Eugenio Lecaldano

Un’Etica senza Dio

Laterza, Bari 2007

1.

E’ del tutto comprensibile che, in un periodo storico contrassegnato dal tentativo della Chiesa, soprattutto in Italia, di affermare la sua egemonia culturale e morale in virtù di un attacco critico al modernismo – nel quale essa fa confusamente rientrare l’Illuminismo, il Marxismo, l’Evoluzionismo, Nietzsche, la Scienza, la Tecnica, l’egoismo borghese, il consumismo, il nichilismo, ecc. -, i pensatori laici reagiscano con veemenza.

C’è qualcuno che sottolinea che, nel momento in cui la veemenza contrappone ai dogmi ecclesiali l’ateismo, la laicità fa un passo falso. E’, per esempio, quanto sostiene su Repubblica (7. 1. 2008) Giancarlo Bosetti nella nota seguente:

“Mi ha colpito quel che ha scritto qualche giorno fa su queste pagine Piergiorgio Odifreddi: «La laicità e l´ateismo che costituiscono una sorta di nudità teologica naturale sono diventate quasi una vergogna da nascondere sotto i variopinti paramenti delle fedi e dei credi». Credo che lui ed io voteremmo oggi nello stesso modo in un confronto sulla 194, in difesa di una buona legge, contro l´opinione della senatrice Binetti e del cardinale Bagnasco, e forse anche su qualche altro tema. Eppure quel che scrive mi sconcerta e mi spinge a reagire perché in quella frase c´è davvero molta confusione, insieme a qualche artificio retorico fuorviante, e perché questa confusione e questa retorica sono molto diffusi.

Si vede che è davvero difficile inaugurare, mentalmente, una stagione che, nei fatti, si è aperta da un pezzo, quella del pluralismo, del multiculturalismo, del multiconfessionalismo. Per essere chiaro aggiungerò che queste ultime parole non designano una recente invenzione estremistica, una criticata abitudine inglese o uno snobismo gastronomico, ma semplicemente uno stato di fatto che riguarda l´Europa, il mondo, e dunque anche l´Italia. E che se non si registrano gli orologi sul tempo presente anche la discussione interna al Partito democratico continuerà a rimbalzare tra Togliatti e De Gasperi, tra il Pci e la Dc, la via italiana al socialismo, il compromesso storico e la bozza Ceruti, senza farsi una ragione del fatto che nel frattempo i musulmani in Europa sono venti milioni e che i cattolici praticanti sono una minoranza sovrastimata (circa un terzo della popolazione italiana si dichiara tale, ma molti mentono e non vanno a messa, le vocazioni sacerdotali sono al collasso).

Quella frase di Odifreddi sovrappone cose da tenere distinte: la laicità e l´ateismo non sono affatto la stessa cosa.

La laicità è una condizione che descrive la cultura e le istituzioni liberali che separano la sfera della Chiesa da quella dello Stato, mentre l´ateismo è una posizione filosofica assai onerosa da sostenere, una forma di metafisica asseverativa in base alla quale Dio non esiste, una teoria naturalistica tutta da discutere, della quale molto si può dire, non certo che essa sia sostenuta dalle risultanze della scienza.

La laicità è una attitudine dovuta, anche da parte dei religiosi, come ben si sa, è la disponibilità a condividere un terreno comune di valori condivisi necessari per convivere; se vogliamo dirlo con le parole più sofisticate di un filosofo liberale, John Rawls, è l´area ideale in cui i valori delle varie dottrine, dai seguaci del Dalai Lama fino a quelli del cardinale Bagnasco passando per i testimoni di Geova, i senza Dio e i marxisti dilibertiani si sovrappongono (overlap). Si potrebbe darle un po´ più di sostanza filosofica descrivendola come un neutrale agnosticismo metodologico, ma si finirebbe per renderla un po´ troppo ingombrante e questionabile.

Nessuna posizione può pretendere di rappresentare la «nudità teologica». Se in economia «nessun pasto è gratis» per la collettività, nella filosofia (o tanto più teologia) politica «nessuna teoria è senza peso» per lo stato liberale. Tanto meno è «nudità teologica» l´ateismo, una delle dottrine più ingombranti da argomentare. Vale la pena di ricordare quel che scrive Niles Eldredge, uno dei più tenaci e autorevoli difensori del darwinismo, a proposito di Richard Dawkins e del suo combattivo ateismo: «Quando qualcuno come lui dichiara apertamente, rumorosamente e bellicosamente di essere un ateista, ne ha pieno diritto secondo i principi della libertà di parola», ma sta così promuovendo attivamente una guerra culturale – «e traendone vantaggio» – con la conseguenza di peggiorare di molto le cose negli Stati Uniti perché, alla fine, «i creazionisti, che vogliono che la loro materia sia inserita nel curriculum scolastico o che desiderano che l´evoluzione ne sia completamente rimossa, diranno che è in atto una guerra culturale e chiederanno di avere lo «stesso spazio».

Quando parla dei «variopinti paraventi delle fedi e dei credi» sotto i quali nascondere la «vergogna dell´ateismo» Odifreddi allude ai non credenti nell´Italia di oggi come una minoranza sopraffatta. Bisogna francamente ammettere che questo artificio retorico non vale più di quello dei cattolici che si presentano come sopraffatti dal materialismo, e dall´orgia di consumismo (etero/omo) sessuale e altre tentazioni di Satana. Propongo di rinunciare bilateralmente a queste rappresentazioni e adottare una sobria illustrazione del nostro attuale come un mondo che offre molte opzioni possibili, di fede e non-fede. Rubo una immagine fulminante a un filosofo cattolico, Charles Taylor, nel suo recente monumentale A Secular Age (Harvard Un. Press): il cambiamento fondamentale che caratterizza la nostra epoca è il mutamento dell´immaginario per cui «non c´è più una fede di default». Fino a qualche decennio fa il secolarismo aveva già fatto molta strada, nelle istituzioni e nel disincanto della gente, ma la nostra condizione religiosa o non religiosa «naturale», prevedibile, altamente probabile, era iscritta nella nascita. Si poteva cambiare certo, ma remando controcorrente. Il nostro mondo non offre più una opzione di default: cattolica a Bergamo, protestante a Bergen, marxista a Leningrado o Lipsia. Ci sono alternative. Nessuna corrente è più così forte.

Come navigare in queste acque imprevedibili? È fondamentale il principio di «eguale rispetto» da parte dello Stato nei confronti delle varie posizioni religiose e anche nei confronti della non-religione. Se accettiamo la formula di Martha Nussbaum (il Nord America è in queste discussioni assai attrezzato!) possiamo anche parlare di un principio di «non preferenzialismo». Fare attenzione: la formula è onerosa per tutti, chiede ai religiosi di assegnare uguale dignità alle altre fedi e alle posizioni non-religiose (atee, agnostiche, etsi deus daretur o etsi non daretur fa lo stesso), e chiede ai non religiosi (atei e materialisti ottocenteschi compresi) di assegnare uguale dignità a quelle religiose (non equiparandole, per esempio, caro Odifreddi, a oroscopi e altri intrattenimenti).

Il principio del non-preferenzialismo spingerà probabilmente a mettere in discussione le vaste preferenze di cui beneficia in Italia la Chiesa cattolica. E sarà inevitabile affrontare il problema nel tempo in modo non persecutorio, con il realismo e l´equilibrio di uno Stato capace di guardare alle religioni per il contributo che sanno dare alla coesione sociale, estendendo le pratiche concordatarie in modo bilanciato a tutte le confessioni. Sono personalmente convinto che l´estremismo integralista, agitato da gerarchie o militanti politici, nuoce alle bandiere per cui milita. Se i cattolici diventeranno un fattore di divisione e disordine, uno Stato giusto sarà inevitabilmente più severo, esigente, ed esattore, con le loro organizzazioni. Manca molto, in questa discussione, l´intelligenza sobria e paziente di Pietro Scoppola il quale molto avrebbe avuto da suggerire a eventuali «carte dei valori» di un Partito democratico italiano. Lui era molto bravo – come ha scritto lo storico Agostino Giovagnoli – a leggere «ateismo, laicismo e anticlericalismo anche come fenomeni religiosi» e a ricordarci che lo scontro fra “clericali” e “anticlericali”, pur nelle diverse forme assunte di volta in volta, rivela sempre una debolezza delle ragioni di entrambe le parti.”

Si può essere o no d’accordo sulla formula del non-preferenzialismo. Rimane il fatto che la responsabilità dell’inasprimento del conflitto tra cultura laica e cultura cattolica è dovuta al fatto che la Chiesa, nella misura in cui richiede rispetto per l’opera di civilizzazione che ha svolto nel corso dei secoli, per i suoi valori e per coloro che credono, non offre alcuno spiraglio ad un confronto che non riconosca il suo primato morale come incommensurabile, in quanto frutto di una Rivelazione. Si sente insomma aggredita e perseguitata, ma sembra non avere alcuna coscienza che il suo magistero è di fatto intollerante e aggressivo nei confronti di chiunque pone in discussione quei valori.

Del resto, Boselli non porta acqua al mulino del non-preferenzialismo nel momento in cui, intendendo correggere la confusione di Odifreddi, scrive che “l´ateismo è una posizione filosofica assai onerosa da sostenere, una forma di metafisica asseverativa in base alla quale Dio non esiste, una teoria naturalistica tutta da discutere, della quale molto si può dire, non certo che essa sia sostenuta dalle risultanze della scienza.”

La scienza non può dimostrare che Dio non esiste perché l’esistenza di un Essere Supremo, immateriale e Creatore del mondo, rimane del tutto al di fuori della sua metodologia. Essa, però, porta molte prove a favore dell’ipotesi per cui ciò che esiste può essere spiegato senza fare ricorso né a Dio né ad un Disegno intelligente.

L’ateismo, d’altronde, non è tout-court l’affermazione dogmatica dell’inesistenza di Dio, bensì una filosofia volta a dimostrare, attraverso la pratica di vita, e quindi sul piano etico, che l’uomo può dare senso alla sua esperienza e coltivare valori positivi del tutto indipendentemente dal riferimento ad un Essere Supremo. Essere atei significa essenzialmente non avere bisogno di Dio per sentire di avere una dignità individuale e per farsi carico della responsabilità dell’esistenza su di un piano che, attribuendo agli altri i propri stessi diritti e bisogni, produce il dovere morale di umanizzarsi e di trattare gli altri umanamente. Al di là di questo, negare l’esistenza di Dio, impegnarsi a dimostrare le insolubili contraddizioni della dottrina religiosa, essere anticlericali, criticare i credenti come soggetti che, per vivere, hanno bisogno di un’illusione è una scelta di libertà: legittima, per quanto non essenziale.

2.

Questa lunga premessa introduce la riflessione su di un libro che si può definire tranquillamente radicale. L’introduzione è sufficientemente esplicita a riguardo:

“Nel dibattito pubblico, sia in Italia sia in altri paesi del mondo occidentale (gli Stati Uniti di Bush, ad esempio), ha ripreso a circolare un'idea: che l'etica sia possibile solo per coloro che credono in Dio e, in generale, per coloro che aprono le loro vite alla religione e al trascendente. Solo l'accettazione di un tale orizzonte eviterebbe il declino della civiltà occidentale, in quanto tale orizzonte è l'unico che può conferire ai valori morali l'autorevolezza e la forza di cui necessitano, pena la deriva nichilista e relativista. I credenti si rivolgono ai non credenti tacciandoli d'incapacità a fondare qualsiasi valore morale e agitano come propria ed esclusiva la promessa di una vita eterna e la fiducia in un orizzonte salvifico e messianico, cui non avranno accesso gli scettici religiosi, gli agnostici o gli atei. La conseguenza immediata e concreta di ciò è la circolazione di decaloghi morali nei quali in nome di Dio e della natura si chiede ai singoli di rifiutare senza esitazione l'aborto, affermare l'unità e la priorità della famiglia eterosessuale, negare le unioni omosessuali, impedire c/o rinunciare ai risultati terapeutici della ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali, ostacolare e impedire le pratiche che permetterebbero alle coppie di avere figli attraverso la fecondazione eterologa in vitro con donazione di gameti o attraverso la maternità surrogata, rifiutare il diritto al morente di scegliere la propria morte, e così via.

Ma se la certezza e l'assolutezza di tali valori discendono direttamente da Dio e dalla natura, allora diventa ovvio per coloro che sostengono questa idea richiedere con forza e senza tregua che non solo la vita privata delle persone sia ispirata a tali valori discrezionalmente, ma che siano le leggi dello Stato a imporli a tutti i cittadini, anche attraverso sanzioni giuridiche. E non basta: per costoro neppure la scienza può realizzare i suoi obiettivi esplicativi senza includere al suo interno un riferimento a Dio, come creatore e/o ordinatore della natura. Ecco spiegata la critica aggressiva e la denuncia delle concezioni scientifiche, quali ad esempio il daiwinismo, che forniscono a scettici e atei una prospettiva generale di spiegazione dell'universo che non ricorre a Dio.

II riproporsi nel dibattito pubblico dell'idea che lega indissolubilmente etica e Dio (o natura), e la conseguente negazione a coloro che non sono religiosi della possibilità stessa di una vita morale, è un chiaro segno della crisi del processo di sviluppo, apertura e allargamento che la cultura occidentale ha realizzato dall'Illuminismo ad oggi. E il segno di una fase di ripiegamento e di paura della società occidentale, che è incapace di trovare in se stessa le risorse per affrontare i cambiamenti e le tensioni provenienti dall'esterno, dovuti all'infittirsi di relazioni con società assai differenti, e dall'interno, in seguito alle spinte innovative cui sono sottoposti i valori tradizionali, in particolare ai progressi realizzati dalla scienza e dalla medicina e che hanno investito la nascita, la cura e la morte. I disaccordi scoppiati intorno alle questioni della bioetica dalla fecondazione in vitro all'ingegneria genetica, dalla donazione all'eutanasia - hanno ingenerato nell'opinione pubblica molte paure e angosce e, in questo clima, non sembra abbiano avuto la meglio coloro che hanno proposto di affrontare coraggiosamente i cambiamenti mediante una revisione dei valori che ci hanno trasmesso le passate generazioni. Sembra abbiano avuto la meglio coloro che hanno riproposto le parole d'ordine volte a salvaguardare la tradizione.

Il legame indissolubile tra Dio e moralità umana, che tanti dubbi e interrogativi nei secoli ha suscitato nella riflessione umana, appare di nuovo saldo. Ben lungi dal segnare una fase positiva, il riproporsi di questa concezione è un segno di decadenza della nostra cultura che si arrocca su posizioni confutate, non convalidate né dall'esperienza né dalla ragione, e tantomeno dalla vita emotiva che tutti noi condividiamo in quanto appartenenti a un'unica specie.

Vorremmo mostrare l'inaccettabilità dell'idea di un'indissolubile connessione tra credenze religiose e convinzioni morali, recuperando proprio gli argomenti critici elaborati con grande chiarezza e rigore - e ad avviso di chi scrive in modo definitivo sul piano razionale - da molti pensatori dei secoli passati. Mi riferisco, ad esempio, alle opere di David Hume (1711-1776), di Immanuel Kant (1724-1804), di John Stuart Mill (1806-1873). Opere generosissime di analisi che mostrano come sia inaccettabile la pretesa di chi sostiene che non vi sia posto per l'etica senza la fede in un Dio garante dei valori morali. Ma la riflessione filosofica si è spinta oltre la dimostrazione di una netta separazione tra la possibilità di sviluppare delle convinzioni morali valide e la credenza in Dio. In un modo sempre più chiaro nel corso del secolo XX, si è andata sviluppando una linea di pensiero secondo cui non solo non è vero che senza Dio non può darsi l'etica, ma anzi è solo mettendo da parte Dio che si può realmente avere una vita morale. Solo colui che è agnostico o ateo può effettivamente porre al centro della sua esistenza le richieste dell'etica, e solo colui che è senza Dio può attribuire alla morale tutta la portata e la forza che essa deve avere sia nelle scelte che riguardano la sua propria esistenza, sia in quelle che riguardano l'esistenza altrui…

In questo saggio si privilegerà la difesa della tesi che l’ateismo è la cornice intellettuale più favorevole all’affermarsi di una moralità – una tesi molto impopolare di questi tempi, ma fortemente sostenuta da diversi filosofi del passato” (pp. IX-XI)

Su cosa si fonda questo radicalismo? Sulla differenza tra morale laica autonoma e morale religiosa eteronoma, fondata cioè sulla volontà divina:

“Mentre credere che Dio non esiste non ha alcuna incidenza sul carattere morale di un individuo, credere il contrario e credere che è da lui soltanto che discendono e si legittimano i nostri valori e doveri morali potrebbe avere una influenza non secondaria sul modo in cui psicologicamente l'individuo si rapporta agli altri. Infatti, un'educazione centrata sull'esposizione ripetuta a principi e regole imposti dall'esterno potrebbe incidere - non positivamente - sul formarsi della personalità di un individuo. La fedeltà accordata alla legge divina impedirà da una parte che la sua condotta etica sia orientata in modo immediato e diretto dalla sensibilità alle sofferenze dei suoi simili, e dall'altra che si ritenga individualmente responsabile delle sue scelte. La sua condotta sarà, inoltre, prevalentemente condizionata da una preoccupazione retributiva piuttosto che dalla preoccupazione di alleviare le sofferenze degli altri. Siccome peccare è offendere la volontà divina, la trasgressione di una qualsiasi delle leggi di Dio costituisce sempre una colpa ugualmente grave. Rispetto alla sessualità, per la morale cattolica - ad esempio - è colpa grave la masturbazione perché lesiva dell'ordine naturale voluto dal creatore, così come lo sono i rapporti sessuali tra adulti, considerati leciti solo se naturali; è colpa grave l'uso del profilattico, considerato un crimine morale in quanto indebita interruzione e deviazione del corso naturale delle potenzialità procreative della coppia, come pure lo sono l'aborto e l'eutanasia attiva volontaria, entrambi considerati omologhi dell'omicidio. Solo a Dio è concesso il perdono per questi atti, un perdono incomprensibile agli occhi di chi concepisce la responsabilità come cosa umana.

Come abbiamo già detto, l'alternativa motivazionale della punizione e del premio in cui si dibatte il credente non pare una motivazione adatta a promuovere una condotta autenticamente etica. Sembra chiudere il credente in una logica egocentrica ed egoistica, troppo preoccupata della salvezza e del destino personale per potersi aprire a quell'orizzonte imparziale - in quanto volto alla generalità degli individui - che costituisce lo sfondo alla condotta etica.” (pp. 27-29)

L’autonomia morale postula non solo l’affrancamento dalla volontà divina ma anche un atteggiamento critico nei confronti di qualsivoglia influenza terrena eticamente normativa, cioè convenzionale:

“Noi sosteniamo che solo chi si libera dai dettami religiosi riesce a guadagnare quella condizione che è indispensabile perché vi sia effettivamente una qualche specie di responsabilità morale…

Per essere moralmente responsabili dobbiamo liberarci non solo dal volere di Dio, ma dai più terreni condizionamenti (genitori, amici, maestri, ecc.). Accediamo all'etica quando la nostra condotta non è più spiegata e giustificata con frasi come «ho fatto questo perché me l'ha detto mio padre, il mio confessore, ecc.», «ho fatto questo perché si accorda con quanto accettano i miei concittadini», «cosa volete che c'entri io con le condizioni di vita dei miei figli, la loro nascita è stata decisa dalla natura», ecc. Queste giustificazioni non possono valere come attenuanti nel momento in cui ci impegniamo a dare una valutazione morale della condotta nostra odi un'altra persona. Non sono forse stati commessi ipiìi grandi crimini avanzando a giustificazione dei propri atti l'obbedienza ai comandi e alle imposizioni di altri, o la preoccupazione di uniformarsi a quello che faceva la moltitudine? Solo quando un individuo assume su di sé la responsabilità di ciò che ha fatto, avanzando le sue ragioni, testimonia il suo accesso alla sfera morale. E proprio sotto questo profilo che appare netta la divaricazione tra prospettiva morale e prospettiva religiosa: la stessa possibilità di essere un soggetto moralmente responsabile richiede dal nostro punto di vista un atto di auto-affermazione, di consapevolezza, di autonomia e libertà individuali, laddove la prospettiva religiosa è spesso incline a condannare tale condizione come un peccato di orgoglio, una sorta di peccato originale. Quanto sia essenziale l'autonomia nelle nostre decisioni è sottolineato con forza da Kant nella Fondazione de/la metafisica dei costumi (1785). Egli ci spiega come la soggettività morale possa essere guadagnata solo a condizione di essere fuori da tutte quelle forme di eteronomia che impediscono alla volontà del singolo individuo di scegliere la norma o la regola che dovrà essere fatta valere per le sue azioni. Autonomia, consapevolezza e responsabilità si presentano dunque come una triade inscindibile.” (pp. 31-32)

2.

L’autonomia morale, in un’ottica laica, non ha nulla a che vedere con una forma di relativismo. Essa, infatti, secondo l’autore si fonda sul riconoscimento e sulla coltivazione di alcuni aspetti intrinseci alla natura umana e alla coscienza di specie:

“E stato ampiamente spiegato dai filosofi e dagli scienziati naturalisti dal XVIII secolo in avanti, da David Hume a Charles Darwin (1809-1882), da John Mackie (1917-1981) a Richard Dawkins, da Daniel Dennett a Simon Blackburn, da Stephen Gould (1941-2002) a Peter Singer, che, nel momento in cui diveniamo consapevoli della nostra natura autonoma di esseri moralmente responsabili, questa consapevolezza si presenta come percezione della rilevanza delle sofferenze e dei dolori altrui e si trasforma in una istintiva partecipazione all'altrui sofferenza, da alleviare o eliminare. Questo processo naturale di formazione della soggettività morale non richiede alcun appello a un nostro posto speciale nel creato e non ha alcun bisogno di trovare conforto nel riconoscimento di una nostra comune natura di creature e di figli prediletti di Dio. E sufficiente il richiamo alla naturale simpatia (intesa qui in un senso minimale e quasi biologico) con le emozioni altrui: una simpatia che, secondo alcuni teorici dell'etica, pur movendo in modo più immediato e diretto verso le persone che ci sono più familiari e in una più stretta relazione con noi, si allarga a tutto il genere umano e anche al di là della specie umana, fino alla partecipazione alle sofferenze degli animali.” (p. 36)

“Si radica in questa nostra inevitabile partecipazione alle emozioni degli altri quella dimensione dell'etica che viene caratterizzata come un senso di giustizia: così come sentiamo negativi e da evitare dolori e sofferenze e proviamo piacere nell'esserne alleviati, non diversamente - per equità ed eguaglianza - dobbiamo regolarci nei confronti dei dolori e delle sofferenze altrui, nei confronti dei quali non riusciremmo ad essere indifferenti, neanche volendolo. Quella parte dell'etica che viene abitualmente categorizzata con la nozione di giustizia non trova giustificazione nell'obbedienza a una legge di Dio, che vale per tutti gli esseri umani in quanto sue creature, bensì è il risultato della nostra istintiva partecipazione alle condizioni di coloro che riconosciamo come simili e che può estendersi - come molti, da Bentham a Singer, hanno sottolineato - anche agli animali capaci di provare piacere e dolore.

Un'etica senza Dio può proporsi come antidoto all'atrofizzazione dei nostri sentimenti morali, all'impossibilità di correggerli, allargarli e rivederli sulla base delle nostre esperienze particolari delle condizioni effettive dei nostri simili.” (p. 37)

L’empatia, che è il fondamento dell’etica laica, può essere ricondotta alla nascita stessa della specie umana in un’ottica darwiniana:

“La spiegazione evoluzionista rende conto […] dell'origine della morale, che sembra una peculiarità eccezionale della specie umana. Essa può essere spiegata naturalisticamente come un graduale stabilizzarsi nella cultura umana di comportamenti casuali e reiterati che, avendo prodotto conseguenze positive, si sono trasformati in regole favorevoli alla sopravvivenza della nostra specie nelle condizioni ambientali in cui si trova ad agire. Peter Singer, più volte e da ultimo nel suo libro Una sinistra darwiniana (2000), ha fatto il punto sulla possibilità di fornire una spiegazione evoluzionistica tanto di quelle condotte umane governate dalla logica dello scambio e dalle regole della reciprocità, quanto della tendenza ad approvare condotte di tipo altruistico e donativo. Ciò che, a nostro parere, non va perso di vista è l'emozione, il sentimento che accompagna le condotte che si conformano a regole morali e, in modo altrettanto significativo, il sentimento che si accompagna alle condotte che a queste regole non si conformano. Coloro che sono impegnati nel fornire una spiegazione epidemiologica dell'ampia diffusione tra gli esseri umani di regole morali che impediscono le condotte che provocano sofferenze agli altri hanno mostrato come tale spiegazione sia confortata proprio dal riferimento alla risonanza emotiva che si accompagna a tali regole e che le fa preferire rispetto ad altre.” (pp. 40-41)

L’etica laica ha dunque un fondamento neurobiologico:

“[…] L'etica è attingibile per mezzo della conoscenza empirica che abbiamo della natura umana e della storia della cultura. E una pratica generalmente diffusa tra gli uomini, i quali ne beneficiano per compiere delle scelte in termini cooperativi, regolati e condivisi. Non è necessario disporre di una qualche definizione a priori della natura umana ai fini della comprensione dell'etica. Del resto, una definizione in senso proprio della natura umana non è disponibile: essa si costruisce e muta costantemente all'interno del contesto storico-culturale. L'assunzione che vogliamo far nostra è che la capacità degli esseri umani di farsi guidare da distinzioni tra bene e male, giusto e ingiusto, virtuoso e vizioso è radicata nella loro natura biologica. Se così è, allora l'etica non è altro che una pratica volta a risolvere le questioni di interazione privata e pubblica tra gli uomini e su questa terra. Le soluzioni offerte da tale pratica sono di solito di lunga durata (i principi, le norme, i valori si perpetuano per più epoche storiche) e, tuttavia, mutano, si trasformano: la tortura non è più considerata nel mondo occidentale una forma di pressione legittima per la raccolta di prove in un processo; la punizione fisica non è ritenuta più accettabile come forma di educazione; non pensiamo più che le nostre leggi civili debbano codificare diversità di genere o di razza; sempre più persone sono convinte che vadano punite le crudeltà nei confronti degli animali, ecc. Se i nostri valori, i nostri codici si trasformano, la morale fondata sulle religioni, al contrario, rimane fissa e costringe a estenuanti e sofistiche procedure interpretative coloro che vogliono registrare le trasformazioni che inevitabilmente segnano la storia umana.

L'etica intesa come pratica trova, perciò, il suo fondamento saldo nella natura umana e nella sua storia. Essa è un dato rintracciabile nelle diverse epoche della storia umana e in diverse forme sociali, a prescindere dalla diversità dei valori assunti. E una realtà da spiegare, e non già da fondare. La nostra vita ordinaria e quotidiana è così profondamente segnata dalla nostra inclinazione a tracciare distinzioni etiche che sarebbe una bizzarria sostenere che tale inclinazione non è naturale, bensì frutto di una riflessione che fa leva su comandi o rivelazioni sopraggiunti dall'esterno.

Per riconoscere la fondatezza e l'autorevolezza di principi, delle regole e delle norme che ispirano la vita morale di un essere umano, il non credente non ha bisogno di risalire a Dio, né di sperare in un'altra vita in cui la sua condotta morale trovi il giusto premio. Egli può far ricorso semplicemente alle proprie emozioni, ai propri sentimenti, alla ragione e alle pratiche riflessive che gli sono abituali. Il premio per la sua condotta morale deriverà principalmente dalla consapevolezza di aver fatto ciò che è bene, giusto e doveroso. Anche laddove gli altri non lo capiranno, egli continuerà ad essere consapevole della bontà del principio che ha ispirato la sua condotta e saprà renderne ragione agli altri, e se subirà o vedrà che altri subiscono ingiustizie, impegnerà tutte le sue forze per sanarle, non avendo a disposizione alcuna prospettiva di una vita ultraterrena (pp. 44-46)

La matrice neurobiologica dell’etica laica non comporta naturalmente, al di là dell’empatia e del rispetto dell’altro, un quadro o un sistema di valori. Essa, però, rappresenta il presupposto su cui un sistema di valori possa essere costruito arricchendo le emozioni naturali con l’ausilio della Ragione:

“Sebbene la riflessione, tuttora in corso, riguardante la concezione di un'etica radicata nella natura umana abbia occupato per lo più la tradizione di pensiero analitico, non è necessario - ai fini del nostro discorso - optare per un qualsiasi paradigma. Ciò di cui abbiamo bisogno, infatti, è mostrare come un'etica senza Dio possa essere elaborata con il solo richiamo alle diverse componenti della natura umana. E ancora una volta Flume a venirci in aiuto con la sua ricostruzione dei sentimenti naturali: pur avendo un interesse prevalente per noi stessi e la nostra sorte, non possiamo evitare di essere toccati da quello che accade alle persone che ci sono più prossime. Proprio questa benevolenza limitata struttura molte delle nostre passioni, ma anche le richieste che volgiamo a noi stessi e agli altri riguardo alle condotte da approvare e privilegiare da un punto di vista morale. In questa benevolenza per coloro che ci sono prossimi risiede la radice della nostra intolleranza verso decisioni inique che possono investirli; e da essa dipende la nostra capacità di apprezzare una condotta generosa o coraggiosa pur proveniente da coloro con i quali, per altri versi, siamo in opposizione.

Ma vi è, secondo un diverso paradigma di riflessione filosofica, un altro aspetto della natura umana cui un'etica senza Dio può richiamarsi: la ragione. Molti pensatori, da Kant a John Rawls (1921-2002), da Voltaire a Habermas, da Bentham a Singer, indicano proprio nella ragione ciò che permette agli esseri umani di avere una vita morale. E la ragione, infatti, ciò che ci permette di apprezzare la superiorità di un punto di vista che non esprima o tuteli l'interesse particolare nostro o di qualcuno, ma costituisca piuttosto la regola, la norma, che esprima e tuteli l'interesse di tutti.

Alla luce di ciò, non si comprende per quale motivo l'etica debba essere sottratta al suo naturale contesto e resa dipendente da improbabili regni trascendenti. Del resto, quasi ogni angolo della nostra vita è governato dalle nostre emozioni e dal nostro raziocinio ed è tempo ci si accorga che anche l'etica è una pratica inclusa nella nostra quotidianità e parte della nostra storia sulla terra. Volgersi alle emozioni e alle capacità razionali rappresenterà per noi una via più sicura e diretta di quella che ci chiede di volgerci lontano per cercare fuori della nostra vita reale la soluzione ai nostri dilemmi. E tempo di rifiutare l'invito di chi vuole che noi si continui a evadere dalla realtà e dalle nostre responsabilità in attesa di soluzioni che verranno da un deus ex machina il cui volere - affidato all'interpretazione di una casta speciale - non è sempre garanzia di miglioramento e tutela delle nostre esistenze ed esigenze.

Un'etica non più agganciata ai comandi eteronomi di Dio sarà complessivamente più accogliente nei confronti degli esseri umani assunti finalmente nella loro piena concretezza e diversità. Sarà caratterizzata da norme la cui portata e pretesa di validità saranno calibrate sull'effettiva esperienza di cui è capace la nostra specie.” (pp. 48-49)

Un’etica senza Dio costituisce, dunue, “una forte rottura rispetto alla moralità del passato almeno sotto tre aspetti: la rinuncia alla ricerca di valori comuni e convergenti come mezzo per la realizzazione di un progresso morale; la sottodeterminazione di valori sostantivi come la solidarietà e la carità che potrebbero segnare la continuità tra etiche del passato e del presente; l'abbandono di una riflessione morale con pretese fondazionali a favore di un'elaborazione che mette in secondo piano l'obiettivo di riuscire a identificare la soluzione giusta e buona da raccomandare a tutti.

Rinunciare all'idea di valori comuni e convergenti significa abbandonare la prospettiva che indica un'origine e un fondamento unitario dell'etica: Dio e la comune legge che ci governa in quanto suoi figli. Al contrario, un'etica senza Dio non rivendica una comune appartenenza o un'uniformità di condotta, ma proprio il valore positivo della diversità dei soggetti morali, che in quanto tali devono essere liberi e individualmente responsabili.

Ma le differenze non finiscono qui. Coloro che fanno proprie le etiche religiose e coloro che fanno propria un'etica senza Dio avranno, ad esempio, differenti aspettative di crescita e sviluppo morale. I primi, infatti, guarderanno a Dio e ai comandi da lui derivati come a un punto di convergenza; mentre i secondi rintracceranno tale punto di convergenza nella storia e nell'evoluzione. Le potenzialità di liberazione e sviluppo della specie umana, finalmente matura e non eterodiretta, risultano inimmaginabili - come già suggeriva John Stuart Mill. Questa strada non è in linea di principio preclusa a coloro che ritengono che Dio ha un ruolo in tutto questo, ma solo a condizione di eliminare l'invadenza di Dio sulla condotta pubblica degli individui.

Un'altra differenza tra etica religiosa ed etica senza Dio può essere rintracciata nel tipo di valori che ciascuna di esse indica. Le etiche religiose si riconoscono intorno a valori quali la solidarietà e la carità. Dal punto di vista di un'etica senza Dio, pur non avendo al loro interno alcunché di negativo e disapprovabile, tali valori risultano del tutto ininfluenti. Essi si risolvono in formule astratte dalle quali non è possibile per l'individuo ricavare alcuna indicazione per affrontare quelle situazioni concrete che richiedono un orientamento morale. Se la solidarietà è un valore in quanto esplicitazione della sensibilità degli uomini nei confronti dei bisogni, delle sofferenze, dei desideri di tutti gli altri uomini senza discriminazione, noi diciamo che essa è il presupposto stesso della possibilità di un'etica, e non un valore particolare. Infine, c'è una differenza tra le etiche ispirate da Dio e quelle senza Dio rintracciabile nella profonda diversità di funzione che, alloro interno, viene riconosciuta alla riflessione morale. Per le prime, che vedono la moralità fondata nel volere di Dio, l'etica è esplicitamente impegnata sui piano normativo. Perciò la riflessione morale deve rendere esplicito il comando di Dio, la legge morale naturale, il dovere morale razionale o il sentimento di umanità comune radicato nella natura umana. Solo così si può dare forza e fondamento alle norme su ciò che per un individuo è bene o giusto fare. Ma un'etica che non trova più il fondamento in Dio, o in una ragione comune o in una natura umana ontologicamente caratterizzata, non potrà in alcun modo conservare al suo interno tali residuali propositi paternalistici. Nel tempo di una piena secolarizzazione e naturalizzazione dell'etica, la riflessione sulla morale non potrà che fare un passo indietro e abbandonare la pretesa di indicare a tutti gli individui ciò che è assolutamente bene o giusto fare. Essa, non potendo più occupare in modo esclusivo il piano della fondazione dei valori, dovrà limitarsi ad affiancare le persone nel processo di realizzazione della consapevolezza di essere individui moralmente responsabili.” (pp. 54-56)

3.

Occorre rilevare anzitutto che il saggio di Lecaldano utilizza, nel quadro di un discorso filosofico, numerosi dati offerti dalla scienza, dall’evoluzionismo darwiniano alla neurobiologia. Nel libro vengono citate le ricerche di Rizzolati, che anch’io ho già segnalato come straordinariamente probanti a favore della natura sociale dell’uomo e di un corredo empatico di natura genetica.

Certo, la conoscenza che i filosofi hanno della scienza (come è vero per gli scienziati riguardo alla filosofia) appare sempre un po’ superficiale. Darwin ha rivendicato l’attribuzione all’uomo di istinti sociali sulla base di un gradualismo evolutivo che lo ha indotto a cercare di ridurre al massimo le differenze tra psicologia animale e psicologia umana. Posto che quell’attribuzione è giusta, rimane il fatto che il gradualismo evolutivo si può ritenere l’anello debole della teoria darwiniana. Di fatto, il salto dallo scimpanzé all’uomo è un salto qualitativamente critico. Nonostante, infatti, tra i corredi genetici delle due specie si dia una differenza minima (1,5%), le differenze psichiche sono abissali. Ciò non è vero solo in rapporto all’attrezzatura cognitiva umana, sulla quale si basa la capacità di astrarre, di produrre e di manipolare simboli, ma anche sul piano delle emozioni.

Le emozioni di base (allarme, quiete, rabbia, dolore, piacere, tristezza, gioia, ecc.) sono presenti sia negli scimpanzè che nell’uomo. Solo l’uomo può sperimentare una quiete e un’angoscia infinita, una rabbia e un dolore infinito, ecc. L’infinitizzazione delle emozioni riguarda soprattutto i rapporti interpersonali, e su questa base l’affettività umana riconosce una scissione tra amore e odio che è solo debolmente rappresentata, sotto forma di simpatia o di avversione, negli altri animali (a livello intraspecifico).

Ciò non contrasta con il fatto che, nell’uomo, l’empatia rimane un aspetto di fondo della sua natura. Di fatto, su questo fondamento la costruzione di un’etica laica è senz’altro possibile.

Il problema è che la natura umana deve fare i conti con la cultura, e soprattutto con le sue indefinite possibilità di alienazione.

Più volte ho rilevato nei miei scritti che se un uomo rimanesse a contatto con l’empatia, per quanto arrabbiato, non potrebbe fare più di tanto male ad un simile. Sono, dunque, convinto che l’empatia svolge nell’uomo la stessa funzione dei meccanismi di inibizione dell’istinto aggressivo che, all’interno di una specie, impediscono di uccidere il simile, come ha dimostrato Lorenz.

La storia attesta, però, che l’empatia, la cui portata si può ritenere universale, è abbastanza facilmente inibita e anestetizzata dalla cultura.

Dimostrare, pertanto, la possibilità di un’etica laica naturalisticamente fondata è estremamente importante. Rimane, però, il fatto che l’esperienza umana è influenzata più dalla cultura che dalla natura. Se così non fosse non si spiegherebbero le infinite violenze e le oppressioni dell’uomo sull’uomo che caratterizzano la storia umana. Non si spiegherebbe, inoltre, neppure la nascita delle grandi religioni che, in epoche e in contesti diversi, hanno richiamato gli uomini ad un legame di fraternità e di solidarietà: hanno, in breve, restaurato la verità della natura umana attribuendola alla sovrannatura.

Se poi teniamo conto del contesto storico-sociale contemporaneo, non possiamo ignorare che la cultura neoliberale sta portando alle estreme conseguenze la separazione da uomo e uomo da cui si è originata la civiltà borghese. L’affermazione dell’individuo attraverso il lavoro e l’accumulo della ricchezza privata, che hanno rappresentato e rappresentano le spinte evolutive della società borghese, non si sarebbero potute realizzare, come ha intuito Marx, se non scindendo i legami preesistenti di appartenenza, che comportavano, per ogni membro del gruppo, di cooperare al fine del bene comune.

La degenerazione individualistica intervenuta negli ultimi decenni non potrebbe essere spiegata se non sulla base di un’anestetizzazione dell’empatia, che rende i soggetti ben poco interessati quando non addirittura del tutto indifferenti agli altri.

Il problema non verte dunque sulla possibilità teorica di opporre un’etica laica ad un’etica religiosa, e neppure sulla valutazione delle due etiche in termini rispettivamente di autonomia e di eteronomia. Esso verte sulla restaurazione della sensibilità e del bisogno morale nel nostro mondo, che, allo stato attuale delle cose, appare come un’autentica rivoluzione culturale.

Che senso ha, infatti, un’etica senza Dio se essa non viene posta in essere e praticata da soggetti che non credono in Dio?

Perché si realizzi quella rivoluzione, occorre trovare la strada per restaurare il contatto degli esseri umani con la loro natura profonda emozionale. Se ciò avvenisse, non ci sarebbe bisogno d’altro. Certo si tratterebbe di produrre socialmente valori morali inerenti problemi del tutto nuovi, come per esempio quelli inerenti il trattamento da riservare agli animali e il rispetto delle risorse naturali che sono un bene che appartengono alle generazioni future, con cui non si dà un legame empatico. L’impresa non apparirebbe impossibile.

E’ la restaurazione della sensibilità morale il nodo che, oggi, sembra il più duro da sciogliere.