Eric Hobsbawm

Il trionfo della borghesia

(Laterza, Bari 2003)

IL MONDO BORGHESE

1.

Dobbiamo ora dare uno sguardo a questa società borghese. I fenomeni più superficiali sono a volte i più profondi. Cominciamo la nostra analisi della società che toccò l'apogeo in questo periodo, partendo dall'aspetto dei vestiti che indossavano i suoi membri e penetrando negli interni che li circondavano. "L'abito fa l'uomo", diceva un proverbio tedesco, e nessuna epoca ne era più cosciente di quella in cui la mobilità sociale poteva collocare numerose persone nella condizione storicamente nuova di recitare parti sociali un tempo sconosciute e superiori, e quindi di dover indossare un vestiario adeguato. Non erano poi trascorsi molti anni da quando l'austriaco Johann Nestroy aveva scritto l'amara e spassosa farsa Il talismano (1840), in cui le fortune un povero diavolo dai capelli rossi cambiano radicalmente grazie all'acquisto, e alla successiva perdita, di una parrucca nera.

La casa era la quintessenza del mondo borghese, perché in essa e soltanto in essa si potevano dimenticare, o sopprimere artificialmente, i problemi e le contraddizioni della sua società. Qui e soltanto qui la famiglia borghese, e ancor più quella piccolo-borghese, potevano mantenere l'illusione di una felicità armoniosa e gerarchica, circondata dai manufatti che ne erano la dimostrazione, e che insieme la rendevano possibile, potevano ancora condurre la vita di sogno che trovava la sua espressione culminante nel rito domestico sistematicamente sviluppato a questo fine, la celebrazione del Natale. Il cenone natalizio (celebrato da Dickens), l'albero di Natale (inventato in Germania, ma rapidamente acclimatatosi in Inghilterra grazie al regio patrocinio), la canzone di Natale - nota soprattutto come la tedesca Stille Nacht - erano il simbolo, nello stesso tempo, del freddo del mondo esterno, del tepore della cerchia di famiglia, e del contrasto fra i due.

L'impressione più immediata dell'interno borghese della metà del secolo è di sovraffollamento e dissimulazione: una quantità di oggetti, più spesso che no mascherati da cuscini, stoffe, drappeggi, tappezzerie, e sempre, qualunque ne sia la natura, elaborati. Nessun quadro senza una cornice dorata, cesellata, ad intarsi, perfino listata di velluto, nessuna sedia senza imbottitura, nessun tessuto senza una nappa, nessun lavoro in legno su cui non sia passato il tornio, nessuna superficie senza un fronzolo o un oggettino sopra. Era indubbiamente un segno di ricchezza e di prestigio: nella bella austerità degli interni Biedermayer si era riflesso il severo rigore delle finanze dei borghesi tedeschi di provincia più che un loro gusto innato, e il mobilio delle stanze della servitù nelle case borghesi era abbastanza squallido. Gli oggetti esprimevano il loro costo e, in tempi in cui quasi tutti gli oggetti domestici continuavano largamente ad essere prodotti a mano, l'elaborazione era in gran parte indizio di costo e, insieme, di materiale raro. Il prezzo pagava pure il confort, che quindi non era soltanto gustato ma visibile.

Gli oggetti non erano però solo utilitari, o simboli di condizione sociale e di successo. Avevano valore in sé come espressione di personalità, come il programma e, insieme, la realtà della vita borghese, perfino come trasformatori dell'uomo. Nella home, tutti questi elementi si esprimevano e si concentravano. Di qui le sue accumulazioni interne. I suoi oggetti erano, come le case che li contenevano, solidi termine usato caratteristicamente come massimo elogio di un'impresa commerciale. Erano fatti per durare, e duravano. Dovevano nello stesso tempo esprimere con la loro bellezza le aspirazioni più alte e spirituali della vita, salvo che le rappresentassero con la loro stessa esistenza come le rappresentavano i libri e gli strumenti musicali, il cui disegno, a parte svolazzi in superficie relativamente minori, conservava una funzionalità sorprendente; o salvo che appartenessero al regno della mera utilità, come gli utensili da cucina e i bagagli. Bellezza significava decorazione, in quanto la pura e semplice struttura delle case della borghesia, o degli oggetti che le ornavano, era di rado abbastanza grandiosa per fornire un nutrimento spirituale e morale in sé, come invece ne fornivano i grandi treni e le grandi navi a vapore. I loro esterni rimanevano funzionali; erano soltanto i loro interni, nei limiti in cui appartenevano al mondo borghese, come le carrozze-letto Pullman di recente ideazione (1865) e le cabine di prima classe e le sale di gala dei piroscafi, ad avere décor. Perciò bellezza significava decorazione: qualcosa di applicato alla superficie degli oggetti.

Questo dualismo fra solidità e bellezza esprimeva una netta divisione fra materiale e ideale, corporeo e spirituale, tipica se altra mai del mondo borghese; e tuttavia, lo spirito e l'idea in esso dipendevano dalla materia, e potevano esprimersi solo attraverso la materia, o almeno attraverso il denaro che poteva acquistarla. Nulla era più spirituale della musica, ma la forma caratteristica nella quale faceva il suo ingresso nella home borghese era il pianoforte, un congegno enorme, straordinariamente elaborato e costoso, anche se ridotto, per il bene di un ceto più modesto aspirante ai veri valori borghesi, alle più maneggevoli dimensioni del pianino. Nessun interno borghese era completo senza di esso; nessuna figlia di borghesi che non fosse costretta a suonarvi sopra innumerevoli scale.

Il legame fra moralità, spiritualità e povertà, così ovvio in società non-borghesi, non era del tutto infranto. Si riconosceva che le probabilità che la ricerca esclusiva di cose elevate non fosse remunerativa erano molte, salvo in arti più commerciabili: lo studente povero o l'artista giovane, come insegnante privato o come ospite alla mensa della domenica, era una parte subalterna riconosciuta della famiglia borghese; in ogni caso, in quelle aree del pianeta in cui la cultura era tenuta in gran rispetto. Ma non se ne concludeva che vi fosse una certa contraddizione fra la ricerca di beni materiali e quella di conquiste spirituali, bensì che l'una era la base necessaria dell'altra. Come doveva scrivere il romanziere E. M. Forster nell'estate di san Martino della borghesia indiana: "Entravano i dividendi; salivano gli alati pensieri". Il destino più adatto, per un filosofo, era d'essere figlio di un banchiere, come Gyorgy Lukàcs. La gloria della cultura tedesca, il Privatgelehrter, poggiava su un reddito privato. Ed era giusto che il povero studioso ebreo sposasse la figlia del più ricco mercante locale, essendo impensabile che una comunità che rispettava il sapere ricompensasse i suoi luminari con nulla di più tangibile di un elogio.

Questo dualismo fra materia e spirito implicava un'ipocrisia che osservatori privi di simpatia hanno considerato una caratteristica non solo onnipresente ma fondamentale del mondo borghese. In nessun campo essa era più ovvia, nel senso letterale, d'essere visibile, che in quello del sesso. Con ciò non si vuoi dire che il borghese (maschio) della metà del secolo XIX (o chi aspirava ad essere un suo pari) fosse puramente e semplicemente disonesto; che predicasse una morale nell'atto di praticarne deliberatamente un'altra, benché sia chiaro che l'ipocrita cosciente si ritrova più spesso laddove l'abisso fra la moralità ufficiale e le esigenze della natura umana " incolmabile, come lo era di frequente nel nostro periodo. E certo che Henry Ward Beecher, il grande predicatore nuovayorkese del puritanesimo, avrebbe dovuto evitare amori extraconiugali così tumultuosi o scegliere una carriera che non gli imponesse di mettersi in vista nella campagna a favore dell'astinenza sessuale; benché non si possa non simpatizzare in qualche modo con la mala sorte che, verso la metà degli anni Settanta, lo unì alla bella femminista e predicatrice del libero amore Victoria Woodhull, una donna le cui convinzioni rendevano difficile ogni privacy. Ma " puro anacronismo supporre, come hanno fatto diversi scrittori recenti su “Gli altri vittoriani”, che la morale sessuale ufficiale dell'epoca fosse soltanto di parata.

Prima di tutto, la sua ipocrisia non era semplicemente una menzogna, eccetto forse tra coloro i cui gusti sessuali erano tanto gagliardi quanto pubblicamente inammissibili, per es. uomini politici eminenti le cui fortune dipendevano da elettori puritani, o rispettabili uomini d'affari omosessuali in città di provincia. Non era affatto ipocrisia nei paesi (come la maggioranza di quelli cattolici) in cui si accettava un cànone francamente duplice: castità per le borghesi nubili e fedeltà per le maritate; libera caccia ad ogni gonnella (forse eccettuate le figlie da marito delle classi medie e superiori) per tutti i giovani borghesi, e infedeltà tollerata per tutti i mariti. Qui le regole del gioco erano perfettamente capite, inclusa la necessità di una certa discrezione nei casi in cui la stabilità della famiglia o della proprietà borghese sarebbe stata altrimenti minacciata: la passione, come sa anche ai giorni nostri ogni italiano della classe media, è una cosa; "la madre dei miei figli", un'altra e ben diversa. In tale quadro di comportamento, l'ipocrisia entrava nei soli limiti in cui si supponeva che le donne borghesi restassero completamente estranee al gioco, quindi all'oscuro di ciò che gli uomini (e le donne diverse da loro) potevano fare. Nei paesi protestanti, si supponeva che la morale dell'astinenza e della fedeltà fosse impegnativa per entrambi i sessi, ma il fatto stesso che così la sentissero anche coloro che la violavano li metteva in uno stato non tanto di ipocrisia, quanto di tormento personale. Non " giusto trattare da puro e semplice imbroglione chi si trova in una situazione del genere.

Inoltre, la morale borghese era in larghissima misura praticata; è anzi possibile che sia divenuta sempre più effettiva via via che le masse di operai "rispettabili" adottavano i valori della cultura egemonica, e via via che le classi medie inferiori, che la seguivano per definizione, crescevano di numero. Simili questioni erano persino al riparo dall'acuto interesse del mondo borghese per la "statistica morale", come ammetteva tristemente un libro di consultazione degli ultimi anni del secolo, liquidando come falliti tutti gli sforzi per misurare la diffusione della prostituzione. Il solo tentativo su vasta scala di misurare l'estensione delle malattie veneree, che avevano chiaramente forti legami con qualche tipo di rapporto extraconiugale, rivelò poco più del fatto non imprevedibile che in Prussia esse erano molto più diffuse nella megalopoli berlinese che in qualunque città di provincia (tendendo di norma a decrescere nelle cittadine e borgate minori) e raggiungevano il massimo in città portuali, guarnigioni e istituti di istruzione superiore, cioè con forti concentrazioni di giovani scapoli lontani da casa loro. Non v'è ragione di supporre che il medio appartenente alla borghesia grande e piccola, o alla classe operaia "rispettabile", diciamo nell'Inghilterra vittoriana e negli Stati Uniti della stessa epoca, non fosse all'altezza dei suoi cànoni di moralità sessuale. Le giovani americane che stupirono i cinici uomini di mondo della Parigi di Napoleone III per la libertà con cui i genitori le lasciavano girare sole o in compagnia di giovani americani sono una testimonianza di morale sessuale non meno (e forse più) probante che i reportages giornalistici sui covi del vizio nella Londra mediovittoriana. Non è lecito applicare cànoni post-freudiani a un mondo freudiano, o supporre che il comportamento sessuale di allora dovesse essere simile al nostro. metro moderno, quei monasteri laici che sono i colleges di Oxford e Cambridge sembrano dei prontuari di patologia sessuale. Che cosa penseremmo oggi, di un Lewis Carroll la cui passione era di fotografare ragazzine nude? Al metro vittoriano, i vizi peggiori erano quasi certamente la gola più che la lussuria, e il gusto sentimentale quasi di sicuro (il termine " rivelatore) "platonico" di tanti docenti universitari per i giovani alunni fra i naturali capricci di scapoli inveterati. la nostra età che ha trasformato la frase "far l'amore" in puro e semplice sinonimo del rapporto sessuale. Il mondo borghese era ossessionato dal sesso, ma non necessariamente dalla promiscuità sessuale: la nemesi caratteristica del mito popolare borghese, come vide con tanta chiarezza Thomas Mann, faceva seguito a un'unica caduta dallo stato di grazia, come la sifilide terziaria del compositore Adrian Leverkuehn nel Doctor Faustus. Lo stesso estremismo delle sue paure riflette una prevalente ingenuità, o innocenza.

Questa stessa innocenza, tuttavia, ci permette di cogliere con estrema chiarezza il forte elemento sessuale del mondo borghese nel suo abbigliamento: una straordinaria miscela di tentazione e proibizione. Il borghese medio-vittoriano era avvolto in capi di vestiario che lasciavano pubblicamente visibili ben poche cose, anche nei Tropici, eccetto il volto. In casi estremi (come negli Stati Uniti) perfino oggetti che ricordano il corpo umano (le gambe dei tavoli) potevano essere nascosti. Nello stesso tempo, e mai più che nel ventennio dal 1860 al 1880, ogni caratteristica sessuale secondaria veniva grottescamente accentuata - i capelli e la barba nell'uomo, l'acconciatura, i seni, i fianchi e le natiche nella donna - si gonfiavano fino a raggiungere dimensioni enormi grazie a falsi chignons, culs de Paris, ecc. L'effetto conturbante del famoso Déjeuner sur l'herbe di Manet (1863) deriva appunto dal contrasto fra l'assoluta rispettabilità dell'abbigliamento dei due uomini e il nudo integrale della donna. Lo stesso clamore con cui la civiltà borghese insisteva che la donna è un essere essenzialmente spirituale, implicava sia che l'uomo non lo fosse, sia che l'ovvia attrazione fisica fra i sessi non quadrasse con il sistema corrente dei valori. Il successo era incompatibile col piacere, come continua a supporre il folklore delle competizioni sportive condannando i campioni ad un celibato temporaneo prima del grande incontro di calcio o di boxe. Più in generale, la civiltà poggiava sulla repressione degli istinti. Il più grande degli psicologi borghesi, Sigmund Freud, fece di questa proposizione la pietra angolare delle sue dottrine, benché generazioni successive vi leggano un appello a favore dell'abolizione della repressione.

Ma perché un concetto in sé non implausibile era sostenuto con un'intransigenza appassionata e perfino patologica, contrastante in modo così radicale (come osserverà con il solito umorismo Bernard Shaw) con l'ideale di moderazione e juste milieu che tradizionalmente definiva le ambizioni e i compiti sociali della borghesia? Ai gradini inferiori della scala delle aspirazioni borghesi, la risposta è facile. Solo sforzi eroici potevano sollevare un pover'uomo e una povera donna, o gli stessi loro figli, dalla palude della demoralizzazione al solido altopiano della rispettabilità; e, soprattutto, definirvi la loro posizione. Come per il membro dell'Alcoholics Anonymous, una soluzione di compromesso era impossibile: o astinenza totale, o ricaduta totale. Il movimento per l'astinenza completa dall'alcool, che appunto in quest'epoca fiorì nei paesi protestanti e puritani, ne è una chiara illustrazione. Il suo intento non era di abolire, meno che mai ridurre, l'alcoolismo di massa, ma di circoscrivere e delimitare la categoria di coloro che avevano dimostrato con la loro forza personale di carattere d'essere distinti dai poveri non-rispettabili. Il puritanesimo sessuale assolveva lo stesso compito. Ma questo era un fenomeno "borghese" nei soli limiti in cui rifletteva l'egemonia della rispettabilità borghese: come la lettura di Samuel Smiles o la pratica di altre forme di self-help e di "auto-perfezionamento", rimpiazzava il successo borghese più che non predisponesse a raggiungerlo. A livello dell'operaio o impiegato "rispettabile", l'astinenza doveva non di rado costituire la sua ricompensa. In termini materiali, non dava che frutti modesti.

Il problema del puritanesimo sessuale borghese è più complesso. La credenza che il borghese della metà dell'Ottocento fosse eccezionalmente sensuale, e quindi dovesse per forza costruirsi delle impenetrabili difese contro la tentazione fisica, non convince: ciò che rendeva così forte la tentazione era appunto l'estremismo dei canoni morali accettati, che rendevano la caduta corrispondentemente più drammatica, come nel caso del cattolico-puritano conte Muffat in Nana di Zola, il romanzo della prostituzione nella Parigi degli anni Sessanta. Naturalmente, come vedremo, il problema era, in una certa misura, economico. La "famiglia" non era soltanto la cellula elementare della società borghese, ma la sua unità-base di proprietà e di impresa, legata a tutte le altre unità simili attraverso un sistema di scambi di donne-più-proprietà (la "dote"), in cui le future mogli erano, per rigida convenzione derivante dal passato preborghese, virgines intactae. Tutto ciò che indeboliva questa unità familiare era inammissibile, e nulla la indeboliva più di una passione fisica incontrollata, tale da introdurre corteggiatori e corteggiati "inidonei" (cioè economicamente indesiderabili), da dividere i mariti dalle mogli, e da dilapidare risorse comuni.

Ma le tensioni non erano soltanto economiche. Nel nostro periodo esse erano particolarmente acute quando la morale dell'astinenza, della moderazione, dell'autocontrollo cozzava brutalmente contro le realtà del successo borghese. L'uomo della borghesia non viveva più in un'economia familiare di ristrettezza, né in un rango sociale al riparo dalle tentazioni dell'alta società. Il suo problema era non tanto di risparmiare, quanto di spendere. Non solo era sempre più frequente il "borghese che non lavora" a Colonia, il numero dei rentiers soggetti a imposta sul reddito salì da 162 nel 1854 a 600 circa nel 1874 ma che altro modo aveva il borghese di successo di dimostrare lo splendore dei propri trofei, detenesse o no il potere in quanto classe, se non quello di spendere? Il vocabolo parvenu (nuovo ricco) diventava automaticamente sinonimo di spendaccione. Sia che questi borghesi cercassero di scimmiottare lo stile di vita dell'aristocrazia, o, nella loro coscienza di classe, come Krupp e i suoi colleghi magnati della Ruhr, si costruissero dei castelli e degli imperi industrial-feudali paralleli a quelli degli junker i cui titoli rifiutavano, e ancor più imponenti, essi dovevano spendere; e in un modo che inevitabilmente avvicinava il loro stile di vita, e quello delle loro donne ancor di più, allo stile di vita dell'aristocrazia non-puritana. Prima degli anni Cinquanta, il problema aveva riguardato un numero relativamente piccolo di famiglie; in qualche paese, come la Germania, nessuna addirittura. Ora divenne il problema di tutta una classe.

La borghesia in quanto classe trovava una difficoltà enorme a combinare in dosi moralmente soddisfacenti entrate e spese, così come non riusciva a risolvere il problema materiale equivalente del modo di assicurare una successione di uomini d'affari altrettanto dinamici e capaci nell'ambito della stessa famiglia un fatto cui si doveva il ruolo crescente delle figlie, che potevano arricchire di sangue nuovo il complesso aziendale. Dei quattro figli del banchiere Friedrich Wicheihaus, di Wuppertal (1810-1886), soltanto Robert (nato nel 1836) rimase banchiere: gli altri tre (nati rispettivamente nel 1831, nel 1842 e nel 1846) finirono come proprietari fondiari due e come professore di università uno, ma entrambe le figlie (nate nel 1829 e nel 1838) sposarono degli industriali, incluso un membro della famiglia Engels lo. Lo stesso oggetto delle aspirazioni e degli sforzi della borghesia, il profitto, cessava d'essere un pungolo adeguato non appena aveva prodotto una ricchezza sufficiente. Verso la fine del secolo, la borghesia scoprì una formula almeno temporanea per combinare i due termini della contabilità a partita doppia, pareggiandoli in qualche modo con le acquisizioni di epoche passate. Gli ultimi decenni prima del 1914 dovevano essere l'"estate di san Martino", la belle époque, della vita borghese, rimpianta retrospettivamente dai suoi superstiti. Ma nel terzo venticinquennio del secolo XIX le contraddizioni toccarono forse lo stadio più acuto: sforzo e piacere coesistevano, ma urtandosi. E la sessualità era una delle vittime del conflitto; l'ipocrisia ne era la vincitrice.

2.

Al riparo di un baluardo di vestiti, pareti e oggetti domestici, sorgeva la famiglia borghese, l'istituzione più misteriosa dell'epoca. Se è facile come attesta un'ampia letteratura scoprire o immaginare dei nessi fra puritanesimo e capitalismo, quelli fra struttura familiare ottocentesca e società borghese rimangono infatti, oscuri. L'evidente conflitto fra le due è passato quasi sempre inavvertito. Perché mai era necessario che una società ligia ai valori dell'economia di intrapresa concorrenziale generatrice di profitti, agli sforzi dell'individuo isolato, all'eguaglianza dei diritti e dei punti di partenza, alla libertà, poggiasse su un'istituzione che così radicalmente li negava?

La sua cellula-base, il nucleo unifamiliare, era insieme una autocrazia patriarcale e un microcosmo del genere di società che la borghesia come classe (o i suoi portavoce teorici) denunziavano e distruggevano: una gerarchia di dipendenza personale:

Qui in ferma saggezza domina il padre, marito e padrone./Colmandola di prosperità come tutore, come guida e giudice.

Sotto di lui - per continuare nella citazione dal proverbial philosopher Martin Tupper - volteggiava "il buon angelo della casa, la madre, moglie e padrona", alla quale spettava, secondo il grande Ruskin: I. Compiacere gli altri II. Nutrirli in modi squisiti III. Vestirli IV. Tenerli in ordine V. Educarli, per il quale, curioso a dirsi, non le si chiedeva di mostrare, o possedere, né intelligenza né cultura ("Sii buona e dolce, fanciulla scriveva Charles Kingsley e lascia che sia intelligente chi vuole"). Questo non solo perché la nuova funzione della moglie borghese, di mettere in risalto la capacità del marito borghese di mantenerla nell'ozio e nel lusso, contrastava con la vecchia funzione di reggere e guidare la famiglia, ma anche perché doveva essere dimostrabile la sua inferiorità nei confronti dell'uomo:

Ha saggezza? Ottima cosa, ma guàrdati dall'eccedere:/é la donna dev'essere soggetta, e la vera sovranità è della mente.

Senonché a questa bella schiava ignorante e sciocchina si chiedeva anche di esercitare poteri sovrani; non tanto sui figli, il cui signore era ancora una volta il pater familias 1, quanto sui domestici, la cui presenza distingueva il borghese dai suoi inferiori sociali. Una "signora" era definibile come colei che non eseguiva alcun lavoro, e quindi ordinava ad altri di eseguirlo; un rapporto che stabiliva la sua superiorità. Sociologicamente, la differenza fra operai e borghesi era fra servi potenziali e detentori di servi, e così la usò, alla fine del secolo, l'inchiesta sociale pionieristica di Seebohm Rowntree a York. La servitù, poi, era composta sempre più e in assoluta prevalenza da donne - fra il 1841 e il 1881 la percentuale degli uomini occupati in servizi domestici e personali calò in Inghilterra da circa il 20 a circa il 12% -, cosicché la famiglia borghese ideale consisteva di un padrone dominante un certo numero di femmine gerarchicamente scaglionate, e questo tanto più in quanto i figli maschi tendevano ad abbandonare il tetto paterno una volta raggiunta la maggiore età, e perfino nelle classi superiori inglesi quella del collegio.

Ma il servo, pur ricevendo un salario e quindi rappresentando l'equivalente domestico dell'operaio il cui impiego definiva nel campo dell'economia il borghese di sesso maschile, era essenzialmente diverso, perché il vincolo principale che la (o più raramente lo) legava al padrone non era il nesso monetario, bensì una dipendenza personale e, ai fini pratici, una dipendenza completa. Ogni aspetto della sua vita era rigorosamente prefissato e, poiché la "serva" o il "servo" abitava in una qualche soffitta miseramente arredata, controllabile. Dal grembiule o dalla divisa che portava, fino al benservito senza il quale non avrebbe più trovato impiego, tutto in lei o in lui simboleggiava un rapporto di sovranità e sudditanza. Ciò non escludeva relazioni personali strette anche se ineguali, come non le escludeva nelle società schiaviste; anzi è probabile che le favorisse, benché non si debba mai dimenticare che, per ogni bambinaia o giardiniere che spendeva tutta la vita al servizio di una sola famiglia, v'erano centinaia di ragazze di campagna che passavano per breve tempo attraverso la casa padronale per approdare di qui alla gravidanza, al matrimonio o a un altro posto di lavoro, non essendo trattate che come l'ennesimo esempio di quel "problema della servitù" di cui erano piene zeppe le conversazioni delle loro padrone. Il punto cruciale è che la struttura della famiglia borghese contraddiceva brutalmente quella della società borghese. Nella sua cerchia, libertà, opportunità, nesso monetario e ricerca del profitto individuale non regnavano.

Si potrebbe sostenere che così fosse perché l'anarchismo individualista.hobbesiano costituente il modello teorico dell'economia borghese non forniva alcuna base per una forma qualsiasi di organizzazione sociale, compresa quella della famiglia. E senza dubbio, sotto un certo aspetto, essa formava un deliberato contrasto con il mondo esterno, un'oasi di pace in un mondo di battaglia, le repos du guerrier:

Ora tu saprai - scriveva la moglie di un industriale francese a uno dei suoi figli nel 1856 - che viviamo in un secolo nel quale gli uomini hanno valore soltanto per se stessi, e nel quale un commesso intelligente e coraggioso prende il posto del suo padrone allorché quest'ultimo, per scarsa energia o per leggerezza, è costretto a scendere dal rango che un tempo gli sembrava assicurato.

"Che battaglia!", scriveva il marito, tutto preso dalla concorrenza con industriali tessili inglesi: "Ci sarà un buon numero di uccisi, nella lotta, e un numero anche maggiore di crudelmente feriti". La metafora della guerra saliva per impulso naturale alle labbra di uomini che discutevano della propria "lotta per l'esistenza" o della "sopravvivenza del più adatto", così come la metafora della pace saliva spontanea alle loro labbra quando descrivevano la home: "il luogo di residenza della gioia", il posto in cui "l'ambizione soddisfatta del cuore gioiva" come non avrebbe mai potuto gioire fuori, perché non avrebbe mai potuto sentirsi, o concedersi il lusso di ammettere di sentirsi, soddisfatto.

Ma è anche possibile che nella famiglia borghese trovasse espressione necessaria l'essenziale inegualitarismo su cui poggiava il modo di produzione capitalistico. Proprio perché non si basava su ineguaglianze tradizionali, collettive, istituzionalizzate, la dipendenza doveva essere un rapporto individuale. Essendo così incerta per l'individuo, la superiorità doveva avere una forma che fosse permanente e sicura. Dato che la sua espressione essenziale era il denaro, e questo è una pura manifestazione fenomenica del rapporto di scambio, dovevano completarla altre forme di espressione che dimostrassero il dominio di persone su persone. Non c'era nulla di nuovo, naturalmente, in una struttura familiare patriarcale basata sulla subordinazione della donna e dei figli. Ma laddove ci si sarebbe logicamente potuti aspettare che una società borghese la infrangesse o la trasformasse come doveva poi disintegrarsi, la fase classica della società borghese la rafforzò ed esasperò.

Fino a che punto questa patriarchia borghese "ideale" rappresentasse effettivamente la realtà, è tutta un'altra questione. Un osservatore raffigurava sinteticamente il borghese tipico di Lilla come un uomo che "teme Iddio, ma soprattutto sua moglie, e legge l' Echo du Nord '", e questa è una versione dei fatti della vita familiare borghese almeno altrettanto plausibile quanto la teoria di conio maschile della fragilità e dipendenza della donna, a volte patologicamente esagerata fino a diventare il sogno e l'occasionale pratica mascolina della moglie-pupattola scelta e plasmata dal futuro marito. Tuttavia, l'esistenza e perfino il consolidarsi della famiglia borghese tipo in questo periodo sono indicativi: essi bastano a spiegare gli inizi proprio allora, fra le donne della borghesia, di un movimento femminista sistematico, almeno nei paesi anglosassoni e protestanti.

Il nucleo familiare borghese non era però che la cellula del più vasto rapporto familiare nel cui ambito agiva l'individuo: "i Rothschild", "i Krupp", o, se si vuole, "i Forsyte", che fanno di tanta parte della storia sociale ed economica del secolo XIX una questione essenzialmente dinastica. Una quantità enorme di materiale su queste famiglie si è accumulato nel corso del secolo passato, ma né gli antropologi sociali né i compilatori di manuali di genealogia (occupazione aristocratica, quest'ultima) se ne sono abbastanza interessati per rendere facile una generalizzazione di una qualche attendibilità intorno a simili gruppi di famiglie.

Fino a che punto essi erano emersi di recente da strati sociali inferiori? Non in misura rilevante, parrebbe, benché nulla, in teoria, vietasse l'ascesa sociale. L'89% dei siderurgici inglesi nel 1865 veniva da famiglie del ceto medio, il 7% dalla piccola borghesia (compresi piccoli bottegai, artigiani , ecc.) e un semplice 4% dalla cerchia degli operai specializzati o caso più improbabile '. Gli industriali tessili della Francia del Nord, nello stesso periodo, erano pure in stragrande maggioranza figli di quella che poteva già considerarsi la classe media; origini simili aveva il grosso dei fabbricanti di calze e maglie a Nottingham verso la metà del secolo (due terzi venivano dal commercio degli stessi articoli). I padri fondatori dell'azienda capitalistica nella Germania di Sud-ovest non sempre erano ricchi, ma è significativo il numero di quelli con lunga esperienza di famiglia negli affari e, spesso, nelle industrie che dovevano costruire: protestanti svizzero-alsaziani come i Koechlin, i Geigy o i Sarrasin, ebrei cresciuti nella finanza di principotti locali, più che impresari tecnicamente innovatori. Uomini colti soprattutto figli di pastori protestanti o di funzionari statali modificavano ma non alteravano il proprio status sociale entrando in imprese capitalistiche. Le carriere nel mondo borghese erano bensì aperte al talento, ma il membro di una famiglia con un grado anche modesto di istruzione, patrimonio e legami sociali con altri dello stesso rango, partiva senza dubbio con un vantaggio relativamente enorme; non ultimo, la capacità di contr

I vantaggi economici di una grande famiglia, o di intrecci di famiglie, continuavano naturalmente ad essere sostanziosi. Nell'ambito della professione, essi garantivano capitali, forse contatti d'affari utili, soprattutto amministratori degni di fiducia. I Lefebvre di Lilla nel 1851 finanziarono la ditta di pettinatura laniera di un cognato, Amédée Prouvost. La Siemens e Haiske, la celebre azienda elettrica fondata nel 1847, ricevette il suo primo capitale da un cugino del titolare; un fratello ne fu il primo impiegato, e nulla di più naturale del fatto che i tre fratelli Werner, Karl e Wilhelm assumessero rispettivamente la direzione delle filiali di Berlino, Pietroburgo e Londra. I famosi clan protestanti di Mulhouse contavano l'uno sull'altro: André Koechlin, genero di un Doilfuss fondatore della Dollfuss-Mieg (sia lui che il padre avevano preso in moglie una Mieg), rilevò la ditta in attesa che i suoi quattro cognati fossero in età di amministrarla, mentre lo zio di lui Nicholas dirigeva. l'azienda. di famiglia Koechlin, "alla quale aveva associato esclusivamente i fratelli e i cognati, oltre al vecchio genitore". Nel frattempo un altro Doilfuss, pronipote del fondatore, entrava in un'altra ditta locale di famiglia, la Schlumberger et Cie. La storia aziendale del secolo scorso è piena di simili alleanze e interpenetrazioni familiari. Esse presupponevano un gran numero di figli e figlie disponibili, ma di questi non v'era penuria, e quindi - diversamente che fra i contadini francesi, i quali non avevano bisogno che di un solo erede per rilevare il podere di famiglia -non v'era un forte incentivo al controllo delle nascite, fuorché nella piccola e piccolissima borghesia povera e assillata da difficoltà perenni.

Ma com'erano organizzati, questi clan? Come operavano? A che punto cessarono di rappresentare gruppi di famiglia per divenire gruppi sociali compatti, una borghesia locale, o addirittura (come nel caso, forse, dei banchieri protestanti o israeliti) una rete più estesa, di cui le alleanze di famiglia non costituivano che un aspetto? A simili domande non siamo per ora in grado di rispondere.

3.

Che cosa, in altri termini, intendiamo per "borghesia" in quanto classe, nel nostro periodo? Le sue definizioni economiche, politiche e sociali differiscono lievemente, ma restano abbastanza affini per non causare difficoltà eccessive.

Così, economicamente, la quintessenza del borghese era l'essere un "capitalista" (cioè un detentore di capitale, o percettore di reddito derivante da una simile fonte, o imprenditore generante profitto, o tutte queste cose in una). E in realtà, i "borghesi" o i membri del ceto medio caratteristici del nostro periodo comprendevano poche persone che non si adattassero ad una di queste caselle. Le 150 famiglie al vertice di Bordeaux nel 1848 includevano novanta uomini d'affari (mercanti, banchieri, negozianti, ecc., benché, finallora, pochi industriali), quarantacinque proprietari e rentiers, e quindici liberi professionisti che naturalmente, a quell'epoca, appartenevano a professioni da considerarsi come varietà di imprese private. Ne era del tutto assente la figura del dirigente superiore e (almeno nomi) stipendiato, che dominerà il quadro delle 450 famiglie bordolesi nel 1960'. Si potrebbe aggiungere che, sebbene la proprietà fondiaria o, più comunemente, immobiliare-urbana rimanesse una fonte importante di reddito borghese, in specie fra la borghesia media e piccola in aree di industrializzazione attardata, essa tendeva già a diminuire in importanza: nella stessa Bordeaux non-industriale (1873) non formava che il 40% della ricchezza lasciata in eredità (il 23% delle fortune maggiori), mentre nella industriale Lilla, e nello stesso anno, ne costituiva soltanto il 31%.

Naturalmente, il personale della politica borghese era un po' diverso, se non altro perché la politica era ed è un'attività specializzata ed assorbente, che non attirava tutti nell'identica misura, o per la quale non tutti erano egualmente idonei. Ciononostante, il grado in cui nel nostro periodo la politica borghese era condotta da borghesi attivi (o in pensione) non può non sorprendere. Così, nella seconda metà del secolo XIX, dal 25 al 40% dei membri del Consiglio federale svizzero consisteva di imprenditori e rentiers (e il 20-30% del totale formava la cricca dei "baroni federali" che dirigevano le banche, le ferrovie e le industrie), una percentuale un po' più alta che nel secolo XX; un altro 15-20% era composto di praticanti le professioni libere, cioè avvocati benché il 50% del totale avesse la laurea in legge, titolo standard per la vita pubblica e l'amministrazione statale nella maggioranza dei paesi;, infine, un 20-30% constava di "personalità pubbliche" di professione (prefetti, giudici rurali e altri cosiddetti Magistrati)'. Il gruppo liberale nella Camera belga alla metà del secolo era composto per l'83% da borghesi: il 16% da uomini d'affari, il 16% da propriétaires, il 15% da banquiers, il 18% da amministratori di professione e il 42% da liberi professionisti, cioè avvocati e qualche medico. Questa caratteristica era altrettanto, o forse più, netta nella politica locale delle città, dominate com'esse erano, naturalmente, dai notabili borghesi (cioè, di norma, liberali) del luogo. Se i gradini superiori del potere erano occupati in larga misura da gruppi già tradizionalmente stabiliti, dal 1830 (in Francia) e dal 1848 (in Germania) in poi la borghesia “prese d'assalto e conquistò i livelli inferiori del potere politico", come i consigli comunali, i municipi, i consigli di dipartimento, ecc., e li tenne sotto controllo fino all'avvento della politica di massa negli ultimi decenni del secolo. Dal 1830, Lilla ebbe dei sindaci che erano uomini d'affari di primo piano'. In Inghilterra, le grandi città erano notoriamente nelle mani dell'oligarchia degli uomini d'affari locali.

Socialmente, le definizioni non erano altrettanto chiare, benché la “borghesia", o "ceto medio", comprendesse ovviamente tutti i gruppi di cui sopra, purché abbastanza ricchi e stabiliti: imprenditori e commercianti, liberi professionisti, e i gradi superiori dell'amministrazione, che erano, inutile dirlo, un gruppo numericamente esiguo salvo nelle capitali. La difficoltà risiedeva sia nel definire i limiti "superiore" ed "inferiore" di ogni singolo strato all'interno della gerarchia sociale, sia nel tener conto della forte eterogeneità dei suoi membri entro questi limiti: v'era sempre almeno una stratificazione interna accettata in grande, moyenne e petite bourgeoisie, l'ultima sfumante in gruppi estranei de facto alla classe in senso proprio.

Al vertice, la borghesia era più o meno distinta dall'aristocrazia (alta o bassa), in parte a seconda dell'esclusività giuridica e sociale di questo gruppo o della propria coscienza di classe. Nessun borghese poteva diventare un vero aristocratico, diciamo, in Russia o in Prussia; perfino laddove si distribuivano liberamente titoli di bassa nobiltà, come nell'impero asburgico, nessun conte Chotek o conte Auersperg, per quanto disposto ad entrare nel consiglio di amministrazione di un'impresa industriale o commerciale, avrebbe considerato un barone von Wertheimstein qualcosa di diverso da un banchiere di estrazione borghese o da un ebreo. L'Inghilterra era quasi sola nell'assorbire sistematicamente, benché in questo periodo ancora modestamente, nella aristocrazia degli uomini d'affari banchieri e finanzieri piuttosto che industriali.

D'altra parte, fino al 1870 e pure dopo, v'erano ancora degli industriali tedeschi che si rifiutavano di permettere ai loro nipoti di diventare ufficiali della riserva, cosa ritenuta sconveniente per giovani della loro classe, o i cui figli insistevano per servire in fanteria o nel genio, piuttosto che in un corpo socialmente più esclusivo come la cavalleria. Ma si deve aggiungere che via via che i profitti affluivano - e nel nostro periodo erano molto sostanziosi - non accadeva spesso che i ricchi resistessero alla tentazione delle decorazioni, dei titoli, dei matrimoni con nobili, e, in genere, di uno stile di vita aristocratico.

Industriali inglesi non-conformisti passavano alla Chiesa anglicana, e nel Nord della Francia il "voltairianismo appena appena velato" di prima del 1830 si convertì sempre più dopo il 1870 in fervente cattolicesimo.

Al basso, la linea divisoria era assai più chiaramente economica, benché gli uomini d'affari - almeno in Gran Bretagna - potessero tirare una netta linea qualitativa fra sé e i proscritti sociali che vendevano merci direttamente al pubblico, come i bottegai; almeno finché il commercio al minuto non ebbe dimostrato di poter anch'esso fruttare milioni a chi lo praticava. L'artigiano indipendente e il piccolo bottegaio appartenevano chiaramente ad un ceto medio o Mittelstand inferiore, che aveva poco in comune con la borghesia in senso proprio, fuorché la aspirazione al suo status sociale. Il contadino ricco non era un borghese, né lo era l'impiegato di concetto. Tuttavia, la metà del secolo XIX possedeva un serbatoio del vecchio tipo di piccolo produttore o venditore di merci economicamente indipendente, perfino di operaio qualificato e caposquadra (che spesso prendeva il posto del tecnico moderno), abbastanza vasto perché la linea divisoria divenisse vaga e sfumata: qualcuno prosperava e, almeno nella sua località, era accettato come borghese fatto e finito.

Giacché la caratteristica principale della borghesia come classe era d'essere un insieme di persone di potere e di influenza indipendenti dal potere e dall'influenza della nascita e del rango tradizionali. Per appartenervi bisognava essere "qualcuno"; Una persona che contasse come individuo per la sua ricchezza, per la sua capacità di comandare altri o, diversamente, di influenzarli. La forma classica della politica borghese era perciò, come si è visto, del tutto diversa dalla politica di massa dei socialmente inferiori, inclusa la piccola borghesia. Il mezzo classico al quale il borghese nei guai o con buoni motivi per lamentarsi faceva ricorso, era l'esercizio o la richiesta di riconoscimento di un'influenza personale; una parola scambiata col sindaco, il deputato, il ministro, l'ex compagno di scuola o di collegio, il parente o il "contatto" d'affari. L'Europa borghese era o divenne piena di sistemi più o meno informali di protezione o mutuo sostegno, reti di vecchie conoscenze o mafie ("amici di amici"), fra i quali avevano naturalmente una grande importanza quelle derivanti dal fatto di aver frequentato gli stessi istituti scolastici, specie se istituti superiori, che dessero vita a legami non meramente locali ma nazionali . Una di queste reti, la massoneria, serviva uno scopo anche più importante in alcuni paesi, come soprattutto quelli cattolici latini, perché poteva fungere da cemento ideologico per la borghesia liberale nella sua dimensione politica o, per esempio in Italia, addirittura come l'unica (in pratica) organizzazione permanente e nazionale della classe . Il borghese singolo che si sentiva all'altezza di commentare le faccende pubbliche sapeva che una lettera a "The Times" o alla "Neue Freie Presse" non solo avrebbe raggiunto una gran parte della sua classe e i detentori del potere di decisione, ma, cosa assai più importante, sarebbe stata stampata in forza del suo prestigio sociale come individuo. La borghesia in quanto classe non organizzava movimenti di massa, ma gruppi di pressione. Il suo modello in politica non era il cartismo, ma l'Anti-Corn-Law League.

Naturalmente, il grado in cui il borghese era un "notabile" variava enormemente, dalla grande bourgeoisie il cui raggio d'azione era nazionale o perfino internazionale alle figure più modeste che erano persone importanti ad Aussig o a Groningen. Krupp si aspettava e otteneva una considerazione maggiore che Theodor Boeninger di Duisburg, che l'amministrazione regionale raccomandò per il titolo puro e semplice di Kommerzienrat perché era ricco, industriale capace, attivo nella vita pubblica ed ecclesiastica, e perché aveva appoggiato il governo nelle elezioni e nei consigli sia municipali che distrettuali. Ma entrambi, ciascuno a modo suo, erano persone "che contavano". Se piastre di protezione di uno snobismo interno dividevano i milionari dai ricchi, e questi a loro volta dai semplicemente agiati, cosa abbastanza naturale in una classe la cui essenza stessa era di arrampicarsi più in alto per sforzo individuale, non distruggevano però quel senso di coscienza di gruppo che del "medio ordine" della società faceva la "classe media" o "borghesia".

Esso poggiava su assunti, credenze, forme di azione comuni. La borghesia del terzo venticinquennio del secolo XIX era in stragrande maggioranza "liberale", non necessariamente in senso partitico (benché, come si è visto, i partiti liberali prevalessero), ma in senso ideologico. Essa credeva nel capitalismo, nell'iniziativa privata concorrenziale, nella tecnica, nella scienza e nella ragione. Credeva nel progresso, in un certo grado di governo rappresentativo e in una certa dose di diritti e libertà civili, purché compatibili con l'impero della legge e col tipo d'ordine che manteneva i poveri al loro posto. Credeva nella cultura più che nella religione, in casi estremi sostituendo la presenza rituale all'opera, al teatro o al concerto, a quella in chiesa. Credeva nella carriera aperta all'iniziativa e al talento, e nella prova che dei suoi meriti davano le vite dei propri figli. Come si è osservato, a quest'epoca la fede tradizionale e spesso puritana nelle virtù dell'astinenza e della moderazione trovava difficoltà a resistere alla realtà del successo materiale; ma non si cessava di rimpiangerle. Se mai la società tedesca dovesse crollare, ragionava uno scrittore nel 1855, sarebbe perché la borghesia ha cominciato a inseguire l'apparenza e il lusso “senza cercar di controbilanciarli col semplice e robusto senso civico [Burgersinn], col rispetto per le forze spirituali vita, con lo sforzo per identificare la scienza, le idee e il talento con il progressivo sviluppo del Terzo Stato".

Forse, questo senso acuto di una lotta per l'esistenza, di una selezione naturale in cui, dopo tutto, la vittoria o il fatto stesso di sopravvivere provavano sia l'idoneità, sia le doti essenzialmente morali che sole possono generarla, riflette un adattamento della vecchia etica borghese alla situazione nuova. Il darwinismo, sociale o altro, era non soltanto scienza ma ideologia, anche prima di venir formulato come tale. Essere borghesi non era semplicemente essere superiori, ma anche aver dimostrato qualità morali equivalenti alle antiche qualità puritane.

Ma, più di qualunque altra cosa, significava superiorità. Il borghese non era soltanto indipendente, un uomo al quale nessuno (salvo Dio o lo Stato) impartiva ordini, ma un uomo che li impartiva egli stesso. Non era soltanto un imprenditore, datore di lavoro o capitalista, ma socialmente un "padrone", un lord, un Fabrikherr, un patron o chef. Il monopolio del comando in casa, in ditta, in fabbrica era cruciale per la propria autodefinizione; e la sua proclamazione formale nominale o reale che fosse è un elemento inseparabile da tutti i conflitti di lavoro del periodo:

Ma c'è anche in me il Direttore delle Miniere, cioè il capo di tutta una popolazione operaia [...}. Io debbo far rispettare in me il principio di autorità: questo è sempre stato lo scopo presente al mio spirito nei rapporti con la classe lavoratrice.

Solo il libero professionista, o l'artista e l'intellettuale, che non era essenzialmente un datore di lavoro, o qualcuno con dei subordinati, non era in prima istanza un "padrone". Anche qui, il "principio di autorità" era tutt'altro che assente dal contegno sia del professore universitario tradizionale sui continente europeo, sia del medico di stampo autocritico, del direttore d'orchestra o del pittore capriccioso. Se Krupp comandava i suoi eserciti di operai, Richard Wagner pretendeva dal suo pubblico una sottomissione completa.

Dominio implica inferiorità. Ma la borghesia della metà dell'Ottocento era divisa sulla natura di quell'inferiorità delle classi subalterne sulla quale non v'era in sostanza nessun disaccordo, benché si dovesse cercar di distinguere, nella massa subordinata, fra coloro che ci si poteva aspettare si elevassero almeno fino ai livello della piccola borghesia rispettabile, e gli esclusi da qualunque possibilità di redenzione. Poiché il successo era dovuto al merito personale, l'insuccesso era chiaramente dovuto a demerito personale. L'etica borghese tradizionale, puritana o laica, aveva ascritto quest'ultimo a debolezza morale o spirituale più che ad ottusità, essendo evidente che per il successo negli affari non occorreva molto cervello, e che, inversamente, il cervello da solo non garantiva la ricchezza, e ancor meno idee "sane". Ciò non implicava necessariamente anti-intellettualismo, sebbene questo fosse molto diffuso in Inghilterra e negli Stati Uniti, perché i trionfi del business erano essenzialmente trionfi di uomini di scarsa cultura che usavano l'arma dell'empirismo e del buon senso. Lo stesso Ruskin rifletteva l'opinione comune quando osservava che "indaffarati metafisici continuano ad intralciare uomini buoni ed attivi, e a tessere ragnatele fra le più delicate rotelle del business". E, più semplicemente, scriveva Samuel Smiles:

L'esperienza che si può ricavare dai libri, benché spesso utile, non è se non della natura del sapere, mentre l'esperienza tratta dalla vita reale " della natura della saggezza; e una piccola dose della seconda vale infinitamente di più che tutta una scorta della prima.

Ma una semplice classificazione in moralmente superiori e moralmente inferiori, benché atta a distinguere i "rispettabili" dalla massa operaia dedita al bere e alla licenza, non serviva più, salvo per la piccola borghesia in lotta, per farsi strada, se non altro perché appariva chiaro che le antiche virtù non erano più applicabili ai borghesi ricchi e "arrivati". Come infatti adattare l'etica dell'astinenza e dello sforzo al successo dei milionari americani degli anni fra ii 1860 e il 1880, o all'industriale gonfio di quattrini ritiratosi ad una vita d'ozio nella sua casa di campagna? Come, a maggior ragione, applicarla ai suoi parenti rentiers, a coloro il cui ideale, nelle parole di Ruskin, era che la vita trascorra in un piacevole mondo ondulato, con ferro e carbone sotto. Su ogni dolce altura di questo mondo deve sorgere un bel castello [...] con un parco di moderata estensione, un gran giardino e delle serre, e una gradevole vettura che porti attraverso la boscaglia. In questo maniero devono vivere [...] il gentiluomo inglese, la sua graziosa moglie e la sua bella famiglia; lui sempre in grado di offrire alla moglie un salotto e dei gioielli, alle figlie dei bei vestiti da ballo, ai figli dei cavalli da caccia, e a se stesso una riserva di caccia nelle Alteterre scozzesi?

Di qui l'importanza crescente delle teorie alternative di superiorità biologica di classe dalle quali " pervasa tanta parte della Weltanschauung borghese del secolo XIX. La superiorità era il risultato della selezione naturale geneticamente trasmessa. Se non una specie diversa, il borghese era almeno il membro di una razza superiore, uno stadio più elevato dell'evoluzione umana, distinto dagli ordini inferiori che rimanevano nell'equivalente storico o culturale dell'infanzia o, al massimo, dell'adolescenza.

Da padrone a razza-padrona, quindi, il passo era breve. Senonché il diritto al dominio, la superiorità indiscussa del borghese come specie, implicava non soltanto inferiorità ma, idealmente, inferiorità accettata e volontaria, come nei rapporti fra uomo e donna (simbolo a sua volta di tanta parte della concezione borghese del mondo). Gli operai, come le donne, dovevano essere fedeli e contenti. Se non lo erano, lo si doveva senza possibilità di dubbio al personaggio cruciale dell'universo sociale della borghesia, "l'agitatore [o mestatore] il venuto da fuori". Benché nulla fosse più chiaro ad occhio nudo del fatto che gli iscritti ai sindacati di mestiere avevano tutte le probabilità d'essere gli operai migliori, i più intelligenti, i più qualificati, il mito dell'outsider sfaticato e bighellone che sfrutta dei lavoratori sempliciotti, ma fondamentalmente sani, era indistruttibile. Come scriveva un direttore di miniera francese nel 1869, durante la feroce repressione del tipo di sciopero di cui il Germinal di Zola ci ha dato un quadro così vivo, "la condotta degli operai è deplorevole; ma, bisogna riconoscerlo, essi non sono stati che i feroci strumenti di mestatori" . Per essere più precisi: il militante operaio attivo, o leader potenziale, doveva per definizione essere un "mestatore", perché non si lasciava inquadrare nello stereotipo dell'obbedienza, dell'opacità e della idiozia. Quando nel 1859 nove dei più inappuntabili minatori di Seaton Delaval "ognuno di loro astemio, sei Metodisti Primitivi, e due di questi predicatori locali" vennero incarcerati per due mesi dopo uno sciopero al quale si erano opposti, il direttore della miniera non lasciò dubbi su questo punto: "So che sono persone rispettabili, ed è proprio per questo che li metto in prigione. Non val la pena di schiaffar dentro chi non è in grado di sentire".

Un atteggiamento simile rifletteva la decisione di decapitare le classi inferiori se non si sbarazzavano spontaneamente dei loro capi potenziali, lasciandosi assorbire nella piccola borghesia. Ma rifletteva pure un grado notevole di fiducia. Siamo ben lontani dai padroni di fabbrica degli anni 1830, che vivevano nella costante paura di qualcosa di simile ad una insurrezione degli schiavi. Quando gli industriali parlavano di pericolo del comunismo nascosto dietro qualunque limitazione del diritto assoluto del datore di lavoro di assumere e licenziare a volontà, alludevano non alla rivoluzione sociale, ma semplicemente al fatto che il diritto di proprietà e il diritto di dominazione erano indistinguibili, e che una società borghese sarebbe andata in malora una volta permessa un'ingerenza nei sacri diritti di proprietà . La reazione di paura e d'odio era quindi tanto più isterica allorché lo spettro della rivoluzione sociale tornava ad irrompere in un mondo capitalistico fiducioso di sé. I massacri della Comune parigina ne attestano la forza.

4.

Una classe di padroni: sì. Una classe dominante? La risposta è più complessa. La borghesia non era, è chiaro, una classe dirigente nel senso in cui lo erano i proprietari terrieri vecchio-stile, la cui posizione conferiva loro, de iure o de facto, potere effettivo di Stato sugli abitanti del proprio territorio. Di norma il borghese operava nell'ambito di un'intelaiatura di potere e di amministrazione statale già funzionante, che non era sua propria, almeno fuori della sua residenza privata ("la mia casa è il mio castello"). Solo in aree remote da questa autorità, come in villaggi minerari isolati, o dove lo Stato era esso stesso debole, come negli Stati Uniti, i padroni borghesi potevano esercitare una specie analoga di dominio diretto, vuoi mediante controllo delle forze locali di autorità pubblica, vuoi mediante squadre private di "Pinkerton", vuoi infine mediante riunione in gruppi armati di "vigilanti" per mantenere l' “ordine". Inoltre, nel nostro periodo il caso di Stati in cui la borghesia si era assicurato un controllo politico formale, o non aveva da spartirlo con più antiche élites politiche, continuava ad essere del tutto eccezionale. Nella maggioranza dei paesi la borghesia, comunque definita, non controllava né esercitava il potere politico, se non forse a livello subalterno o comunale.

Quella che essa esercitava era un'egemonia; e ciò che determinava sempre più era la politica. Non v'era alternativa al capitalismo come metodo di sviluppo economico, e nel nostro periodo ciò implicava sia la realizzazione del programma economico e istituzionale della borghesia liberale (con varianti locali), sia la posizione cruciale nello Stato di questa stessa borghesia. Anche per i socialisti, la via al trionfo proletario correva attraverso un capitalismo pienamente sviluppato. Prima del 1848, era sembrato per breve ora che la sua crisi di transizione potesse anche dimostrarsi la sua crisi finale, almeno in Inghilterra; negli anni Cinquanta, divenne chiaro che il suo periodo più importante di crescita stava appena cominciando. Esso era incrollabile nel suo bastione principale, la Gran Bretagna; altrove, paradossalmente, sembrava che le chances di rivoluzione sociale dipendessero più che mai dalla prospettiva che la borghesia, interna od estera, creasse quel capitalismo trionfante che avrebbe, per ciò stesso, consentito di abbatterlo. Sotto un certo aspetto, sia Marx, il quale salutava come storicamente progressive la conquista britannica dell'India e quella americana di una metà del Messico, sia gli elementi progressisti che nel Messico o in India aspiravano ad una forma di alleanza con gli Stati Uniti o col raj inglese contro il tradizionalismo indigeno, riconoscevano la stessa situazione generale. Quanto ai governanti di regimi conservatori, anti-borghesi e anti-liberali in Europa, a Vienna come a Berlino e a Pietroburgo, essi riconoscevano, benché con riluttanza, che l'alternativa allo sviluppo economico capitalistico era l'arretratezza, e quindi la fragilità. Il loro problema era di come dare impulso al capitalismo e, con esso, alla borghesia, senza acquisire nel contempo regimi politici borghesi-liberali. Il semplice rifiuto della società borghese e delle sue idee non era più ammissibile. La sola organizzazione francamente decisa a resistervi senza condizioni, la Chiesa cattolica, non ottenne che di isolarsi. Il Sillabo degli errori del 1864 e il Concilio Vaticano dimostrarono, con la stessa intransigenza del loro rifiuto di tutto quanto caratterizzava la metà del secolo, d'essere completamente sulla difensiva.

Dal 1870-1880 in poi, questo monopolio virtuale del programma borghese (nelle sue forme "liberali") cominciò a vacillare. Ma, tutto sommato, nel terzo venticinquennio dell'Ottocento esso era praticamente inattaccabile. In campo economico, gli stessi governi assolutisti dell'Europa centrale ed orientale si trovavano ad abolire la servitù della gleba e a smantellare l'apparato tradizionale di controlli economici statali e di privilegi corporativi; in campo politico, si trovavano a appello ai liberali borghesi del genere più moderato e, sia pur nominalmente, alle loro istituzioni rappresentative; o, almeno, a venire a patti con essi. Culturalmente, era lo stile di vita borghese a prevalere su quello aristocratico, se non altro perché, in genere, la vecchia aristocrazia tendeva a ritirarsi dal mondo della cultura (nel senso in cui si usava il termine), finendo per costituire, nei limiti in cui non lo era già, la classe dei "barbari" di Matthew Arnold (1822-1888). Dopo il 1850, è difficile immaginare un re che sia un grande patrono delle arti eccettuato un pazzo come Luigi II di Baviera (1864-1886) o un magnate nobile che sia un grande collezionista di oggetti d'arte, eccettuato qualche eccentrico . Prima del 1848, le certezze della borghesia trovavano ancora un limite nella paura della rivoluzione. Dopo il 1870, le loro basi ancora una volta essere minate, fra l'altro, dal timore dei movimenti sempre più vigorosi della classe operaia; ma, nel periodo fra quei due estremi, il loro trionfo non sembrava ammettere dubbi o contestazioni. L'epoca, pensava Bismarck, il quale non aveva alcuna simpatia per la società borghese, era un'epoca di "interessi materiali". Gli interessi economici erano una "forza elementare". "Io credo che l'influenza delle questioni economiche sullo sviluppo interno cresca di giorno in giorno, e non essere arginata"". Ma che cosa, in questo periodo, rappresentava una simile forza elementare, se non il capitalismo e il mondo creato dalla, e per la, borghesia?