, sia pure semplificandola al massimo, anche ai bambini delle elementari. E' ovvio che questo la pone in diretta competizione con il catechismo creazionista.

In realtà, nella sua formulazione essenziale, si tratta di una teoria solo apparentemente semplice, che, come accade spesso nel corso della storia della scienza, implica numerosi problemi che Darwin non è in grado di spiegare.

Due di questi sono di assoluta importanza.

Il primo riguarda la variazione individuale.

Perché la selezione individuale abbia, infatti, un ruolo “creativo”, occorre postulare che:

1) la variazione deve essere casuale e non indirizzata verso adattamenti favorevoli.

Se la variazione si verificasse in modo preferenziale nelle direzioni vantaggiose, la selezione naturale sarebbe un semplice esecutore in quanto eliminerebbe i non adatti mentre gli adatti aumenterebbero di numero anche senza selezione: in questo caso la selezione sarebbe non-darwiniana.

2) la variazione si deve verificare a tappe relativamente piccole.

Se le specie si originassero all'improvviso, per il verificarsi fortuito di una grande mutazione che le rende immediatamente adatte al nuovo ambiente, la selezione non sarebbe una forza capace di dirigere in quanto gli adattamenti nascerebbero all'improvviso e senza il suo aiuto.

3) le popolazioni devono contenere una quota notevole di variabilità genetica.

Se le variazioni ereditarie si producessero raramente e la maggioranza dei membri di una popolazione fosse geneticamente uniforme, la velocità dell'evoluzione sarebbe limitata dalla variabilità anziché dalla selezione; in altre parole il cambiamento adattativo dovrebbe attendere che si producesse una quota di variabilità tale che la selezione vi possa agire.

Come si produce, però, l’elevata variabilità postulata dalla teoria della selezione naturale? Per rispondere a questa domanda, Darwin riflette a lungo sulla coltura delle piante e sull’allevamento degli animali. Cosa fanno gli allevatori? Identificano in alcuni individui dei caratteri (per esempio la lunghezza e il colore del pelo, la robustezza, ecc.), li incrociano tra loro e spesso riescono ad ottenere un certo numero di figli che presentano quel carattere. A livello di allevamento, la “tecnica” per cui alcuni caratteri vengono selezionati e resi stabili nei discendenti è chiara, ma essa corrisponde ad un’intenzione e ad un progetto. Come si realizza la stessa cosa in natura?

In difetto di conoscenze genetiche, Darwin può ricondurre le variazioni ereditarie solo alla teoria della “pangenesi”, secondo la quale in tutte le cellule vi sarebbero “gemmule” che contengono i caratteri ereditari che si mescolerebbero negli organi sessuali e sarebbero, dunque, presenti nei gameti. Il “mescolamento” delle gemmule, però, comporta un tasso di variabilità molto inferiore a quello richiesto dalla teoria.

Ugualmente misterioso rimane per Darwin il problema dell'eredità dei caratteri. La teoria del “mescolamento” permette, infatti, di capire perché da una generazione all’altra un carattere scompare, ma non come fa a ricomparire in quella successiva.

Le prove dell’evoluzione

La teoria originaria darwiniana comporta, dunque, almeno due principi che Darwin non è in grado di spiegare scientificamente. Questa lacuna è immediatamente colta dai suoi critici ostili (in gran parte creazionisti), che la definiscono, paradossalmente, come un “dogma”. Come mai, dunque, la teoria dell’evoluzione darwiniana riesce ad affermarsi nella seconda metà dell’Ottocento?

La risposta è che essa può vantare delle prove che, per alcuni aspetti, sono paradossali.

In sé e per sé l'evoluzione fondata sull'adattamento non è incompatibile con il creazionismo.

Per i creazionisti l'adattamento riflette la sapienza di Dio e l'armonia del mondo da lui creato. Gli adattamenti più spiccati sono quelle particolarità degli organismi che si avvicinano di più alla perfezione e in quanto tali non hanno alcuna necessità di avere una storia. Se un adattamento è il migliore disegno costruttivo che possa essere immaginato, allora esso deve essere stato creato così come noi lo osserviamo.

Le prove dell'adattamento darwiniano, fondato su processi casuali, non sono fornite però dalla perfezione degli adattamenti, bensì, al contrario, dalle imperfezioni, cioè da quegli aspetti della distribuzione e della forma degli organismi che nell'ipotesi di un mondo perfetto ed ottimale non avrebbero alcun senso. Le imperfezioni dimostrano che le condizioni imposte dalla storia hanno impedito di avvicinarsi alla perfezione.

Le “prove dell'evoluzione” , che Darwin stesso elenca negli ultimi capitoli de L’origine delle specie, sono ricavabili dallo studio dei fossili, dall'embriologia, dalla biogeografia e dall'osservazione delle strutture degli organismi viventi. Altre sono sopravvenute ulteriormente. Mi limito a pochi cenni essenziali

1) Testimonianze fossili

La paleontologia ha dimostrato che non tutte le specie attualmente esistenti sulla terra erano presenti nel passato e che, al contrario, molte specie un tempo esistenti si sono estinte.

Straordinario, per esempio, è il caso dell'Archeopterix, un rettile-uccello fornito di ali e di artigli, di cui sono stati trovati ben dieci esemplari.

Per alcuni gruppi di animali i reperti fossili sono tanto abbondanti e ben distribuiti nel tempo, da formare delle serie complete che consentono di ricostruire in modo dettagliato le tappe del loro intero processo evolutivo.

Per quanto riguarda i vertebrati la paleontologia testimonia come i primi vertebrati a comparire siano stati i pesci, seguiti dagli anfibi, dai rettili e, infine, dagli uccelli e dai mammiferi.

2) Organi rudimentali

Gli organi rudimentali sono strutture che prima avevano una funzione e adesso non l'hanno più: strutture, dunque, che appaiono come assolutamente accessorie e perfettamente omologhe a quelle presenti e ben funzionanti in gruppi affini.

Boa e pitone, quantunque non abbiano arti posteriori, conservano, seppur fortemente ridotti, un femore e le ossa del bacino.

I cavalli hanno un osso del piede ridotto ad una fibula e situato in un punto della zampa lontano dal contatto col suolo.

Anche nell'uomo si danno organi rudimentali: l'appendice dell'intestino, ad esempio, che funzionava nei nostri lontani antenati come parte essenziale dell'apparato digerente, oggi non ha funzioni particolari; la ridotta plica semilunare in corrispondenza dell'angolo sinistro dell'occhio umano che è un rudimento della membrana nittitante che in altri mammiferi, negli uccelli, nei rettili e negli anfibi è molto più sviluppata e può essere abbassata come una tendina trasparente che protegge e lubrifica gli occhi senza impedire la visione.

3) Dati embriologici

Se si considerano gli stadi dello sviluppo embrionale dei vertebrati, ci si accorge che essi procedono seguendo un modello unico, a tal punto che se si confrontano tra loro embrioni non molto avanzati di un pesce, di un anfibio, di un rettile e di alcuni mammiferi, compreso l'uomo, ci si accorge che sono sorprendentemente simili tra loro e un embrione precoce di anfibio è difficilmente distinguibile da un embrione precoce di mammifero.

Tutti gli embrioni dei vertebrati, per esempio, presentano le fessure branchiali, le quali vengono mantenute allo stato adulto soltanto dai pesci nei quali assumono la funzione di organi respiratori.

4) Omologie

Se si osserva l'arto anteriore di pesci, degli anfibi, dei rettili, degli uccelli e dei mammiferi, si può notare come questo sia in tutti i casi costituito dagli stessi pezzi, più o meno sviluppati: omero, radio, ulna, ossa carpali, ossa metacarpali e falangi. Per il diverso utilizzo che le specie ne hanno fatto, l'arto si è notevolmente modificato, ma in queste diverse classi di vertebrati ricorre sempre la stessa struttura.

5) Biogeografia

La biogeografia è la distribuzione geografica degli organismi.

Se la distribuzione geografica delle specie non fosse in qualche modo determinata dall'evoluzione dovremmo aspettarci di trovare una determinata specie ovunque essa possa adattarsi e sopravvivere.

Di fatto aree diverse del nostro pianeta, che pure hanno condizioni climatiche simili, come per esempio l'Africa centrale e il Brasile, ospitano animali e piante diverse

Regioni della Terra come l'Australia e la Nuova Zelanda, che sono state separate dal resto del mondo in epoca molto antica, presentano flora e fauna particolari.

I grandi mammiferi originari dell'Australia sono tutti marsupiali (mammiferi dotati di una tasca come il canguro). Pressoché tutti i grandi mammiferi degli altri continenti sono invece placentati (mammiferi dotati di una placenta completa, che portano i giovani fino ad uno stadio di sviluppo avanzato, come l'uomo).

6) L'orologio molecolare

L'orologio molecolare è una tecnica utilizzata per stimare il tempo che è trascorso dalla separazione tra due specie, a partire dallo studio delle differenze esistenti nelle sequenze amminoacidiche di alcune proteine.

Tale tecnica si basa sulla ipotesi che i geni si evolvano attraverso mutazioni casuali che si verificano con frequenze pressoché costanti nel tempo. Se si considera valido questo assunto, diventa possibile stimare il tempo trascorso dal momento in cui si è verificata la divergenza tra due specie che discendono dallo stesso antenato comune, semplicemente valutando il numero delle differenze presenti in sequenze di DNA correlate o nelle corrispettive proteine.

L'orologio molecolare è alquanto impreciso e ha un valore approssimativo.

7) Geni in comune

L'epoca di separazione tra due specie può essere stabilita anche sulla base dei geni che esse hanno in comune. La presenza degli stessi geni attesta l'esistenza di un antenato comune.

E' stato confermato che l'animale più vicino geneticamente all'uomo è lo scimpanze, che condivide con esso il 98,5% dei geni. La separazione tra le due specie sarebbe intervenuta tra 6 e 5 milioni di anni fa.

Le prove dell’evoluzione sono poco confutabili. Ora occorre considerare il fatto che l'avvento della genetica ha dato luogo ad una integrazione della teoria darwiniana.

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La teoria sintetica dell’evoluzione o neodarwinismo

Come si è detto, Darwin non poteva risolvere i problemi della variabilità e dell'ereditarietà in difetto della genetica. L'avvento di questa disciplina ha di gran lunga corroborato la teoria darwiniana. L’integrazione, però, non è stata affatto semplice. Quando si è realizzata, poi, intorno agli anni ‘40 del secolo scorso, ha dato luogo ad un nuovo paradigma – la teoria sintetica dell'evoluzione o neodarwinismo – che, purtroppo, ha mutuato da Darwin il principio del gradualismo e quello del funzionalismo, approdando ad un'ideologia adattamentista o ultradarwinista. Approfondiamo questi aspetti.

Nel 1900 viene “riscoperto” l'articolo di Gregorio Mendel e se ne comprende immediatamente la portata. La trasmissione ereditaria, su cui Darwin si è invano affaticato, avviene sulla base di “fattori” presenti in tutte le cellule dell’organismo, ciascuno dei quali ha una ben precisa identità.

Il problema, però, è che la genetica mendeliana, attestando una notevole costanza del patrimonio ereditario, sembra quasi smentire un concetto di fondo della teoria darwiniana: quello per cui, all’interno di ogni specie, si deve dare una elevata variabilità.

Solo dopo alcuni decenni, grazie ai lavori di Th. Dobzshansky (L'evoluzione della specie umana), Ernst Mayr (Sistematica e Origine delle specie) e George Gaylord Simpson (Tempi e modi dell'evoluzione), il dissidio si ricompone e si avvia un'integrazione tra le due discipline destinata a diventare sempre più intensa, all'insegna della genetica della popolazione.

La genetica delle popolazioni fa riferimento al fatto che ogni specie (o ogni popolazione che ad essa appartiene) ha un patrimonio genetico comune che si definisce pool genetico. Il pool genetico è fisso, ma contiene una grande varietà.

Qualunque gene di un pool genico, infatti, può esistere in numerose varianti, tutte dovute a mutazioni prodottesi a un certo punto della storia evolutiva di quel gene. Le varianti di uno stesso gene sono dette alleli e, a seconda della frequenza o rarità di ciascun allele all'interno del pool genico, si parla di alta o bassa frequenza allelica.

Nel pool genico, ogni nuovo gene si originerebbe a causa della ricombinazione del materiale genetico che avviene quando si formano i gameti e a causa di mutazioni.

Le mutazioni sono cambiamenti stabili che avvengono a carico di uno o più geni. Esse possono avvenire spontaneamente nel corso dei processi di replicazione o di duplicazione di un gene o possono essere indotte da agenti mutageni (radiazioni ionizzanti, sostanze chimiche). Una volta che, mediante tali mutazioni, si è formata una nuova variante di un gene, questa entra a far parte del pool genico della popolazione perché, mediante la riproduzione sessuale, essa può venire trasmessa ad altri individui.

L'effetto delle mutazioni è vario. Alcune di esse sono neutrali, nel senso che non comportano alcuna conseguenza, altre sono letali, non permettendo all'individuo di raggiungere l'età riproduttiva; altre ancora, il cui numero è minimo, sono vantaggiose nel senso che aumentano la capacità adattiva dell'individuo.

Oltre che spontaneamente o in conseguenza di mutazioni, la frequenza allelica può essere modificata a causa di fattori diversi quali: la mortalità e l'emigrazione; la riproduzione e l'immigrazione; il caso o deriva genetica.

Quest'ultimo fattore sembra avere una particolare importanza. Essa fa riferimento al fatto che se una popolazione rimane isolata rispetto ad altri individui della sua specie, la possibilità che le mutazioni che intervengono aumentino la varietà della frequenza allelica si incrementano, e quindi che i cambiamenti morfologici determinati dai geni mutati si trasmettano ai figli.

Sulla base di queste nozioni si definisce il paradigma neodarwinista che accoglie in toto il gradualismo darwiniano e anzi lo porta ad una esasperazione dogmatica che non ha riscontro in Darwin. In questa ottica, la speciazione si riduce ad una questione di mutamento genetico nell'ambito di popolazioni sotto la guida della selezione naturale. Le specie si evolvono lentamente in altre specie mediante la somma di piccolissimi cambiamenti. Le trasformazioni da una specie ad un'altra si compiono senza senza che si formi alcun confine fra specie parentale e specie discendente. Le discontinuità si presentano semplicemente come un caso speciale dello stesso processo continuo, e si verificano quando un accidente geografico divide una popolazione (deriva genetica) e le mutazioni ambientali la indirizzano verso vie gradualmente divergenti, da cui alla fine si originano nuove specie.

Sulla base della variabilità si fonda il processo della “microevoluzione”, vale a dire l’evoluzione che avviene all’interno delle specie viventi (genesi di varietà e di sottospecie) ed i processi di speciazione (nascita di nuove specie da specie ancestrali). La nascita di una nuova specie si fonda su lentissimi, impercettibili cambiamenti che avvengono in periodi di tempo molto lunghi e danno luogo infine alla comparsa di organismi le cui strutture e le cui funzioni sono diverse rispetto alle specie ancestrali e che si isolano riproduttivamente, vale a dire si riproducono solo incrociandosi tra loro.

Nell’ottica del neodarwinismo, eccezion fatta per rari casi di speciazione dovuti alla deriva genetica (speciazione allopatrica, vale a dire dovuta ad un ambiente diverso e separato da quello originario), la speciazione è sostanzialmente filetica, vale a dire dovuta ad una successione di forme che si susseguono ed infine esitano nella comparsa di una nuova specie.

La speciazione filetica, come per alcuni aspetti anche in Darwin, riconosce nell’individuo portatore di alleli varianti il motore dell’evoluzione.

Dawkins, cui ho fatto cenno, ha portato all’estremo il neodarwinismo, riconoscendo addirittura nei geni i fattori che competono tra loro per assicurarsi la sopravvivenza. Si parla per questo di riduzionismo genetico.

Dawkins si è spinto sino al punto di interpretare come espressioni di egoismo genetico anche fenomeni di altruismo e di solidarietà presenti negli animali sociali.

Nell’ottica del neodarwinismo, la “macroevoluzione”, vale a dire l’evoluzione su grande scala che, nel corso di circa quattro miliardi di anni, ha portato, dalle cellule primordiali, fino alla biodiversità attuale, non è altro che lo sviluppo nel tempo della microevoluzione.

Il neodarwinismo conferma e radicalizza due principi fondamentali in Darwin: la casualità dell'evoluzione naturale e il gradualismo con cui compaiono nuove specie.

Il riferimento alla casualità è addirittura aumentato con il neodarwinismo, perchè sia le mutazioni che la deriva genetica sono fattori assolutamente casuali.

Il gradualismo è diventato un dogma trasformandosi nell'ideologia adattamentista, secondo la quale tutte le strutture morfologiche e le funzioni che esse adempiono nelle varie specie sono state selezionate naturalmente in conseguenza del loro valore adattivo.

Sulla base del principio gradualista l'assioma per cui la macroevoluzione non è altro che lo sviluppo nel tempo della microevoluzione è dato per scontato.

Il problema, che mantiene ancora aperto un vivace dibattito, è se i modi di evoluzione sinora accertati, che possono spiegare i piccoli salti evolutivi, cioè l'origine di razze nel seno di una specie, o di specie tra loro affini, siano sufficienti a spiegare i grandi corsi dell'evoluzione che ci sono rivelati dalla paleontologia, vale a dire l'origine dei grandi gruppi, quali, per esempio, pesci, rettili, uccelli e mammiferi.

E' superfluo aggiungere che questo dibattito raggiunge il suo acme in rapporto alla comparsa dell'homo sapiens.

Gradualismo filetico e comparsa dell’uomo

La genetica attesta poco confutabilmente che la natura è proceduta come un bricoleur. Ha utilizzato quello che già c'era e quello che di nuovo è stato prodotto dalle mutazioni, assemblando organismi che, superata la prova dell'adattamento, si sono stabilizzati sotto forma di nuove specie.

Il risultato è incredibile. Il Pianeta è abitato da oltre due milioni di forme viventi, delle quali solo poco più della metà è conosciuta.

Ad occhio nudo, è difficile sfuggire all'impressione che la vita sia andata incontro ad un processo di progressiva complessificazione. Dal punto di vista darwiniano, però, come già accennato, la complessità degli organismi è del tutto accessoria: un protozoo (come l'ameba, che è costituita da una sola cellula), un batterio, un moscerino, un cavallo e l'uomo in tanto esistono in quanto sono perfettamente adattati all'ambiente in cui vivono.

E' l'adattamento il “nodo” della teoria evoluzionistica, non la minore o maggiore complessità di un organismo. Ma è proprio intorno all’adattamento e ai concetti ad essi associati di gradualismo e di funzionalismo che è ancora aperto un vivace dibattito all’interno dell’evoluzionismo tra neodarwinisti, riduzionisti genetici e post-darwinisti.

Sarebbe difficile esporre i nodi del dibattito, che fa capo ad aspetti teorici estremamente complessi.

Occorre, però, dire almeno l’essenziale.

Ho già accennato che per molti neodarwinisti la macroevoluzione è lo sviluppo della microevoluzione.

Sulla base della variabilità, che oggi come si è detto, va attribuita alla frequenza degli alleli, si definiscono di continuo all'interno di una specie impercettibili cambiamenti di strutture e di funzioni. Se tali cambiamenti sono svantaggiosi, coloro che li portano rischiano di essere eliminati. Se sono, invece, vantaggiosi, aumentano le possibilità di sopravvivenza e di riproduzione. Via via che, nel corso di tempi lunghissimi, i cambiamenti vantaggiosi si sommano, si definiscono diverse varietà all'interno di una specie. Alla fine, però, una di queste varietà può differenziarsi dalle altre e sviluppare un isolamento riproduttivo, dando luogo ad una nuova specie.

Il gradualismo evolutivo postula, dunque, il continuismo, vale a dire una serie indefinita di anelli intermedi tra le varie specie.

Se all’epoca di Darwin, la carenza di reperti paleontologici poteva essere attribuita allo stato ancora nascente di questa nuova disciplina, oggi le cose sono diverse. Ci sono troppi vuoti nella ricostruzione paleontologica, ed essi, tra l’altro, sono distribuiti in in maniera tale da denotare fasi piuttosto lunghe di ristagno e fasi di brusche accelerazioni evolutive.

La macroevoluzione sembra contrassegnata dal catastrofismo piuttosto che dal gradualismo.

Le prime tracce di vita (batteri fossili) risalgono a circa 3,4 miliardi di anni fa. Per almeno 2 miliardi di anni la vita è rappresentata solo da organismi unicellulari. Le prime testimonianze di animali pluricellulari risalgono alla fine del Precambiano. All’inizio del periodo Cambriano, in un intervallo di soli 10 milioni di anni, si realizza una vera e propria esplosione di diversificazione: compaiono tutti i principali gruppi di invertebrati con scheletro.

Circa 225 milioni di anni fa, nel periodo permiano, una metà delle famiglie di invertebrati marini di acque basse si estingue nell'arco di pochi milioni di anni. Nella scala dei grandi eventi della storia della vita questa "grande morìa" è seconda solamente all'esplosione cambriana.

Un’altra grande estinzione avviene nel tardo Cretaceo e provoca la morte dei dinosauri, dei rettili volanti, dei rettili marini giganti, ecc., aprendo la via alla diversificazione dei mammiferi e alla loro radiazione planetaria.

In breve, il passaggio dal Precambriano al Paleozoico segna l'inizio dell'esplosione cambriana, il passaggio dal Paleozoico al Mesozoico l'estinzione permiana e quello fra il Mesozoico e il Cenozoico la seconda grande estinzione.

Questa ricostruzione, su cui concordano ormai gran parte dei paleontologi, è nettamente in contrasto con il gradualismo darwiniano.

L’importanza di questo aspetto, sotto il profilo della filosofia naturale, non può essere minimizzato. Se, infatti, la microevoluzione non richiede alcun altro meccanismo al di la della selezione naturale, vale a dire del caso e dell’interazione tra individui dotati di un determinato corredo genetico e un determinato ambiente, i vuoti in questione, se non giustificano, permettono di comprendere che essi possono essere usati dai creazionisti come un grimaldello. La comparsa repentina di nuove specie a partire da lunghi periodi di stagnazione può essere, infatti, ricondotta, con un po’ di fantasia, ad interventi divini dilazionati nell’arco di miliardi di anni.

Prima di accennare alla possibile soluzione di questo problema nell’ottica dell’evoluzionismo, è salutare prendere atto, come si è visto, che l’onestà di Darwin lo ha portato a rendersi conto di questo problema, che egli non era in grado di risolvere. Lo spirito scientifico si differenzia da quello dogmatico non tanto perché esso procede sulla base del metodo sperimentale (che riferito alla storia dell’evoluzione, ovviamente, non è applicabile), bensì perché lo scienziato, se si imbatte in qualche lacuna della sua teoria, non stenta a riconoscerla e a farsene carico.

L'onestà di Darwin è, dunque, elevata al punto che egli ammette di avere commesso l'errore di attribuire alla selezione naturale un potere simile a quello divino nel produrre strutture e funzioni perfette.

Egli, però, come si è accennato, non rinuncerà mai al principio gradualistico. Rendendosi conto che tale principio appare incredibile soprattutto in rapporto all’uomo, non c’è da sorprendersi che abbia dedicato parecchio tempo alla stesura de L’origine dell’uomo.

Il secondo problema è proprio questo. Che l'uomo sia il prodotto di un processo evoluzionistico è fuori di dubbio. Che la sua struttura cerebrale e le singolari funzioni che si realizzano in virtù di essa possano essere ricondotte solo alla selezione naturale è, invece, poco probabile.

Anche all’ominazione, come vedremo, si possono applicare il modello filetico e quello cladico, che fa riferimento ad una ramificazione di specie indipendenti tra loro.

Darwin, però, intendendo cooptare l'uomo nella cornice della sua teoria, è stato costretto ad un azzardo di cui dobbiamo valutare i risultati.


Lettura III


L’uomo secondo Darwin

L’azzardo di Darwin
Differenze quantitative e qualitativa tra uomo e animale
La psicologia evoluzionistica
L’istinto sociale
Adam Smith e Darwin
L'uomo tra Socialità e Individualità
Gradualismo e singolarità

L’azzardo di Darwin

Ai tempi di Darwin si conosce un solo reperto umano fossile, scoperto nel 1856: la calotta cranica e alcune ossa del tronco e degli arti trovate a Neanderthal. Darwin cita questo dato appena di sfuggita e non dà ad esso una particolare importanza, anche perché alcuni anatomo-patologi dell’epoca ritengono che i resti siano di un homo sapiens affetto da una malattia delle ossa.

Solo a partire dal 1880 la paleoantropologia prende slancio e, nel giro di alcuni decenni, scopre un’incredibile quantità di reperti fossili umani e pre-umani, che conferma, tra l’altro, non solo l’esistenza dell’Uomo di Nenderthal, ma che esso è convissuto con l’Homo sapiens in Europa per migliaia di anni.

Così com’è accaduto per la genetica, anche sul terreno paleantropologico Darwin procede, dunque, praticamente senza dati.

Ne L'origine della specie egli, di fatto, dedica all'origine all'uomo solo un accenno scrivendo, nella penultima pagina: “Per l'avvenire vedo campi aperti a ricerche molto più importanti. La psicologia sarà necessariamente basata su nuove fondamenta, quella della necessaria acquisizione di ciascuna facoltà e capacità mentale per gradi. Molta luce sarà fatta sull'origine dell'uomo e sulla sua storia” (p. 7)

Le poche righe bastano a capire che Darwin è convinto che la selezione naturale, con il suo gradualismo, possa rappresentare una spiegazione necessaria e sufficiente della comparsa dell'uomo con il suo cervello e le sue singolari funzioni psichiche. E’ evidente che questa convinzione implica l’esistenza di un numero indefinito di anelli intermedi di ominidi, vale a dire di specie con caratteristiche psicofisiche progressivamente meno scimmiesche e più umane. Implicitamente, Darwin ne ammette l’esistenza anche se difetta di qualsivoglia dato a riguardo.

L’assenza completa di fossili paleantropologici è il punto dolente dell’evoluzionismo ai suoi albori. Esso, infatti, sembra sottolineare l’abisso che si dà tra l’uomo e gli altri animali. E’ in conseguenza di questo che A. Wallace, nel 1864, pubblica sulla "Anthropological Review" un saggio (L’origine delle razze umane e l’antichità dell’uomo dedotte dalla teoria della “selezione naturale") nel quale afferma che la selezione naturale non può spiegare la comparsa della mente, che va assunta come un principio spirituale.

Non è attestato che il libro di Wallace, oltre ad addolorare Darwin, lo abbia indotto ad accelerare la stesura de L’origine dell’uomo, che compare nel 1871, a dodici anni di distanza dal suo capolavoro. E’ probabile, però, che, nella stesura del saggio, egli ne abbia tenuto conto e abbia inteso temerariamente anticipare gli sviluppi futuri della psicologia preconizzati ne L’origine delle specie.

Parlo di temerarietà non solo perché Darwin si avventura su di un terreno del tutto nuovo - quello di una psicologia evoluzionistica -, ma soprattutto perché, inoltrandovisi, egli non si rende conto della carenza degli strumenti di cui dispone.

Occorre considerare che, all’epoca, le scienze umane e sociali (psicologia, antropologia culturale, sociologia) sono agli albori e, nonostante l’entusiasmo positivistico che le connota, non hanno ancora messo a fuoco un criterio epistemologico destinato solo successivamente a diventare centrale e che ancora oggi si può ritenere problematico. Nell’ambito di tali scienze, infatti, a differenza di quanto accade per la fisica, per la chimica e per la biologia (eccezion fatta per l’evoluzionismo), il soggetto e l’oggetto coincidono: l’uomo, insomma, studia se stesso. Questa coincidenza implica il pericolo che l’interpretazione dei “fatti” sia, in misura più o meno rilevante, interferita da punti di vista soggettivi, da presupposti ideologici radicati nella profondità dell’inconscio e da valori culturali naturalizzati.

All’epoca in cui Darwin scrive L’origine dell’uomo questo pericolo si sta realizzado nell’ambito della nascente antropologia culturale, che esplora le culture con cui l’Occidente viene a contatto nella sua fase di colonizzazione imperialistica alla luce di una teoria evolutiva della civiltà umana che ipotizza, con Lewis H. Morgan, fasi necessarie e progressive di passaggio tra la condizione originaria del barbaro/selvaggio/primitivo e civile/evoluto/sviluppato.

Darwin, come si è detto nella precedente lettura, è un liberale umanitarista, ma è pur sempre un liberale vittoriano. La sua adesione ad una visione del mondo che, pur considerando gli esseri umani appartenenti ad una stessa specie, comporta la distinzione tra selvaggio e civile è del tutto evidente nel Diario di un naturalista intorno al mondo, e soprattutto nelle riflessioni e nelle considerazioni che egli è indotto a fare sugli abitanti della Terra del Fuoco, i fuegini: una popolazione primitiva ormai scomparsa. Rimando alla lettura dell’estratto pubblicato sul sito, e mi limito qui solo a due cenni.

Il primo riguarda uno dei tre fuegini che Fitz Roy, il capitano del Beagle, aveva “catturato” in una spedizione precendente, portato in Inghilterra per tentare di civilizzarli e, con Darwin a bordo, riportava in patria. Si tratta di Jemmy Button che più di tutti sembrava essersi lasciato influenzare dalla cultura inglese al punto che “portava sempre i guanti; aveva i capelli sempre tagliati con bel garbo, ed era desolato quando le sue lucide scarpe venivano inzaccherate.”. Quando Jemmy incontra i suoi parenti, Darwin rileva la apparente completa indifferenza affettiva reciproca. Più volte rileva che Jemmy giudica severamente i suoi compatrioti, ed esprime implicitamente il desiderio di tornare in Inghilterra. Di fatto, poi, Jemmy non solo decide di restare con i suoi, ma ne riacquista le abitudini comparendo, dopo qualche tempo, come “un selvaggio macilento, stralunato, coi lunghi capelli arruffali e tutto nudo, tranne un pezzo di vecchia coperta intorno alla cintola”. Il giudizio di Darwin, che vede Jemmy regredito allo stato selvaggio, non coincide con quello dello stesso, che ha deciso di rimanere con la sua gente e afferma che “i suoi parenti erano brava gente.”.

Il disagio di Darwin di fronte ai selvaggi, che oscilla tra la pena e l’abominio, è del tutto evidente. Egli non comprende che ogni cultura ha i suoi limiti e i suoi valori. Tra i valori praticati tra i fuegini c’è per esempio una radicale uguaglianza all’interno del gruppo tribale. Darwin la commenta così:

“La perfetta uguaglianza che esiste fra gli individui componenti le tribù degli abitatori della Terra del Fuoco ritarderà per lungo tempo il loro incivilimento. Come vediamo che gli animali i quali sono spinti dall'istinto a vivere in società e ad obbedire ad un capo, sono più soggetti a miglioramenti, così vediamo la stessa cosa accadere nelle razze umane. Sia che noi consideriamo questo fatto come una causa od un effetto, le razze più civili hanno sempre governi più artificiali...

Nella Terra del Fuoco, finché non venga un qualche capo che abbia sufficiente forza per assicurarsi un qualche vantaggio che abbia conquistato, come per esempio gli animali domestici, non sembra quasi possibile che lo stato politico del paese possa venire migliorato. Presentemente anche una pezza di panno data ad un solo viene lacerata in strisce e queste distribuite; e nessun individuo diventa più ricco dell'altro. D'altra parte, è difficile comprendere come possa sorgere un capo finché non vi sia una proprietà qualunque per mezzo della quale egli possa manifestare la sua superiorità ed accrescere il suo potere.”

E’ evidente che, nonostante il suo genio e il suo umanitarismo, Darwin, dato il suo orientamento eurocentrico, non sarebbe stato un buon antropologo culturale.

Questa considerazione ha una certa importanza per l’analisi de L’origine dell’uomo, perché, anche se Darwin si inoltra sul terreno con molta prudenza, egli finisce poi con il farsi influenzare dalla sua cultura e dai suoi punti di vista.

Differenze quantitative e qualitative tra uomo e animale

Nell’Introduzione, Darwin esibisce al tempo stesso la sua proverbiale modestia e la sua orgogliosa e inesauribile fede nella Scienza:

“Il solo scopo di questo lavoro è di considerare, in primo luogo, se l’uomo, come ogni altra specie, sia disceso da qualche forma preesistente, in secondo luogo, il modo di questo sviluppo, ed in terzo luogo il valore delle differenze tra le cosiddette razze umane…

Quest’opera contiene solo qualcosa di originale riguardo all’uomo; ma, poiché le conclusioni cui sono giunto dopo aver tratteggiato un primo abbozzo mi sono parse interessanti, ho pensato che potessero interessare anche altri. E’ stato spesso e fiduciosamente asserito che l’origine dell’uomo non potrà mai essere conosciuta; ma l’ignoranza genera, più spesso della conoscenza, certe convinzioni: coloro che sanno poco e non quelli che sanno molto asseriscono tanto fermamente che questo o quel problema non sarà mai risolto dalla scienza.” (p. 28)

Lo scopo del lavoro è, in realtà, un attacco frontale all’antropocentrismo teologico che la prima opera aveva messo implicitamente in crisi, in nome di un materialismo naturalistico radicale.

L'attacco verte essenzialmente sul minimizzare le differenze che si danno tra gli altri animali (compresi i primati) e l’uomo sotto il profilo psichico. Egli scrive:

“Se nessun altro essere vivente, tranne l’uomo, avesse posseduto una qualche facoltà mentale, o se i suoi poteri fossero stati di natura del tutto diversa da quella degli animali inferiori, allora non saremmo mai stati in grado di convincerci che le nostre elevate facoltà si sono sviluppate gradualmente. Ma si può dimostrare che non vi è nessuna fondamentale differenza di questo genere. Dobbiamo anche ammettere che vi è una differenza molto maggiore di capacità mentale tra uno dei pesci inferiori, come una lampreda o un anfiosso e una delle scimmie superiori, che tra questa e un uomo; tuttavia tale differenza è colmata da numerose gradazioni…

Il mio scopo in questo capitolo è di dimostrare che non vi è alcuna differenza fondamentale tra l’uomo e i mammiferi superiori per quanto concerne le loro facoltà mentali.” (p. 91-92)

Nell’intento di fornire questa dimostrazione, Darwin, non potendo avvalersi degli apporti di una Psicologia che sta facendo appena i primi passi sul terreno della psicofisiologia delle percezioni, prende in considerazione le più facoltà intellettive più varie: emozioni, memoria, curiosità, imitazione, attenzione, memoria, immaginazione, ragione, astrazione, autocoscienza, senso del bello, socialità e moralità. L'analisi, a dire il vero piuttosto aneddotica, in quanto fondata su osservazioni personali, testimonianze di altri, ecc., è suggestiva per alcuni aspetti, ma tutt’altro che convincente.

Fornisco due esempi che ritengo indiziari della volontà di Darwin di dimostrare il suo assunto di fondo.

Il primo concerne le emozioni. Darwin scrive:

“Gli animali inferiori manifestano piacere e dolore, felicità e tristezza esattamente come l'uomo. La felicità non è mai tanto dimostrata quanto ne dimostrano i giovani animali, quali i cuccioli, i gattini, gli agnelli, ecc. quando giocano insieme, esattamente come i nostri bambini...

Il terrore agisce su di loro alla stessa maniera che su di noi, facendo tremare i muscoli, palpitare il cuore, rilasciare gli sfinteri, raddrizzare i capelli. Il sospetto, derivato dalla paura, è soprattutto caratteristico della maggior parte degli animali selvaggi...

Il coraggio e la timidezza sono qualità estremamente variabili in individui della stessa specie, come vediamo chiaramente nei nostri cani. Alcuni cani e cavalli sono mal controllati e cambiano facilmente umore, altri sono ben controllati e queste qualità sono sicuramente ereditarie.

Ognuno sa quanto gli animali siano soggetti a rabbie furiose, e quanto facilmente le rivelino. Si sono pubblicati molti, e probabilmente veri, aneddoti, sulla procrastinata e astuta vendetta di vari animali...

Moltissime delle emozioni più complesse sono comuni agli animali superiori e a noi stessi.

Chiunque ha visto quanto un cane sia geloso dell'affetto del suo padrone se dispensato a qualche altro essere, ed io ho osservato lo stesso fatto. nelle scimmie, il che dimostra che gli animali non solo provano affetto, ma desiderano essere amati.

Gli animali sentono chiaramente l'emulazione. Amano l'approvazione e la lode, e il cane che porta un cestino per il suo padrone rivela, in alto grado, autocompiacimento ed orgoglio.

Penso che non possa esservi dubbio che un cane senta la vergogna come qualcosa di diverso dalla paura e di molto simile al pudore quando elemosina il cibo troppo spesso. Un cane grande disdegna di azzuffarsi con un cane piccolo e ciò si può chiamare magnanimità.

Numerosi osservatori hanno narrato che alle scimmie non piace che si rida loro dietro, e talora inventano offese immaginarie. Nel giardino zoologico ho visto un babbuino che era sempre preso da una rabbia furiosa quando il suo guardiano tirava fuori una lettera o un libro e glielo leggeva ad alta voce, e la sua rabbia era così violenta che, come ho visto, una volta si morse una zampa a sangue.” (pp. 95-96)

Nessuno pone ormai in dubbio che gli animali superiori siano dotati di un rilevante corredo emozionale e che gli uomini abbiano ereditato da essi le emozioni di base. Il modo con cui un uomo reagisce ad un forte rumore improvviso, di fatto, è identico quello di una scimmia, di un cane, di un gatto. Senza volere entrare nel merito di una teoria delle emozioni, non è però possibile non cogliere la differenza tra l’allarme o la paura degli animali e l’ansia esistenziale umana, che si definisce nel corso dell’evoluzione della personalità e rimane stabilmente depositata nell’inconscio.

Non appare sostenibile che la differenza sia dovuta solo all’acquisizione della capacità cognitiva. In realtà, nell’uomo le strutture cognitive e quelle emozionali si sono, per alcuni aspetti, integrate: l’ansia esistenziale è qualitativamente diversa dalla paura degli altri animali.

Il secondo esempio riguarda, invece, l'astrazione e la capacità concettuale:

“Se si può giudicare dai vari articoli, pubblicati ultimamente, sembra che venga sottolineata la supposta e completa incapacità di astrazione degli animali, o di formazione di concetti generali. Ma quando un cane vede un altro cane a distanza, è spesso evidente che percepisce astrattamente che è un cane, poiché quando si fa più vicino tutto il suo comportamento cambia improvvisamente, se l'altro cane è un amico. Uno scrittore ha recentemente osservato che in tutti questi casi è un semplice presupposto asserire che l'atto mentale non sia necessariamente della stessa natura nell'animale e nell'uomo. Se l'uno riferisce ciò che percepisce con i sensi a un concetto mentale, l'altro fa altrettanto.

Quando dico al mio terrier con voce aspra (e ho fatto il tentativo molte volte): «Ehi, chi, dov'è?», esso immediatamente lo prende come segnale che si deve dar la caccia a qualche cosa e generalmente per prima cosa si guarda intorno, poi si getta nel boschetto più vicino, per sentire se c'è odore di selvaggina, ma non trovando nulla, si volge a un albero vicino per cercare uno scoiattolo. Ora queste azioni non mostrano chiaramente che esso ha nella mente un'idea generale o il concetto che qualche animale va scoperto e cacciato?

Si può liberamente ammettere che nessun animale è autocosciente, se con questo termine si implica che esso riflette su ogni punto: da dove viene e dove andrà o che cosa è la vita e la morte e così via. Ma come possiamo essere sicuri che un vecchio cane con una memoria eccellente e con qualche potere di immaginazione, come è mostrato dai suoi sogni, non rifletta mai sui suoi piaceri o dolori passati nella caccia? Questa sarebbe una forma di autocoscienza. D'altra parte, come osserva Buchner, assai, poco può esercitare la propria autocoscienza o riflettere sulla natura della sua esistenza, l'indefessa lavoratrice, moglie del rozzo selvaggio australiano, che usa pochissime parole astratte e non sa contare oltre il quattro.

Si ammette generalmente che gli animali superiori sono dotati di memoria, attenzione, associazione e anche di una certa immaginazione e ragione Se questi poteri, che differiscono molto nei diversi animali, sono passibili di sviluppo allora non sembra troppo improbabile per le facoltà più complesse che le più alte forme di astrazione, l'autocoscienza, ecc., si siano evolute attraverso lo sviluppo e la combinazione delle più semplici.

E stato sostenuto contro le opinioni avanzate qui che è impossibile dire a che punto nella scala ascendente, l'animale divenga capace di astrazione, ecc.; ma chi può dire a che età ciò avviene nei nostri ragazzi? Vediamo infatti che tali poteri si sviluppano nei bambini per gradi impercettibili.” (pp. 109-110)

Anche a riguardo, nessuno nega che gli animali superiori siano dotati di un’intelligenza associativa. Questo tipo di intelligenza non comporta, però, alcun concetto o idea generale perché essa è del tutto sprovvista di capacità simbolica. Gli animali hanno di certo memorie e immagini mentali, ma non rappresentazioni astratte.

En passant, occorre ricordare il famoso caso Washoe, un esemplare femmina di scimpanzè alla quale due ricercatori - Allen e Beatrice Gardner - hanno tentato di insegnare a comunicare con l’uomo utilizzando un particolare linguaggio di segni. I Gardner hanno sostenuto che Washoe alla fine era in grado di utilizzare 250 segni. I risultati da essi conseguiti, però, non sono stati scientificamente convalidati, perché nulla prova che Washoe sia andata al di là di un’associazione tra segni e cose, che abbia cioè sviluppato una comprensione simbolica dei segni stessi.

Riesce assolutamente evidente che, nell'assumere il ruolo di etologo e di psicologo comparato, Darwin confida un po' troppo nella sua capacità di osservazione e nella sua intelligenza di ricercatore. Anche se il suo intento di ridurre le differenze psichiche tra gli altri animali e l'uomo, esasperate al massimo grado dalla tradizione religiosa, è comprensibile, egli si fa prendere un po' la mano da esso e giunge ad una conclusione opinabile:

“Credo che sia stato dimostrato che l’uomo e gli animali superiori, specialmente i primati, hanno alcuni istinti in comune. Tutti hanno i medesimi sensi, le intuizioni e le sensazioni, le stesse passioni, affezioni ed emozioni, anche le più complesse, come la gelosia, il sospetto, l’emulazione, la gratitudine e la magnanimità; praticano l’inganno e sono vendicativi; talora sono soggetti al ridicolo e hanno anche il senso dell’umorismo; provano meraviglia e curiosità; possiedono le stesse facoltà di imitazione, attenzione, decisione, scelta, memoria, immaginazione, associazione di idee, e la ragione, anche se a livelli molto diversi. Gli individui della stessa specie sono graduati, per l’intelletto, dall’assoluta imbecillità alla eccellenza. Ancora: sono soggetti alla follia, anche se di gran lunga meno spesso che nel caso dell’uomo.” (p. 105)

La differenza, dunque, sarebbe di ordine quantitativo, non qualitativo. Le stesse facoltà hanno avuto semplicemente uno sviluppo diverso negli animali e nell'uomo in conseguenza della crescita di dimensioni del cervello umano che ha prodotto l'avvento della capacità di astrazione simbolica.

Affermazioni del genere sono difficilmente condivisibili.

Del resto non è un caso che la sociobiologia e la psicologia evoluzionistica, che si sono fatte carico, a dire il vero un po’ rozzamente, delle ipotesi darwiniane, cercando di dimostrare che il cervello umano è stato selezionato per esseri che vivevano di caccia e di raccolta, sono finite rapidamente in un vicolo cieco.

Sociobiologia e Psicologia evoluzionistica

Nel 1975 E. O. Wilson pubblica un saggio (Sociobiologia. La nuova sintesi) che diventa rapidamente famoso. In esso si afferma che “la psicologia senza la genetica è lo stesso paradosso della chimica senza la fisica o della biologia senza la chimica”. Il punto focale della indagine sociobiologica è, in effetti, il rapporto genotipo-fenotipo, assunto però in termini di determinismo genetico.

In questa ottica, i tratti più caratteristici del comportamento umano si sarebbero sviluppati sotto l'influsso della selezione naturale e sono condizionati geneticamente; l'attività dell'individuo umano non sarebbe altro che un anello dell'evoluzione biologica, nel corso della quale avviene la riproduzione del materiale genetico; e le scelte individuali avrebbero come scopo principale (inconscio) l'immortalità dei geni, poiché la vita è essenzialmente "bios".

Al di là del riduzionismo biologista, che è implicito nell’assunzione della vita, anche umana, come espressione dell’egoismo dei geni, la sociobiologia ha due lacune insormontabili: la prima va ricondotta al fatto che essa accoglie in toto il paradigma neodarwinista, trasformandolo in “dogma, senza tenere conto delle critiche che sono state ad esso portate da parte di biologi evoluzionistici. La seconda è che essa assume la relazione gene/comportamento o genotipo/fenotipo in termini estremamente semplificati che non sembrano scientificamente condivisibili.

Queste stesse lacune sono riconoscibili nella psicologia evoluzionistica, che si può ritenere una filiazione della sociobiologia.

Ufficialmente, la psicologia cognitivo evoluzionistica è nata nel 1992 sulla base di un lungo articolo di J. Tooby e L. Cosmides (The psychological foundation of culture) nel quale si legge: “Darwin […] ha mostrato come, con tutta probabilità, il mondo mentale […] possiede la sua complessa organizzazione in virtù dello stesso processo di selezione naturale che spiega l’organizzazione fisica delle cose viventi [sicché] nel vasto paesaggio della causazione è ora possibile identificare il posto dell’uomo nella natura.”

Il problema è che è nata con il piede sbagliato: acquisendo dall’evoluzionismo il criterio per cui tutte le funzioni cerebrali vanno ricondotte alla selezione naturale e dal cognitivismo l’idea che la mente è un insieme di moduli specializzati ciascuno dei quali svolge funzioni adattive.

Il “manifesto” della psicologia cognitivo-evoluzionistica rimane ancora oggi Come funziona la mente (Mondadori, Milano 2002) di Steven Pinker, il cui “argomento... è la complessa struttura della mente” (p. 25) e la cui “idea chiave può essere espressa in una frase: la mente è un sistema di organi di computazione designato per selezione naturale a risolvere i problemi posti ai nostri antenati dalla loro condizione di cacciatori-raccoglitori, in particolare come capire e sfruttare oggetti, animali, piante e altre persone.” (p. 25)

Tale sintesi “è scomponibile in più affermazioni. La mente è ciò che il cervello fa; in particolare, il cervello elabora informazione, e pensare è una sorta di computazione. La mente è organizzata in moduli, o organi mentali, dotati ognuno di una specializzazione che ne fa un esperto in un singolo terreno d'interazione con il mondo. La logica base dei moduli è specificata dal nostro programma genetico. Il loro funzionamento si è modellato per selezione naturale in modo da risolvere i problemi della vita di cacciatori e raccoglitori condotta dai nostri antenati durante la maggior parte della nostra storia evoluzionistica. I vari problemi dei nostri antenati erano sottocompiti di un unico grande problema dei loro geni: massimizzare il numero di copie capaci di giungere alla generazione successiva.

In quest'ottica, la psicologia è ingegneria inversa. Nell'ingegneria normale si costruisce una macchina e per un certo scopo; nell’ingegneria inversa si cerca di capire per quale scopo una macchina è stata costruita.” (p. 25-26)

Lo scopo in questione non è ovviamente finalistico:

“Benché il processo della selezione naturale non abbia in sé uno scopo, esso ha evoluto entità che (come l'automobile) sono altamente organizzate per raggiungere certi scopi e sottoscopi. Per fare ingegneria inversa della mente bisogna discernerle e identificare nel suo progetto lo scopo ultimo. La mente umana è stata in ultima istanza progettata per creare bellezza? Per scoprire la verità? Per l'amore e il lavoro? Per l'armonia con gli altri esseri umani e con la natura?

La risposta è fornita dalla logica della selezione naturale. Lo scopo ultimo per raggiungere il quale è stata progettata la mente è la massimizzazione del numero di copie dei geni che l'hanno creata. La selezione naturale si preoccupa soltanto del destino a lungo termine di entità che si replicano, di entità cioè che mantengono un'identità stabile attraverso molte generazioni di copie. Essa predice solo che i replicatori i cui effetti tendono ad aumentare la probabilità della loro propria replicazione finiranno per predominare. Quando poniamo domande tipo «Chi o che cosa si suppone che tragga beneficio da un adattamento?», o «Un progetto nelle cose viventi è un progetto per che cosa?», la risposta della teoria della selezione naturale è: replicatori stabili a lungo termine, geni.” (pp. 47-48)

Di fatto la psicologia evoluzionistica riduce la mente umana ad una serie di moduli innati e specializzati per svolgere determinate funzioni dirette ad un migliore successo riproduttivo, unico motore dell’evoluzione. Essa è una versione contemporanea della sociobiologia di Wilson che soffre tutti i difetti del riduzionismo genetico, il maggiore dei quali è che se il cervello è stato selezionato originariamente solo per permettere ai nostri progenitori cacciatori e raccoglitori di sopravvivere gran parte delle sue disfunzioni dipendono dal suo assetto arcaico.

Sulla base del riduzionismo genetico, e ancora più dell’egoismo genetico che riduce la selezione naturale alla competizione tra geni per essere rappresentati nella generazione successiva, non è sorprendente che il capitolo VII di Come funziona la mente, che concerne i legami sociali, si inaugura con la triste constatazione che “le storie delle nostre vite sono in larga parte storie di conflitti: di offese, colpe e rivalità di cui si rendono responsabili genitori, fratelli, figli, coniugi, amati, amici e concorrenti.” (p. 456) Il problema, in un’ottica evoluzionistica, è che le persone, coltivando i loro interessi, esprimendo i loro bisogni e affermando i loro diritti, - agendo, insomma, sulla base di motivazioni consce o inconsce, non sanno di fare il gioco dei loro geni.

In un denso saggio (La mente non funziona così, Laterza, Bari 2001), Jerry A. Fodor, che pure ha sostenuto a lungo la teoria computazionale della mente e l’ha arricchita di contributi originali, sottopone ad una serrata e impietosa analisi le pretese trionfalistiche della nouvelle vague psicologica cognitivo-evoluzionistica giungendo alla conclusione che ”finora ciò che la nostra scienza cognitiva ha scoperto sulla mente è stato soprattutto che non sappiamo come essa funziona.” (p. 127)

Di fatto, una psicologia evoluzionistica non potrà darsi se non integrando i principi dell’evoluzionismo in una nuova cornice, che prescinda dall’ipotesi che tutte le funzioni del cervello in tanto esistono in quanto sono state selezionate originariamente e approfondisca il nesso tra natura e cultura.

Il saggio di Pinker, apparentemente ortodosso sotto il profilo darwiniano, in realtà non sembra tenere conto della valorizzazione che Darwin ha fatto dell’aspetto più arcaico del cervello: l’istinto sociale.

L'istinto sociale in Darwin

Se si considera che L'origine dell'uomo è stato scritto nel contesto di una cultura che stava gettando le basi dell'individualismo borghese e tendeva a considerare la società come null'altro che la somma di singoli individui, il punto di vista di Darwin sull'istinto sociale risulta del tutto controcorrente.

Nella polemica allora avviata, e che persiste tuttora, sulla discendenza dell’uomo dalla scimmia, questo aspetto è stato in una certa misura oscurato nonostante sia assolutamente esplicito.

Darwin scrive:

“La seguente proposizione mi sembra estremamente probabile; cioè che qualsiasi animale, dotato di istinti sociali ben marcati, compresi quelli verso i genitori e i figli, acquisterebbe inevitabilmente un senso morale o una coscienza, non appena i suoi poteri intellettuali fossero divenuti tanto sviluppati, o quasi altrettanto che nell’uomo.

Infatti, per prima cosa, gli istinti sociali portano un animale a compiacersi della compagnia dei suoi simili, a sentire un certo grado di simpatia per loro, e a compiere per essi vari servizi. I servizi possono essere di natura definita e chiaramente istintiva, o può essere solo il desiderio e la sollecitudine, come avviene nella maggior parte degli animali sociali superiori, di aiutare i propri simili in modo generico. Ma questi sentimenti e compiti non sono affatto estesi a tutti gli individui della stessa specie, ma solo a quelli dello stesso gruppo.

In secondo luogo, appena le facoltà mentali si saranno sviluppate abbastanza notevolmente, immagini di tutte le azioni passate e i loro motivi ritorneranno incessantemente nel cervello di ogni individuo. Nascerà così quel senso di insoddisfazione e anche di tristezza che invariabilmente deriva, come vedremo appresso, da ogni istinto insoddisfatto, ogni volta che gli istinti sociali permanenti e sempre presenti sembreranno essersi arresi a qualche altro istinto, momentaneamente più forte, che però per sua natura non è durevole, né lascia dietro di sé una impressione troppo profonda. E’ chiaro che molti desideri istintivi, come quello della fame, sono nella loro natura di breve durata, e dopo essere stati soddisfatti non costituiscono oggetto di immediato e profondo ricordo.

In terzo luogo, dopo che si è acquisita la facoltà della parola e possono essere espressi i desideri della comunità, l’opinione generale che ciascun membro dovrebbe agire per il bene comune dovrebbe naturalmente guidare in maggior misura l’azione. Ma si dovrebbe tener presente che per quanto peso si possa attribuire all’opinione pubblica, la nostra considerazione per l’approvazione o la disapprovazione dei nostri simili si basa sulla simpatia che, come vedremo, forma una parte essenziale dell’istinto sociale, ed è perciò il suo fondamento.

Infine, l’abitudine dell’individuo giocherebbe in definitiva un ruolo molto importante nel guidare la condotta di ogni membro; infatti l’istinto sociale insieme alla simpatia, è, come ogni altro istinto, molto rafforzato dall’abitudine, e quindi significherebbe obbedienza ai desideri e al giudizio della comunità…” (p. 124-125)

Il riferimento alla simpatia è mutuato da filosofi inglesi, ma non per questo è meno interessante:

“Adam Smith tempo addietro ha detto, come ha fatto recentemente Bain, che la base della simpatia si trova nella nostra forte memoria di precedenti stati di pena o di piacere. Donde: «la vista di un’altra persona che soffre la fame, il freddo, la fatica, fa rivivere in noi qualche ricordo di tali stati, che sono penosi anche nel pensiero ». Siamo così spinti ad alleviare le sofferenze altrui, in modo da alleviare nello stesso tempo i nostri sentimenti dolorosi. Allo stesso modo siamo portati a partecipare alle gioie altrui.

Ma non riesco a vedere come questa teoria spieghi il fatto che la simpatia sia suscitata a un livello di gran lunga superiore, da una persona amata piuttosto che da una che è indifferente. La semplice vista di una persona che soffre, indipendentemente dall’amore, sarebbe sufficiente a richiamare in noi vividi ricordi e associazioni. La spiegazione può trovarsi nel fatto che, in tutti gli animali, la simpatia è diretta solo verso i membri della stessa comunità e perciò verso membri conosciuti e più o meno benvisti, ma non a tutti gli individui della stessa specie. Ciò non è più sorprendente del fatto che i timori di molti animali sarebbero rivolti contro i nemici particolari. Le specie che non sono sociali, come i leoni e le tigri, senza dubbio provano simpatia per la sofferenza di un loro piccolo, ma non per quella di ogni altro animale.

Nel genere umano, l’egoismo, l’esperienza e l’imitazione probabilmente si aggiungono, come ha dimostrato Bain, alla facoltà della simpatia; infatti noi siamo spinti dalla speranza di essere contraccambiati, nel compiere azioni di simpatia e benevolenza, verso gli altri, e la simpatia viene rafforzata dall’abitudine. Tuttavia, per quanto complessamente questo sentimento possa essersi originato, poiché è di notevole importanza per tutti quegli animali che si aiutano e si difendono reciprocamente, si sarà potenziato con la selezione naturale. Infatti quelle comunità che comprendono il maggior numero di membri legati da simpatia, prospereranno di più e alleveranno il maggior numero di prole.” (p. 132)

Il significato evoluzionistico dell'istinto sociale per Darwin è ovvio:

“Giudicando dalle abitudini dei selvaggi e dal maggior numero dei quadrumani, gli uomini primitivi e anche i loro progenitori somiglianti alle scimmie, probabilmente vissero in società. Negli animali fortemente socievoli, la selezione naturale talora agisce sull’individuo attraverso la conservazione di mutamenti che sono benefici alla comunità. Una comunità che include un largo numero di individui ben dotati cresce di numero ed è vittoriosa su quelle meno favorite, sebbene spesso ogni membro separato non si avvantaggi affatto sugli altri della sua stessa comunità...

Per quanto riguarda gli animali sociali superiori, non mi consta che qualche struttura si sia modificata unicamente per il bene della comunità, sebbene alcune siano di utilità secondaria per essa. Per esempio, le corna dei ruminanti e i grandi canini dei babbuini sembrano essere stati acquisiti dai maschi come armi per le discordie sessuali, ma sono usate in difesa delle mandrie o del gruppo. Riguardo a certe facoltà mentali, il caso è del tutto diverso; infatti queste facoltà si sono ottenute principalmente o quasi esclusivamente per il bene della comunità e nello stesso tempo gli individui ne hanno ottenuto un vantaggio indiretto.” (p. 89)

La valorizzazione in Darwin dell’istinto sociale implica il problema del conflitto tra il legame empatico che si dà tra gli esseri umani, il suo essere ristretto al gruppo di appartenenza e la pressione dell’egoismo individuale. Si tratta di un problema di enorme portata, che ancora oggi comporta interrogativi di ogni genere.

Se l’istinto sociale ha la potenza che ad esso attribuisce Darwin come è possibile che gli uomini, non solo nel rapporto con gli “estranei”, ma anche all’interno del gruppo di appartenenza e persino nell’ambito dei rapporti privati, agiscono spesso comportamenti asociali o antisociali?

Per porre le premesse al fine di rispondere a questo quesito, e anticipato che una possibile risposta potrà essere formulata solo alla fine dei cicli di lettura, occorre aprire una parentesi sui presupposti ideologici, consci e inconsci, sulla base dei quali gli uomini, compresi gli scienziati, si confrontano con i problemi umani.

Adam Smith e Darwin

Uno dei critici più astiosi di Darwin, il Prof. Roberto Fondi, docente all'Istituto di Geologia e Paleontologia dell'Università di Siena, in un articolo apparso sul numero di aprile 1982 del mensile Scienza & Vita, ha scritto riguardo all’elaborazione della teoria della selezione naturale:

“Può stupire di dover constatare che i principali autori utilizzati non furono biologi, ma un sociologo (Robert Malthus), un economista (Adam Smith) e uno statistico (Adolphe Quételet); ma lo stupore svanisce, non appena si riflette che, in definitiva, la teoria dell'evoluzione per selezione naturale altro non è se non un'estensione alla biologia del principio del laissez-faire economico di Adam Smith.

Per Smith, infatti, se si vuole un'economia ordinata e assicuratrice del massimo benessere per tutti, bisogna lasciare che gli individui competano liberamente fra di loro e combattano l'uno contro l'altro per il proprio tornaconto. Il risultato, dopo aver eliminato gli inefficienti e favorito i più efficienti, sarà una politica stabile ed armonica. L'ordine e l'armonia, insomma, sorgerebbero spontaneamente dalla lotta fra gli individui e non discenderebbero da una 'autorità' predestinata o da controlli effettuati dall''alto'.”

C’è del vero in questa affermazione, anche se, come noto, la corrispondenza tra la teoria darwiniana e il sistema sociale in cui essa è stata elaborata risale a Marx.

La verità, però, è più profonda rispetto al riduzionismo operato dal Prof. Fondi.

Darwin scrive in un periodo in cui lo sviluppo del capitalismo si è già ampiamente avviato ed ha raggiunto un apogeo. Il capitalismo inglese di sicuro segue le tracce del modello economico liberale fondato sulla concorrenza illustrato da Adam Smith ne La ricchezza delle nazioni. Il suo evolvere, però, con il duro sfruttamento operaio e con il colonialismo, nella direzione “selvaggia” analizzata da Marx, ha poco a che vedere con Smith.

Prima di scrivere La ricchezza delle nazioni, che si può ritenere il saggio che ha avviato la scienza economica, Smith aveva già pubblicato La teoria dei sentimenti morali.

Con questo libro, Smith prende posizione in rapporto al conflitto sulla natura umana che, nell’ambito della filosofia inglese, ha visto contrapporsi Hobbes, che nega all’uomo qualsivoglia istinto sociale, e Hume, che non solo glielo attribuisce ma lo caratterizza riconducendolo a naturali sentimenti di simpatia verso le gioie e i dolori degli altri uomini, che poi si precisano, a seconda delle contingenze storiche, in criteri generali di giustizia, di rispetto dei patti e di obbedienza nei confronti delle istituzioni sociali.

Smith sta chiaramente dalla parte di Hume. Seguendo l'approccio basato sui sentimenti, inaugurato per l’appunto da Hume, Adam Smith descrive nel suo saggio dedicato all’etica un sistema morale fondato sul principio di simpatia che comporta l'immedesimazione nelle passioni e nei sentimenti altrui e che differisce dalla benevolenza e dall'altruismo pur non sostituendosi all'egoismo. In conseguenza della simpatia, le norme sociali non possono che spingere verso modelli di solidarietà e integrazione sociale. Da questo sentimento gli individui deducono regole morali di comportamento. La coscienza morale non è allora un principio razionale interiore, ma, scaturendo dal rapporto simpatetico che l'uomo ha con gli altri uomini, presenta un carattere prevalentemente sociale e intersoggettivo.

Il contrasto tra La teoria dei sentimenti morali e La ricchezza delle nazioni è solo apparente. Il principio di simpatia non viene abbandonato da Adam Smith nella redazione della Ricchezza delle nazioni, al contrario questo soggiace allo scambio e al mercato: il produttore produce un bene non per farne dono (benevolenza), ma per venderlo (perseguimento del proprio interesse). Tuttavia, esso - pur mosso dal proprio interesse di vendere il prodotto del suo lavoro - lo produce sulla base del fatto che esso è desiderato e apprezzato, dal cliente.

La Mano invisibile di Smith comporta la concorrenza, ma in un quadro di regole tali per cui essa si trasforma in uno scambio reciprocamente proficuo, dunque in una forma di cooperazione e di solidarietà tra gli individui.

Tenendo conto degli sviluppi del capitalismo, la teoria di Smith può apparire ridicola. E’ ad essa, nel suo significato autentico, morale, che si riconduce Darwin.

Se si può fare un appunto all’autore de L’origine dell’uomo, esso non verte certo sul fatto che, insistendo sull’animalità della specie umana, Darwin azzera i valori morali, bensì piuttosto sul fatto che, non disponendo di strumenti di analisi ideologica, egli mescola, nell’analizzare la condizione umana, un po’ di tutto: le sue convinzioni scientifiche, i suoi punti di vista, i vissuti inconsci sottostanti la sua nevrosi, il senso comune dell’epoca, ecc.

Ciò nondimeno, le sue riflessioni sul conflitto tra l’istinto sociale e i desideri individuali non difettano. di spunti di interesse, al punto tale che non è azzardato parlare di un’etica darwiniana.

L'uomo tra Socialità e Individualità

Il punto di partenza è l’istinto sociale ereditato dagli animali, che comporta una tendenza naturale ad aiutare membri del gruppo cui si appartiene:

“Chiunque ammetterà che l’uomo è un essere sociale. Vediamo ciò nel suo odio per la solitudine e nel suo desiderio per l’inserimento nella società al di là della sua famiglia. La prigionia solitaria è una delle punizioni più severe che si possano infliggere. Alcuni autori suppongono che originariamente l’uomo vivesse in famiglie singole; ma al tempo presente, sebbene singole famiglie o anche due o tre insieme vaghino per i deserti di qualche terra selvaggia, esse, a quanto ne so, stringono sempre rapporti con altre famiglie che abitano negli stessi distretti. Tali famiglie occasionalmente si radunano e si uniscono per la difesa comune.

Non è un’obiezione alla società del selvaggio il fatto che le tribù che abitano in zone adiacenti, siano quasi sempre in guerra le une contro le altre; infatti gli istinti sociali non si estendono mai a tutti gli individui della stessa specie. Giudicando dall’analogia della maggioranza dei quadrumani, è probabile che i primi progenitori dell’uomo, somiglianti a scimmie, fossero ugualmente sociali, ma ciò non è di grande importanza per noi. Sebbene l’uomo, così come esiste ora, abbia pochi istinti particolari, avendone persi alcuni posseduti dai suoi primi progenitori, non vi è ragione per cui egli non possa aver conservato da un periodo estremamente remoto qualche grado di amore istintivo e di simpatia per i suoi simili. In verità noi siamo tutti consapevoli di possedere qualche sentimento di simpatia; ma la nostra coscienza non ci dice se sia istintivo, essendosi originato molto tempo fa allo stesso modo che negli animali inferiori, o se sia stato acquistato da ciascuno di noi durante i primi anni.

Poiché l’uomo è un animale sociale, è quasi certo che egli erediterebbe una tendenza, a essere leale verso i suoi compagni e obbediente al capo della tribù; infatti queste qualità sono comuni alla maggior parte degli animali sociali. Di conseguenza avrebbe anche qualche capacità di autocontrollo. Per tendenza ereditaria sarebbe pronto a difendere, insieme con gli altri, i suoi consimili, e sarebbe pronto ad aiutarli in ogni modo che non interferisse troppo con il suo benessere e i suoi desideri più forti.

Gli animali sociali che si trovano al fondo della scala zoologica sono guidati quasi esclusivamente, e quelli che si trovano alla sommità lo sono ampiamente, da particolari istinti nel dare aiuto ai membri della stessa comunità; ma nello stesso tempo sono, in parte, spinti da reciproca simpatia e amore, assistita apparentemente da una certa quantità di ragione. Sebbene l’uomo, come è stato appena osservato, non abbia istinti particolari che gli indichino come aiutare i suoi simili, egli ne ha tuttavia l’impulso, e, con le sue facoltà intellettuali migliori, sarebbe naturalmente guidato, per questo aspetto, dalla ragione e dall’esperienza. La simpatia istintiva lo porterebbe anche a valutare molto l’approvazione dei suoi compagni; infatti, come Bain ha chiarito, l’amore per la lode e il forte senso di gloria, e di più l’orrore per lo scorno e per l’infamia « dovuti ai processi simpatetici». Di conseguenza l’uomo sarebbe influenzato al massimo grado dai desideri, dall’approvazione, e dal biasimo dei suoi simili, così come sono espressi dai gesti e dalla parola.

Così gli istinti sociali, che debbono essere stati acquisiti dall’uomo in una fase molto rozza e probabilmente anche dai suoi progenitori simili alle scimmie, danno ancora l’impulso a qualcuna delle sue azioni migliori; ma le sue azioni sono determinate in grado maggiore dai desideri espressi e dal giudizio dei suoi simili e sfortunatamente molto spesso dai suoi forti desideri personali. Ma, poiché l’amore, la simpatia e l’autocontrollo vengono rafforzati dall’abitudine e poiché il potere della ragione si fa più evidente, così che l’uomo sia in grado di valutare adeguatamente il giudizio dei suoi compagni, si sentirà spinto a certe linee di condotta, a prescindere da qualsiasi piacere o pena transitoria.” (p. 134-135)

L’istinto sociale, per quanto potente, deve fare i conti con le pulsioni individuali, ma Darwin pensa che esso sia destinato a prevalere sulla base del bisogno reciproco di aiuto e sulla necessità di sentirsi confermati dal gruppo cui si appartiene:

“Perché un uomo dovrebbe sentire che egli deve obbedire a un desiderio istintivo, piuttosto che a un altro? Perché si rammarica amaramente, se è stato spinto da un violento senso di autoconservazione e non ha rischiato la vita per salvare quella di un suo simile? E perché si duole di aver rubato cibo per fame?

E’ evidente in primo luogo che nel genere umano gli impulsi istintivi hanno diversi gradi di forza; un selvaggio rischierà la propria vita per salvare quella di un membro della stessa comunità, ma sarà del tutto indifferente verso uno straniero; una giovane e timida madre, spinta dall’istinto materno, correrà, senza un momento di esitazione il maggior pericolo per il proprio bambino, ma non altrettanto per un semplice suo simile. Nondimeno, come molti uomini civili, anche un ragazzo, che prima non aveva mai rischiato la sua vita per un altro, pieno di coraggio e simpatia, ha ignorato l’istinto di conservazione, si è gettato immediatamente in un torrente per salvare un uomo che affogava, sebbene estraneo. In questo caso l’uomo è spinto dal medesimo motivo istintivo che spinse la piccola ed eroica scimmia americana, descritta prima, a salvare il suo guardiano, attaccando il grosso e spaventoso babbuino. Tali azioni, come le precedenti, sembrano essere il semplice risultato della forza degli istinti sociali o materni, maggiori di qualsiasi altro istinto o movente. Infatti si compiono troppo rapidamente per esser dovuti a riflessione o a piacere e dolore; tuttavia, se impediti da qualche causa, si proverebbe dispiacere o anche angoscia. In un uomo vile, d’altra parte, l’istinto di conservazione potrebbe essere così forte, da renderlo incapace di sottoporsi a rischio, forse neanche per suo figlio.

So che alcune persone sostengono che le azioni compiute impulsivamente, come nei casi precedenti, non cadono sotto il dominio del senso morale e non possono quindi essere chiamate morali. Esse riservano questo termine per le azioni compiute deliberatamente, dopo una vittoria su desideri contrastanti, o quando sono suggerite da qualche motivo elevato. Ma sembra poco probabile tracciare qualche linea chiara di distinzione di questo genere. Per quanto può concernere i motivi elevati, sono stati ricordati molti esempi di selvaggi, privi di qualsiasi sentimento di benevolenza generale verso il genere umano e non guidati da alcun motivo religioso, che hanno deliberatamente sacrificato la loro vita da prigionieri, piuttosto che tradire i loro compagni: sicuramente la loro condotta si potrebbe considerare morale. Per quanto riguarda la deliberazione e la vittoria su motivi contrastanti, si possono vedere gli animali in dubbio su istinti opposti, nel soccorrere la prole o i compagni; tuttavia le loro azioni, sebbene fatte per il bene altrui, non sono chiamate morali. Inoltre, un’azione compiuta ripetutamente da noi, alla fine sarà fatta senza deliberazione o esitazione e difficilmente si potrà distinguere da un istinto; tuttavia di sicuro nessuno pretenderà che tale azione cessi di essere morale.

Al contrario, tutti noi sentiamo che un’azione non si può considerare perfetta, o compiuta nel modo più nobile, se non lo è impulsivamente, senza decisione o sforzo, come se fosse compiuta da un uomo in cui le qualità richieste siano innate. Colui che è spinto a superare il suo timore o il suo bisogno di simpatia prima di agire, merita tuttavia più credito di colui che un’innata disposizione spinge ad agire giustamente senza sforzo. Poiché non possiamo distinguere tra i motivi, classifichiamo tutte le azioni di una certa classe come morali, se compiute da un essere morale. Un essere morale è colui che è in grado di paragonare le sue azioni e i motivi passati e futuri, e di approvarli o disapprovarli. Non abbiamo motivo di supporre che qualche animale inferiore abbia questa capacità; perciò quando un cane terranova salva un bambino dalle acque, o una scimmia affronta il pericolo per salvare una compagna o si prende cura di una scimmia orfana, non chiamiamo morale la sua condotta. Ma nel caso dell’uomo, che solo può essere classificato con certezza un essere morale, azioni di un certo tipo sono chiamate morali, se compiute deliberatamente, dopo una lotta con motivi contrastanti o impulsivamente attraverso l’istinto o per effetto di un’abitudine acquisita lentamente.

Ma torniamo al nostro argomento più immediato. Sebbene alcuni istinti siano più forti di altri e conducano così alle azioni corrispondenti, è tuttavia insostenibile che nell’uomo gli istinti sociali (compreso l’amore per la lode e il timore del biasimo) abbiano o abbiano acquisito attraverso un lungo uso una forza maggiore di quella degli istinti di conservazione, di fame, lussuria, vendetta, ecc. Perché allora l’uomo rimpiange, anche cercando di allontanare questo rimpianto, di aver seguito un impulso naturale piuttosto che un altro, e perché sente che potrebbe biasimare la sua condotta? L’uomo, per questo aspetto, differisce profondamente dagli animali inferiori. Nondimeno possiamo, penso, vedere con una certa chiarezza la ragione di questa differenza.

L’uomo per l’attività delle sue facoltà mentali, non può evitare la riflessione; le impressioni e le immagini passate scorrono incessantemente e chiaramente davanti alla sua mente. Ora in quegli animali che vivono permanentemente in gruppo, gli istinti sociali sono sempre presenti e persistenti. Tali animali sono sempre pronti a lanciare segnali di pericolo, a difendere la comunità e a portare aiuto ai compagni, secondo le loro abitudini; sentono sempre, senza lo stimolo di nessuna passione particolare o desiderio, qualche grado di amore o simpatia per essi; sono infelici se ne sono separati a lungo e sempre felici di essere di nuovo in loro compagnia. Così anche per noi. Anche quando siamo del tutto soli, quanto spesso dobbiamo pensare con piacere o dispiacere a ciò che gli altri pensano di noi, alla loro supposta approvazione o disapprovazione! E tutto ciò viene dalla simpatia, elemento fondamentale degli istinti sociali. Un uomo che non possedesse traccia di tali istinti sarebbe un mostro innaturale.

D’altra parte il desiderio di soddisfare la fame, o qualsiasi passione, come la vendetta, è per sua natura, temporaneo e può essere soddisfatto per un certo tempo. Né è facile, anzi forse a stento possibile, evocare con completa chiarezza il senso, per esempio, della fame, né in verità, come è stato spesso osservato, di qualsiasi sofferenza. L’istinto di conservazione non si sente che di fronte al pericolo; molti vigliacchi si sono considerati coraggiosi fino a che non si sono incontrati faccia a faccia con il nemico. Il desiderio per la proprietà di un altro è forse il desiderio più persistente che possiamo nominare, ma anche in questo caso la soddisfazione del possesso attuale è generalmente un sentimento più debole del desiderio stesso: molti ladri, a meno che non si tratti di uno abituale, si sono meravigliati per aver rubato un qualche oggetto.

Un uomo non può evitare che le impressioni passate scorrano spesso attraverso la sua mente; egli sarà così portato a fare un paragone tra le impressioni della fame passata, di una vendetta soddisfatta e di un pericolo evitato a spese di un altro uomo, con l’istinto, quasi sempre presente, di simpatia, e con la sua precedente conoscenza di ciò che gli altri considerano lodevole o biasimevole. Questa conoscenza non può essere bandita dalla sua mente, e per istintiva simpatia è stimata di grande valore. Egli sentirà allora di essere stato ostacolato nel seguire un istinto o un’abitudine presente, e ciò in tutti gli animali causerà soddisfazione o anche infelicità…

Al momento dell’azione, l’uomo non esiterà a seguire l’impulso più forte; e sebbene ciò possa occasionalmente suggerirgli le più nobili imprese, più comunemente lo porterà a soddisfare i suoi desideri a spese di altri uomini. Ma dopo la loro soddisfazione, quando le impressioni passate e più deboli sono giudicate dagli istinti sociali perduranti e dalla profonda considerazione per la buona opinione dei suoi compagni, sicuramente verrà il ripensamento. Egli allora proverà rimorso, pentimento, dolore o vergogna, il quale ultimo sentimento tuttavia si riferisce quasi esclusivamente al giudizio degli altri. Allora deciderà di agire differentemente per il futuro più o meno fermamente: questa è la coscienza. Infatti la coscienza guarda dietro e serve da guida per il futuro.

La natura e la forza dei sentimenti che chiamiamo rammarico, vergogna, pentimento o rimorso, dipende apparentemente non solo dalla forza dell’istinto violato, ma parzialmente dalla forza della tentazione e spesso ancora più dal giudizio dei nostri simili. Fino a che punto ogni uomo valuti il giudizio degli altri, dipende dalla forza del suo senso di simpatia, innato o acquisito, e dalla sua capacità di giudizio al di fuori delle conseguenze remote dei suoi atti.” (p. 134-139)

"Un uomo spinto dalla propria coscienza, acquisterà, attraverso una lunga abitudine, un tale perfetto autocontrollo che i suoi desideri e le sue passioni alla fine cederanno immediatamente e senza lotta alla simpatia e agli istinti sociali, che comprendono la considerazione per il giudizio dei propri simili.” (p. 141)

“E’ ovvio che chiunque può con facile coscienza appagare i propri desideri, se non interferiscono con gli istinti sociali e con il bene degli altri; ma per essere del tutto libero dall’autorimprovero, o anche dall’ansietà, è quasi necessario per lui evitare la disapprovazione, ragionevole o meno dei suoi simili. Né deve rompere con le abitudini fissate della propria vita, specialmente se queste sono sorrette dalla ragione poiché, se lo facesse, proverebbe sicuramente insoddisfazione. Deve egualmente evitare la disapprovazione di un Dio o di divinità in cui, secondo la sua conoscenza o superstizione, può credere; ma in questo caso spesso sopravviene in più la paura della punizione divina." (p. 142)

La pressione operata dal gruppo sull’individuo potenzia l’istinto sociale e lo guida ad assumere una configurazione morale. Questa stessa pressione, peraltro, può avere anche conseguenze negative:

“I desideri e le opinioni dei membri della stessa comunità, all’inizio espressi oralmente, ma più tardi anche per iscritto, formano entrambi la sola guida alla nostra condotta, o rinforzano grandemente gli istinti sociali; tali opinioni tuttavia, talora, hanno una tendenza direttamente opposta a questi istinti. Quest’ultimo fatto è chiarito bene dalla legge d’onore, è la legge dell’opinione dei nostri pari, e non di tutti i nostri concittadini. La violazione di questa legge, anche quando si sa che essa si accorda strettamente con la vera moralità, ha causato a molti uomini più angoscia di un crimine reale. Riconosciamo la stessa influenza nel bruciante senso di vergogna che moltissimi di noi hanno provato, anche dopo un intervallo di anni, ricordandosi di qualche accidentale rottura di una leggera, sebbene rigida regola di etichetta. Il giudizio della comunità generalmente sarà guidato dalla stessa specie di esperienza di ciò che è meglio a lungo andare per tutti i membri; ma questo giudizio non di rado sbaglierà per l’ignoranza e la debole capacità di ragionare. Perciò i costumi e le superstizioni più strane, in completa opposizione al vero benessere e alla felicità del genere umano, sono divenuti assai potenti nel mondo.” (p. 146)

“Non sappiamo come tante assurde regole di condotta e tante assurde credenze religiose si siano originate, né come si siano così profondamente impresse, in tutte le parti del mondo nella mente degli uomini; ma è degno di nota che una credenza costantemente inculcata, durante i primi anni di vita, mentre il cervello è ricettivo, sembra acquistare quasi la natura di un istinto, e la vera essenza di un istinto è che è seguito quasi indipendentemente dalla ragione. Neppure possiamo dire perché certe ammirevoli virtù, come l’amore per la verità, siano molto più apprezzate da alcune tribù selvagge piuttosto che da altre, né perché simili differenze prevalgano anche tra nazioni altamente civilizzate. Sapendo come molti strani costumi e superstizioni si siano fortemente radicati, non è il caso di sorprenderci del fatto che le virtù che ci riguardano, sostenute come sono dalla ragione, ci appaiano tanto naturali da essere considerate innate, sebbene non siano state prese in considerazione dall’uomo nella sua condizione primitiva...

Col progredire dell’uomo verso la civiltà e l’unificarsi delle tribù in comunità più ampie, la più semplice ragione dovrebbe dire a ciascun individuo che egli dovrebbe estendere i suoi istinti sociali e le simpatie a tutti i membri della stessa nazione, anche se a lui personalmente ignoti. Raggiunto questo punto, vi è solo una barriera artificiale che gli impedisce di estendere le sue simpatie agli uomini di tutte le nazioni e razze! Se infatti tali uomini sono separati da lui da grandi differenze nell’aspetto o nelle abitudini, l’esperienza, disgraziatamente, ci mostra quanto ci vuole prima che egli li consideri come suoi simili. La simpatia oltre i confini umani, cioè l’umanità verso gli animali inferiori, sembra che sia una delle ultime acquisizioni morali.” (p. 147-148)

Sulla base dell’istinto sociale, Darwin ha pochi dubbi che l’effetto delle potenzialità cognitive e della cultura sia quello di assicurare un continuo progresso morale:

“Gli istinti sociali che senza dubbio furono acquisiti dall’uomo, come dagli animali inferiori, per il bene della comunità, per prima cosa gli avranno dato un qualche desiderio di aiutare i suoi simili, qualche sentimento di simpatia, e lo avranno spinto a considerare la loro approvazione o disapprovazione. Questi impulsi gli saranno serviti in un primissimo periodo come una rozza regola di giusto e di erroneo. Ma quando l’uomo gradualmente progredì in forma intellettiva, e fu in grado di prevedere le più lontane conseguenze delle sue azioni, quando acquistò conoscenza sufficiente da respingere costumi nocivi e superstizioni, quando considerò sempre di più, non solo il benessere, ma anche la felicità dei suoi simili, quando per abitudine, seguendo l’esperienza benefica, l’educazione e l’esempio, le sue simpatie divennero più dolci e ampiamente diffuse, estendendosi a uomini di tutte le razze, agli idioti, ai mutilati e a tutti gli altri membri inutili della società, e finalmente agli animali inferiori — allora il modello della sua moralità venne salendo sempre più in alto.” (p. 149)

“Perché l’uomo primitivo o i progenitori dell’uomo simili a scimmie possano diventare sociali, debbono aver acquistato le stesse sensazioni istintive che costringono gli altri animali a vivere in gruppo e senza dubbio hanno rivelato la stessa disposizione generale. Avrebbero dovuto sentirsi inquieti se separati dai loro simili, per i quali avrebbero dovuto nutrire un certo affetto, avrebbero dovuto avvertirsi reciprocamente del pericolo, fornirsi reciproco aiuto nell’attacco e nella difesa. Tutto ciò implica una certa simpatia, fedeltà e coraggio. Tali qualità sociali, la cui altissima importanza per gli animali inferiori non è messa in discussione da nessuno, senza dubbio è stata acquisita dai progenitori dell’uomo in modo simile, cioè tramite la selezione naturale, agevolata dalle abitudini ereditarie. Quando due tribù di uomini primitivi della stessa regione entra vano in lotta, se (a parità di circostanze) una comprendeva un gran numero di membri coraggiosi, legati da simpatia, fedeli, sempre pronti ad avvertirsi reciprocamente del pericolo e a prestarsi reciproco aiuto e difesa, avrebbe avuto più successo e avrebbe soggiogato l’altra. Si ricordi quanto debbano essere importanti nelle ininterrotte guerre di selvaggi, la fedeltà e il coraggio. Il vantaggio che truppe disciplinate hanno sulle orde indisciplinate deriva principalmente dalla fiducia che ciascun uomo ripone nei suoi compagni. L’obbedienza, come ha dimostrato ottimamente Bagehot, è del massimo valore in quanto una forma qualsiasi di governo è sempre meglio che nessuna. Persone egoiste e attaccabrighe non possono essere tenute insieme e, senza coesione, non si può portare nulla a compimento. Una tribù che eccella nelle sopraddette qualità può espandersi e riuscire vittoriosa sulle altre: ma nel corso del tempo potrebbe, a giudicare dalla storia passata, essere a sua volta sconfitta da altre tribù ancor più altamente dotate. Così le qualità sociali e morali potrebbero tendere lentamente ad avanzare e a diffondersi per il mondo.

Ma è lecito chiedersi come avvenga che, entro i limiti della propria tribù, un gran numero di membri acquisisca per primo queste qualità morali e sociali e come si formi uno standard di eccellenza. E’ estremamente incerto se i discendenti dei più legati e affettuosi genitori o di quelli più fedeli ai loro compagni, possano essere allevati in numero maggiore dei figli di genitori egoisti e sleali, appartenenti alla stessa tribù. Colui che è pronto a sacrificare la propria vita, come lo sono stati molti selvaggi, piuttosto che tradire i propri compagni potrebbe spesso non lasciare discendenti che ereditino la sua nobile natura. Gli uomini più coraggiosi, che in guerra sono sempre disposti ad andare in prima linea, e che liberamente rischiano la loro vita per gli altri, potrebbero in media morire in più largo numero degli altri. Perciò è poco probabile che il numero degli animali dotati di tali qualità o il livello della loro eccellenza, possa essere incrementato attraverso la selezione naturale, cioè attraverso la sopravvivenza dei più adatti; infatti qui non parliamo di una tribù che sia vittoriosa su un’altra.

Sebbene le circostanze, che portano ad un incremento di numero di quelli così dotati all’interno della stessa tribù, siano troppo complesse per essere chiaramente definite, tuttavia possiamo tracciare alcune delle probabili tappe. In primo luogo, mentre le facoltà di ragionamento e di previsione dei membri si perfezionavano, ciascuno doveva imparare rapidamente che, aiutando un suo compagno, ne avrebbe generalmente ricevuto aiuto in cambio. Da questo movente meschino egli poteva acquistare l’abitudine di aiutare i suoi simili; e l’abitudine di compiere azioni generose certamente fortifica il senso di simpatia che dà il primo impulso alle azioni generose. Inoltre, le abitudini seguite per più generazioni probabilmente tendono ad essere ereditarie.

Ma un altro e più potente stimolo allo sviluppo delle virtù sociali, è offerto dalla lode e dal biasimo dei nostri simili. All’istinto di simpatia, come abbiamo già visto, è dovuto in primo luogo il fatto che noi abitualmente concediamo sia lode che biasimo agli altri, mentre amiamo l’una e odiamo l’altro se riferiti a noi. Questo istinto, senza dubbio, fu acquisito in origine, come tutti gli altri istinti sociali, attraverso la selezione naturale. In quale remoto periodo i progenitori dell’uomo, nel corso del loro sviluppo, siano divenuti capaci di sentire e siano stati stimolati dalla lode o dal biasimo dei loro simili, non possiamo certamente dirlo…

Possiamo quindi concludere che l’uomo primitivo, in un periodo assai lontano, era influenzato dalla lode e dal biasimo dei suoi simili. E’ naturale che i membri della stessa tribù approveranno della condotta ciò che sembra loro riguardare l’interesse generale e rifiuteranno ciò che sembra dannoso. Fare del bene agli altri — fare agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te — è la pietra angolare della moralità. Difficilmente quindi si può esagerare nell’attribuire importanza al desiderio di lode e al terrore del biasimo nei riguardi dei primitivi. Un uomo che non fosse spinto da qualche profondo istintivo sentimento, a sacrificare la sua vita per il bene degli altri, e tuttavia fosse stato spinto a tali azioni dal senso della gloria, avrebbe, con il suo esempio, stimolato lo stesso desiderio di gloria in altri uomini ed avrebbe rinsaldato con l’esercizio il nobile sentimento dell’ammirazione. In tal modo egli probabilmente avrebbe fatto molto più bene alla sua tribù che non generando figli con una tendenza a ereditare il suo nobile carattere.

Con l’incremento dell’esperienza e della ragione, l’uomo percepisce le più remote conseguenze delle sue azioni, mentre le virtù riguardanti se stesso, come la temperanza, la castità, ecc., che durante i primi periodi sono, come abbiamo visto prima, del tutto ignorate, giungono a essere fortemente stimate o anche stimate sacre. Non c’è bisogno tuttavia di ripetere ciò che ho detto su questo argomento nel quarto capitolo. Infine il nostro senso morale o coscienza diviene un elevato e complesso sentimento, che ha origine negli istinti sociali, largamente guidati dall’approvazione dei nostri simili, regolato dalla ragione, dall’interesse di sé e, in tempi più recenti, da profondi sentimenti religiosi, e confermato dall’educazione e dall’abitudine.” (p. 155-158)

Si può facilmente intravedere in molte di queste affermazioni una miscela di intuizioni sottili, di deduzioni legittime e di luoghi comuni. Darwin ha maggior ragione di quanto oggi gliene viene attribuita nel sottolineare l'influenza sulla mente umana del gruppo sociale di appartenenza e del suo bisogno di essere riconosciuto e confermato dagli altri. E' a partire da questo bisogno che ogni società fa valere i suoi codici normativi e orienta “naturalmente” i soggetti che ad essa appartengono verso l'omologazione.

Che però il progresso culturale coincida inesorabilmente con un'estensione universale dell'istinto sociale, tal che l'uomo evoluto supera le barriere etniche, linguistiche e culturali, e giunge a riconoscere tutti i suoi simili come dotati della stessa natura e degli stessi diritti non sembra solo un'astrazione utopistica, ma un'affermazione del tutto contrastante con la società in cui Darwin vive.

All'epoca, l'Inghilterra è sicuramente la nazione più evoluta e ricca del mondo. Ma, intanto, al suo interno, lo sviluppo industriale ha lacerato il corpo sociale producendo masse sterminate di proletari che, ammassati nei suburbi urbani, vivono in condizioni disumane senza che questo susciti la minima “simpatia” nei ricchi. In secondo luogo, essa si è avviata a colonizzare una vastissima parte del mondo sulla base di un regime di sfruttamento e di oppressione giustificato dal fatto che se i nativi non sono in grado di valorizzare le risorse di cui dispongono, è perché di fatto si tratta di esseri umani inferiori.

Da ultimo, il modello dell'uomo civilizzato e morale di Darwin sembra un po' troppo schiacciato sullo stereotipo del tipico Borghese inglese di stampo vittoriano dissociato tra il culto dei valori tradizionali e un ipercontrollo emozionale che può giungere ad una sorta di insensibilità sociale, molto meno nobile di quella che Darwin attribuisce a se stesso nell'Autobiografia.

Rimane il fatto che il “materialismo” di Darwin è tutt’altro che volgare e privo di spessore morale. Nell’ottica evoluzionistica la moralità, per quanto interferita dall’interesse privato, è una conseguenza della socialità, della consapevolezza di un destino comune e della pietas che l’uomo prova per la sua e l’altrui condizione precaria e vulnerabile.

Detto questo, occorre riconoscere che, nonostante l'impegno posto da Darwin nel minimizzare le differenze psichiche tra l'uomo e gli altri animali, il compito che egli si è prefisso non si può ritenere raggiunto. La continuità dell’uomo con gli animali è indubbia per quanto concerne la sua organizzazione biologica. Le facoltà mentali umane, però, sia per quanto riguarda le capacità cognitive che il corredo emozionale, segnalano viceversa una discontinuità irriducibile al gradualismo evoluzionistico.

Tale discontinuità, peraltro, è confermata ormai anche dalla paleoantropologia, della quale parleremo approfonditamente nel prossimo incontro. Occorre, però, almeno fare un accenno al quadro generale che da essa affiora.

Gradualismo e singolarità

Anche se si danno ancora molte lacune e molte incertezze, i fossili paleantropologici hanno in gran parte fornito dati di estremo interesse sull’evoluzione della famiglia ominide.

Il problema è che, di consueto, i dati vengono rappresentati per suggerire una transizione graduale e lineare da una specie all’altra.

Si osservino queste due figure:




La prima rappresenta l'aumento delle dimensioni cerebrali negli ominidi nel corso dell'evoluzione. La curva, inizialmente piatta, sembra indicare negli ultimi due milioni di anni un ampliamento costante del cervello negli ominidi; la seconda, invece, l’evoluzione della specie ominide.

E’ evidente che le figure si accordano con il gradualismo darwiniano ma non con il creazionismo: pur perseguendo un progetto lineare culminato nella creazione dell'uomo, che rappresenta l'ultima tappa, Dio avrebbe avuto troppo numerose incertezze.

Il problema però è che le cose non sono andate così. Si osservi quest’altra figura:

 


Essa rappresenta i rapporti filogenetici all'interno della famiglia ominide disposti secondo un asse temporale verticale. Ogni linea continua evidenzia una sequenza stratigrafica. Lo schema, che ha la forma di un cespuglio, mostra che di regola diverse specie di ominidi hanno convissuto in un dato periodo di tempo L'homo sapiens, dunque, unico ominide esistente sulla faccia della terra da alcune decine di migliaia di anni, non è la regola, ma un'eccezione straordinaria.

Paradossalmente, questa eccezionalità è poco compatibile sia con il creazionismo che con il gradualismo darwiniano.

Come la si può ricondurre entro un’ottica naturalistica? Una possibile risposta è affidata alla prossima lettura.


Lettura IV

Con Darwin, oltre Darwin

La paleoantropologia come scienza storica
Il neodarwinismo come scienza normale
Al di là gradualismo. La teoria degli equilibri punteggiati
Neotenia e ritardo dello sviluppo
Neotenia, intersoggettività e nascita dell'autoconsapevolezza
L’acquisizione della capacità simbolica

La paleoantropologia come scienza storica

Ho già rilevato che l’evoluzionismo, in quanto ha come oggetto le vicissitudini degli organismi viventi da una forma primigenia unicellulare alla varietà e alla complessità attuale, vale a dire eventi accaduti in circa quattro miliardi di anni, è una scienza storica, e quindi non sperimentale, ma empirica, indiziaria e induttiva. Benché i biologi evoluzionisti, a partire da Darwin, siano in genere molto scrupolosi nella raccolta dei dati, essi ne dispongono sempre in una misura infinitesimale rispetto alla storia della vita. Ciò significa che inevitabilmente li interpretano, facendoli rientrare in una cornice teorica nella quale essi assumono un senso coerente, vengono cioè ad essere spiegati.

Il problema è che la costruzione di una teoria, quando l’oggetto di essa sono l’uomo o i fatti umani, non è mai del tutto neutrale, in quanto dipende da presupposti impliciti ed espliciti inerenti la visione del mondo dello scienziato, influenzata in parte dalla sua appartenenza culturale e in parte dalla sua storia personale (in breve, dall’inconscio).

In ogni teoria scientifica necessariamente si danno proposizioni vere associate a qualche mistificazione ideologica.

La consapevolezza di ciò, che è affiorata solo nel Novecento - vale a dire tre secoli dopo la rivoluzione scientifica avvenuta in Occidente - ha dato luogo alla nascita di una disciplina filosofica particolare - l’epistemologia - il cui obiettivo è di indagare i modi in cui si realizza la conoscenza scientifica e di mettere a fuoco criteri atti a depurarla dei suoi residui ideologici.

E’ un po’ paradossale che l’epistemologia stessa sia andata incontro ad una scissione tra due teorie in opposizione, che si riconducono a Karl Popper e a Thomas Khun.

K. Popper (1902-1994) ritiene che la scienza sia un’attività razionale criticamente controllata il cui fine è di esplorare la compatibilità e l’accordo tra i fatti e la loro teorizzazione. Dato che è sempre possibile trovare ciò che si cerca, adottando un meccanismo di selezione selettiva (che è il fondamento del senso comune), la scienza non deve preoccuparsi di verificare le teorie, accumulando dati che le corroborano, quanto piuttosto di falsificarle, di elaborare cioè ipotesi sperimentali il cui risultato, se positivo, le confuta. E’ la possibilità di falsificare una teoria che dà ad essa uno statuto scientifico.

Sulla base del razionalismo critico fondato sul falsificazionismo, ritenuto un carattere specifico della conoscenza scientifica in opposizione all’ideologia, Popper ritiene che la scienza evolva attraverso lenti e graduali cambiamenti che producono la transizione da una teoria ad un’altra.

In opposizione a Popper, invece, T. Khun (1922-1997) ritiene che il pensiero scientifico riconosca un’evoluzione caratterizzata dalla produzione di un modello che viene poi assunto dai ricercatori come paradigma di riferimento entro il quale essi elaborano le loro ipotesi e i loro esperimenti. La prevalenza di un paradigma dà luogo ad una lunga fase di normalizzazione della scienza finché qualche scienziato non ne coglie le lacune e le contraddizioni e, su questa base, avvia una rivoluzione scientifica inserendo i dati di cui si dispone entro un nuovo paradigma.

La scienza, insomma, secondo Khun, procede con una continuità graduale (fase di normalizzazione) che viene, più o meno repentinamente, interrotta da una discontinuità che dà luogo ad un salto o ad una rivoluzione paradigmatica.

Anche se l’epistemologia contemporanea sta tentando di integrare il pensiero di Popper e quello di Khun, è fuori di dubbio che l’opposizione tra i due modelli epistemologici trova un riscontro immediato nella storia dell’evoluzionismo. La teoria di Darwin rappresenta un’indubbia rivoluzione scientifica che ha dato luogo ad una fase di normalizzazione culminata nel connubio tra evoluzionismo e genetica esitato nella Teoria sintetica o neodarwinismo, che ha dominato la biologia evoluzionistica dagli anni 40 agli anni 70 del secolo scorso. Si è avviata a quell’epoca, prima sommessamente poi esplicitamente, una contestazione non già all’evoluzionismo, bensì al paradigma neodarwinista.

Il significato di questa contestazione, che gravita verso un nuovo paradigma, risulta chiaro soprattutto nell’ambito della paleoantropologia, che tenta di ricostruire le tappe attraverso le quali, a partire da un antenato comune, si è originata la specie Homo sapiens, rimanendo infine l’unica rappresentata sul Pianeta.

Il neodarwinismo come scienza normale

Come ho già accennato nella lettura precedente, Darwin procede senza il sostegno di dati fossili paleoantropologici. Il gradualismo che sottende la sua teoria implica, però, l’esistenza di una serie indefinita di anelli intermedi, vale a dire di specie dotate di caratteri sempre meno scimmieschi e sempre più umani, culminata nella comparsa dell’Homo sapiens.

E’ stato Ernst Haeckel (1834-1919) a recepire per primo il problema degli anelli intermedi su base speculativa, ipotizzando l’esistenza del Pitecantropo. Per quanto fondata solo su argomentazioni, l’opera di Haeckel ha dato il via alla ricerca sul campo di fossili paleantropologici atti a convalidare la teoria darwiniana. La storia della ricerca, che è ancora in corso, può essere letta in T. Pievani (Homo sapiens e altre catastrofi), che non si limita solo a ricostruire le numerose scoperte avvenute con una progressione esponenziale a partire dai primi decenni del Novecento. Egli, che è per l’appunto un filosofo della scienza, sottolinea anche gli inesorabili limiti della paleoantropologia scrivendo:

“La componente interpretativa e narrativa è davvero centrale quando si tratta di immaginare la vita di un ominide partendo da qualche frammento isolato di mandibola e di cranio. Benché alcuni paleoantropologi siano stati spesso propensi a sostenere il contrario, i fossili non parlano da soli: hanno bisogno di uno scienziato, e del suo repertorio di idee e di preferenze teoriche, per acquisire un senso...

Nonostante l'apparente obiettività delle datazioni, le acque profonde della paleoantropologia sono agitate da correnti epistemologiche sotterranee e da opzioni ideologiche contrapposte...

La dimensione narrativa della disciplina paleoantropologica non è un incidente di percorso: è, al contrario, la fonte delle sue ambiguità generative, è la sua ricchezza e il suo fascino...

In paleoantropologia non soltanto le osservazioni sono cariche di teoria e di scelte pregiudiziali, ma le teorie stesse si configurano letteralmente come forme di narrazione (Landau 1991). Una buona teoria paleoantropologica convince quando è anche una buona storia.”

Nel precedente incontro, ho fatto riferimento alla possibilità di organizzare i dati paleoantropologici in due modi diversi.

Il primo modo, adottato sin dagli anni 40 del secolo scorso dai neodarwinisti, consiste nell’ordinare i fossili in maniera tale che l’evoluzione degli ominidi risulti lineare, vale a dire caratterizzata da una crescita graduale del cervello e da un progressivo ingentilimento fisionomico. “Le forme pre-umane - scrive Pievani - si sostituiscono l'una all'altra gradualmente sotto la spinta della selezione naturale e di adattamenti progressivi: la forma che viene dopo, in virtù di un miglior adattamento, sostituisce la precedente”.

In questa ottica l’evoluzione degli ominidi è graduale e filetica, vale a dire dovuta soprattutto alle combinazioni e alle mutazioni genetiche che innescano lentissimi cambiamenti i quali infine esitano nella comparsa di una nuova specie. Essa, sorprendentemente, è anche lineare: si presume che le specie ominidi si succedano l’una l’altra (Homo abilis, Homo erectus, Home neandertalensis, Homo sapiens arcaico) con una progressione che culmina nella comparsa dell’Homo sapiens sapiens.

In tale progressione, ovviamente, per i neodarwinisti, non si dà alcun finalismo. Essa, però, suggestiona, implicando un tendere linearmente verso l’Uomo che non ha alcun riscontro nelle altre specie viventi, che sono ricche di varietà e di razze. “Mentre tutti i gruppi di mammiferi studiati dai paleontologi - scrive ancora Pievani - presentano un grafico evolutivo ad albero, con serie ordinate di specie che si diversificano progressivamente, l'evoluzione umana segue un andamento del tutto eterodosso, di tipo lineare e scalare.”

Da questo quadro affiora inesorabilmente la mitologia eroica dell’Uomo, che Pievani illustra nel modo seguente: “La sceneggiatura, accademica e popolare, riguardo alle origini dell'umanità divenne quella di una progressiva conquista della perfezione, con la frontiera del progresso umano che avanza verso l'intelligenza e la coscienza affrancandosi dalla condizione animale: una marcia a tappe serrate, dettata dall'espansione continua delle capacità cerebrali, letta sempre attraverso lo sguardo del vincitore, cioè della sola specie sopravvissuta al filtro della selezione naturale.”

Questa “mitologia” trova la massima espressione in Dobshansky, il quale nel 1942 afferma “il principio secondo cui non sarebbe stato mai possibile rinvenire due forme ominidi allo stesso livello temporale.”

Ad onore del vero, occorre aggiungere che i fondatori della Sintesi Moderna (come Theodosius Dobzhansky, George Gaylord Simpson ed Ernst Mayr) non erano ciechi di fronte al fatto che in natura esistono indizi di profonde discontinuità evolutive. Sembrava, però, loro difficile ammettere una discontinuità nell’evoluzione degli ominidi.

Il secondo modo di organizzare i dati paleantropologici comporta, invece, il superamento del gradualismo filetico in nome del fatto che i fossili paleantropologici sembrano alludere ad una storia del tutto diversa da quella “narrata” dai neodarwinisti. Nonché scalare e lineare, l’evoluzione degli ominidi appare come un cespuglio di specie che si diversificano coesistendo per lunghi periodi di tempo.

Rispetto allo schema lineare dei neodarwinisti che, come si è visto, comporta solo quattro specie che si succedono, il cespuglio comporta da 12 a 14 specie distinte divise in quattro generi: “i quattro gradini classici verso la perfezione di Homo sapiens - scrive Pievani - sono andati in frantumi e al loro posto troviamo una selva di ominidi ramificati e dispersi in un areale molto ampio.”

Anche l’Homo sapiens sapiens, comparso tra 150mila e 100mila anni fa è convissuto con due specie umane: l’Homo floresiensis e l’Home neandertalensis.

E’ evidente che questa ricostruzione cladica (a cespuglio) dell’ominazione fuoriesce dal paradigma del neodarwinismo. Essa porta ad ammettere non solo un’evoluzione non lineare e non graduale, ma qualche altro fattore oltre alla pressione genetica. Il nuovo paradigma, che corrobora l’evoluzionismo senza stravolgere le ipotesi di fondo di Darwin, identifica tale fattore nell’interazione tra geni e ambienti diversi. Valorizza, insomma, al massimo grado il ruolo della deriva genetica, che isolando geograficamente gruppi appartenenti alla stessa specie e impedendo loro di incrociarsi, amplifica la selezione naturale dei geni varianti.

La deriva genetica può promuovere salti evolutivi che non rientrano nel gradualismo darwiniano.

In un certo qual modo è quello che ha scoperto Darwin, senza riuscire a capirne tutte le implicanze, con i suoi famosi fringuelli.

Facendo riferimento, però, alla comparsa dell’uomo come frutto imprevedibile, casuale e contingente di una somma di fattori interagenti, il nuovo paradigma - del quale parlerò tra poco - deve confrontarsi con nodi di difficile soluzione. L’unicità della specie umana è un fatto, come pure la sua dotazione di un cervello del tutto singolare. Si tratta, insomma, pur sempre di tentare di spiegare il mistero di questa unicità, che non ha riscontro nelle altre specie.

Il mistero dell’uomo

L'evoluzionismo darwiniano e il neodarwinismo sono funzionalisti. Di fronte ad un organo si pongono il quesito “a che serve?” e, se riescono a rispondere, danno per scontato che le funzioni cui esso assolve sono quelle per cui è stato selezionato. In questa ottica, la genesi storica di un organo e la sua funzione attuale coincidono; quindi, in riferimento al cervello umano, si esclude che una qualunque funzione psichica possa essersi realizzata o realizzarsi indipendentemente dalla selezione naturale.

Nell'ottica darwiniana e neodarwiniana, infatti, strutture e funzioni vengono selezionate sulla base della loro immediata utilità adattiva. E' l'esperienza di organismi tra cui si dà una quota rilevante di variabilità a decidere quali sono destinati a sopravvivere in quel determinato ambiente.

Per quanto riguarda l'uomo, questa ottica urta contro un dato che la confuta. Il cervello umano è stato selezionato tra centocinquantamila e centomila anni fa, ma, per decine di migliaia di anni è stato utilizzato, per dir così, a basso regime. Solo dopo questo lunghissimo periodo si è avviata la cosiddetta rivoluzione paleolitica, caratterizzata dallo sprigionarsi di capacità simboliche sotto forma di progresso culturale.

Riguardo a quest’ultimo aspetto, lo studioso che sembra avere le idee chiare è il paleoantropologo Ian Tattersal, che inaugura un suo libro (Il cammino dell’uomo, Garzanti, Milano 2004) facendo riferimento all’esplosione creativa intervenuta all’incirca 40mila anni fa e attestata dall’arte parietale. Descrivendo la grotta di Le Comberelles I, nella Francia sud-occidentale, riccamente affrescata, ma alla quale si accedeva attraverso uno strettissimo cunicolo (che attualmente è stato allargato per consentire l’accesso ai visitatori), egli si chiede: “Perché infilarsi in un cunicolo stretto, senz'aria, buio, scomodo e potenzialmente pericoloso, che si addentra nella roccia terminando in un antro cieco dove c'è a malapena lo spazio per rigirarsi? Perché creare un'arte che può essere vista solo affrontando grandi difficoltà? Perché ignorare la parte più esterna della grotta, per eseguire le incisioni solo nei suoi recessi più profondi? Perché sovrapporle e perché disseminare immagini così vive di disegni geometrici e di una profusione di segni dall'oscuro significato e apparentemente superflui?” (p. 8)

Non c’è ovviamente una risposta univoca. Quello che è certo è che l’esplosione creativa avviene dopo decine di migliaia di anni nel corso delle quali gli esseri umani dispongono già di un cervello strutturalmente identico al nostro.

Ciò significa, né più né meno, che, in contrasto con il darwinismo, la biologia ha preceduto la cultura. Ma com’è possibile che vengano selezionate strutture cerebrali che contengono una quantità incredibile di potenzialità ridondanti, che nell’immediato non sono utilizzate?

Il problema riguarda anzitutto l’acquisizione della capacità simbolica.

Riguardo ad essa Telmo Pievani scrive:

“A che cosa serve essere intelligenti? Più precisamente, a che cosa serve essere intelligenti nel modo tipicamente umano? La domanda ci sembra così banale da non meritare neppure di essere presa in considerazione. Essere intelligenti serve ovviamente per sopravvivere, per comprendere il mondo che ci circonda, per interpretare i pensieri degli altri, per immaginare il futuro, per suonare il piano, per dipingere un quadro, per ingannare. Tuttavia, è sufficiente spostare lo sguardo sulla storia profonda per complicare tutto. Anche la nostra intelligenza, come ogni altra caratteristica della natura umana, si è evoluta: un tempo non c’era. Siamo sicuri che la sua utilità attuale corrisponda alla sua origine storica? E soprattutto, “a che cosa serve” è la domanda giusta?

La famiglia ominide fa la sua comparsa in un luogo imprecisato del continente africano intorno a 6-7 milioni di anni fa. La specie Homo sapiens, ultimo virgulto di un lussureggiante cespuglio di antenati, muove i suoi primi passi, sempre in Africa, molto tempo dopo, fra 160 e 200mila anni fa. La sua anatomia slanciata è la stessa di oggi, è “moderna”, come del resto il grosso cervello. Il suo universo cognitivo da cacciatore-raccoglitore, invece, è lontano anni luce dal nostro. Si tratta di una specie ben adattata al clima africano, ma in grado di spostarsi e di adeguarsi a nicchie ecologiche eterogenee in virtù delle sue spiccate attitudini sociali e delle tecnologie avanzate. Ma per molti altri aspetti l’Homo sapiens è un ominide al pari di altri suoi predecessori o coetanei con i quali ha convissuto per decine di millenni, fino a poco meno di 30mila anni fa. I segni apparenti di attività simbolica, dalle sepolture rituali all’arte rupestre, sono scarsissimi fino a 50mila anni fa. Poi succede qualcosa di straordinario, che i paleoantropologi chiamano “rivoluzione paleolitica”, e nasce la mente umana moderna con l’intero equipaggiamento di facoltà attualmente in uso.

Come è possibile che a parità di strutture a disposizione, una specie possa evolvere verso capacità così diverse? Quale “gioco” avrebbe l’evoluzione se ciascuna struttura fosse costruita in vista di uno scopo ristretto e non potesse essere usata per altro? In che modo gli esseri umani potrebbero imparare a scrivere, a dipingere o a pianificare un attentato se il nostro cervello si fosse evoluto per la caccia, per la coesione sociale o per qualunque altra cosa, e non potesse trascendere i confini adattativi del suo fine originario?”

Analoghe sono le considerazioni di Ian Tattersall sulla capacità di astrazione simbolica:

“Gli esseri umani sono unici per il possesso del linguaggio e della coscienza simbolica. Eppure non ci sono dubbi che Homo sapiens discenda da un antenato non dotato di capacità linguistiche né simboliche. Come si è potuta verificare questa straordinaria transizione? La risposta non può essere una lenta messa a punto che ha richiesto millenni: l’apparente stabilità e regolarità dell’accrescimento del cervello degli ominidi negli ultimi due milioni di anni è probabilmente l’esito di un sistema di classificazione inadeguato, mentre le innovazioni comportamentali nell’evoluzione umana sono fortemente episodiche e non in sincronia con le innovazioni anatomiche.

I reperti che attestano l’espressione di comportamenti simbolici compaiono solo molto tardi - notevolmente più tardi rispetto alla comparsa di Homo sapiens in quanto entità anatomica. A quanto pare la principale riorganizzazione biologica all’origine di Homo sapiens ha implicato alcune innovazioni neuronali che hanno portato alla cooptazione funzionale per il pensiero simbolico di un cervello umano già estremamente evoluto. Tale potenziale ha poi dovuto essere «scoperto» a livello culturale, probabilmente attraverso l’invenzione del linguaggio.

L’origine della coscienza simbolica nell’uomo sembra dunque implicare un processo di emergenza, più che una selezione naturale: una coincidenza casuale di acquisizioni che hanno dato origine a un livello di complessità del tutto nuovo e imprevisto.”

Per quanto riguarda le capacità emozionali, il discorso è appena più complesso.

L’interesse di Darwin per le emozioni, attestato dalla pubblicazione nel 1872 di un saggio (L’espressione delle emozioni negli animali e nell’uomo, Newton Compton, Roma 2006), è di antica data, come fanno fede i numerosissimi appunti a riguardo sparsi nei suoi taccuini. Tale interesse è facile da spiegare. Precorrendo la neurobiologia, Darwin ha intuito che l’espressione delle emozioni secondo modalità omologabili negli animali e nell’uomo rappresenta non solo una prova importante dell’evoluzione dell’Uomo da specie precedenti, ma anche della continuità delle funzioni psichiche.

Non potendo avanzare alcuna ipotesi sulla nascita del pensiero astratto, che, come si è visto nella precedente lettura, egli tenta vanamente di paragonare all’intelligenza associativa degli animali inferiori, Darwin cerca di risolvere il problema nell’ottica del gradualismo evoluzionistico con una sorta di éscamotage. L’attività mentale umana si fonda sul pensare e sul sentire. Se le espressioni delle emozioni sono omologabili in tutte le specie perché identificare, come fa Wallace, nell’intelligenza una funzione discontinua?

Il saggio di Darwin è ammirevole. Poco apprezzato all’epoca, esso è stato di recente ripreso da numerosi neurobiologi (Tomkins, Ekman, ecc.) nel quadro di una teoria psicoevoluzionistica delle emozioni. Il saggio contiene al solito un numero indefinito di osservazioni geniali, per esempio sulla tendenza all’imitazione e sul riconoscimento delle emozioni altrui. Ciò nondimeno la sua ipotesi di fondo è facile da criticare.

La continuità tra gli altri animali e l’Uomo esiste solo per quanto riguarda le emozioni semplici o di base, che sono meccanismi elementari di regolazione del rapporto dell'organismo con l'ambiente. Nell'uomo l'emozionalità, in sé e per sé e attraverso l'interazione con i livelli cognitivi, è diventata una funzione psichica enormemente complessa. L'esempio più semplice da fare riguarda l'ansia esistenziale, vale a dire la consapevolezza prima intuitiva poi riflessiva, che l'uomo ha del suo essere vulnerabile – esposto al rischio di soffrire -, precario – preda dei “capricci” del caso”, e finito - con potenzialità fisiche e psichiche che sono sempre al di sotto dei suoi desideri.

Come ricondurre l'ansia esistenziale ad una selezione naturale? Per un verso, è evidente che essa amplifica il sistema di allarme e di paura presente e attivo in ogni altro animale. Ma, intanto, mentre negli animali, quel sistema funziona in maniera adeguata alle circostanze, nell'uomo esso va incontro a molteplici eccessi. In secondo luogo, se anche si assume l'ansia umana come una dimensione previsionale che consente all'individuo di identificare i pericoli prima che essi si realizzino e di scongiurarli, ciò non vale per la consapevolezza ultima che essa comporta, quella di essere destinati a finire.

Certo, si può pensare che l'ansia esistenziale sia il prodotto dell'interazione della sfera emozionale con quella cognitiva, ma questo non risolve il problema. La potenziale disfunzionalità dell'ansia, infatti, rimane sia che se ne attribuisca l'origine ad un'emozionalità ridondante sia che la si riconduca ad una consapevolezza che schiaccia l'uomo sotto il peso della finitezza.

La continuità delle funzioni psichiche tra animali e uomo, evidenziata da Darwin, esiste, ma esiste anche una inquietante discontinuità.

Quale funzione adattiva può avere l’ansia esistenziale, soprattutto per quanto concerne la consapevolezza di essere destinati a finire. Escluso il carpe diem, che è un orientamento culturale piuttosto recente, si può pensare credibilmente che essa abbia contribuito ad incrementare originariamente la solidarietà di gruppo inducendo i suoi membri a sentire di essere tutti nella stessa barca. Se ciò è vero, però, come non pensare che si tratti, comunque, di una funzione a tal punto ridondante che, ancora oggi, sottende inquietantemente l’esperienza di ogni essere umano, obbligandolo a tentare di reprimere e di non pensare alla realtà della sua condizione?

Si può anche ipotizzare che l’ansia esistenziale non abbia promosso solo la solidarietà di gruppo, ma anche attivato l’ingegno umano orientandolo verso uno sviluppo tecnologico atto a sopperire alle sue carenze. Ma, se questo è vero, come non considerare che, arrivato ad un livello di sviluppo tecnologico avanzatissimo, l’uomo contemporaneo continua ad essere un animale mediamente inquieto e insoddisfatto?

L’ansia esistenziale potrebbe recuperare un significato adattivo solo se l’uomo riuscisse a sconfiggere definitivamente la morte. Ma, intanto, quest’obiettivo è del tutto remoto; in secondo luogo, se potesse magicamente realizzarsi, creerebbe un inesorabile problema di sovraffollamento planetario; infine - ed è la cosa più importante - non si vede quale significato adattivo esso potrebbe avere avuto per i cacciatori-raccoglitori la cui vita media era intorno ai trenta anni.

Sia sotto il profilo cognitivo che emozionale la discontinuità tra l’Uomo e gli altri animali è inconfutabile, anche se l’evoluzionismo consente di tenere conto anche di un’indubbia continuità la quale attesta la sua appartenenza al mondo naturale.

Il “salto” in questione è arduo da spiegare nella cornice del darwinismo e del neodarwinismo. Esso permette di comprendere il revival del creazionismo, che, però, rappresenta un’alternativa insostenibile. L’Uomo di Neanderthal e l’Homo sapiens sono convissuti per decine di migliaia di anni. Che senso ha che Dio abbia creato due specie umane destinandone una all’estinzione?

Spiegare questo salto porterebbe a capire il “mistero” dell'uomo. Forse è ancora presto per arrivare a tanto. A tal fine, però, occorre mettere definitivamente in gioco il gradualismo darwiniano, che rappresenta, come ho detto più volte, l’anello debole della teoria evoluzionistica.

Al di là del gradualismo. La teoria degli equilibri punteggiati

S. J. Gould, in stretta collaborazione con N. Eldredge, è stato il primo biologo evoluzionista a prendere atto che la teoria darwiniana richiede una “revisione” che va al di là della nuova sintesi neodarwiniana.

La sua elaborazione teorica, consegnata infine ad un'opera mastodontica (La struttura della teoria dell'evoluzione, Codice, Torino 2003), che egli ha terminato di scrivere prima di morire, affronta senza remore il dato su cui speculano i creazionisti: la carenza degli anelli intermedi fossili tra le specie che il darwinismo classico implica ipotizzando che l'evoluzione avviene in maniera graduale, con il passaggio di una specie all'altra quasi senza soluzione di continuità.

Gould sostiene che i dati paleontologici attualmente disponibili attestano che le specie rimangono stabili per lungo tempo ed evolvono in brevi periodi, criticamente.

Su questa base egli elabora la teoria degli equilibri punteggiati secondo la quale le specie animali, quando sono perfettamente adattate al loro ambiente, tendono a conservare le loro caratteristiche per lunghi periodi (anche per milioni di anni). Al mutare delle condizioni ambientali (per eventi climatici, geologici o astronomici), soprattutto se la popolazione non è molto numerosa e rimane confinata in un habitat ristretto, si possono avere cambiamenti morfologici notevoli, che avvengono nell'arco di pochi millenni.

In questa ottica la carenza degli anelli intermedi che dovrebbero mostrare la transizione da una specie all'altra può essere spiegata agevolmente: gli anelli non ci sono perché tali transizioni sono avvenute in tempi troppo rapidi, oppure hanno riguardato popolazioni molto limitate.

L’importanza della teoria degli equilibri punteggiati in rapporto alle facoltà psichiche umane è rilevante. Mentre, infatti, il gradualismo evolutivo darwiniano implica che le strutture e le funzioni la cui selezione (che avviene in tempi sterminatamente lunghi) determina la nascita di una nuova specie hanno un valore tout-court adattivo, nell’ottica del “saltazionismo” esse, oltre ad uno scopo adattivo immediato, possono avere potenzialità che solo successivamente vengono utilizzate per altri scopi. In questa ottica, l'evoluzione non è solo funzionalistica, ma ridondante: produce, insomma, strutture che possono avere un'utilità adattiva immediata ma contenere anche potenzialità funzionali prive nell'immediato di significato adattivo.

Gould ha definito la ridondanza con uno strano termine - exaptation (exattamento) - che fa riferimento ad un carattere formatosi per una determinata ragione, o anche per nessuna ragione funzionale specifica all’inizio, che diventa solo successivamente funzionalmente utile.

Si parla di exaptation in tutti i casi in cui vi sia l'uso, per una funzione attuale, di strutture impiegate in passato per funzioni diverse o addirittura per nessuna funzione (un’accezione radicale, quest’ultima, che non era prevista nella teoria del pre-adattamento darwiniano). Il concetto di exaptation non sostituisce quello di adattamento normale, ma lo integra aggiungendo altre possibilità di sviluppo, né pregiudica in alcun modo il ruolo della selezione naturale, la quale in ogni caso ha il compito di fissare nella specie la conversione funzionale exattativa.

Il concetto di exaptation sembra fornire una chiave di lettura importante per decifrare l’enigma della rivoluzione paleolitica. Attraverso la selezione naturale, il cervello umano potrebbe essersi ingrandito per assolvere a un numero limitato di funzioni legate alla sopravvivenza degli ominidi nella savana. Come conseguenza di questi adattamenti, potrebbero essersi creati alcuni spazi cerebrali liberi utilizzati per una pletora di nuove funzioni non previste dal progetto evolutivo di partenza.

Per chiarire meglio il concetto di exaptation, Gould ha utilizzato una singolare metafora, facendo riferimento all'esperienza che ha indotto in lui l'intuizione della ridondanza.

I pennacchi di S. Marco – vale a dire gli spazi triangolari affusolati formati all'intersezione di due archi a tutto sesto contigui e disposti in pianta ad angolo retto – sono necessari sottoprodotti architettonici dell'edificazione di una cupola su archi a tutto sesto. Ciascun pennacchio contiene illustrazioni ammirevoli e fitte nel suo spazio affusolato.

Il risultato è così elaborato, armonioso e denso di significati che si è tentati di vederlo come il punto di partenza di ogni possibile interpretazione, cioè come la causa in qualche senso di tutta l'architettura circostante. Ma questo capovolgerebbe la corretta modalità di analisi. Il tutto ha origine infatti da un vincolo architettonico: la necessità dei quattro pennacchi e la loro forma triangolare rastremata. Si tratta certamente di spazi utilizzati dai mosaicisti nel loro lavoro, ma ciò non toglie che siano semplicemente il risultato della struttura quadripartita al di sotto della cupola.

Esaminando la volta di S. Marco un osservatore può pensare che i pennacchi siano stati concepiti per essere dipinti. In realtà essi rappresentano una ridondanza architettonica, che solo successivamente è stata utilizzata pittoricamente.

In questa ottica, il cervello umano è un organo adattivo ma anche riccamente exattato, vale a dire fornito di potenzialità ridondanti che, alla loro origini, appaiono inutili e che, poi, vengono utilizzate. Quali sono le potenzialità adattive e quali quelle ex-attate è un problema complesso e non ancora risolto.

E' evidente che la teoria degli equilibri punteggiati permette di organizzare in maniera più coerente i dati paleantropologici attualmente disponibili. Scrive a riguardo Pievani: “Oggi molti dati convergono nel delineare un'immagine "puntuazionale" dell'evoluzione ominide del tutto simile a quella delle altre famiglie di mammiferi. Le specie sono emerse a causa della trasformazione di piccole popolazioni rimaste isolate in una nicchia ambientale anomala ai margini dell'areale di distribuzione delle specie madri. Questi eventi di ramificazione "punteggiano" le linee di discendenza che altrimenti tendono a rimanere stabilmente adattate ai loro habitat originari. Ne risulta un paesaggio di molteplici forme viventi organizzate "a cespuglio", senza un tronco principale, con specie più longeve e specie passeggere, con alcune linee stabili e poco prolifiche che convivono con linee di discendenza molto ramificate, con periodi di rapida diversificazione in tutte le linee e periodi di estinzione generale. Il fatto che numerose specie convivano durante la stessa epoca e anche sullo stesso territorio diventa una conseguenza normale del modello puntuazionale.”

Sarebbe ingenuo, però, non considerare che se la teoria degli equilibri punteggiati non contrasta affatto con il darwinismo, che integra rimediando ad alcune sue lacune, essa pone una serie di problemi teorici, due dei quali vanno approfonditi: il primo riguarda la comparsa stessa del cervello umano con le caratteristiche sue proprie, il secondo il suo essere entrato a regime solo tardivamente.

Neotenia e ritardo dello sviluppo

Un organo dotato di potenzialità exattate è senz'altro il prodotto dell'evoluzione naturale, ma non necessariamente della selezione naturale, dato che esso contiene potenzialità che nell'immediato servono a poco o a nulla. Se, però, non è prodotto dalla selezione naturale, cosa ne spiega la comparsa?

Ne L’origine dell’uomo, l'ossessione di ridurre la discontinuità tra gli altri animali e l'uomo induce Darwin a contestare un fenomeno già all’epoca rilevato: la “sprovvedutezza” dell'essere umano e il lungo periodo evolutivo richiesto perché egli raggiunga un minimo di autonomia:

“Si è spesso obiettato a queste opinioni e alle seguenti che l’uomo è una delle creature più prive di aiuto e di difesa del mondo, e che durante la sua primitiva e ancor meno sviluppata condizione egli doveva essere ancor più inerme. Il duca di Argyll, per esempio, insiste che «la struttura umana si è distaccata da quella dei bruti, evolvendosi verso una maggiore debolezza e gracilità fisica. Si tratta quindi di una divergenza che fra tutte più difficilmente si può ascrivere alla semplice selezione naturale». Egli adduce lo stato nudo e privo di protezione del corpo, l’assenza di grandi denti o artigli per la difesa, la piccola forza e velocità dell’uomo e il suo scarso potere di scoprire il cibo o di sfuggire il pericolo col fiuto. A queste mancanze se ne potrebbe aggiungere una ancora più grave, cioè che egli non può arrampicarsi velocemente e sfuggire così ai nemici. La mancanza di peli non sarebbe stata un gran danno per gli abitanti di paesi caldi. Infatti sappiamo che i nudi abitanti della Terra del Fuoco possono resistere a un clima crudo. Quando paragoniamo lo stato privo di difesa dell’uomo con quello delle scimmie, dobbiamo ricordarci che i grandi canini di cui queste ultime sono provviste sono posseduti in pieno sviluppo solo dai maschi, e sono da loro usati principalmente per combattere con i loro rivali; mentre le femmine, che non ne sono provviste, riescono egualmente a sopravvivere. Riguardo all’aspetto fisico o alla forza, non sappiamo se l’uomo discenda da qualche specie debole come lo scimpanzè o da una forte come il gorilla, e perciò non possiamo dire se l’uomo sia divenuto più grande e più forte o più piccolo e più debole dei suoi antenati. Dovremmo tuttavia tenere presente che un animale dotato di grandi dimensioni, forza e ferocia e che, come il gorilla, si potrebbe difendere da tutti i nemici, forse non sarebbe potuto divenire socievole; ciò avrebbe ostacolato efficacemente l’acquisizione di poteri intellettivi superiori, come la simpatia e l’amore verso i suoi compagni. Perciò potrebbe essere stato un immenso vantaggio per l’uomo essere derivato da qualche creatura comparativamente debole.

La scarsa forza e velocità dell’uomo, la sua penuria di mezzi naturali, ecc. sono più che controbilanciate, in primo luogo, dai poteri intellettivi, con i quali si è procacciato i mezzi, gli strumenti, ecc., mentre ancora si trovava in uno stato di barbarie e secondariamente, dalle sue qualità sociali che lo hanno portato a dare aiuto ai suoi compagni o a riceverne.” (p. 89-90)

Anche in questo caso, la genialità di Darwin è un po’ ottenebrata dal gradualismo, che lo porta a negare l’evidenza. Nessun animale come l’uomo viene al mondo nella condizione di prematurità e di sprovvedutezza caratteristica del neonato, nessuno ha un periodo evolutivo altrettanto sterminatamente lungo, nessuno, tra i mammiferi, manifesta la persistenza nell’adulto di caratteristiche fetali e infantili.

Tutti questi aspetti si riconducono alla neotenia, vale a dire ad un ritardo dello sviluppo che incide profondamente sulle caratteristiche fisiche e sulle funzioni psichiche.

L'uomo è un animale spiccatamente neotenico. Nell'anatomia dell'uomo adulto si osservano numerosi caratteri che l'uomo ha in comune coi primati allo stato fetale: il valore elevato del rapporto testa-corpo, l'assenza di peli, la pelle delicata, i denti piccoli, le ossa fragili, l'ortognatia, ecc.

Si può immediatamente capire il significato complessivo della neotenia osservando la seguente figura:



In alto sono rappresentati i due crani fetali di uno scimpanzè e di un feto umano. La somiglianza è notevolissima.

In basso sono rappresentati i crani di uno scimpanzé adulto e di un uomo adulto. La differenza è nettissima. Il cranio dello scimpanzé adulto si discosta molto da quello fetale, mentre il cranio dell'adulto umano appare molto più simile.

Se consideriamo l’affinità genetica tra uomo e scimpanzé, che hanno il 98,5% dei geni in comune, e le rilevanti differenze morfologiche e comportamentali, viene da chiedersi se non sia proprio la neotenia a produrre tali differenze.

L’ipotesi appare estremamente probabile e potrebbe porre fine alla giostra di interpretazioni succedutesi nel corso del tempo che argutamente il paleoantropologo Richard Leakey ha elecanto sottolineando il fatto che esse rispecchiano lo spirito dell’epoca in cui sono state formulate: l'ipotesi della costruzione di armi (etica vittoriana); l'ipotesi dell'espansione cerebrale (ottimismo eduardiano); l'ipotesi dello sviluppo tecnologico (anni Quaranta); l'ipotesi della "scimmia assassina" (secondo conflitto mondiale); l'ipotesi delle società fondate sulla caccia (ecologismo degli anni Sessanta); l'ipotesi delle società fondate sulla raccolta femminile dei frutti della terra (femminismo degli anni Settanta).

La spiegazione che verte sulla neotenia sembra più solida, non fosse altro perché essa è in controtendenza rispetto allo spirito dell’epoca, che è marcatamente adultomorfo.

Occorre affrontare, però, due problemi: chiarire come si è prodotta la neotenia e quali cambiamenti essa ha determinato a livello di funzioni psichiche.

Neotenia, intersoggettività e nascita dell’autoconsapevolezza

Il primo problema non sembra ormai rappresentare un mistero. Tutti i genetisti concordano sul fatto che la neotenia dipende da mutazioni genetiche che incidono sui geni che regolano il ritmo della crescita (i promotori), soprattutto nelle fasi embrionali.

Allorché, nel corso della seconda lettura, ho esposto alcune nozioni di genetica, ne ho omesso una, che a questo punto può risultare importante.

La funzione dei geni – s’è detto – è di determinare i caratteri. Questo vale solo per i geni cosiddetti strutturali, quelli che veicolano informazioni sulla strutturazione delle cellule e degli organi. Oltre ai geni strutturali, esistono, però, anche i geni regolatori, la cui funzione è di determinare l’entrata in azione dei geni strutturali nel corso del tempo.

A livello genetico, la tempistica è di enorme importanza. La neotenia umana attesta, infatti, che i geni regolatori (quasi di sicuro frutto di mutazioni casuali) ritardano lo sviluppo.

La crescita ha un ritmo rilevante a livello embrionale: il mantenersi di questo elevato tasso di crescita determina l’aumento di volume della neocorteccia..

Anche a questo riguardo si può operare un confronto tra uomo e scimpanzé.

Scrive Desmond Morris (La scimmia nuda, Bompiani, Milano 2003): “Prima della nascita, il cervello del feto della scimmia aumenta rapidamente in dimensioni e in complessità. Quando l’animale nasce, il cervello ha già raggiunto il settanta per cento delle sue dimensioni definitive di adulto. Il rimanente trenta per cento della crescita viene completato rapidamente durante i primi sei mesi di vita… Nella nostra specie, invece, alla nascita il cervello è solo il 23% delle sue dimensioni adulte. Per altri sei anni dopo la nascita continua una crescita rapida e l’intero processo di accrescimento non è completo sino al ventitreesimo anno di vita. [Nell’uomo, dunque], la crescita del cervello continua per circa dieci anni dopo che abbiamo raggiunto la maturità sessuale, mentre per lo scimpanzé termina sei o sette anni prima che l’animale diventi attivo dal punto di vista della riproduzione.”

E' in virtù di questo elevato tasso di crescita che il cervello umano ha raggiunto le sue notevoli dimensioni.

Non si deve pensare, però, solo ad un’evoluzione quantitativa: le parti più giovani dell’encefalo (appartenenti alla cosiddetta “neocorteccia”) si sono aggiunte in modo non meccanico alle parti più primitive (sistema limbico, cervelletto, tronco encefalico), creando un’architettura anatomica complessa nella quale talvolta la coordinazione delle parti “superiori” è mediata da strutture presenti nelle parti più antiche. Si sa che le aree del cervello si sono sviluppate diversamente nel genere Homo, anche se non vi è stata la comparsa di alcuna struttura che non fosse già presente nelle scimmie antropomorfe: è stata una questione di organizzazione, di connessione fra le parti e di crescita differenziale.

Lo sviluppo della neocorteccia ha prodotto, insomma, una diversa organizzazione del rapporto tra strutture cognitive e strutture emozionali già ampiamente sperimentate nell'evoluzione animale.

E' in questa diversa organizzazione che risiede il mistero della “scintilla” che ha innescato il “grande balzo in avanti”, vale a dire l'avvio del progresso culturale avvenuto cinquantamila anni fa, con un ritardo – è bene ricordarlo – di alcune decine di migliaia di anni dal momento in cui è comparso il cervello umano.

Ho affrontato altrove il problema di come la neotenia ha inciso nell’organizzazione sociale e psicologica della specie umana. Riporto una citazione:

“Occorre tenere conto di tre effetti correlati tra loro e riconducibili al ritardo dello sviluppo, clamorosamente evidente nei bambini, e alla prolungata interazione tra bambini e adulti da esso provocato.

Il primo è l’effetto di “ingentilimento” che i bambini producono negli adulti, evocando di continuo una straordinaria gamma di reazioni emotive sul registro della tenerezza e della protezione, che fanno capo al diritto “naturale” del più debole.

Il secondo aspetto è il “contagio emotivo” reciproco. I bambini si identificano con gli adulti, li imitano, apprendono il linguaggio e le regole culturali. Le caratteristiche psichiche neoteniche infantili - la curiosità esplorativa, la fantasia, la tendenza al gioco – esercitano sugli adulti un’indubbia influenza, contribuendo a mantenere in essi una plasticità che le esigenze di adattamento all’ambiente tendono, in una certa misura, a reprimere.

Il terzo aspetto è in assoluto il più importante. Incrementando la vulnerabilità, l’inermità e la sprovvedutezza dei bambini, il ritardo dello sviluppo ha determinato di sicuro negli adulti un’intensificazione dell’empatia. Al tempo stesso, esso ha messo sotto i loro occhi aspetti che sono drammaticamente evidenti nei bambini, ma che, in qualche misura, sopravvivono negli adulti facendo capo tout court alla condizione umana.

Se ci riconduciamo alla condizione originaria degli esseri umani – strutturalmente carenti, sprovveduti, perennemente esposti al rischio di essere divorati, letteralmente zavorrati dalla necessità di difendere infanti inermi per molti anni - non ci vuole molto a capire che l’interazione perpetua e l’identificazione con i bambini ha concorso ad avviare la nascita dell’autoconsapevolezza esistenziale sul registro di una ansia arginata a mala pena dall’appartenenza, dal poter contare, in caso di bisogno, sull’aiuto degli altri...

Il ritardo dello sviluppo, del tutto manifesto nei bambini, ha determinato anche, originariamente, una dipendenza radicale degli adulti dal gruppo; una dipendenza che non pochi psicologi, oggi, definirebbero “patologica”, ma che di fatto è riconducibile alla carenza dell’individuo nell’affrontare da solo le avversità della vita.”

La citazione implica un’ipotesi sulla scintilla che ha prodotta la nascita della mente umana. Prima di approfondirla, però, occorre tenere conto che ne sono già state fornite altre due.

La prima, la più consueta, fa riferimento al linguaggio. Si danno anche a questo riguardo due diverse ipotesi.

Secondo alcuni paleoantropologi, il linguaggio sarebbe stata un’invenzione pressoché istantanea in termini evolutivi, legata alla circostanza che il cervello raggiunse un volume critico e che il cranio subì cambiamenti .

Secondo altri, viceversa, il linguaggio si sarebbe evoluto lentamente, per selezione naturale, a partire dalle prime specie di Homo.

Tali ipotesi non sono incompatibili. Esse, però, non sembrano sufficienti a spiegare il “grande balzo”, bensì piuttosto a spiegare l'accelerazione dell'interazione tra natura e cultura prodotta dal linguaggio, che ha reso possibile la trasmissione degli apprendimenti di generazione in generazione.

Il linguaggio, peraltro, implica un gruppo sociale impegnato a correlare l'universo dei suoni e quello dei contenuti mentali alla ricerca di un codice convenzionale condiviso. E' indubbio, dunque, che un'intensa interazione sociale va presunta per spiegare la nascita del linguaggio.

Perché l’interazione sociale possa produrre un linguaggio occorre, però, che gli esseri umani abbiano già un'esperienza interiore significativa, dei concetti cui manca letteralmente la parola.

Vediamo in azione qualcosa del genere nei bambini che cominciano a parlare “inventandosi” delle parole incomprensibili, che, però, dentro di loro, fanno riferimento a determinati oggetti. Essi, insomma, hanno il concetto, l'immagine mentale simbolica dentro di sé, ma, per giungere a comunicare, devono acquisire la forma fonetica giusta, quella convenzionale all'interno di una determinata comunità linguistica.

La seconda ipotesi fa appunto riferimento alla nascita dell'autocoscienza come presupposto dello sviluppo del linguaggio.

Scrive Telmo Piovani:

“Alcuni “paleoneurologi” e paleoantropologi sono convinti che “il grande balzo in avanti” del Paleolitico superiore sia connesso all’innesco di un anello ricorsivo fra l’evoluzione del linguaggio articolato e l’evoluzione della coscienza introspettiva.

La questione cruciale è proprio capire se l’evoluzione di un’intelligenza autocosciente sia strettamente dipendente dalla presenza del linguaggio articolato [...]; oppure se è possibile che le forme ominidi più antiche possedessero comunque un embrione di pensiero cosciente, una sorta di “attenzione incosciente”, come è stata definita da Stephen Toulmin. Secondo Toulmin sarebbe infatti possibile costruire arnesi attivando una forma di attenzione automatica, non cosciente. Questa si sarebbe poi evoluta, attraverso una serie di stadi, fino all’attenzione cosciente e all’articolazione del comportamento autocosciente, organizzato secondo piani stabiliti e condiviso con altri attraverso il linguaggio articolato.

Tuttavia, il quadro si complica se pensiamo che la deduzione dell’origine evolutiva del linguaggio dalla sua utilità attuale è stata posta in discussione da ricerche recenti. Il neurologo Harry Jerison ha delineato un modello dell’evoluzione del cervello da questo punto di vista estremamente interessante: il linguaggio ha avuto naturalmente un ruolo decisivo nella comunicazione umana, ma questa potrebbe essere una conseguenza del suo sviluppo e non la sua causa. Secondo Jerison, il linguaggio è nato come effetto collaterale di una facoltà diversa che il cervello aveva cominciato a sviluppare come adattamento: la coscienza introspettiva e immaginativa. È nei dialoghi interiori della incipiente coscienza umana, impegnata a creare un modello e un’interpretazione attendibili della realtà, che il linguaggio trova la sua origine.”

Come si origina, però, una coscienza introspettiva? Come l'uomo è giunto a rendersi conto di avere un mondo interiore di contenuti mentali – pensieri, emozioni – non riducibili alla percezione?

E’ nel tentativo di rispondere a questi quesiti che ho formulato l’ipotesi cui ho fatto cenno, che ora va approfondita.

L’acquisizione della capacità simbolica

L’introspezione, intesa non come raccoglimento sui propri vissuti e abbandono ad essi, bensì come autoconsapevolezza comporta la capacità di oggettivare i contenuti psichici, di rapportarsi a se stesso come ad un altro. La spia dell’autoconsapevolezza è la capacità di dialogare con se stesso dandosi del tu.

Essa implica dunque una struttura dialogica della personalità. E’ evidente che questa struttura non può essere che il prodotto di una lunga interazione intersoggettiva, che dà luogo infine all’interiorizzazione dell’Altro.

Se si tiene conto di questo, il ruolo svolto dalla neotenia risulta chiaro.

Pochi dubbi sussistono riguardo al fatto che un animale carente, sprovveduto e neotenico come l’uomo abbia corso, nell’ambiente originario della savana infestato di predatori, il rischio dell’estinzione. Se l’è cavata utilizzando l’intelligenza? Certo, ma sulla base di una solidarietà e una cooperazione di gruppo totale.

La socialità empatica prodotta dalla neotenia ha letteralmente obbligato gli esseri umani a coordinarsi, a comunicare, ad adottare strategie condivise, vale a dire ad interagire intersoggettivamente in una misura maggiore rispetto a qualunque altro animale.

L’intensa interazione intersoggettiva ha contribuito a sintonizzare i mondi di esperienza individuali rendendo la relazione con gli altri essenziali e costitutiva della soggettività.

Su questa base la possibilità che, in rapporto a potenzialità ex-attate, l’Altro sia stato interiorizzato è molto elevata. L’interiorizzazione dell’Altro ha dato luogo alla prima rappresentazione simbolica della realtà esterna, la cui conseguenza è stata la nascita dialogica dell’Io. La sperimentazione della capacità simbolica si sarebbe poi estesa al mondo esterno. Sulla base di un’intensa comunicazione intersoggettiva, gli uomini avrebbero cominciato a produrre segni convenzionali linguistici associati alle “cose”.

La psicologia evolutiva, soprattutto con gli studi di Colwin Trevarthen, conferma queste ipotesi. Trevarthen ha accertato che il neonato, sin dalle prime ore di vita, cerca di sintonizzarsi empaticamente con la madre. Lo sforzo di sintonizzazione reciproca produce nel giro di poche settimane una protoconversazione non verbale che assicura l’invio e la decodificazione dei messaggi. La protoconversazione dà luogo poi ad un linguaggio privato verbale tra il bambino e la madre (definito da Trevarthen motherese) che, pur non essendo convenzionale, funziona e rappresenta la base dell’acquisizione del linguaggio convenzionale.

La finalità della socializzazione empatica originaria non è però solo l’acquisizione del linguaggio, bensì la definizione dell’Io che interviene intorno al diciottesimo mese ed implica già l’interiorizzazione dell’Altro. L’io esiste in quanto esiste il Tu, ma non solo sul piano reale bensì anche nello spazio interiore.

Certo nell’evoluzione della personalità la nascita dell’Io avviene a seguito di un interesse molto vivo per gli oggetti, che il bambino manipola ed esplora precocemente, di cui chiede e apprende lentamente il nome. E’ probabile, però, che, alle origini dell’umanità, la simbolizzazione e la rappresentazione simbolica del mondo esterno abbiano fatto seguito alla nascita dell’Io autoconsapevole sulla base dell’interiorizzazione dell’Altro.

La psicoanalisi fornisce due prove a riguardo.

La prima riguarda tutti gli esseri umani ed è da ricondurre all’esperienza onirica.

Come noto, il sogno è un’esperienza allucinatoria che si realizza ogni notte in ogni cervello umano per circa un’ora e mezza. Tutti sanno l’importanza straordinaria che Freud ha assegnato a questo fenomeno. Freud stesso ha avuto un’intuizione che poi è stata soffocata dalla sua concezione pulsionale. Tale intuizione oggi può essere restaurata nel suo significato autentico e inquietante.

Costruendo un sogno, la mente umana appare in grado di rappresentare allucinatoriamente qualunque aspetto della realtà. Alcuni sogni sono fantasiosi, strani, assurdi, ma altri sono assolutamente realistici. Ora l’interpretazione dei sogni pone di fronte al fatto che tutto ciò che viene rappresentato a livello onirico non ha un significato realistico ma soggettivo e intersoggettivo: fa riferimento insomma all’Io, all’Altro e alla relazione tra Io e Altro. Volare, per esempio, sta per affrancarsi dalla relazione con l’Altro, precipitare nel vuoto perdere qualunque appiglio sociale, ecc.

L’analisi dei sogni attesta, né più né meno, che l’inconscio conosce una sola realtà - quella umana - che viene rappresentata attraverso gli oggetti: esso è dunque radicalmente antropomorfico. L’inconscio rappresenterebbe dunque la parte arcaica della mente che antropomorfizza tutto il mondo. La realtà oggettiva, a livello onirico, è simboleggiata esclusivamente in riferimento a quella soggettiva e intersoggettiva.

La seconda prova è fornita dalla psicopatologia e più precisamente da un’esperienza particolare: la vahnstimmung. Di cosa si tratta? Di uno stato d’animo particolare che precede spesso, di giorni o settimane, l’affiorare di un delirio ed è caratterizzato da una percezione del mondo inquietante. L’inquietudine, che talora raggiunge il livello dell’angoscia catastrofica, è riconducibile al fatto che il soggetto vive la realtà come se essa contenesse in tutti i suoi aspetti misteriosi messaggi e significati che sono rivolti a lui e che egli non riesce a decodificare: la targa di una macchina, il fumo di un camino, un lenzuolo steso che sventola, ecc. sono messaggi in codice che il soggetto si affanna a capire e vive.

La vahstimmung è riconducibile univocamente ad un conflitto psicodinamico tra l’Io e l’Altro, che non per caso esita spesso in un delirio persecutorio. Al di là di questo, c’è però da considerare che essa immerge il soggetto in una dimensione di rapporto con un mondo antropomorfico, nel quale non ci sono più oggetti ma solo soggetti umani che li utilizzano per comunicare qualcosa.

Mi rendo conto che, posta in questi termini, l’ipotesi è scarsamente comprensibile. Penso, però, che essa sia molto vicina alla verità, e la verità è che il cervello umano è letteralmente irretito nella relazione tra Io e Altro, e che l’Altro è rappresentato in forma generalizzata nella sfera dell’inconscio.

E’ l’interiorizzazione dell’altro che ha generato lo spazio mentale autoconsapevole e introspettivo.

La socialità empatica, prodotta dalla neotenia e da un'interazione prolungata nel rapporto tra adulti e bambini, sarebbe dunque il fattore critico che avrebbe innescato l'uso delle potenzialità ridondanti contenute in una struttura cerebrale cresciuta a dismisura, ben al di là delle esigenze adattive degli uomini primitivi.

L’empatia pone, dunque, in luce il nesso intrinseco all’emozionalità sociale umana tra funzione adattiva e funzione disadattiva. Essa, infatti, promuove la solidarietà e la cooperazione del gruppo, nonché la tutela degli esseri deboli e vulnerabili (bambini, anziani), ma al prezzo e in virtù di un’ansia esistenziale contro la quale non si dà che come parziale rimedio l’appartenenza.

In un certo senso, quest'ultima ipotesi, che sto elaborando ne Il mostro di belle speranze, riconduce a Darwin e alla sua intuizione che l'istinto sociale, associato ad elevate potenzialità cognitive, ha avviato la cultura umana.

Sarebbe ingenuo, però, non considerare ciò che di nuovo essa apporta al paradigma evoluzionistico.


Lettura V


L'uomo tra natura e cultura

Sull’antidarwinismo
L’etica evoluzionistica
Biologia e cultura
La filosofia dell’evoluzionismo
Per non concludere

Sull’antidarwinismo

Fin dalla prima lettura ho rilevato che la sorprendente intuizione sopravvenuta nella mente di un giovane naturalista di trenta anni, per cui la vita evolve sulla base di meccanismi naturali, che egli peraltro ha avuto il merito di coltivare per decenni cercando di dare ad essa un’organizzazione scientifica, ha dovuto fare i conti per un verso con una tradizione consolidata che assegnava all’uomo un posto del tutto straordinario nella natura e per un altro con l’opzione gradualista operata da Darwin in conseguenza della sua visione del mondo liberale. La cornice gradualista, come si è visto, non è compatibile con le scoperte paleontologiche e paleoantropologiche, che pongono di fronte ad evidenti fenomeni catastrofici (ricorrenti estinzioni di massa che fanno seguito a lunghi periodi di stasi, evoluzione a cespuglio delle forme ominidi, ecc.).

Nella sua pretesa di salvaguardare la teoria dell’evoluzione per selezione naturale, il neodarwinismo, nonostante l’indubbio contributo che esso ha fornito all’integrazione tra la teoria stessa e la genetica, ha tentato di mascherarne i punti deboli, convalidando un modello gradualista, lineare e scalare dell’evoluzione degli ominidi la cui conseguenza è stata quella di rendere ancora più misteriosa l’origine dell’Homo sapiens, la cui unicità contrasta con la varietà che caratterizza tutte le altre specie.

Per fortuna, l’ideologia iperadattamentista del neodarwinismo ha generato, all’interno della biologia evoluzionistica, una vera e propria rivoluzione, esitata nella teoria degli equilibri punteggiati, elaborata da S. J. Gould e da N. Eldredge, che integra e potenzia la teoria darwiniana.

Darwinismo, Neodarwinismo e Postdarwinismo (definizione impropria con cui si fa riferimento alla teoria degli equilibri punteggiati) vanno considerati, nel loro complesso e nella loro successione, come prova che la scienza comporta inesorabilmente qualche inquinamento riconducibile all’ideologia personale degli studiosi, vale a dire tende inesorabilmente alla “normalizzazione” (Khun), ma è capace di criticare se stessa e di procedere verso un adeguamento dei suoi paradigmi ai dati che riguardano l’oggetto in questione. Scienza storica, l’evoluzionismo ha avuto esso stesso una storia contrassegnata da numerose vicissitudini. Ciò significa solo che il sapere umano, nella cui cornice la scienza occupa ormai un posto di assoluto rilievo, procede e non può procedere che per tentativi ed errori, e che esso risente inesorabilmente dell’appartenenza storica degli scienziati che lo producono.

A questo riguardo, è importante sottolineare che il liberalesimo di Darwin ha avuto una sua continuazione nell’ambito del neodarwinismo, il cui maggiore rappresentante – Th. Dobzhansky – ha assunto posizioni inequivocabilmente progressiste (cfr. Diversità genetica e uguaglianza umana, Einaudi, Torino 1981) nel contesto “maccartista" statunitense degli anni ‘50 del secolo scorso. La teoria degli equilibri punteggiati ha aperto, peraltro, una perdurante polemica sul presunto marxismo di S. J. Gould, che non ha mai celato di essere stato educato da un padre comunista e cita a più riprese Marx, del quale ha assimilato un certo modo di pensare la storia.

Scienza storica, la teoria darwiniana ha avuto uno sviluppo che attesta comunque la sua vitalità e la validità del metodo scientifico.

L’antidarwinismo, che va considerato esso stesso in termini storici, sembra, invece, avere seguito una parabola opposta alla teoria dell’evoluzione. Il primo antidarwinista si può considerare A. Wallace il quale rilevò per primo la complessità delle funzioni psichiche umane, irriducibile alla selezione naturale e la discontinuità che si dà tra l’uomo – autoconsapevole, dotato di capacità simbolica e creativo – e gli altri animali.

Oggi sappiamo che Wallace aveva ragione nel contestare la continuità ipotizzata da Darwin tra mondo animale e mondo umano, anche se la soluzione creazionista da lui avanzata è insostenibile.

Per un certo periodo di tempo, fino a tutti gli anni ’70 del secolo scorso, gli antidarwinisti hanno svolto anche una funzione utile perché hanno insistito nel sottolineare i punti deboli del darwinismo e del neodarwinismo, costringendo i biologi evoluzionisti a riflettere su di essi. Il loro intento esplicito era di demolire la teoria darwiniana, ma è probabile che, senza la funzione di stimolo critico da essi esercitato, la fase di “normalizzazione” del paradigma neodarwinista, che è potente ed elegante, si sarebbe prolungata per molto tempo e, forse, la teoria degli equilibri punteggiati non avrebbe visto la luce.

Da quando tale teoria, integrativa del darwinismo, è stata formulata, però, vale a dire dai primi anni ’80, gli antidarwinisti si sono sempre più attestati su di una linea reazionaria e antiscientifica. Dopo avere, infatti, tentato invano di cooptare la teoria degli equilibri punteggiati, interpretandola, contro le affermazioni dei suoi autori, come antidarwinista, e dopo averla attaccata duramente come espressione di un pensiero marxista (accusa che, negli Stati Uniti è obbrobriosa), essi hanno continuato a criticare ossessivamente i punti deboli dell’evoluzionismo come se esso fosse rimasto fermo alla sua originaria versione gradualista.

Per prendere atto di questo, riporto alcune citazioni tratte da un animoso articolo scritto dal fisico nucleare Vladislav Olkhovsky in risposta ad un numero di National Geographic nel novembre 2004 la cui copertina titolava "Darwin aveva torto?". La risposta, a firma di David Quammen, occupa ben 32 pagine e non lascia dubbi: "No. Le prove a favore dell'evoluzione sono schiaccianti". Nell’articolo in questione, intitolato “Le prove sono veramente schiaccianti?”, Olkhovsky scrive:

“Mentre tutti sono d'accordo che la teoria di Darwin può spiegare la "microevoluzione", finora nessun fatto scientifico e nessuna verifica scientifica indiscutibile hanno suggerito che la teoria di Darwin può spiegare anche la macroevoluzione dagli esseri unicellulari a quelli pluricellulari, dalle specie meno complesse alle specie più complesse. La dottrina della macro-evoluzione naturale non ha ottenuto fino ad ora - in 150 anni - alcuna conferma empirica sicura o univoca [...]

Nessuno, poi, è riuscito a risolvere in modo indiscutibile il problema dell'origine spontanea delle strutture ed apparati "integrali" (dal punto di vista sia morfologico che biochimico), che hanno una complessità irriducibile (come ad esempio l'occhio, l'orecchio, il sangue). Tutti gli organismi viventi sono pieni di strutture dalla complessità irriducibile che assicurano loro il migliore adattamento possibile all'ambiente, ma queste strutture non possono formarsi col gradualismo supposto da Darwin.

Un altro punto non chiarito è il punto di partenza della macroevoluzione biologica. Da che cosa inizia? Dalla materia non-vivente, da una cellula viva, o dalla biosfera intera? A queste domande non esiste una risposta scientifica! Per di più, non c'è nessun fatto a favore dell'origine spontanea della vita dalla materia non-vivente...

Per quanto riguarda le prove fossili, l'esistenza di forme "transitorie" o "intermedie" ipotizzate da Darwin, è stata decisamente smentita dalla paleontologia. Le forme fossili cosiddette transitorie sono rare ed estremamente discutibili; tutti i maggiori gruppi viventi compaiono improvvisamente e completamente formati, senza mostrare cambiamenti direzionali durante l'arco della loro esistenza (fino ad oggi oppure fino alla loro estinzione). D'altra parte, l'unico modo per tentare di ricostruire una catena evoluzionistica sarebbe lo studio genetico dei fossili, cosa che è impossibile.

National Geographic utilizza come prova a favore dell'evoluzione addirittura la struttura degli embrioni (p. 13): "Perché l'embrione di un mammifero passa attraverso stadi di sviluppo che assomigliano a quelli dell'embrione di un rettile"? […] "Perché, come scrisse Darwin, 'l'embrione è l'animale nel suo stato meno modificato" e quello stato "rivela la struttura del progenitore". Quest'ultima idea, più nota come la "legge biogenetica fondamentale" del biologo tedesco Ernst Haeckel (1866), è stata smentita già nel 1874 dallo specialista in anatomia Wilhelm His ed è stata respinta dal mondo scientifico sin dagli anni venti. È completamente scomparsa dai testi universitari a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso perciò stupisce vederla riproporre come se il tempo non fosse passato.

Per quanto riguarda la presunta evoluzione dell'uomo, vale la pena di chiedersi cosa, oltre alla somiglianza anatomica, morfologica e genetica, dà agli evoluzionisti delle ragioni per proporre la macro-evoluzione da antenati comuni a primati e uomo. Quale sarebbe, poi, la somiglianza spirituale fra l'animale-antenato dell'uomo e l'uomo moderno, con la sua mente capace di pensiero astratto, l'auto-coscienza, la moralità e la lingua, caratteristiche assolutamente assenti in qualsiasi animale. La teoria (insegnata nell'ex URSS) dell'evoluzionista Friedrich Engels, secondo la quale sia stato proprio il lavoro a trasformare la scimmia in uomo, fa soltanto ridere...

Ormai si sta facendo sempre più strada, fra gli stessi scienziati, la convinzione che per spiegare l’origine degli esseri viventi e la loro complessità, bisogna supporre un “Progetto Intelligente”: ognuno ha poi una sua convinzione sulle caratteristiche del “Progettista”, ma diviene sempre più indecente continuare a riproporre il caso e la selezione naturale come la sorgente dei magnifici esseri viventi.”

In tutte queste affermazioni, che in gran parte fanno capo a problemi i quali sono stati presi in considerazione e affrontati dagli evoluzionisti, ce n’è una sola inconfutabile. Nessun biologo è in grado di spiegare, oggi, come si sia realizzato il passaggio dalla materia inanimata a quella animata. L’evoluzionismo, però, non ha mai avuto questa pretesa (seppur scientificamente legittima). Esso si limita a interpretare ciò che è accaduto dopo la comparsa dei primi organismi unicellulari. E’ sorprendente che un fisico nucleare intenda invalidare il darwinismo perché esso non è in grado di spiegare ciò che è accaduto prima. La fisica, nell’ottica della teoria del Big-Bang, ha ricostruito la storia della materia a partire da alcuni milionesimi di secondo successivi ad esso. Il non essere (ancora) in grado di spiegare ciò che è avvenuto prima non toglie certo valore alla disciplina.

Il problema è che gli antidarwinisti contemporanei non prendono neppure in considerazione l’ipotesi che la selezione naturale, la cui azione è fuor di dubbio, possa essere integrata da altri meccanismi, nonostante Darwin stesso abbia fatto cenno a questa possibilità. Essi rimangono fermi all’anticreazionismo esplicito di Darwin e ritengono che sia stato questo presupposto “ideologico” a costringerlo ad ammettere la casualità dell’evoluzione animale.

Ho esposto i motivi per cui la teoria della selezione naturale va revisionata e integrata con la teoria degli equilibri punteggiati, che sormonta lo scoglio del gradualismo, ma non ha bisogno di ricorrere ad un Creatore o ad un disegno intelligente perché attribuisce alla natura stessa una creatività casuale. L’exaptation, vale a dire la produzione di strutture contingenti e potenzialmente ridondanti, è l’espressione di questa creatività.

A livello umano, l’exaptation è riconducibile ad un insieme di mutazioni riguardanti i geni regolatori che hanno determinato un netto ritardo dello sviluppo, e quindi la crescita smisurata della neocorteccia, che ha comportato la riorganizzazione di tutto l’apparato mentale.

Con la sua contingenza, però, l’exaptation accresce il riferimento alla casualità. E’ come se la natura, avendo sperimentato il vantaggio adattivo di un cervello di dimensioni maggiori, ne abbia prodotto, in virtù di mutazioni casuali, uno le cui potenzialità si possono ritenere non solo ridondanti, ma anche in qualche misura disadattive.

I creazionisti identificano nell’ansia esistenziale, che porta l’uomo ad interrogarsi sulla sua esistenza e sul suo destino, l’indizio di una spiritualità aperta al trascendente.

La realtà, come afferma Gould, in riferimento alla neotenia, è che “il bambino è il padre dell’uomo”: assioma splendido su cui non si finirà mai di riflettere. E’ difficile attribuire ad un Dio creatore un’idea così bislacca e un esperimento così azzardato, anche se è assolutamente vero che la neotenia, ponendo per anni il bambino in una condizione di dipendenza radicale ed estatica dall’adulto, può consentire di spiegare la necessità psicologica permanente di un Essere superiore o di un Padre.

Impossibilitato a contendere con la teoria dell’evoluzione sul piano scientifico, il creazionismo ha assunto di recente una nuova veste, le cui origini embrionali vanno individuate nel pensiero di H. Spencer, che per primo ha esteso l’evoluzionismo al cosmo intero. Si tratta dell’ipotesi nota come Intelligent Design.

Tale ipotesi riconosce la sua più rozza espressione nei neo-creazionisti statunitensi, che si richiamano alla lettera biblica. Essa, però, è stata elaborata in maniera sottile e affascinante dal gesuita Theilard De Chardin (1881–1955), geologo e antropologo, che, in una certa misura, ripercorre le tracce di A. Wallace, ipotizzando un processo evolutivo in due fasi: la prima parte dal mondo inorganico e si sviluppa attraverso la produzione della biosfera, del mondo degli esseri viventi nella loro straordinaria varietà; la seconda coincide con il processo di ominizzazione che, con la comparsa dell’uomo, segna il passaggio dalla biosfera alla noosfera, il mondo del pensiero riflessivo, di ordine sostanzialmente spirituale, che gravita verso il Punto-Omega, vale a dire la convergenza dell’umanità con il Cristo Cosmico.

Nonostante sia stata a lungo osteggiato dalla Chiesa, che ha letto in esso un’ombra di eresia panteistica, il pensiero di Theilard De Chardin ha introdotto nella storia dell’evoluzionismo il principio antropico, secondo il quale l’evoluzione dell’universo riconosce come suo fine la comparsa della coscienza umana capace di riflettere su di esso.

Meno mistica è la versione dell’ipotesi, sostanzialmente panteistica, illustrata dal fisico Paul Davies, ne Il cosmo intelligente (Mondadori, Milano 1989), che si conclude con le seguenti parole:

“Il fatto stesso che l'universo è creativo, e che le sue leggi hanno consentito la comparsa e lo sviluppo di strutture complesse fino al livello della coscienza - in altre parole, il fatto che l'universo ha organizzato la propria autoconsapevolezza - è per me una prova considerevole che "vi è qualcosa" dietro a tutto ciò. L'impressione dell'esistenza di un disegno globale è schiacciante. La scienza può spiegare tutti i processi per mezzo dei quali l'universo si costruisce il proprio destino, ma ciò lascia comunque aperta la possibilità che vi sia un significato oltre l'esistenza.” (p. 261)

Non è sorprendente che, per via di quel qualcosa che apre l’orizzonte di una trascendenza affrancata da un Dio antropomorfico, Il Cosmo intelligente sia divenuto una sorta di manifesto del movimento confluito successivamente nell’ideologia new-age.

L’ipotesi dell’Intelligent Disegn è di natura induttiva come il darwinismo, ma a suo sostegno non porta alcuna prova, ed inoltre è articolata diversamente da autore ad autore.

Il presupposto dell’ipotesi è la tendenza della materia ad organizzarsi in forme sempre più complesse. Parecchi fautori dell’Intelligent Design accettano l’ipotesi del Big-Bang, ma sostengono che la differenziazione delle costellazioni, l’origine del sistema solare, la comparsa della Terra e, infine, l’evoluzione della vita sulla terra, a partire da un ammasso indistinto di energia, attestano inconfutabilmente che la materia tende verso una progressiva complessificazione. Taluni ritengono che la complessificazione sia imprescindibile da un Demiurgo o da un Dio; altri ammettono che tale tendenza sia insita nella materia (giungendo dunque ad una conclusione panteistica); altri ancora, identificano nell’uomo e nella sua coscienza capace di rispecchiare e di riflettere sull’Universo il fine intrinseco all’evoluzione della materia (principio antropico).

Il riferimento alla complessificazione dell’organizzazione della materia è un riferimento teorico importante perché fa capo alla scienza dei sistemi complessi, la quale ha dimostrato che in essi le leggi causali e deterministiche svolgono un ruolo minoritario rispetto a quelle probabilistiche. I sistemi complessi sono ricchi di alternative equiprobabili una delle quali poi si realizza.

Appoggiandosi a questa teoria, i fautori dell’Intelligent Design riabilitano il ruolo del caso (centrale nel darwinismo), ma ritengono che esso sia in qualche misura guidato da un’Intelligenza il cui fine è l’organizzazione della materia ad un livello sempre più elevato.

Si tratta, a mio avviso, di un punto di vista rispettabile, ma non necessariamente condivisibile. Potrebbe, infatti, trattarsi semplicemente di un modo di interpretare le cose che corrisponde a vincoli dell’apparato mentale, che rifugge dal disordine, dalla confusione e dalla casualità, piuttosto che allo stato delle cose stesse. Il fatto che il Cosmo sia intelleggibile, non significa affatto ch'esso sia necessario e tanto meno strutturato da un Logos (comunque inteso).

Inserire l’evoluzione della vita e la comparsa dell’Uomo nel più vasto contesto dell’Universo non può prescindere dal fatto che di quest’ultimo sappiamo sostanzialmente poco, mentre dell’evoluzione della vita sappiamo quanto basta ad avallare la teoria darwiniana (revisionata e integrata).

L’antidarwinismo è sostanzialmente un orientamento ideologico. Esso muove dal presupposto che la “giostra della vita” debba avere un senso, che abbia un carattere progressivo e che l’uomo ne rappresenti l’espressione più elevata.

In genere è molto difficile capire le origini delle ideologie. Per quanto riguarda l’antidarwinismo contemporaneo, però, qualcosa si può dire.

Verso la metà del 1980 si avvia negli Stati Uniti la deregulation neoliberistica, che fa della lotta competitiva tra singoli individui il fattore supremo dello sviluppo socio-economico. Torna, insomma, alla ribalta il cosiddetto darwinismo sociale, in auge negli ultimi due decenni del secolo XIX, che, in seguito alle due guerre mondiali, sembrava sormontato in nome del Welfare State, che riabilitava il principio della solidarietà sociale.

Il neodarwinismo sociale è appena temperato dal conservatorismo compassionevole, che non assegna ai deboli alcun diritto, ma riconosce il loro essere bisognosi e promuove nei ricchi un orientamento gratuitamente filantropico. Al tempo stesso, sempre negli Usa, la polemica mai sopita delle sette cristiane fedeli alla lettera della Bibbia contro l'evoluzionismo dà luogo al rilancio del creazionismo in senso stretto e nella versione mistificata del Disegno Intelligente. Paradossalmente, i nuovi cristiani (come amano chiamarsi) sono quasi tutti favorevoli al modello neoliberista.

Come spiegare una contraddizione del genere? Preso atto dello stato preagonico del comunismo sovietico e poi della sua fine, la società statunitense, che si ritiene investita da Dio della missione di diffondere urbi et orbi i valori della dignità e della libertà dell'uomo, inteso come creatura divina, ha identificato in Darwin l'incarnazione del Male e nella sua filosofia materialistica e meccanicistica la matrice del nichilismo contemporaneo.

In breve, i cristiani statunitensi, religiosi e liberisti, sono giunti alla conclusione che il principio della selezione è valido a livello di dinamica sociale (pur dovendo essere temperato dalla compassione) ma non a livello naturale.

Con un qualche ritardo, l'antidarwinismo sbarca in Europa e rianima il conservatorismo della Chiesa che lo ingloba nella cornice di una rivendicazione del valore sacro della vita che troverebbe la sua espressione più pregnante nell'uomo.

La Chiesa ha le sue ragioni. Di fatto, per quanto ateo, il marxismo teorico riconosce l'uomo come fine ultimo e valore assoluto della storia. L'evoluzionismo darwiniano, viceversa, è l'attacco più virulento che sia stato sferrato contro la presunzione dell'uomo di essere una creatura straordinaria.

Le cose non stanno proprio così. Il darwinismo non toglie valore all'uomo; piuttosto gli pone sulle spalle la responsabilità di essere un animale del tutto particolare, in quanto la sua origine casuale si associa alla consapevolezza di esserci e di coesistere con i simili. Una sua interpretazione pedissequa può indurre a pensare che sulla base della lotta per l’esistenza non sia possibile edificare alcuna etica che vada al di là dell’individualismo competitivo. Ma questo non sembra vero perché trascura l’insistenza di Darwin nell’attribuire all’uomo un potente istinto sociale e una valenza empatica. Su queste attribuzioni alcuni studiosi ritengono possibile pervenire a conclusioni etiche.

L’etica evoluzionistica

Il compito in prima battuta è stato assunto dai filosofi. Sono stati pubblicati di recente due saggi: Un’etica senza Dio (Laterza, Bari 2007) di Eugenio Lecaldano e La morale della natura (Laterza, Bari 2008) di Simone Pollo.

Nel primo, Lecaldano scrive:

“E stato ampiamente spiegato dai filosofi e dagli scienziati naturalisti dal XVIII secolo in avanti […] che, nel momento in cui diveniamo consapevoli della nostra natura autonoma di esseri moralmente responsabili, questa consapevolezza si presenta come percezione della rilevanza delle sofferenze e dei dolori altrui e si trasforma in una istintiva partecipazione all'altrui sofferenza, da alleviare o eliminare. Questo processo naturale di formazione della soggettività morale non richiede alcun appello a un nostro posto speciale nel creato e non ha alcun bisogno di trovare conforto nel riconoscimento di una nostra comune natura di creature e di figli prediletti di Dio. E’ sufficiente il richiamo alla naturale simpatia (intesa qui in un senso minimale e quasi biologico) con le emozioni altrui: una simpatia che, secondo alcuni teorici dell'etica, pur muovendo in modo più immediato e diretto verso le persone che ci sono più familiari e in una più stretta relazione con noi, si allarga a tutto il genere umano e anche al di là della specie umana, fino alla partecipazione alle sofferenze degli animali.” (p. 36)

“Si radica in questa nostra inevitabile partecipazione alle emozioni degli altri quella dimensione dell'etica che viene caratterizzata come un senso di giustizia: così come sentiamo negativi e da evitare dolori e sofferenze e proviamo piacere nell'esserne alleviati, non diversamente - per equità ed uguaglianza - dobbiamo regolarci nei confronti dei dolori e delle sofferenze altrui, nei confronti dei quali non riusciremmo ad essere indifferenti, neanche volendolo. Quella parte dell'etica che viene abitualmente categorizzata con la nozione di giustizia non trova giustificazione nell'obbedienza a una legge di Dio, che vale per tutti gli esseri umani in quanto sue creature, bensì è il risultato della nostra istintiva partecipazione alle condizioni di coloro che riconosciamo come simili e che può estendersi - come molti, da Bentham a Singer, hanno sottolineato - anche agli animali capaci di provare piacere e dolore.

Un'etica senza Dio può proporsi come antidoto all'atrofizzazione dei nostri sentimenti morali, all'impossibilità di correggerli, allargarli e rivederli sulla base delle nostre esperienze particolari delle condizioni effettive dei nostri simili.” (p. 37)

L’empatia, che è il fondamento dell’etica laica, può essere ricondotta alla nascita stessa della specie umana in un’ottica darwiniana:

“La spiegazione evoluzionista rende conto […] dell'origine della morale, che sembra una peculiarità eccezionale della specie umana. Essa può essere spiegata naturalisticamente come un graduale stabilizzarsi nella cultura umana di comportamenti casuali e reiterati che, avendo prodotto conseguenze positive, si sono trasformati in regole favorevoli alla sopravvivenza della nostra specie nelle condizioni ambientali in cui si trova ad agire. Peter Singer, più volte e da ultimo nel suo libro Una sinistra darwiniana (2000), ha fatto il punto sulla possibilità di fornire una spiegazione evoluzionistica tanto di quelle condotte umane governate dalla logica dello scambio e dalle regole della reciprocità, quanto della tendenza ad approvare condotte di tipo altruistico e donativo. Ciò che, a nostro parere, non va perso di vista è l'emozione, il sentimento che accompagna le condotte che si conformano a regole morali e, in modo altrettanto significativo, il sentimento che si accompagna alle condotte che a queste regole non si conformano. Coloro che sono impegnati nel fornire una spiegazione epidemiologica dell'ampia diffusione tra gli esseri umani di regole morali che impediscono le condotte che provocano sofferenze agli altri hanno mostrato come tale spiegazione sia confortata proprio dal riferimento alla risonanza emotiva che si accompagna a tali regole e che le fa preferire rispetto ad altre.” (pp. 40-41)

Sulla stessa linea di Lecaldano si muove S. Pollo (La morale della natura, Laterza, Bari 2008), il quale ripete più o meno le stesse argomentazioni, ma aggiunge:

“[Un] fatto del quale un'etica darwiniana dovrebbe tenere positivamente conto riguarda l'importanza della nozione di «benessere» per il meccanismo dell'evoluzione biologica. Come lo stesso Darwin aveva chiaramente riconosciuto, la logica della selezione naturale è anche una logica del benessere . L'organismo che ha possibilità di successo nella competizione per la sopravvivenza è un individuo che sta bene, vale a dire che sfugge le sofferenze e «fiorisce». Questo fatto, anzitutto, dovrebbe avere come conseguenza l'affermazione della centralità del benessere per la stessa etica normativa, che dovrebbe vedere in questa nozione uno strumento concettuale importante per l'articolazione concreta della responsabilità morale. In secondo luogo, la rilevanza del benessere dovrebbe indurre legittimi sospetti verso tutte quelle etiche che identificano il valore morale con forme di rigorismo, rinuncia e sacrificio.”

Sul piano teorico, il pensiero degli autori è poco confutabile.

Se non si vuole però rimanere ad un livello accademico, ci si deve chiedere perché l’istinto sociale e la simpatia (empatia) non abbiano realizzato sinora il mondo cooperativo e solidale che ci si sarebbe potuti attendere.

Una prima risposta è che nell’uomo l’istinto sociale e la simpatia tendono a confinarsi all’interno del gruppo, e che essi stessi si traducono naturalmente in una percezione negativa dell’estraneo, non familiare e pertanto potenzialmente pericoloso.

La risposta è del tutto congruente con la teoria darwiniana. L’istinto sociale originariamente era funzionale alla coesione e alla solidarietà del gruppo e dei gruppi limitrofi, costretti ad imparentarsi scambiandosi le donne. La capacità dimostrata dagli esseri umani di adattarsi all’ambiente ha permesso, sia pure lentamente, la diffusione della specie sul pianeta, inducendo la differenziazione somatica, linguistica e culturale: in pratica, estraniando i gruppi tra loro.

Per quanto vero, questo però non basta a spiegare la storia travagliata dell’umanità. Occorre aggiungere almeno un altro fattore: l’etnocentrismo, vale a dire la tendenza intrinseca ad ogni gruppo di ritenere la propria cultura superiore a tutte le altre. L’etnocentrismo aggiunge alla paura dell’estraneo un certo disprezzo per i suoi costumi e i suoi comportamenti, ritenuti inferiori.

Da questo punto di vista, il problema non sembra quello di enfatizzare o negare l’istinto sociale e l’empatia depositate nel genoma umano quanto piuttosto di identificare e analizzare i fattori culturali che li potenziano o li depotenziano, sino all’anestetizzazione.

L’etica darwiniana può, insomma, assumere un pieno valore solo se inserita nella cornice più ampia di una panantropologia, vale a dire di una nuova disciplina che studia le interazioni tra biologia e cultura nello spazio e nel tempo.

Biologia e cultura

Il creazionismo comporta la presenza nell’uomo di un principio spirituale irriducibile alla materia. Costitutiva della nostra civiltà, le cui matrici originarie sono cristiane, la distinzione tra corpo e mente ha trovato, come noto, un radicale testimone in Cartesio, il cui pensiero ha influenzato la cultura moderna.

Il progresso delle scienze biologiche, umane e sociali ha posto i presupposti perché tale distinzione fosse messa in gioco e superata. Il superamento ha però prodotto la contrapposizione frontale tra innatisti o deterministi genetici e empiristi o deterministi ambientali (nature versus nurture), che ha assunto in alcuni periodi il tono di una guerra di religione.

Mentre negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso, soprattutto per influenza della cultura marxista, il determinismo ambientale è sembrato prevalere sino al punto di diventare egemone, a partire dagli anni ‘80, con i progressi della genetica e della neurobiologia, si è verificata una lenta ma massiccia inversione di tendenza la cui espressione estrema è stata la sociobiologia wilsoniana.

Di recente, la sterile opposizione è sfumata dando luogo a molteplici tentativi di trovare una mediazione scientificamente credibile. Non è paradossale che questo tentativo sia avvenuto più ad opera di genetisti che di umanisti. E’ più facile, evidentemente, oggi per chi ha una formazione scientifica aprirsi alla valutazione dell’incidenza della cultura sull’esperienza umana, individuale e collettiva, che non viceversa.

In un bel libro (Il gene agile, Adelphi, Milano 2005), Matt Ridley, sperimentatore e docente di genetica, tenta di operare tale mediazione. Egli scrive:

“Intendo dimostrare che la conoscenza del genoma ha effettivamente cambiato tutto. Non lo ha fatto mettendo definitivamente una pietra sopra le polemiche o conquistando la vittoria per l'uno o l'altro dei due schieramenti, ma arricchendo i termini della disputa su entrambi i fronti, fino a farli incontrare nel mezzo. La scoperta dei reali meccanismi grazie ai quali i geni influenzano il comportamento umano, e di come il comportamento umano influenzi a sua volta i geni, ci costringe a reimpostare il dibattito in chiave del tutto nuova. Non si tratta più di contrapporre eredità e ambiente - non più nature versus nurture -, ma di considerare invece come la prima si esprima attraverso il secondo: nature via nurture. I geni sono fatti per raccogliere i suggerimenti dell'ambiente. Per comprendere che cosa sia accaduto nell'arena del dibattito, dovremo […] entrare in un mondo nel quale i geni non sono burattinai che muovono i fili del nostro comportamento, ma piuttosto burattini alla mercé di quel comportamento; un mondo in cui l'istinto non è opposto all'apprendimento e a volte le influenze ambientali sono meno reversibili di quelle genetiche; ancora, un mondo dove la «natura» incontra l'ambiente, l'esperienza e la cultura.” (p. 17)

“Sono i geni che mettono la mente umana in condizioni di apprendere, ricordare, imitare, «imprintarsi», assorbire cultura ed esprimere istinti. I geni non sono burattinai - e nemmeno progetti. Né sono semplicemente i veicoli dell'informazione ereditaria. Essi sono attivi durante la vita; si attivano e disattivano reciprocamente; reagiscono all'ambiente. Possono dirigere la formazione del corpo in generale e del cervello in particolare già nel grembo materno; poi, però, in risposta all'esperienza, si accingono quasi immediatamente a smantellare e ricostruire quanto hanno appena edificato. I geni sono al tempo stesso causa e conseguenza delle nostre azioni. In qualche modo, coloro che nella controversia sono a favore dell'influenza dell'ambiente, si sono fatti scioccamente spaventare dal potere e dall'inevitabilità dei geni, lasciandosi sfuggire la cosa più importante, e cioè che anch'essi, i geni, sono schierati dalla loro parte.” (p. 21)

Non è un caso che Matt Ridley parte da Darwin e dalla rivoluzione che il suo pensiero ha prodotto, la cui espressione più avanzata non è la psicologia evoluzionistica ma la genetica comportamentale, vale a dire la disciplina che tenta di capire il ruolo dei geni nell’organizzazione del comportamento umano. Riguardo a questo, Ridley scrive:

“La principale conclusione della genetica comportamentale è estremamente inattesa: essa ci dice che la biologia ha un ruolo importante nel determinare la personalità, l'intelligenza e la salute - in altre parole, i geni contano. Non dice, invece, che essa esercita questo ruolo a spese dell'ambiente. Se non altro, dimostra in modo decisamente impressionante che l'ambiente conta quanto i geni, sebbene si riveli inevitabilmente meno incisiva nel discernere come...

Le due influenze non sono in competizione, non sono rivali; non c'è alcuna contrapposizione nature versus nurture.” (p. 147)

La conclusione è inconfutabile. Posto, però, che nel determinare i comportamenti umani contano sia i geni che l’ambiente, il problema sta nel capire quanto contano. A questo riguardo, per ora, si può fare riferimento solo agli studi sui gemelli monozigoti, i cui risultati vengono così sintetizzati:

“Nella società occidentale, quasi tutte le misure della personalità hanno dimostrato un'elevata ereditabilità: in altre parole, quando sono allevati separatamente, i gemelli monozigoti sono molto più simili dei gemelli dizigoti. La differenza fra un individuo e l'altro va dunque attribuita più alle differenze genetiche che a fattori riconducibili all'ambiente familiare.

Oggi gli psicologi definiscono la personalità servendosi di cinque dimensioni: i cosiddetti « cinque grandi fattori»: apertura mentale, coscienziosità, estroversione, amabilità e nevroticismo - in inglese openness, conscientiousness, extroversion, agreeableness e neuroticism, condensati nell'acronimo OCEAN. I questionari possono ricavare punteggi per ciascuna di tali dimensioni, che sembrano variare in modo indipendente. Un individuo può avere una mente aperta (O), essere pignolo (C), estroverso (E), invidioso (A) e tranquillo (N).

In ciascun caso, poco più del 40 per cento della variazione nella personalità è da ascriversi a fattori genetici diretti, meno del 10 per cento alle influenze ambientali condivise (principalmente alla famiglia) e circa il 25 per cento a influenze ambientali che rappresentano esperienze esclusive dell'individuo (comprendenti di tutto: dalle malattie e gli incidenti, alle compagnie frequentate a scuola). Il restante 25 per cento costituisce, semplicemente, l'errore di misura.

In un certo senso, questi studi sui gemelli hanno dimostrato che la parola «personalità» significa effettivamente qualcosa. Quando si descrive qualcuno dicendo che ha una certa personalità, si intende far riferimento a una particolare componente intrinseca della sua natura, che va oltre l'influenza delle altre persone - il contenuto del suo carattere, tanto per prendere a prestito un'espressione famosa. Per definizione, si intende qualcosa che è esclusiva di quell'individuo. D'altra parte, dopo un secolo di certezze freudiane, va contro alle normali aspettative scoprire quanto poco quel carattere intrinseco sia influenzato dalla famiglia in cui l'individuo è cresciuto." (p. 132)

E’ difficile accettare questa conclusione, ma per un motivo cui fa riferimento lo stesso Ridley accennando poco dopo al problema della variabilità genetica, che, come noto, ha assillato anche Darwin, e la cui entità oggi si pone come “uno scandalo”:

“Perché mai esiste una tale variazione genetica «normale» - o per chiamarlo col suo vero nome, un tale polimorfismo? Di certo le varianti genetiche «intelligenti» dovrebbero a poco a poco condurre all'estinzione quelle «stupide», e le varianti «flemmatiche» dovrebbero avere lo stesso effetto su quelle «eccitabili». E’ inevitabile che uno dei due tipi sia superiore all'altro in termini di sopravvivenza o successo riproduttivo. Il possesso di una delle due varianti, pertanto, dovrebbe conferire una maggior capacità di diventare un riproduttore fecondo. D'altra parte, non esiste alcuna prova del fatto che i geni si estinguano in questo modo. Nella popolazione umana, sembra esserci una sorta di felice coesistenza fra le diverse versioni dei geni.

In modo alquanto enigmatico, nella popolazione umana esiste una variazione maggiore di quella che la scienza avrebbe ragione di aspettarsi...

Esistono moltissime teorie per spiegare l'enigma, sebbene nessuna di esse sia del tutto soddisfacente. Forse, noi esseri umani abbiamo a tal punto smorzato la pressione della selezione naturale, resistendole con l'aiuto della tecnologia, che le nostre mutazioni hanno potuto proliferare. Ma allora perché quella stessa variazione è presente anche negli altri animali? Forse esiste una delicata forma di selezione equilibratrice che favorisce sempre le varianti rare dei geni, impedendone così l'estinzione.” (pp. 148-150)

La natura ama evidentemente la ridondanza, che presumibilmente è massima a livello umano. Se questo è vero, però, il problema del rapporto tra genetica e ambiente va posto in un altro modo. La genetica implica dei vincoli, che possono essere ricondotti alla norma di reazione propria di un determinato corredo genetico. La norma di reazione comporta, entro un determinato range, possibilità molteplici di fenotipizzazione. Se ammettiamo che nella fase evolutiva circostanze ambientali apparentemente minimali possano determinare grandi effetti sull’evoluzione della personalità, il problema è risolto. Il 10% di esperienze condivise e il 25% di esperienze esclusive dell’individuo bastano e avanzano a far capire l’influenza dell’ambiente che può orientare una personalità in una direzione piuttosto che in un’altra (tra quelle geneticamente possibili).

La risposta più semplice, peraltro in parte scientifica in parte filosofica, è che, a differenza di altri animali, il progetto-uomo è ancora del tutto aperto e forse non si può ricondurre all’ideologia adattamentista: essa comporta anche potenzialità cerebrali exattate (nel gergo di Gould) delle quali l’uomo sta ancora cercando di capire cosa fare.

E’ evidente che le interazioni tra biologia e cultura nello spazio e nel tempo si chiariranno all’interno di un nuovo modello panantropologico.

Su questa via procede da tempo Luigi Luca Cavalli-Sforza, uno dei genetisti di dichiarata fede darwiniana più famosi al mondo. Egli ha affidato di recente le sue riflessioni ad un agile e denso saggio (L’evoluzione della cultura, Codice edizioni, Torino 2008), nel quale tenta di stabilire una stretta analogia tra l’evoluzione genetica e quella culturale.

Riporto alcune citazioni che danno le coordinate di questa impresa:

“La genetica ha sviluppato la teoria dell'evoluzione biologica, ma tale teoria è del tutto generale e include anche quella dell'evoluzione culturale, perché vale per qualunque "organismo" capace di autoriproduzione...

Questo non vuole affatto dire che i geni controllino la cultura: la determinano solo nel senso che controllano gli organi che la rendono possibile e, in particolare, permettono il linguaggio, che è una caratteristica praticamente esclusiva degli uomini ed è la base necessaria per la comunicazione. Ma la cultura rimane profondamente separata e largamente indipendente dai geni: diviene addirittura capace di influenzare l'evoluzione genetica. Naturalmente, nell'estensione dalla biologia alla cultura, molte cose cambiano a cominciare dagli oggetti che evolvono: il DNA nella biologia, le idee nella cultura. Cambiano i nomi che diamo ai meccanismi evolutivi particolari, ma non cambiano i concetti teorici. Rimangono alcuni legami teorici sotterranei ma profondi e, fortunatamente, i termini scientifici di cui abbiamo bisogno sono pochi. Alcuni possono essere mantenuti invariati anche fra campi diversi come la biologia e la cultura perché sono estremamente simili.” (p. 7-8)

“L'evoluzione culturale, nel suo insieme, è determinata dalla somma delle innovazioni e delle scelte o, più esattamente, dall'accettazione o meno di queste innovazioni da parte della società e da quali innovazioni vengono accettate. Vi è quindi un cambiamento continuo che è sempre di natura statistica, dato che è molto improbabile che tutti accettino le stesse scelte. Alcune innovazioni sono più fortunate di altre. La storia della cultura è quindi la storia delle innovazioni: quali sono state proposte, quali hanno avuto fortuna e perché.

La motivazione che conduce a creare o accettare un'innovazione è più o meno sempre la stessa: si osserva un bisogno e si cerca di andargli incontro” (p. 11)

“L’evoluzione culturale è di tipo lamarckiano, a differenza di quella biologica, e in realtà Lamarck non distingueva fra eredità biologica e culturale quando parlava di "eredità dei caratteri acquisiti". In biologia i caratteri acquisiti durante la vita di un individuo non sono ereditati dai suoi figli. Probabilmente, Lamarck raggruppava con i tratti biologici anche tutti i caratteri di natura psicologica, alcuni - anzi molti dei quali possono essere trasmessi culturalmente e quindi mostrare un'eredità di tipo lamarckiano. Vi è un altro fatto che collega l'evoluzione culturale al modello di Lamarck: egli insisteva sulla "volontà di evolvere". La mutazione culturale, cioè l'invenzione, a differenza di quella biologica, non è un fenomeno indipendente dalla nostra volontà, non è un fenomeno che si possa considerare "casuale", ma ha quasi sempre lo scopo di risolvere un problema pratico particolare. Questa è una grossa differenza tra l'evoluzione culturale e quella genetica, in cui le mutazioni sono invece casuali e non dirette a risolvere i problemi del momento. Inoltre, la trasmissione culturale non è, come quella biologica, legata al passaggio da genitori a figli. Essa può essere infinitamente più rapida, quasi istantanea, specialmente oggi Viceversa, la trasmissione genetica è condizionata dal processo di riproduzione che richiede una generazione: 25-30 anni nel caso umano...

Quindi vi sono differenze fondamentali fra l'evoluzione biologica e quella culturale e i due meccanismi vanno tenuti perfettamente distinti. Tuttavia essi possono influenzarsi reciprocamente e, per questa ragione, si parla anche di coevoluzione biologico-culturale.” (p. 26)

“Mendel parlava di "elementi" per definire quelli che oggi chiamiamo geni. Quali sono gli "elementi" della cultura? Che cosa sono gli equivalenti del gene nella cultura o, più in generale, del DNA? Si tratta, chiaramente, delle idee che ci trasmettiamo l'un l'altro, che trasmettiamo ai nostri figli, agli amici e a tutti coloro che vengono a contatto con le nostre parole. Possiamo trasmettere le idee nella forma in cui sono state trasmesse a noi, oppure possiamo trasmettere idee modificate o idee nuove...

Quando ci viene proposta un'idea e noi la accettiamo o la rifiutiamo, è già avvenuta una trasmissione culturale. La prima fase, la mutazione, è la creazione di un'idea nuova. Possiamo chiamarla "innovazione" o "invenzione". Se non vengono create idee nuove, vi è anche un'altra possibilità di mutazione: la perdita di un'idea, di un costume...

Chi conosce una nuova idea, o un'idea comunque non nota ai potenziali allievi, può avere il desiderio di insegnarla; oppure, chi non la conosce può avere il desiderio di apprenderla. Questo è l'atto della trasmissione, che però può non funzionare se vi è il rifiuto o l'incapacità di apprendere. Si può anche dire che la trasmissione passa attraverso due fasi: la comunicazione di un'informazione, di un'idea, da un insegnante (transmitter) a un allievo (transmitter), e la comprensione e acquisizione dell'idea. Questo è l'atto di riproduzione dell'idea che avviene quando l'idea passa da un cervello all'altro. Dato che consideriamo tale atto analogo alla generazione di un figlio, possiamo parlare di autoriproduzionc delle idee. E chiaro che i meccanismi sono profondamente diversi, in biologia e nella cultura, ma il risultato essenziale è lo stesso...

Dato che il passaggio di un'idea da un cervello a un altro è certamente una forma di autoriproduzione, esso determinerà selezione, sia culturale sia naturale, qualora vi siano idee diverse in competizione.” (pp. 71-72)

“Si può dire che la cultura sia un meccanismo biologico, in quanto dipende da organi, come le mani per fare gli strumenti, la laringe per parlare, le orecchie per udire, il cervello per capire, ecc., che ci permettono di comunicare fra di noi, di inventare e di costruire nuove macchine capaci di esercitare funzioni utili e speciali, di fare tutto quel che è necessario, desiderato e possibile. Ma è un meccanismo dotato di grande flessibilità che ci permette di applicare qualunque idea utile ci venga in mente, e sviluppare soluzioni per i problemi che nascono di volta in volta.

Oltre a questa totipotenza, un'altra caratteristica della cultura è la sua capacità di diffondersi rapidamente a tutta la popolazione: un meccanismo di adattamento reso possibile da una o più innovazioni, se la diffusione non è ostacolata da barriere geografiche, economiche o sociali...

Dato che la comunicazione fra i membri di una società è molto importante, i comportamenti che rendono più coesa e più efficiente una società hanno una certa tendenza a diffondersi nel gruppo, rendendolo culturalmente piuttosto omogeneo. D'altra parte, il linguaggio evolve rapidamente e i gruppi che hanno una necessità limitata o nulla da comunicare fra loro hanno pochi scambi culturali; quindi il linguaggio di gruppi anche relativamente vicini può sviluppare rapidamente delle differenze. Bastano mille o millecinquecento anni perché due lingue separate perdano la comprensibilità reciproca...

La differenziazione linguistica tende a ridurre gli scambi culturali e ad aumentare le differenze culturali tra i gruppi. In pratica, possiamo attenderci che le differenze culturali fra etnie diverse siano grandi, e quelle entro una medesima etnia piccole: il contrario di quanto avviene per la variazione genetica, dove la differenza fra popolazioni è piccola rispetto a quella all'interno delle popolazioni...

Diversamente da quelle genetiche, molte differenze culturali possono aumentare rapidamente; tuttavia esse non possono aumentare liberamente entro una popolazione, perché l'alta intensità di scambi culturali all'interno del gruppo sociale richiede un'elevata somiglianza di comportamento individuale affinché i contatti sociali possano essere mantenuti. Al contrario, fra popolazioni che hanno poco scambio culturale le differenze culturali possono svilupparsi facilmente...

Il fatto che la cultura sia un meccanismo di adattamento è visibile anche nella tendenza di molti fenomeni culturali ad aumentare la forza dei vincoli sociali. Esiste anche, e viene spesso discussa, la possibilità che si sviluppi un adattamento genetico in questa direzione in molti fenomeni culturali tipici come la facilità dell'adesione a molteplici ritualizzazioni - un'ipotesi difficile da provare rigorosamente, ma verosimile se si pensa a una forma di predisposizione che sorge in certe condizioni e si sviluppa magari in periodi critici o sensibili.” (pp. 79-80)

“La trasmissione culturale può determinare cambiamenti molto rapidi, ma qualunque attività culturale può anche avere una permanenza elevata. Quindi l'evoluzione culturale può essere molto rapida ma anche molto lenta, a seconda dei caratteri considerati, e può avvenire a tutti i gradi intermedi di velocità, dalla massima permanenza alla massima rapidità di cambiamento.” (p. 99)

“II fatto che la corteccia cerebrale sia molto più sviluppata nell'uomo rispetto agli animali fa pensare che questi ultimi siano effettivamente meno razionali di noi e che questa sia una differenza importante. Ma gli studi di psicologia animale mostrano che gli animali si comportano in media piuttosto razionalmente ed è difficile pensare che tutto il loro comportamento sia dovuto sempre e solo ai loro geni. Molte delle loro azioni sono chiaramente razionali. Invece, abbiamo molte ragioni per pensare che, più spesso di quanto vogliamo riconoscere, le nostre azioni siano reazioni apparentemente irrazionali, cioè dettate da emozioni provocate da eventi esterni, cui si aggiungono pulsioni interne spontanee che occorre distinguere dalle emozioni. Le nostre emozioni e pulsioni sono irrazionali, ma solo nel senso che non sono di solito provocate da ragionamenti coscienti o, comunque, completamente controllati da noi. Esse si trovano all'interno della parte più profonda e antica del nostro cervello. Senza dubbio sono predisposte dai geni, ma non ci si può attendere che la loro programmazione sia perfetta e che non sia alterata dagli eventi della nostra vita, che inevitabilmente influenzano la nostra personalità. Possiamo considerare le emozioni e le pulsioni come irrazionali, anche se in realtà la parte genetica è stata costruita nel corso dell'evoluzione e quindi ha una sua razionalità dettata dalla selezione naturale. Ciò però non è sufficiente a garantire la miglior prestazione in ogni situazione e sarebbe sempre meglio poter lasciare alla parte razionale di noi il tempo e il modo di controllare quel che facciamo...

Un grande problema di natura più generale, comunque, è che sarebbe molto interessante (ma non veramente importante dal punto di vista pratico) sapere se e in che misura queste tendenze razionali e irrazionali di un individuo abbiano un'origine genetica o socioculturale.” (pp. 116-118)

“Se un certo grado di razionalità del comportamento è necessario come base della routine quotidiana e del mantenimento della vita sociale, spesso l'irrazionalità e, qualche volta, una certa casualità - magari semplicemente qualche mutazione biologica o culturale importante - hanno avuto una parte significativa nel determinare le grandi svolte, nel bene e nel male. Queste grandi svolte possono essere considerate responsabili degli "equilibri punteggiati", cioè dei cambiamenti evolutivi rapidi, e non lenti come si riteneva fosse la regola, che si estendono su un'area vasta in un tempo relativamente breve, ma lasciando una situazione radicalmente mutata. Essi avvengono sia nell'evoluzione culturale sia in quella biologica.” (p. 119)

Il parallelismo tra evoluzione genetica ed evoluzione culturale è molto suggestivo, tanto più perché l’autore rileva con nettezza anche le differenze che si danno tra di esse. Nonostante la suggestione, però, almeno per un aspetto appare criticabile.

Si tratta della riconduzione in toto della cultura alla produzione di innovazioni (o idee) che vengono poi socialmente selezionate a seconda che esse rispondano o meno a bisogni umani sociali. In riferimento alla tecnologia, che ha un peso rilevantissimo nell’evoluzione della specie umana, l’affermazione è fuori di dubbio. Si può ipotizzare che qualche innovazione locale sia andata perduta, ma di sicuro gran parte delle innovazioni tecnologiche sono state acquisite e si sono trasmesse e diffuse.

La cultura, però, comprende anche modi di sentire, opinioni, pregiudizi, moduli di comportamento, valori che si trasmettono attraverso modalità consce e inconsce di generazione in generazione. Gli esseri umani codificano la realtà e organizzano la società con modalità complesse, che solo di rado sono riconducibili a criteri funzionali o ragionevoli. C’è insomma una casualità e un’arbitrarietà intrinseca ad ogni cultura, di cui non si può non tenere conto.

La filosofia dell’evoluzionismo

Dobbiamo essere grati a Darwin di avere ricondotto l'uomo nella cornice della natura e di avere riconosciuto in esso il prodotto di un'evoluzione delle forme viventi che, per essere spiegato, non ha bisogno dell'intervento di forze o principi sovrannaturali.

Dobbiamo anche essergli grati di avere validamente sottolineato la potenza dell'istinto sociale, che l'uomo ha ereditato dagli animali, e di avere identificato in esso la matrice dell'entrata in azione delle potenzialità cognitive intrinseche ad una struttura cerebrale complessa.

Con tutti i limiti legati alla funzione di un organo prodotto casualmente dalla selezione naturale, Darwin crede profondamente che l’uomo, in virtù della cultura, possa organizzare un mondo nel quale la competizione per sopravvivere ed affermare i bisogni individuali sia temperata dal riconoscimento della coscienza di specie e dalla solidarietà.

Il liberalesimo e il moderatismo di Darwin hanno in una certa misura temperato l’impatto filosofico della teoria evoluzionistica, che non va ricondotto solo alla critica in essa implicita all’antropocentrismo, la cui conseguenza è che l’uomo appartiene a pieno titolo alla natura e al mondo della vita, ma soprattutto al suo togliere ogni senso oggettivo, che trascenda la sopravvivenza, all’esperienza umana.

Gettato dal caso in un angolo remoto dell’Universo, costretto a competere con le altre specie e ad esplorare nuovi ambienti distanti tra loro, con la conseguenza di creare culture diverse che, in virtù della barriera linguistica, hanno progressivamente indotto a rimuovere la coscienza di specie, animato da un bisogno inesauribile di felicità la cui realizzazione è promossa e sottesa dall’ansia esistenziale, l’uomo darwiniano appare, un essere esistenzialmente e culturalmente, al tempo stesso, miserabile e sublime.

Questa visione, implicita nell’originaria teoria, si è in una certa misura accentuata via via che è risultato chiaro che sia la comparsa dell'uomo sia le vicissitudini cui è andata incontro la specie umana non possono essere fatti rientrare del tutto nella cornice del darwinismo e del neodarwinismo.

Casuale, in quanto riconducibile a mutazioni che rimangono ignote ma che di sicuro vanno ricondotte ad una modificazione dei geni regolatori che hanno rallentato il processo dello sviluppo, ritardandolo in maniera netta, la comparsa dell'uomo va considerata. per dirla con le parole di Gould, un glorioso accidente della storia. Se si considera poi che tale accidente, dovuto ad una serie indefinita di fattori congiunturali, va ricondotto in larga misura ad un ritardo dello sviluppo, cioè letteralmente ad un tornare dietro dell’evoluzione, la circostanza appare ancora più singolare.

La scoperta e la valorizzazione della neotenia si deve ad un anatomista – L. Bolk – che la espone in una conferenza nel 1926 (Il problema dell’ominazione, Deriva Approdi, Roma 2006). Con argomentazioni piuttosto complesse, Bolk giunge alla conclusione che la teoria darwiniana è insufficiente: essa, infatti, spiegherebbe l’adattamento dell’uomo all’ambiente, ma non l’adattamento dell’ambiente ai bisogni umani, vale a dire la sua trasformazione culturale.

A distanza di pochi anni, un altro studioso – A. Gehlen – riprende, senza citare l’autore, le intuizioni di Bolk e le integra in un quadro più compiuto, il quale sottolinea, con la neotenia, la sprovvedutezza e la carenza costitutiva della specie umana. La sprovvedutezza è dovuta all’allentamento dei meccanismi istintivi di regolazione del comportamento. La carenza, invece, fa capo alla perdita di strumenti protettivi e difensivi (la pelliccia, gli artigli, le zanne, ecc.).

Nell’ottica di Gehlen, la necessità di produrre cultura non è un optional, bensì una necessità da cui dipende la sopravvivenza della specie.

La cultura si può considerare un formidabile strumento adattivo nella misura in cui essa trasforma l'ambiente rendendolo adeguato ai bisogni umani. Il ritmo di sviluppo della cultura è indefinitamente più rapido rispetto alla genetica. Eccezion fatta per i primi cinquantamila anni dalla nascita dell'uomo, caratterizzati da un sorprendente ristagno culturale in rapporto ad un cervello già pronto per il “grande balzo”, dalla rivoluzione paleolitica in poi il progresso culturale ha avuto uno sviluppo esponenziale.

Ciò è dovuto al fatto che, mentre i geni si replicano di generazione in generazione, gli “oggetti” culturali – le idee, le scoperte, i prodotti dell'ingegno, i “valori”, ecc. - si trasmettono epidemicamente tra le popolazioni.

Se l'uomo è nato dal caso, in virtù di un'accelerazione contingente legata presumibilmente ad alcune variazioni genetiche che hanno modificato i geni che regolano il tasso di crescita del cervello, c'è da chiedersi come interpretare la cultura e la storia che essa contrassegna.

La cultura esprime la natura umana, le straordinarie potenzialità del cervello, e mira a promuovere un adattamento sempre maggiore dell'uomo al mondo. Ma essa procede sulla base del caso o permette di intravedere qualche obiettivo significativo? Qual è, insomma, l'adattamento migliore per la specie umana? Che cosa significa un mondo fatto a misura dell'uomo?

Darwin non avrebbe saputo rispondere ad una domanda del genere. Molti evoluzionisti di solida fede – da Dobzhansky a Luigi Luca Cavalli Sforza – hanno tentato di rispondere sottolineando, in un'ottica naturalistica, il “miracolo” dell'uomo proiettato, come afferma Telmo Piovani, “su uno stretto sentiero evolutivo in bilico fra gli splendori della creatività e l’abisso dell’autodistruzione.”

E’ stato S. J. Gould a impostare il problema della filosofia dell’evoluzionismo nel modo migliore. In una delle innumerevoli raccolte di saggi (Quando i cavalli avevano le dita) egli scrive:

“I biologi presentano i loro sistemi o come verità necessarie di logica superiore o come conclusioni ineluttabili tratte dai poteri ineguagliati dell'osservazione: in altri termini, come presentazioni obiettive della natura, non valutata finora in modo appropriato. In realtà questi sistemi hanno in comune una sola proprietà, la quale non è né l'obiettività né una sapienza superiore. Essi sono, fondamentalmente, tentativi di dare una risposta a una domanda centrale (forse la domanda centrale) della storia intellettuale: qual è il ruolo e lo status della nostra specie, Homo sapiens, in natura e nel cosmo?

I sistemi, nel loro tentativo di dare un senso al "posto dell'uomo in natura," per usare l'espressione di Thomas H. Huxley, seguono una delle due strategie seguenti. Una strategia, che ho designato come strategia della palizzata (picket fence) escogita un ordine che pervade l'intera natura tranne l'uomo, che sarebbe contraddistinto da un marchio intrinseco di superiorità. Così, Charles Lyell considerò un mondo in continua agitazione e in continuo mutamento, ma che rimaneva sempre sostanzialmente lo stesso: sostituzione senza miglioramento. Soltanto l'uomo, un'imposizione recente di perfezione morale su un mondo stabile, veniva a interrompere il modello del mutamento senza progresso. A. Wallace attribuì tutti i caratteri degli organismi al potere plasmante della selezione naturale, escludendone però un solo prodotto dell'ispirazione divina: il cervello umano.

La seconda strategia adotta una tattica opposta nel perseguimento dello stesso fine: una collocazione all'interno della natura che dia un qualche senso alla nostra vita. Questa strategia sostiene che non c'è alcuna separazione fra l'uomo e la natura. Queste teorie della continuità possono procedere nell'una o nell'altra direzione, e io esaminerò un esempio recente di ciascuna di esse come rappresentativo di una lunga tradizione di argomentazioni non ineccepibili.

La prima opinione - che chiamerò zoocentrica - costruisce principi generali a partire dal comportamento di altri animali e poi sussume completamente in questa categoria anche gli esseri umani, giacché anche noi, dopo tutto e innegabilmente, siamo animali. La seconda opinione - che chiamerò antropocentrica - cerca di sussumere la natura in noi, considerando le nostre peculiarità come il fine della vita sin dal principio.

La teoria evoluzionistica stessa ha un nucleo appropriatamente zoocentrico. Dal comportamento di una singola specie non possono sorgere principi generali, eppure tutte le specie devono conformarsi ai principi. II ruolo di questo moderato zoocentrismo nello spezzare le robuste palizzate che esistevano prima del tempo di Darwin può essere considerato un grande evento nella storia del pensiero umano. Può accadere però che la visione zoocentrica venga spinta troppo avanti sino a farne una caricatura, chiamata spesso la fallacia del "nient'altro che" (gli esseri umani non sono «nient'altro che" animali).

Le spiegazioni semplicistiche della sociobiologia umana che inondano oggi la letteratura popolare includono questa versione iperestesa dello zoocentrismo. La sociobiologia non è solo l'affermazione che la biologia, la genetica e la teoria dell'evoluzione hanno qualcosa a che fare col comportamento umano. La sociobiologia è una teoria specifica sulla natura degli apportidella genetica e dell'evoluzione al comportamento umano. Essa si fonda sull'opinione che la selezione naturale è un architetto virtualmente onnipotente, che costruisce organismi parte dopo parte come le soluzioni migliori a problemi della vita in ambienti locali. Essa frammenta gli organismi in "tratti," ne spiega l'esistenza come insiemi di soluzioni ottimali e sostiene che ogni carattere è un prodotto della selezione naturale operante "a favore" della forma o comportamento in questione. Applicata agli esseri umani, deve considerare comportamenti specifici (e non solo potenziali generali di comportamento) come adattamenti costruiti dalla selezione naturale e radicati in determinanti genetici, poiché la selezione naturale è una teoria del mutamento genetico. Così ci troviamo di fronte a speculazioni indimostrate e indimostrabili sulla base adattiva e genetica di comportamenti umani specifici: perché alcune persone (o tutte) sono aggressive, xenofobe, religiose, avide o omosessuali?

Lo zoocentrismo è la fallacia primaria della sociobiologia umana, poiché questa concezione del comportamento umano si fonda sul ragionamento che se le azioni di animali "inferiori" con sistema nervoso semplice sorgono come prodotti genetici della selezione naturale, allora anche il comportamento umano dovrebbe avere una base simile. Anche gli esseri umani sono animali, no? Sì, ma con una differenza. E tale differenza ha origine, in parte, come risultato di una flessibilità enorme, fondata sulla complessità di un cervello di dimensioni molto superiori e della base, potenzialmente culturale e non genetica, di comportamenti adattivi: aspetti che proibiscono di estrapolare dalle cause dell'uso di alcuni insetti di mangiarsi il loro partner alle cause dell'omicidio in famiglie umane.

Per una strana ironia, lo zoocentrismo della sociobiologia umana è spesso un'illusione che cela un modo di ragionare esattamente opposto. Io ho sostenuto in passato che i sistemi "obiettivi" sono spesso finzioni inconsce che riflettono i nostri pregiudizi e le speranze che riponiamo sulla natura. Gran parte della sociobiologia umana si fonda sull'idea che, se è possibile trovare comportamenti tipicamente umani, anche se in forma rudimentale, fra gli animali "inferiori," questi comportamenti devono essere "naturali" anche nell'uomo, un prodotto dell'evoluzione biologica. Spesso i sociobiologi si lasciano ingannare da una somiglianza esterna e superficiale sviante fra comportamenti presenti in esseri umani e in altri animali...

E una storia vecchia. Noi vogliamo rispecchiare la natura e nello specchio vediamo noi stessi e i nostri pregiudizi...

I sistemi zoocentrici falliscono primariamente perché non sono mai quel che pretendono di essere. Il comportamento animale "obiettivo," sotto cui essi sussumono atti umani, è sin dal principio un'imposizione di preferenze umane.

I sistemi antropocentrici più venerabili hanno almeno la virtù di riconoscersi tali esplicitamente. Essi prendono sul serio Protagora quando dice che "l'uomo è la misura di tutte le cose" e peccano solo nella loro hybris di sostenere che l'evoluzione intraprese la sua complessa fatica iniziata circa tre miliardi e mezzo di anni fa solo per generare quel ramoscello che noi chiamiamo Homo sapiens. I sistemi antropocentrici sono stati fuori moda fra gli scienziati, almeno in Inghilterra e in America, dal tempo di Darwin, ma una nuova versione godette di una popolarità spettacolare alcuni anni fa: mi riferisco al sistema del padre gesuita ed esimio paleontologo Pierre Teilhard de Chardin...

Nella visione antropocentrica la vita ha senso solo in funzione del suo tendere verso l'uomo. Noi siamo inestricabilmente parte della natura perché la natura si è protesa verso di noi, desiderandoci intensamente, sin dal principio. In un manoscritto del 1952 sulla socializzazione umana, Teilhard affermò: “L'evoluzione umana non è altro che la prosecuzione naturale, a un livello collettivo, del processo perenne e cumulativo di quell'ordinamento "psicogenetico" della materia che chiamiamo vita...”

L'intera storia dell'umanità non è stata altro (e quindi non sarà mai altro) che una esplosione sempre crescente di cerebrazione... La vita, se viene intesa appieno, non è una bizzarria nell'universo, né l'uomo è una bizzarria nella vita. Al contrario, la vita culmina fisicamente nell'uomo, esattamente come l'energia culmina fisicamente nella vita.

Poiché l'evoluzione segue una via diretta, l'albero della vita non è una rete che si ramifica a caso, ma un fascio di rami, connessi fra loro dalla genealogia alla loro base, che divergono nel corso della loro storia, muovendosi però sempre nella medesima direzione fondamentale. L'energia della materia impone la divergenza; la forza della coscienza crescente impone un comune progresso verso l'alto. Le specie affini dovrebbero formare una serie di linee genealogiche multiple, parallele, ciascuna divergente e adattata a un ambiente locale, ma con un rapporto spirito/materia sempre crescente. Teilhard scrisse nel 1922 che "l'evoluzione.., si risolve in innumerevoli linee che divergono con tanta lentezza da apparire parallele."

Con la comparsa dell'uomo, l'evoluzione ha raggiunto il suo periodo cruciale. Lo spirito si è accumulato in misura tale da raggiungere infine l'autocoscienza. Un nuovo strato è apparso in effetti nella struttura concentrica della Terra. Teilhard elogiò il grande geologo austriaco Eduard Suess per avere introdotto il termine "biosfera" come aggiunta agli strati concentrici tradizionali della litosfera e dell'atmosfera. Ma la coscienza, aggiunse Teilhard, ha aggiunto un altro strato ancora: "la superficie umana psichicamente riflessiva.., la noosfera.” (pp. 243-250)

C’è una possibilità di sfuggire allo zoocentrismo e all’antropocentrsmo costruendo, nella cornice dell’evoluzionismo, una visione dell’uomo che riconosca al tempo stesso che egli è un essere naturale, ma con caratteristiche del tutto particolari, in termini sia positivi che negativi, e tenti in qualche modo di spiegarli?

Nel libro citato, Gould, affrontando il problema del posto dell'uomo nella natura, ha scritto queste illuminanti parole:

"Forse il problema in tutte queste visioni - zoocentriche oltre che antropocentriche - sta nella nostra inclinazione a costruire innanzitutto sistemi generali che abbraccino tutto. Ma può darsi che tali sistemi non funzionino. Può darsi che vengano sconfitti inevitabilmente dall'intrinseca complessità e ambiguità del nostro posto nella natura. Come possiamo erigere una palizzata che ci separi da tutti gli altri esseri viventi, quando siamo così strettamente legati alla natura? Ma come possiamo optare per una continuità completa, o partendo dagli altri animali per salire verso l'alto (zoocentrismo) o discendendo dall'uomo verso gli altri animali (antropocentrismo) se gli esseri umani sono così speciali, nel bene o nel male?

Noi non siamo altro che un minuscolo ramoscello su un albero che comprende almeno un milione di specie di animali, ma la nostra grande invenzione evolutiva, la coscienza - un prodotto naturale dell'evoluzione integrato con una struttura corporea che non presenta alcun pregio particolare - ha trasformato la superficie del nostro pianeta. Osserviamo il paesaggio dal finestrino di un aereo. C'è qualcun'altra specie che abbia lasciato un così gran numero di segni visibili della sua inflessibile presenza? “Noi viviamo in una tensione essenziale e irresolubile fra la nostra unità con la natura e la nostra pericolosa unicità...

I sistemi che hanno tentato di assegnarci un posto nella natura e di dare un senso alla nostra esistenza concentrandosi esclusivamente o sull'unicità o sull'unità sono condannati all'insuccesso. Ma noi non dobbiamo smettere di chiedere e di cercare solo per il fatto che le risposte sono complesse e ambigue. Noi non possiamo far niente di meglio che seguire il consiglio di Linneo, incarnato nella sua descrizione dell'Homo sapiens all'interno del suo sistema. Egli descrisse altre specie fondandosi sul numero delle dita, sulla mole corporea e sul colore. Per noi, in luogo dell'anatomia, scrisse semplicemente il precetto socratico: "Nosce te ipsum" (conosci te stesso)." (op. cit., p. 252)

Si tratta, indubbiamente di indicazioni suggestive, ma del tutto insufficienti.

E’ a Telmo Pievani e al suo collega paleantropologo Ian Tattersal che si devono i due saggi più recenti (rispettivamente Homo sapiens e altre catastrofi e Il cammino dell’uomo) che tentano di ricavare dal darwinismo, dal neodarwinismo e soprattutto dal postdarwinismo (la teoria degli equilibri punteggiati) le estreme conseguenze filosofiche.

Pievani muove dal contestare la mitologia “eroica” intrinseca ad alcune correnti del neodarwinismo, che illustra in questi termini:

“La sceneggiatura, accademica e popolare, riguardo alle origini dell'umanità divenne quella di una progressiva conquista della perfezione, con la frontiera del progresso umano che avanza verso l'intelligenza e la coscienza affrancandosi dalla condizione animale: una marcia a tappe serrate, dettata dall'espansione continua delle capacità cerebrali, letta sempre attraverso lo sguardo del vincitore, cioè della sola specie sopravvissuta al filtro della selezione naturale.” (p. 43)

Come ormai noto, questa “sceneggiatura” si è arenata contro l’insolubilità del problema degli anelli mancanti e la scoperta che l’evoluzione degli ominidi non è avvenuta in maniera lineare e scalare bensì in virtù di una proliferazione di diverse specie umane, alcune delle quali sono convissute per lunghi periodi tra loro.

La soluzione del problema è avvenuta con l’elaborazione della teoria degli equilibri punteggiati, che non solo, però, ha accentuato il carattere casualistico, contingente e imprevedibile dell’evoluzione della vita, ma ha addirittura assunto la comparsa della specie umana e infine l’essere essa rimasta unica sul pianeta “come il risultato polimorfo e imprevedibile di percorsi contingenti, di adattamenti secondari e subottimali, di bricolage imprevedibili.” (p. 73) L’uomo, insomma, è null’altro che un glorioso accidente della storia, caratterizzato peraltro, in conseguenza del cervello di cui dispone, di potenzialità funzionali indefinitamente ridondanti che lo rendono un essere creativo, ma anche contraddittorio e costretto ad adottare meccanismi di mistificazione di ogni genere.

In conseguenza delle sue capacità culturali, la specie umana ha poi “colonizzato” il mondo. Nell’ottica di Pievani, questa planetarizzazione ha seguito, mutatis mutandis, le stesse leggi dell’evoluzione naturale:

“La diversità è frutto di storie uniche e contingenti, non espressione di essenze di qualsiasi natura o di evoluzioni necessarie. Questa unicità è frutto di una coevoluzione ogni volta differente fra le popolazioni e gli ambienti naturali, in altri termini di un'evoluzione ambientale delle società umane in cui hanno agito agenti prossimi e cause via via più remote. Questa storia planetaria appartiene alla stessa scienza dell'evoluzione umana che tenta di spiegare l'emergenza e il succedersi delle diverse forme ominidi: non vi è soluzione di continuità. E’ lo stesso, ininterrotto racconto di barriere ecologiche, di migrazioni e colonizzazioni, di dinamiche popolazionali, di difformità geografiche, di coevoluzione fra piante e animali, di modificazioni del clima e degli ecosistemi.

Il messaggio derivante da questa ricostruzione inedita della storia naturale dell'umanità è duplice. La nascita africana recente di Homo sapiens, conseguenza di una speciazione allopatrica in un contesto di instabilità ecologica, svuota di contenuto il concetto di razza umana e mostra come l'uguaglianza biologica e genetica di tutti i popoli della Terra sia un evento contingente e irreversibile. Dentro questa matrice evolutiva comune, l'uomo anatomicamente moderno ha sviluppato un tessuto di diversità etniche e culturali che deriva da una storia intricata di derive, migrazioni, colonizzazioni e ibridazioni anch'esse immerse in un crogiolo ecologico instabile e contingente. Tali diversità si sommano all'infinita gamma delle differenze individuali potenziali presenti all'interno di ogni gruppo umano, anch'esse figlie della contingenza dei processi di sviluppo e carburante indispensabile, come intuì Charles Darwin, per qualsiasi cambiamento evolutivo. Dunque, sia l'uguaglianza umana sia le disuguaglianze e le differenze umane sono fatti contingenti della storia.

La matrice evolutiva dell'uguaglianza umana ci permette di apprezzarne l'unicità e l'incommensurabile valore etico che ne deriva: su di essa potremo sempre fondare la difesa dei diritti fondamentali di libertà e di dignità che spettano a ogni essere umano in quanto appartenente alla stessa specie, diritti oggi dolorosamente negati e calpestati in molte regioni del pianeta. Inoltre, è solo grazie a questa inusuale e preziosa unità di specie che possiamo cogliere appieno la ricchezza delle sue affascinanti diversità culturali ed etniche (Gould 1998).” (pp. 216-217)

Affascinanti, ma anche indefinitamente inquietanti:

“La durata media della sopravvivenza di una specie animale sulla Terra si aggira intorno ai quattro milioni di anni. Homo sapiens ne ha compiuti 150.000. Quindi abbiamo trascorso meno del 4% dell'esistenza media che la natura concede a specie come la nostra. Se la vita di una specie fosse come la vita di un essere umano, noi avremmo da poco compiuto il nostro terzo anno d'età. Agli occhi della biosfera Homo sapiens è quindi una specie bambina che ha cominciato appena a balbettare qualche parola ma che già procura danni irreparabili: un autentico monello. Saremo così previdenti da raggiungere l'età adulta?

Questa specie bambina si è rivelata prodigiosa nel conquistare gli spazi terrestri. Li ha sottomessi in una manciata di millenni. Da alcuni anni ha raggiunto anche l'orbita della Terra, fotografando il globo dall'esterno. Alcuni suoi fortunati e coraggiosi esponenti hanno raggiunto il nostro unico satellite e hanno visto sorgere l'alba della Terra all'orizzonte lunare. La specie bambina ha già fatto esperienza della propria compiutezza territoriale, del proprio limite per ora invalicabile, del proprio isolamento cosmico. Ha lanciato Pioneer 10 ai confini del sistema solare. Ha deciso di costruire una stazione orbitante, abitata in modo permanente. Sta preparando la prima missione umana su Marte, il pianeta fratello lontano sei mesi di navigazione cosmica. Tuttavia, la Terra rimane la sola oasi di vita che sappiamo abitare. Per ora non c'è un pianeta di ricambio.

Mentre lo spazio esplorabile si esaurisce e il nostro habitat coincide con l'intero pianeta, il tempo profondo della storia naturale della specie umana rivela la natura fragile e preziosa della sua permanenza. Non ci siamo scelti un pianeta stabile e questo forse, come aveva intuito James Lovelock, è proprio il segreto della vita. Deriviamo da una serie di pulsazioni della biosfera che hanno sconvolto gli equilibri ecosistemici in più occasioni. Per di più, la funzione delle estinzioni di massa non è stata quella di eliminare i meno adatti, ma quella di regolare lo spazio disponibile per nuove speciazioni impedendo la saturazione degli ecosistemi. A seguito di tali ristrutturazioni radicali del biota terrestre, nuove proliferazioni di forme viventi hanno ripopolato tutte le nicchie ecologiche.

La natura ha un suo respiro millenario. Nello spazio ecologico lasciato libero dall'estinzione la vita sperimenta nuove strade, produce miriadi di specie dalla vita inizialmente breve e riaccende i motori della coevoluzione fra le popolazioni di organismi e gli habitat. Questa fase di instabilità e di proliferazione si esaurisce quando gli ecosistemi raggiungono equilibri accettabili.

Allora il numero di specie rimane standard, mentre le estinzioni di sfondo e la selezione naturale fanno il loro corso normale. Ma l'armonia e un privilegio che non regge in natura: ben presto imminenti perturbazioni appariranno minacciose all'orizzonte, aprendo nuovi campi di possibilità.” (pp. 343-344)

In questo quadro di ordine generale, l’uomo ha svolto e svolge un ruolo particolare

“Grazie a Homo sapiens anche l'evoluzione ha avuto un'evoluzione. La nostra specie è andata in fuga, per i sentieri accelerati della trasmissione culturale e del progresso tecnologico. Sta bruciando le tappe verso una meta ignota. L'evoluzione biologica ha trasceso se stessa, permettendo a una sola specie di modificare la propria identità biologica, di fare ingegneria con i codici genetici proprio e di altre specie, di sfruttare e manipolare la natura nel tentativo disperato di fare convivere in un ecosistema finito una popolazione in crescita indefinita. Quali saranno le condizioni sociali, igieniche ed economiche dell'umanità quando saremo dieci miliardi?

Come abbiamo già accennato, alcuni scienziati si sono chiesti se non vi sia una sorta di "necessità evoluzionistica" autolesionista, una sorta di parabola a boomerang, in questo abbandono degli ormeggi naturali (Wills 1998). L'evoluzione biologica produce complessità, la complessità produce l'intelligenza autocosciente e libera, questa intelligenza trascende l'evoluzione biologica e mette a repentaglio la sopravvivenza di sé e della natura (Wilson 1992). Sarebbe dunque insita nel processo evoluzionistico una torsione potenzialmente suicida, un avvitamento su di sé che blocca prima o poi l'esperimento di coscienza superiore, indipendentemente dalla specie in cui esso si realizza? Si tratterebbe, in tal caso, di una forma di "principio antropico" alla rovescia applicato alla vita sulla Terra...” (pp. 360-362)

Un principio negantropico, dunque, secondo il quale “l'evoluzione culturale e tecnologica di una specie come Homo sapiens sarebbe per definizione insostenibile rispetto agli equilibri sedimentati nel tempo profondo dell'evoluzione biologica. L'intelligenza acquisita dal nostro eroe nella sua marcia trionfale di progresso sarebbe allora un regalo avvelenato, un dono perfido della sorte, il mezzo attraverso il quale l'evoluzione, come gli dei cannibali delle cosmogonie arcaiche, divora i suoi figli prediletti.” (p. 363)

“Secondo questa ipotesi suggestiva (ma non priva di difetti deterministici) principio antropico e principio negantropico sarebbero in un certo senso due direttrici tragicamente complementari: l'universo presenta sì le caratteristiche uniche per la nostra emergenza e per il nostro successo, ma esattamente nello stesso modo in cui "ha previsto" la nostra nascita, al fine di essere studiato e osservato da un essere cosciente, esso prevederebbe anche la nostra autodissoluzione, il nostro annientamento per ipertrofia tecnologica...” (p. 363)

Cosa opporre a questa previsione catastrofica?

“La speranza di smentire lo scenario "negantropico" risiede nella comprensione dello stretto passaggio fra sviluppo e autodistruzione, con un occhio sempre molto attento alla lunga storia naturale della nostra specie: noi siamo solo la preistoria di infinite altre storie e i nostri successori fra diecimila anni vedranno la nostra epoca come uno sbiadito preambolo di altri eventi, di altri sconvolgimenti. Imbricate forse in una grande rete cognitiva globale, le loro menti penseranno di aver raggiunto un progresso incommensurabile nel comportamento e nella morale. Ma anche questa sarà una metafora rischiosa, una metafora sempre più pericolosa.

Il progresso contiene i semi della propria estinzione, perché produce generazioni di esseri umani sempre meno capaci di coesistere con la propria potenza. Il suo paradosso consiste nel fatto che più esso avanza più questi germi diventano prolifici: la forbice si allarga. Il progresso non ha dunque bisogno di "freni" quantitativi o di Cassandre inascoltate, ha bisogno di antidoti culturali che ne colgano le ambiguità radicali. La storia naturale di Homo sapiens, nelle sue evidenze squisitamente amorali e "negantropiche" (e proprio per questo genuinamente umanistiche), potrebbe insegnarci non a vivere meglio, né a vivere una volta per tutte in modo arcaico in mezzo a valli incontaminate, ma a prolungare il più possibile questa nostra permanenza insostenibile sul pianeta.

La cornice temporale dei milioni di anni, che ci ha accompagnato fin dall'inizio di questo libro, porta con sé una rivoluzione concettuale tanto semplice quanto profonda riguardo alla nostra coscienza di specie: per gran parte della storia naturale della Terra noi non c'eravamo; se le cose fossero andate in modo leggermente diverso noi oggi non ci saremmo, e, come ogni altra specie, verrà il giorno in cui comunque non ci saremo più.” (pp. 360-364)

Diversa solo per alcuni aspetti è l’impostazione di Tattersal, che sembra più sensibile di Pievani alla contraddittoria complessità dell’Uomo. Egli parte dal fatto che la condizione umana è molto più difficile da definire rispetto alle altre specie:

“La condizione di una specie deriva dalle sue capacità, e per diversi secoli gli interrogativi su quella umana hanno alimentato il dibattito di filosofi e teologi. C'è una certa ironia nel fatto pur inevitabile che proprio la specie che apparentemente ama arrovellarsi sulla propria condizione sia in realtà l'unica a esserne priva. Ma anche nell'eventualità in cui questa esistesse, sarebbe estremamente difficile da definire. Di qualunque condizione si tratti, è certamente più facile descriverla nel caso di un'ameba, di una lucertola, di un toporagno o addirittura di uno scimpanzé. Quest'ultimo è senza dubbio una creatura complessa, ma la gamma di possibilità che ha a disposizione è enormemente più limitata del ventaglio di opzioni con le quali un singolo Homo sapiens deve confrontarsi. Naturalmente noi dobbiamo misurarci anche con molte delle stesse realtà fondamentali con le quali hanno a che fare gli scimpanzé, e nessuna di queste va ignorata nei tentativi di definire la nostra condizione. Ma non c'è nulla di specificamente umano nei problemi che condividiamo con gli scimpanzé: ciò che ci rende differenti sono la nostra consapevolezza e il modo che abbiamo di affrontare le realtà della vita. Inoltre, per quanto stimiamo le nostre capacità di ragionamento, non è certo il libero esercizio della razionalità a caratterizzarci in questi frangenti. Dopotutto, la storia del genere umano è disseminata di buone occasioni sprecate, e continuerà a esserlo anche in futuro. No, la questione è molto più complessa.

Per l'uomo la vita non è soltanto un fatto economico: essa è sommersa da complessità sociali e simboliche di ogni tipo, e ci siamo inventati letteralmente migliaia di modi per crearle e per affrontarle. Ciascuna società ha elaborato metodi propri per far fronte non solo ai bisogni economici e sociali, ma anche alla consapevolezza della mortalità degli individui che la compongono. Inoltre, per quanto la relatività dei costumi possa turbarci, nessuna società è intrinsecamente migliore o peggiore delle altre secondo un principio morale universale. Non possiamo derivare alcun concetto di moralità (che è una costruzione sociale) o di “legge naturale” (che è una costruzione intellettuale) dalla contemplazione della natura o di qualunque altra entità materiale situata al di fuori di noi in quanto gruppo, poiché la natura non si cura delle sofferenze o dei successi dei singoli individui. Definire amorale tale indifferenza significherebbe solo “antropomorfizzare”. Quindi, per esempio, nonostante io sia fermamente convinto che qualunque sistema morale risulti profondamente incrinato se non assume che l'unità di sofferenza sia il singolo individuo, devo riconoscere che questo concetto non trova giustificazione in nulla al di fuori del contesto umano (o forse solo della percezione che io ne ho)...

È indubbio che i codici morali e le norme di comportamento rappresentino necessità fondamentali per esseri individualmente complessi, oscuramente motivati e tuttavia altamente sociali come noi. Inoltre, e ne ho già accennato in precedenza, per giustificarli dobbiamo necessariamente guardare dentro noi stessi piuttosto che fuori. Gli esiti di tale introspezione, tuttavia, variano in ampia misura a seconda di dove guardiamo esattamente; e certo non possiamo considerare le pratiche comuni di una determinata società come una violazione della condizione umana. Il risultato è che, come specie, Homo sapiens presenta una stupefacente varietà, quasi impossibile da condensare in un preciso resoconto di ciò che potrebbe essere descritto come la condizione umana, a meno di non farvi rientrare il linguaggio e il pensiero simbolico, fattori critici dei quali discuteremo in seguito, e che in ogni caso hanno probabilmente più attinenza con le cause che con gli effetti. Noi siamo creature sia individuali sia sociali e, a livello sociale, la componente basilare della nostra condizione, il fattore che rende indispensabili i sistemi morali è la necessità di vivere gli uni con gli altri, pur complessi e imprevedibili quali siamo tutti.” (pp.176-178)

Posto che la condizione umana è sostanzialmente indefinibile, rimane il fatto che l’uomo non può fare a meno di interrogarsi su di essa:

“Chi siamo noi? Come è stato ormai riconosciuto da tempo, Homo sapiens è un intrico di paradossi, sia individualmente sia collettivamente. Lasciamo per il momento da parte le società, poiché ciascuna cultura ha semplicemente operato la sua selezione all'interno della vasta gamma di valori e comportamenti di cui Homo sapiens nel suo insieme dispone. Cosa possiamo dire sui comportamenti umani individuali? Essi possono essere descritti per mezzo di qualunque coppia di opposti: generoso/egoista, ingenuo/scaltro, aggressivo/timoroso, intelligente/stupido, compassionevole/crudele, timido/risoluto, e potremmo continuare a lungo. È ancora più significativo che queste contraddizioni possano coesistere nella stessa persona, anzi, in una certa misura lo fanno quasi invariabilmente...

Andare alla ricerca di un preciso concetto universale per definire la condizione umana è dunque chiaramente infruttuoso. Ciascuno di noi ha una gamma di possibilità pressoché infinita all'interno della quale scegliere i propri comportamenti. Non che la scelta sia necessariamente cosciente, anche se siamo in grado di modificare i nostri comportamenti esteriori quando la situazione lo richiede: per fare un esempio, di rado siamo sgarbati con i nostri capi, qualunque cosa pensiamo di loro, perché sappiamo che sarebbe poco saggio. Ma non sempre le situazioni sono così nette e ben delineate. Come mai alcuni si sentono tanto minacciati dalle convinzioni personali e dalle azioni altrui? Perché così tante persone manifestano un ingiustificato senso di superiorità? Perché sentiamo tanto spesso l'esigenza di ridicolizzare le idee assennate estremizzandole in maniera assurda? Come mai diventiamo aggressivi proprio quando sappiamo di avere torto? Perché proviamo piacere per la sofferenza altrui anche se non ci porta benefici concreti? Ciascuno di noi potrà avanzare una spiegazione razionale per reazioni di questo tipo, ma nella maggior parte dei casi avrà poco a che vedere con la fonte reale di tali sentimenti. In questi casi l'“occhio della mente”, così determinante ai fini della nostra unicità cognitiva, produce delle distorsioni, fondate sull'innata capacità che abbiamo di credere alle nostre stesse bugie, spesso inventate a partire da fatti reali allo scopo di soddisfare i nostri interessi. E se crediamo alle nostre bugie non dobbiamo stupirci se crediamo così spesso a quelle degli altri, specialmente quando ciò costituisce per noi un vantaggio o quando incarnano concetti ai quali, quantunque poco plausibili, vogliamo credere. Questo autoinganno innesca una sorta di retroazione a livello sociale, che dà origine a un insieme di miti i quali a loro volta rafforzano i comportamenti che ne derivano, c sui quali cosa ancora più distruttiva si basano tante credenze indiscusse e tante convenzioni comportamentali. Per quanto riguarda la società occidentale, pensiamo per esempio alla stregoneria, che in realtà non è mai stata praticata da nessuno e che, se esiste oggi, è un passatempo basato soltanto sul mito.

Il motivo principale per cui siamo riluttanti a riconoscere le contraddizioni della natura umana è, ovviamente, che siamo costretti a vivere gli uni con gli altri, e perciò dobbiamo adattarci almeno in pubblico a un insieme di norme comportamentali e di valori comuni che talvolta possono essere contrari alle nostre convinzioni o ai nostri impulsi personali. Ma a livello sociale la definizione dell'insieme di valori e di norme ammissibili è risultata un problema enorme, esacerbato dagli elementi di cui ho appena parlato.“ (pp. 179-180)

La contraddittorietà dell’uomo per altro può essere ricondotta alla complessità della struttura cerebrale che gli si trova ad amministrare:

“Noi siamo psicologicamente così complessi - stavo quasi per scrivere “nevrotici” - almeno in parte a causa del modo in cui il nostro cervello è cresciuto nel corso di milioni di anni, struttura su struttura. Ho già fatto osservare che l'antiquata nozione di conflitto innato fra le strutture e le funzioni cerebrali più vecchie e le più recenti va ormai considerata un'eccessiva semplificazione. Tuttavia è nel nostro organo di controllo - esso stesso il prodotto di una lunga storia evolutiva - che dobbiamo cercare le chiavi per interpretare le contraddizioni che tutti rileviamo ogni giorno. A un livello, le nostre facoltà ci dicono che la morte è definitiva, ma a un altro rifiutiamo l'idea e ci aggrappiamo alle alternative più improbabili. Siamo al contempo ammalati di nostalgia e amiamo tutto ciò che è nuovo. Odiamo nel nome di un Dio amorevole. Inventiamo cose che non sono vere e ci crediamo. Vogliamo l'autonomia nella nostra vita, ma interferiamo in quella altrui. Abbiamo meravigliose capacità razionali ma, nel migliore dei casi, seguiamo ciò che ci suggerisce la ragione solo di tanto in tanto. Gli esempi della nostra illogicità potrebbero andare avanti all'infinito. Perché?

Una possibile risposta è che tali contraddizioni si originano dalle complesse interazioni fra le aree corticali superficiali e le strutture più antiche sottostanti. Ma, come abbiamo visto, questa opinione non è facilmente sostenibile, poiché i sistemi più antichi e quelli più recenti sono strettamente interconnessi da un punto di vista funzionale, e ciò che ci rende al contempo inclini all'irrazionalità e capaci di progettare un supercomputer o di inviare una navicella spaziale su Marte è la struttura complessiva del nostro cervello. Inoltre sembra che anche in termini comportamentali fare una semplicistica distinzione fra funzioni emozionali e funzioni razionali sia gravemente fuorviante. Fra i due gruppi, infatti, esiste un livello intermedio costituito dalla funzione neurocomportamentale, partecipe di entrambi. Si tratta dell'intuizione, che opera in assenza di ragionamento conscio e che da tempo numerosi psicologi cognitivi ritengono radicata nella memoria emozionale. E ora si sta profilando sempre più fortemente la possibilità che l'intuizione abbia un ruolo importante anche nella maturazione delle decisioni razionali.

Quando un individuo prende una decisione, il suo cervello non si limita a utilizzare un algoritmo standard che analizza i dati e genera la soluzione ottimale. Al contrario, la valutazione dei dati è integrata dall'immissione di altri input d'ogni genere, che possono variare da un generico disagio o da una generica sicurezza alla vera propria paura, o essere semplicemente la fastidiosa sensazione che entrambe le decisioni potrebbero essere giuste (o sbagliate). La conclusione, sebbene sia stata raggiunta ponderando i fatti, può non essere del tipo che l'individuo è in grado di razionalizzare verbalmente; o, se può farlo, può trattarsi semplicemente di questo: una razionalizzazione...

Nel complesso è chiaro che la cognizione umana è composta da quelli che possiamo definire, in senso lato, come i processi emozionali, intuitivi e consciamente razionali. Ed è molto probabile che si debba aggiungere il ragionamento simbolico alle preesistenti funzioni di risposta emozionale e di intuizione che hanno caratterizzato il balzo finale verso la coscienza umana attuale.

Ma nel compiere il balzo avanti non ci siamo lasciati dietro il nostro passato. Poiché mentre i comportamenti conflittuali che segnano l'esperienza di ciascun individuo possono non derivare direttamente dalla dicotomia spesso artificiosa intelletto/emozioni, le intuizioni, basate su reazioni emotive a esperienze precedenti, spesso possono contraddire la valutazione razionale e simbolica dei dati disponibili. A questo proposito occorre osservare che sebbene noi siamo pronti ad acquisire capacità tecnologiche assimilando i risultati dell'esperienza altrui, là dove entrano in gioco le interazioni umane ci riveliamo più o meno incapaci di imparare secondo questo modello. Indipendentemente da quanta saggezza nella condotta delle cose umane i nostri progenitori ci abbiano trasmesso nei millenni, ciascuna generazione ha continuato a ripetere all'infinito gli stessi errori. Se aggiungiamo a questa inclinazione le limitazioni connaturate alle scelte umane, vediamo quanto sia facile capire perché la storia tende a ripetersi secondo cicli così brevi. Mentre siamo in grado di imparare prontamente e permanentemente da qualcun altro compiti tecnologici come la programmazione e l'uso di un videoregistratore (a quanto pare, non è un'impresa impossibile), nelle interazioni con il nostro prossimo non sembriamo capaci di imparare se non sotto l'azione di un pesante condizionamento. Solo dopo tristi esperienze personali comprendiamo veramente quali siano i modi migliori per trattare con gli altri; e anche allora troviamo difficile estendere l'esperienza tanto duramente acquisita a nuove situazioni. In questo caso il problema non è quale emisfero cerebrale sia coinvolto, nonostante sia proprio su questo che si focalizza l'attenzione generale. La questione essenziale è l'interazione di più modalità cerebrali che insieme formano la mente così come la conosciamo: una fonte potenziale di tensione dalla quale, come vedremo, non saremo mai liberi.

È qui, dunque, nelle intricate strutture del nostro cervello, che cadono i presupposti della psicologia evoluzionistica... I nostri cervelli non sono macchine tutte uguali, programmate dai geni per rispondere in modi specifici a stimoli specifici. Le molteplici differenze culturali in tutto il mondo sono sufficienti a provarlo, così come lo sono le straordinarie differenze fra individui della stessa società. Siamo invece esseri comportamentalmente complessi e altamente sensibili alle esperienze: tra noi i conflitti interni e i comportamenti compulsivi sono spesso la norma, e non l'eccezione. Non c'è dubbio che questa complessità comportamentale ci accompagni sin dalla comparsa di Homo sapiens anatomicamente moderno, ma i modi di vita dei nostri progenitori hanno poco a che vedere con quelli attuali.

La nostra mente razionale, inoltre, non è un'apparecchiatura perfetta, sempre allerta: anche nei momenti di maggiore obiettività commettiamo spesso errori matematici, oppure prendiamo decisioni sbagliate sul comportamento da tenere nel complesso universo che noi stessi ci siamo costruiti. L'errore è un'inevitabile realtà dell'esistenza umana...

Peggio ancora, anche quando in linea di principio sapremmo come agire nell'interesse nostro e altrui, pochissimi di noi riescono a mettere in pratica questa conoscenza in tutti i casi e nel migliore dei modi. Tutti possono agire razionalmente per parte del tempo, ma nessuno può farlo sempre e al massimo grado. Tuttavia credo che, nonostante gli evidenti aspetti negativi del nostro modo di essere, dovremmo rallegrarcene: l'amore e la compassione, dopotutto, non sono qualità puramente razionali...”(pp. 189-193)

I comportamenti contraddittori si originano, dunque, almeno in parte, in conseguenza della disordinata struttura del cervello umano, che è il prodotto di un lunghissimo processo evolutivo di accrescimento e riorganizzazione. Anche le nostre capacità linguistico-simboliche, però, sono una conseguenza della struttura cerebrale:

“Come e quando acquisimmo le nostre singolari capacità linguistico-simboliche? Come ho fatto osservare, nonostante la nostra ampia conoscenza della struttura del cervello umano, del modo in cui le informazioni vi fluiscono e di come certe parti funzionino in particolari comportamenti, i meccanismi attraverso i quali si genera la nostra complessa coscienza simbolica rimangono completamente oscuri. È chiaro, tuttavia, che dopo un paio di milioni di anni di irregolare espansione cerebrale e di altre acquisizioni avvenute nella linea umana, dovevano essere presenti gli exattamenti necessari per permettere il completamento dell'intero edificio attraverso una mutazione che in termini genetici era presumibilmente di minore entità. Nello stesso modo in cui la chiave di volta di un arco è solo una piccola parte dell'intera struttura, ma è vitale per la sua integrità, un cambiamento della struttura neurale relativamente modesto deve avere avuto questo notevole effetto emergente nel nostro cervello. E questa innovazione neurale deve essere stata acquisita nell'ambito di un'esigua popolazione nostra progenitrice quando tutte le strutture periferiche essenziali - l'apparato vocale, per esempio - erano già disponibili per permetterne l'espressione.

Tuttavia nessuno ha ancora capito esattamente perché l'espansione e l'aumento della complessità cerebrale siano stati così costantemente presenti, seppure in modo episodico, nella lunga storia evolutiva dell'uomo, anzi, in quella dei primati in generale. E non sappiamo nemmeno perché, al termine di questo processo, il cervello umano sia diventato così meravigliosamente exattato per il linguaggio e il ragionamento simbolico...

Sfortunatamente, sia la documentazione fossile sia quella archeologica sono incomplete per il periodo critico della nostra evoluzione durante il quale emerse la capacità umana simile a quella attuale. Vi sono convincenti testimonianze del fatto che l'uomo anatomicamente moderno sia comparso in Africa, ma per il momento sembra che questo sia stato un evento molto antico rispetto alle prime indicazioni di complessi comportamenti simbolici paragonabili ai nostri...

L'unica alternativa evidente è che l'anatomia ossea di tipo moderno sia giunta insieme con il cervello di tipo moderno exattato, e che questo sorprendente nuovo organo sia rimasto inattivo, così come effettivamente fu, fino a quando uno stimolo culturale (quasi certamente l'invenzione del linguaggio), lo mise all'opera nell'ambito di una popolazione locale. E’ addirittura possibile che la capacità umana si sia originata perlomeno in parte in un evento epigenetico, legato allo sviluppo, piuttosto che in un cambiamento di grande entità avvenuto nella struttura cerebrale geneticamente programmata...

E’ davvero frustrante arrivare alla fine della nostra storia e dover ammettere di sapere ben poco sul come, quando, dove o perché acquisimmo la nostra straordinaria coscienza. Sebbene tendiamo ad attribuire un'importanza eccessiva alle nostre capacità cognitive, di cui quelle linguistiche sono la sintesi, dobbiamo ammettere che esse fanno di noi qualcosa di diverso da tutti i milioni di altre creature del pianeta. Ma la latente capacità di formare ed elaborare simboli mentali non è chiaramente l'ineluttabile risultato di un processo durato coni, anche se i fondamenti vennero stabiliti durante il lungo passato evolutivo umano. Piuttosto, la sua acquisizione fu un evento emergente probabilmente di scarsa importanza in termini di innovazione fisica o genetica, relativamente improvviso, che si presentò molto tardi nella nostra storia evolutiva. Questo evento capitale, purtroppo, non ha lasciato tracce visibili sulle ossa e sui denti che costituiscono la nostra documentazione fossile, mentre quella archeologica, come abbiamo visto, è incompleta, altamente selettiva e rispecchia molto debolmente il comportamento dei nostri progenitori. Ma sebbene la probabilità iniziale che tutte le componenti necessarie per la coscienza umana di tipo moderno si trovassero riunite, così come in realtà accadde, fosse indubbiamente minima in termini statistici, altrettanto lo era la probabilità di comparsa di ciascuno dei milioni di specifici risultati del processo evolutivo. Visto sotto questa luce, l'evento in sé è molto meno notevole del suo risultato finale.” (pp. 206-209)

Tattersal ritiene dunque di poter giungere alle seguenti conclusioni provvisorie:

“Che cosa, dunque, dobbiamo pensare di noi stessi? Molto più di tre miliardi di anni da quando le prime forme di vita comparvero sulla Terra, noi, unici fra i milioni di discendenti del nostro progenitore comune, acquisimmo in qualche modo non solo un cervello voluminoso - anche i Neandertaliani lo avevano - ma una mente del tutto sviluppata. Questa mente è complessa, non nel senso in cui può esserlo un meccanismo, con numerosi componenti che lavorano insieme senza difficoltà nel perseguimento di uno scopo comune, ma nel senso che è un prodotto di antiche componenti riflessive ed emozionali, ricoperte di un sottile strato di raziocinio. La mente umana, quindi, non è un'entità del tutto razionale, ma ancora oggi è condizionata dalla storia evolutiva del cervello dal quale emerse. Per quanto lungo sia il balzo che abbiamo compiuto passando dal resto del mondo vivente all'acquisizione del pensiero simbolico, non ci siamo del tutto emancipati dalle strutture cerebrali che governarono il comportamento di alcuni dei nostri progenitori più remoti. Ed è precisamente quest'interazione del vecchio con il nuovo che ci rende non solo unici in parecchi modi degni della più grande ammirazione, ma anche pericolosi come nessun'altra specie riesce a esserlo, sia per noi stessi che per il resto del mondo vivente.

Poiché la documentazione fossile e quella archeologica dimostrano che il passo finale verso l'ominazione fu più di una semplice estrapolazione da tendenze precedenti, non è compito del paleontologo tentare una spiegazione delle complessità del comportamento dell'uomo attuale. Egli può solo fare osservare l'interazione del vecchio e del nuovo che avviene all'interno dei nostri cervelli elaboratori di simboli e che sostiene la nostra coscienza, di cui siamo tanto orgogliosi. Ma non può spingersi oltre. L'interpretazione critica della nostra condizione attuale è di pertinenza di psicologi, neurobiologi, filosofi cognitivi, romanzieri, drammaturghi eccetera. Come dovremmo condurre la nostra vita (e come veniamo indirizzati a viverla) è di pertinenza dei filosofi morali e, che Dio ci assista, dei legislatori. In pratica, il fato dell'umanità è nelle mani dei politici e di miliardi di persone comuni. Ciononostante, al paleontologo è concesso di fare osservare che la natura, mentre ha posto nelle mani di Homo sapiens una capacità unica e potenzialmente distruttiva, non è tenuta ad assicurarsi che egli la usi saggiamente. Tuttavia, poiché è innegabile che siamo il prodotto di una lunga serie di cambiamenti, diventa inevitabile domandarsi se se ne profilo altri che possano davvero aiutarci a meritare la nostra denominazione zoologica di ”Uomo saggio”. In sintesi, che cosa possiamo aspettarci dal nostro futuro evolutivo?..

Tanto per cominciare, è evidente che il cambiamento verificatosi durante il nostro passato è stato, nel migliore dei casi, sporadico. Anzi, in tutta la prima metà della nostra storia evolutiva non vi furono mutamenti con rilevanti conseguenze funzionali. Nemmeno i primi artefici di strumenti litici, a quanto sembra, apparivano molto diversi dai loro predecessori, e una volta che quei mutamenti si furono presentati, sarebbe trascorso un altro milione di anni prima che venisse compiuto un altro significativo progresso tecnologico. Ma questo non è l'unico esempio. Sia anatomicamente sia tecnologicamente la storia della nostra linea di discendenza è stata una storia di innovazione episodica, e non di graduale avvicinamento alla perfezione.

Per quanto ciò possa apparire deludente, si accorda piuttosto bene con il nostro emergente apprezzamento delle complessità del processo evolutivo. Se l'evoluzione comporta la diversificazione e la speciazione invece della costante accumulazione di piccoli cambiamenti, e se la storia delle singole specie è in gran parte routinaria, allora non dovremmo sorprenderci di scoprire che nella nostra linea di discendenza l'innovazione significativa è stata un fenomeno intermittente. Conseguentemente, sia che vogliamo affidarci alla teoria evoluzionistica oppure ai resti fossili del nostro passato come guida alla comprensione di quello che potrebbe essere il futuro biologico della nostra specie, l'interrogativo che dobbiamo porci è lo stesso: “Esistono le condizioni per nuovi sviluppi evolutivi a partire da Homo sapiens?”.

Abbiamo visto che sono le piccole popolazioni isolate, o quasi isolate, a essere sia il vero motore dell'innovazione evolutiva sia il bersaglio della speciazione. Queste antiche popolazioni umane erano sparse in gran parte del globo durante le crisi ecologiche e geografiche verificatesi nel corso delle glaciazioni, ed è in questo contesto che comparve Homo sapiens. Ma oggi la situazione e radicalmente diversa. La popolazione umana mondiale è già parecchio al disopra dei cinque miliardi di individui, e sta crescendo vertiginosamente. I mezzi di trasporto annullano le distanze e le barriere geografiche. La gente non ha mai conosciuto una mobilità pari alla nostra. L'isolamento delle popolazioni umane è ormai una cosa del passato, e mai come ora per le persone provenienti da aree geografiche disparate è stato così facile mescolarsi. Il risultato certo è che oggi non esistono più le condizioni per una vera e propria innovazione evolutiva all'interno della nostra specie. Noi formiamo un'unica numerosissima popolazione che si sposta sulla Terra, e mai nella storia di una specie le condizioni sono state meno propizie per l'affermazione di novità evolutive. E, a meno che intervenga qualche calamità, non è probabile che ciò possa avvenire.

Ma questa calamità potrebbe non essere molto lontana. Qualche virus terrificante quanto l'HIV ma più resistente e più facilmente trasmissibile potrebbe essere in agguato. La tecnologia potrà probabilmente fare poco per mitigare le conseguenze globali di un impatto meteorìtico simile a quello associato alla scomparsa dei dinosauri. Secondo la stima più recente, la probabilità di un simile evento è quasi zero per i prossimi centomila anni, ma a un certo punto esso si verificherà, inevitabilmente. Nell'immediato, una o più delle innumerevoli conseguenze dell'utilizzazione sempre più frequente delle alte tecnologie potrebbe sfuggirci di mano. Ugualmente preoccupante è la probabilità che l'esasperato sfruttamento dell'ecosistema mondiale conduca al suo collasso e alla nostra rovina. Le eventualità sono infinite, e qualsiasi fattore possa operare per ridurre e frammentare le popolazioni umane ripristinerebbe la possibilità di qualche mutamento evolutivo...

In sintesi, abbiamo una prospettiva buona e una cattiva. Quella cattiva è che se le cose continueranno ad andare più o meno come vanno attualmente, non possiamo aspettarci che né l'evoluzione né la tecnologia giungano in groppa a un destriero bianco, come è stato in passato, per salvare la specie umana dalle sue follie dotandola di un'intelligenza senza limiti o addirittura di buonsenso collettivo. Quella buona è che, se non interverrà qualche disastro, quasi certamente potremo continuare a essere in eterno creature contraddittorie, poco comprensibili e fortemente interessanti, come siamo sempre stati. A meno che non accada l'impensabile, non ci libereremo del nostro vecchio io familiare ma potenzialmente pericoloso. E dunque avremo urgente necessità di imparare a convivere con questo fatto nel migliore dei modi. La perfettibilità, come sempre, resta un'illusione.” (pp. 209-214)

Casualità, contingenza, imprevedibilità, complessità, contraddittorietà, mistificazione: sembrano questi gli attributi che la filosofia evoluzionistica contemporanea associa all’uomo, alla sua comparsa e alle sue vicissitudini storiche che si intrecciano, per un verso, con l’ambiente naturale e per un altro, con lo sforzo culturale dell’uomo di trasformarle a suo vantaggio. Per quanto tali attribuzioni siano strettamente pertinenti alla concezione dell’uomo e del suo singolare cervello emersa con la teoria dell’evoluzione e i suoi sviluppi, è fuor di dubbio che la filosofia evoluzionistica contemporanea, togliendo di fatto all’uomo l’orizzonte della trascendenza, richiamandolo al suo essere uno degli infiniti esseri viventi, mettendolo di fronte alla sua imprevedibilità - transitoria, tra l'altro, dacché a lungo termine le specie sono destinate a scomparire o a dare luogo ad altre specie - e alle inesorabili contraddizioni intrinseche all’indefinita complessità del suo cervello, sembra condensare, a partire dalla biologia, le influenze più diverse: laicismo, materialismo dialettico, nichilismo nietzschiano, esistenzialismo, psicoanalisi, ecc.

Non è sorprendente che la ricchezza filosofica intrinseca all’evoluzionismo si stia dispiegando su di un piano di grande complessità. Il decentramento radicale dell’uomo dal preesistente antropocentrismo ha prodotto, di fatto, una serie di problemi di collocazione dell’uomo stesso nella storia della natura e nella cornice dell’ambiente artificiale che egli ha prodotto che richiederanno presumibilmente ancora tempo per giungere ad un paradigma panantropologico.

Per non concludere

Il dramma degli esseri umani è di essere stati dotati dalla natura di un cervello capace di adattarsi all’ambiente, ma anche dotato di potenzialità ridondanti di ogni genere a livello cognitivo e a livello emozionale. L’esistenza di queste ultime potenzialità era del tutto estranea al pensiero di Darwin. Pure esse contengono il “mistero” di una specie capace di grandezze sublimi e di bassezze che eccedono quelle di qualunque altro animale. La ridondanza significa sostanzialmente ricchezza e plasticità funzionale. Il problema è come questa ricchezza e questa plasticità sono state, sono e saranno utilizzate.

In nome del cervello di cui dispone e dell’uso che ne fa, l’umanità può imboccare qualunque via che rientri nell’ambito della libertà (indefinita, ma non infinita) che esso le assegna. Questo, però, significa che essa può esplorare il mondo astratto dei simboli, ma anche incunearsi nel vicolo cieco dei pregiudizi, dell’etnocentrismo, del razzismo, della xenofobia; può ipotizzare un mondo utopistico fondato sull’uguaglianza, ma anche produrre, convalidare e razionalizzare iniquità di ogni genere.

Dal punto di vista emozionale, poi, la ridondanza del cervello comporta una gamma di esperienze indefinitamente più ampia rispetto agli animali (dall’angoscia alla gioia infinita); essa, però, obbliga anche l’essere umano a convivere con un’ansia esistenziale che lo “perseguita” dall’inizio (o quasi) alla fine della vita.

Dobbiamo dare per scontato che se gli uomini accettassero la loro condizione comune di esseri casuali, accidentali, oggettivamente insignificanti, e soggettivamente vulnerabili, precari, finiti e destinati tutti a finire (non solo sul piano individuale ma anche su quello di una specie transeunte), l’impresa del buon uso della libertà, vale a dire l’umanizzazione del mondo, potrebbe riuscire paradossalmente più semplice.

Solo la riflessione sulla storia potrà permetterci di capire perché questo nuovo "grande balzo in avanti" non è finora avvenuto e sembra di là da venire.

Il pensiero di Marx si avvia laddove finisce quello di Darwin: perché l’umanità non riesce a fuoriuscire dalla sua preistoria?