Da S. E. Luria S.J. Gould S.Singer

Una visione della vita -Introduzione alla biologia

Zanichelli, Bologna 1984


Parte E

Biologia evoluzionistica

Seconda parte

pp. 533-556

26

Popolazioni e specie: la microevoluzione

Se si considerano gli effetti a lungo termine l'evoluzione è un processo lento, non osservabile nell'intervallo di tempo di una vita umana. Tuttavia vi sono molti eventi evolutivi importanti - che vanno dalla diffusione di caratteri adattativi all'interno delle popolazioni alla speciazione - che possono essere osservati in natura e sono passibili di sperimentazione in laboratorio.

Le basi genetiche dell'evoluzione

Genotipo e fenotipo

474 Come abbiamo visto la selezione naturale agisce, a livello individuale, sull'intero organismo. Tuttavia l'evoluzione viene definita, normalmente, come una modificazione delle frequenze geniche all'interno delle popolazioni nel tempo (la microevoluzione costituisce lo studio dei cambiamenti delle frequenze geniche nelle singole popolazioni). Dal momento che gli organismi non sono solamente la somma dei loro geni, questa mancanza di corrispondenza fra i geni (il genotipo) e gli organismi (il fenotipo) pone diversi problemi per quanto riguarda la teoria evoluzionistica.

Noi definiamo il genotipo di un organismo come il suo programma genetico. Il risultato finale della traduzione di questo programma, cioè l'organismo stesso, è il fenotipo. L'occhio rosso brillante della Drosophila rappresenta il fenotipo normale di un allele situato sul cromosoma X. Altri alleli di questo gene producono, come fenotipo, altri colori.

Fra un gene ed un carattere o fra il genotipo e il fenotipo non esiste una corrispondenza biunivoca. Innanzitutto ogni gene ha più di un effetto; ad esempio è probabile che, nei nani armonici, la bassa statura sia dovuta ad un solo gene che però esercita anche molti altri effetti fenotipici, alcuni dei quali, come il timbro della voce insolitamente alto nei maschi, sono da mettersi in rapporto con la statura, mentre altri, come il ritardo della maturazione, sono indipendenti. La situazione in cui un singolo gene ha effetti fenotipici multipli è detta pleiotropia.

Per eredità poligenica, invece, si intende quella condizione in cui molti geni influenzano ciò che noi percepiamo come un singolo carattere. Ad esempio nell'uomo l'altezza è influenzata da molti geni (probabilmente più di 20, anche se non conosciamo il numero esatto). L'eredità poligenica concilia un'apparente contraddizione fra la concezione mendeliana dell'eredità e le conoscenze comuni. La teoria mendeliana è particellare cioè tratta i geni come unità discrete: nella prole i geni materni e paterni non si mischiano. Eppure noi tutti sappiamo che, nell'uomo, i figli di una coppia di individui con altezze molto diverse tendono ad avere una statura intermedia e ciò è il risultato della sommatoria di molti piccoli effetti discreti (e di un influsso rilevante della variabilità ambientale). Un genitore molto alto può essere portatore, ad esempio, di 50 alleli dominanti ciascuno dei quali favorisce una statura alta. Qual è la probabilità che un suo figlio li erediti tutti? La maggior parte si distribuirà indipendentemente ma anche quelli che si trovano sullo stesso cromosoma potranno essere facilmente separati dal crossing-over. La maggioranza degli spermatozoi o delle uova porteranno anche alleli recessivi che favoriranno l'espressione di una statura minore.

Spesso i genetisti commettono l'errore di parlare di geni “per" le braccia lunghe o "per" caviglie robuste come se queste proprietà fossero caratteri tangibili e obiettivi. Il colore dell'occhio in Drosophila è un carattere relativamente ben definito poiché i geni determinano la produzione di pigmenti particolari; viceversa non esistono geni per la caviglia o per l'omero. Normalmente le parti del corpo sono l'amalgama degli influssi di molti geni e dell'ambiente. Nella scheda 26A vengono considerati i pericoli impliciti nel considerare le parti complesse come singoli caratteri; il fatto di aver considerato la mandibola umana un carattere discreto portò ad un'interpretazione evoluzionistica esattamente opposta a quella attuale.

Scheda 26A PERCHE' IL MENTO DELL'UOMO NON E' UN CARATTERE

Alla fine del secolo scorso la biologia è stata dominata da una teoria che oggi sappiamo essere sostanzialmente errata, la legge biogenetica, riassumibile nella proposizione: "La ontogenesi ricapitola la filogenesi". Questa legge della ricapitolazione affermava che, durante lo sviluppo embrionale, gli organismi ripercorrono il proprio albero evolutivo; in altre parole gli embrioni ripercorrerebbero una serie di tappe che, nello stesso ordine, rappresentano gli stadi adulti del loro sviluppo evolutivo. Secondo questa teoria le tasche branchiali dell'embrione umano rappresenterebbero il pesce adulto da cui discendiamo.

Apparentemente, nell'uomo, il mento sembra confermare la ricapitolazione. Nelle grandi scimmie non c'è mai la sporgenza anteriore della mandibola; la porzione alveolare (quella che dà alloggio ai denti) è sempre piu avanzata della porzione inferiore che forma il mento (fig. 26A-ento ma più tardi questo compare in accordo con le previsioni della ricapitolazione.



In questo secolo i biologi hanno realizzato, al contrario, che lo sviluppo embrionale dell'uomo procede nella direzione esattamente opposta a quella prevista dalla ricapitolazione. Non si verifica che l'uomo raggiunga uno stadio scimmiesco e poi lo superi. Sembra invece che egli si sviluppi più lentamente e quindi conservi, come forme adulte, caratteristiche giovanili o embrionali delle scimmie; in altre parole l'uomo adulto somiglia più al feto dello scimpanzé che all'adulto. Un processo evolutivo di questo tipo, molto comune, è detto neotenia. Le specie neoteniche conservano i caratteri giovanili dei propri antenati.

Ma se l'uomo  una specie neotenica, cosa dire del mento? E' innegabile che le scimmie adulte e l'embrione umano non l'hanno e che esso si sviluppa nell'uomo in seguito alla crescita - un apparente esempio di ricapitolazione. In realtà questo potrebbe essere un caso di ricapitolazione, se noi considerassimo il mento come un "oggetto", cioè un carattere definito codificato da alcuni geni e su cui agisce direttamente la selezione naturale.

La soluzione di questo dilemma sta nel riconoscere che il mento non  un carattere bensì un sottoprodotto della velocità di crescita differente delle varie parti della mandibola. Durante l'evoluzione umana le dimensioni dei denti si sono notevolmente ridotte, soprattutto quelle degli incisivi e dei canini, che formano la parte anteriore della mandibola. Di conseguenza la porzione alveolare della mandibola ha subito una riduzione per alloggiare denti pi piccoli. Questo "restringimento", non accompagnandosi alla riduzione delle altre parti, ha prodotto il mento. Il mento non  un carattere; esso si  prodotto solamente perché una parte della mandibola ha subito una più forte riduzione evolutiva delle dimensioni.

La mandibola  essa stessa un notevole esempio di neotenia. In tutti i primati essa si forma come piccola struttura e raggiunge le dimensioni adulte negli ultimi stadi embrionali e dopo la nascita, crescendo più velocemente del resto del cranio. Nell'uomo, con la neotenia, tutta la mandibola si è ridotta in quanto sono state conservate le proporzioni che negli altri primati sono proprie del feto e non si ha la rapida crescita nel periodo avanzato della vita. Alcune parti si sono ridotte più di altre e ciò ha prodotto il mento. Quindi questo non è un carattere che documenta la ricapitolazione e la crescita al di là dello stadio scimmiesco, bensì un sottoprodotto del diverso grado di riduzione neotenica delle diverse parti della mandibola.

La ragione principale per cui fra genotipo e fenotipo vi è una corrispondenza imperfetta è l'influsso mediatore dell'ambiente; i geni non sono sigillati sotto vuoto e non hanno lo stesso effetto in qualsiasi condizione. La direzione dello sviluppo dall'uovo fecondato al corpo completo (argomento della parte C) è un processo mirabile e complesso che, fin dai tempi di Aristotele, è stato considerato come il mistero fondamentale della biologia. I geni sono attivati e disattivati, le parti inducono il differenziamento di altre parti, i pezzi si uniscono per formare unità funzionalmente integrate. Una piccola incongruenza in uno stadio può arrestare una reazione a catena con conseguenze per il resto del corpo e per la prosecuzione dello sviluppo embrionale.

D'altra parte questo processo non può essere troppo delicato, altrimenti le inevitabili perturbazioni presenti in qualunque sistema complesso porterebbero alla disgregazione di tutti i processi dello sviluppo embrionale. Lo sviluppo è tamponato per resistere a quella disgregazione, è cioè canalizzato: le perturbazioni vengono affrontate con cambiamenti compensativi che riportano il corso dello sviluppo nei canali normali. Si può rappresentare lo sviluppo embrionale come una sfera che rotola in un canale inclinato (fig. 26.1); le perturbazioni possono spingere la sfera lungo le pareti del canale ma, a meno che non siano troppo forti, questa continuerà a scendere verso il basso. Il canale è assai più ampio della sfera, consentendo così variazioni di percorso; tuttavia, perturbazioni forti possono condurre la sfera al di fuori del suo canale, portando ad un corpo profondamente alterato. In ogni caso, a seconda dell'ambiente interno nel quale agisce, lo stesso gene può produrre un ampio campionario di effetti fenotipici.



La maggior parte delle perturbazioni dello sviluppo è provocata da stimoli provenienti dall'ambiente esterno. Piccole differenze d'ambiente possono provocare cambiamenti sostanziali nell'espressione fenotipica dei geni. Anche i più inesperti sanno che piante con genotipi identici - ad esempio quelle ricresciute da pezzi di una stessa pianta parentale, come nel caso delle patate - possono crescere con forma e dimensioni molto diverse in ambienti che differiscono per insolazione, temperatura, densità della coltura o qualità del terreno fig. 26.2). Questo carattere "plastico" deriva in parte dal fatto che le piante hanno i meristemi apicali, cioè zone a crescita continua situate all'apice delle radici e del fusto. Le cellule meristematiche rimangono allo stadio embrionale e conservano la flessibilità e la potenzialità caratteristiche della crescita embrionale. Quindi, a differenza degli animali, le piante vascolari non "maturano" mai in quanto i loro centri primari di crescita rimangono permanentemente allo stadio embrionale.



Le differenze dell'ambiente esterno possono indurre effetti molto variabili in animali con genotipo identico: ad esempio, durante i mesi estivi la maggior parte degli afidi si riproduce per partenogenesi - la femmina si riproduce senza essere fecondata e genera solamente prole di sesso femminile. Quando si avvicina l'inverno le femmine partenogenetiche iniziano a produrre prole maschile e femminile; questi si accoppiano e le femmine fecondate sopravvivono all'inverno e depongono uova che, nella primavera successiva, si svilupperanno nelle generazioni partenogenetiche (fig. 26.3). Si sa che la transizione autunnale da prole partenogenetica a sessuale è attivata dall'accorciamento delle giornate. Geni che durante le generazioni estive erano completamente inattivi iniziano a funzionare per costruire il fenotipo diverso delle generazioni sessuate. Questa transizione dalla forma completamente dormiente a quella pienamente attiva è, per un gene, il più grande cambiamento di espressione fenotipica che vi possa essere; eppure una simile transizione è causata da una piccola causa ambientale: una modificazione del numero di ore di luce.



L'interazione fra un gene e l'ambiente produce un ampio spettro di fenotipi. In senso stretto in Drosophila non c'è alcun gene per gli occhi rossi; c'è solo un gene che, nell'intervallo di condizioni ambientali in cui normalmente si sviluppano le larve, interviene nella produzione del pigmento rosso. Per ogni gene dovremmo quindi parlare di una norma di reazione cioè del campionario di effetti fenotipici producibili nell'intervallo di ambienti in cui esso si trova a funzionare (fig. 26.4). II vero effetto fenotipico di un gene è una norma di reazione e non un carattere definito.



Per illustrare la differenza che c'è fra il pensare in termini di norme di reazione e in termini di caratteri faremo un esempio di pessima biologia sfruttando un argomento che nell'ultimo decennio ha avuto un enorme impatto sociale. Il QI medio dei neri americani è inferiore di circa 15 punti a quello dei bianchi e i razzisti hanno interpretato questa differenza come una prova dell'inferiorità mentale dei neri; questa conclusione è talmente piena di errori che non si sa da dove cominciare per confutarla. Innanzitutto il QInon è un carattere genetico; dal momento che già si presentano difficoltà per definire le basi genetiche di un piccolo frammento della morfologia come può essere la caviglia, è chiaro che per quanto riguarda le basi genetiche di un concetto così complesso, nebuloso e pieno di implicazioni culturali qual è l'intelligenza queste difficoltà diventano immensamente più grandi. Noi non conosciamo i geni che influenzano l'intelligenza e non sappiamo neppure come misurarla. Ii QIha un buon valore predittivo per quanto riguarda il successo scolastico ma la relazione fra questo e la nostra nozione di intelligenza potrebbe risultare assai debole. Comunque, ammettiamo per il momento che il QI venga in certa misura ereditato e che, in linea di principio, si possano calcolare le norme di reazione per la sua variazione nell'ampio intervallo di ambienti che i bambini incontrano durante la crescita. In realtà a tutt'oggi non abbiamo idea di cosa sia una norma di reazione per il QIe non sappiamo neppure quali aspetti dell'ambiente siano più importanti per determinare le differenze di QItra genotipi identici. In questo contesto di ignoranza il semplice fatto che i neri abbiano un QImedio più basso non dice nulla a proposito delle differenze genetiche o delle capacità. I valori medi per i bianchi e per i neri sono soltanto due punti nello spazio delle norme di reazione: finché non si avranno altre informazioni questi due punti rimangono compatibili con tutte le possibilità: vantaggio dei neri in tutti gli ambienti, vantaggio dei bianchi in tutti gli ambienti, norme di reazione identiche per entrambi i gruppi, vantaggio di ciascun gruppo in una parte diversa dell'intervallo ambientale. I geni e l'ambiente sono legati indissolubilmente: nell'espressione di un fenotipo la "natura" e "l'ambiente" non agiscono mai allo stato puro.

Infine dobbiamo decisamente rifiutare il punto di vista secondo cui i geni sono "reali" mentre i fenotipi sono solamente loro espressioni imperfette distorte dalla casualità dell'influsso ambientale. Spesso noi tendiamo a ridurre i complessi fenomeni della biologia e della psicologia ad effetti di unità fondamentali più piccole, comprensibili in termini fisici o chimici. Così come spieghiamo il comportamento dei gas con le proprietà delle molecole, spesso tendiamo a trattare gli animali come se fossero espressioni imperfette dei loro geni. Il riduzionismo ha ottenuto senz'altro successi straordinari (il comportamento dei gas viene espresso molto bene dalle proprietà delle molecole che li compongono) ed anche in biologia ha dato un enorme apporto (nello studio della fisiologia, dell'eredità e dello sviluppo è stato possibile ridurre la complessità "di livello superiore" alle proprietà delle cellule e delle loro parti). Tuttavia questo metodo si rivela inefficace quando, nello studio dell'evoluzione, tentiamo di ridurre gli organismi ai geni che dirigono il loro sviluppo: per capire l'evoluzione dobbiamo renderci conto che, per quanto riguarda gli organismi, il tutto è altrettanto "reale" delle parti. L'approccio adeguato a molte questioni di carattere biologico è quello olistico, secondo cui gli oggetti complessi devono essere studiati come vere e proprie unità.

La selezione naturale agisce sui fenotipi completi: la variabilità fenotipica di una popolazione è il materiale grezzo per il cambiamento evolutivo. Per variazione non si deve intendere uno scostamento accidentale da un tipo ideale in quanto, dal punto di vista evoluzionistico, la variabilità fenotipica è una proprietà essenziale di una specie. L'interazione fra i geni e l'ambiente che produce il campionario dei fenotipi è fondamentale e irriducibile. Molti evoluzionisti sostengono che il maggior contributo della loro scienza al pensiero dell'uomo è stato di aver sostituito all'idea tipologica l'idea della popolazione. L'idea tipologica si ricollega all'antico concetto platonico del tipo ideale, in cui la variazione rappresenta uno scostamento accidentale dal tipo; secondo questa concezione gli organismi sono rappresentazioni transitorie ed imperfette del loro tipo. L'idea della popolazione, invece, attribuisce un ruolo primario al gruppo con la sua variabilità e tratta questa come una sua proprietà intrinseca e fondamentale. Le implicazioni di questa sostituzione sono di eccezionale portata: se la variabilità è sostanziale, le dobbiamo attribuire un valore in quanto tale: se, invece, è accidentale ci dobbiamo sforzare di raggiungere l'ideale puro.

Natura della variabilità genetica

475 Fonti di variazione

In ultima analisi la fonte di tutta la variabilità genetica è la mutazione dei geni e dei cromosomi; essa però è un evento raro: se, per variare in nuove direzioni, gli organismi pluricellulari dovessero attendere nuove mutazioni l'evoluzione potrebbe arrestarsi per mancanza di nuovo materiale grezzo.

La fonte immediata di buona parte della variabilità genetica fra gli individui è la ricombinazione ottenuta con la riproduzione sessuata. In ogni discendente gli alleli sono rimescolati secondo combinazioni diverse; durante la formazione dei gameti il crossing-over e la segregazione producono queste combinazioni. Quando due gameti si uniscono per formare l'uovo fecondato gli individui che ne risultano portano genotipi differenti da quelli dei loro progenitori. Se la mutazione è la fonte primaria di questa variabilità, la ricombinazione la distribuisce secondo differenti combinazioni in ogni individuo.

In termini biologici la sessualità e la riproduzione svolgono funzioni molto diverse: la riproduzione realizza la propagazione della specie mentre la sessualità distribuisce la variabilità genetica miscelando i genotipi di due o più individui. Alcuni organismi praticano la sessualità senza la riproduzione: le cellule del protozoo Paramecium possono unirsi per uno scambio reciproco di materiale genetico e poi separarsi senza riproduzione; più tardi ognuna di esse subisce la riproduzione asessuata. Tuttavia in natura la sessualità e la riproduzione sono in genere contemporanee in quanto la miscelazione dei genotipi viene realizzata più facilmente in una cellula isolata e, negli organismi complessi, le cellule isolate (cioè le uova fecondate) sono i precursori dei nuovi individui (come sarebbe possibile, per due leoni adulti, mischiare i propri genotipi cellula per cellula?).

Se la sessualità è così importante, perché la riproduzione asessuata è così comune ed ha avuto un tale successo, soprattutto fra gli organismi unicellulari? Innanzitutto la maggioranza delle specie “asessuate" si impegna occasionalmente in fenomeni sessuali. I batteri si riproducono per fissione ma talvolta le cellule si scambiano del materiale genetico. Molto più importante è il fatto che le specie unicellulari asessuate si riproducono così rapidamente che, per l'evoluzione, è sufficiente la variazione che si origina per nuove mutazioni. In natura le frequenze di mutazione spontanea variano da uno su centomila gameti ad uno su molte centinaia di milioni. Ad esempio nell'uomo la mutazione per l'albinismo (mancanza del pigmento della pelle) si realizza in un gamete su 300 000. Nella specie umana, in cui viene prodotto un figlio alla volta e le generazioni sono intervallate di 20 anni, se si dovessero attendere solamente nuove mutazioni affinché i discendenti siano geneticamente diversi dai progenitori, essa sarebbe evolutivamente stagnante (ovvero non si sarebbe mai evoluta). Viceversa i batteri si possono dividere ogni 20 minuti e in 10 ore ogni cellula può produrre più di un miliardo di discendenti; ognuno di questi ha la possibilità di esprimere una nuova mutazione. Quindi i batteri non riuniscono i geni favorevoli mediante la ricombinazione bensì li accumulano uno alla volta mediante mutazioni successive.

Quota di variabilità

Dal momento che la selezione naturale necessita di un'abbondante variabilità genetica come materiale grezzo, ci dobbiamo chiedere come possa esistere una tale variabilità nelle popolazioni naturali. C'è abbastanza variabilità perché la selezione sia efficace? Qual è la percentuale dei geni presenti con alleli diversi nei membri di una popolazione e quale quella dei geni invarianti? Questi problemi fondamentali di genetica evoluzionistica sono stati risolti solo verso la metà degli anni '60.

Paradossalmente affinché un gene possa essere identificato con i metodi genetici classici, deve essere variabile; se tutte le drosofile avessero occhi rossi, le normali tecniche di incrocio non potrebbero portare all'identificazione del gene che è alla base di questo carattere; affinché i geni possano essere rintracciati negli alberi genealogici devono essere variabili. Quindi i genetisti non possono identificare quei geni che non variano e non possono stimare la variabilità media in quanto non possono raccogliere un campione casuale di geni.

Verso la metà degli anni '60 i genetisti R.C. Lewontin e J. L. Hubby intuirono che l'applicazione dell'elettroforesi poteva risolvere questo dilemma. Dal momento che molti geni, tramite l'RNA, producono proteine, i differenti alleli di un gene codificano per prodotti proteici leggermente diversi cioè per polipeptidi che presentano differenze aminoacidiche in uno o più punti della catena e spesso queste proteine diverse hanno proprietà elettriche diverse. Le proteine possono essere estratte dai tessuti e poste in una colonna di materiale gelatinoso che viene sottoposta ad una corrente elettrica; esse migreranno verso l'alto o verso il basso con una velocità che dipende dalle dimensioni delle molecole e dalla loro carica elettrica.

Ovviamente le proteine formate da alleli differenti di uno stesso gene possono avere proprietà elettriche identiche ma differire per altre caratteristiche quali la sensibilità al calore. Quindi l'elettroforesi fornisce solamente una stima "di minima" della variabilità genetica. Lo stesso Lewontin ha stimato che questo metodo può rivelare solamente un terzo della variabilità genetica effettivamente presente negli organismi. Ad esempio mentre l'elettroforesi ha rivelato la presenza di 5 alleli dell'enzima xantina deidrogenasi di Drosophila persimilis con altre tecniche è stato possibile identificarne 23. Malgrado questo nelle popolazioni naturali l'elettrofresi ha potuto rivelare la presenza di una grande quota di variabilità - più della metà di quella necessaria alla selezione naturale per spingere il processo evolutivo. Ad esempio uno studio condotto su 57 specie di invertebrati ha rivelato che, in media, nel 47% dei loci esaminati (cioè circa 22 loci per specie), era presente più di un allele nella popolazione: in media i singoli individui erano eterozigoti nel 13% dei loci studiati.

Mantenimento della variabilità

Nella maggioranza dei casi la selezione naturale “consuma" la variabilità, cioè riduce la frequenza degli alleli sfavorevoli fino ad eliminarli. Tuttavia, in alcune circostanze essa può anche alimentare e conservare la variabilità. Prenderemo in considerazione tre di questi casi: il vantaggio dell'eterozigote, l'eterogeneità spaziale e temporale, il vantaggio della forma rara.

1. Vantaggio dell'eterozigote.

Se la selezione favorisce gli eterozigoti nei confronti di entrambi gli omozigoti, nella popolazione vengono mantenuti due alleli in quanto l'eliminazione di uno di essi eliminerebbe anche la combinazione favorevole. L'esempio classico citato in tutti i libri è quello della resistenza dell'uomo alla malaria, la malattia della nostra specie che ha probabilmente gli effetti più catastrofici.

In alcune parti dell'Africa il 40% delle persone sono portatrici di un gene per una forma insolita di emoglobina, detta emoglobina S. Allo stato deossigenato le molecole di emoglobina S formano lunghi cordoni che modificano la forma dei globuli rossi dando loro un aspetto allungato, simile a quello di una falce. Le cellule a falce ostruiscono i piccoli vasi sanguigni ed il sistema immunitario tende a distruggerle; la distruzione di un numero eccessivo di cellule provoca anemia.

Gli individui omozigoti per il gene dell'emoglobina S mostrano i segni dell'anemia falciforme e muoiono durante l'infanzia. Come è possibile, quindi, che questo gene si sia mantenuto nelle popolazioni con una frequenza così alta? Il gene della falcemia è comune solamente in quelle aree dove è comune anche una pericolosa forma di malaria. Mentre moltissimi omozigoti per l'emoglobina normale contraggono la malaria, gli eterozigoti sono protetti e, d'altra parte, non presentano i segni dell'anemia falciforme; l'allele per l'emoglobina normale produce abbastanza globuli rossi efficienti per consentire una vita normale (anche se l'allele della falcemia produce cellule anormali) mentre la presenza di entrambi gli alleli conferisce resistenza alla malaria. Gli omozigoti per il gene della falcemia muoiono di anemia falciforme mentre gli ornozigoti per l'emoglobina normale sono debilitati dalla malaria; dal momento che gli eterozigoti stanno meglio, gli alleli vengono entrambi mantenuti. Questo è uno degli scherzi crudeli giocatici da una realtà così diversa da ciò che noi vorremmo. La resistenza degli eterozigoti avvantaggiati viene pagata a caro prezzo - la morte precoce degli omozigoti anemici che, in alcuni casi, possono costituire una frazione consistente del totale. Purtroppo il nostro mondo funziona secondo una logica mendeliana e il vantaggio dell'eterozigote è una conseguenza della nostra costituzione genetica.

Se si evolvesse una nuova emoglobina che conferisce resistenza alla malaria allo stato omozigote, essa si diffonderebbe nelle popolazioni che vivono nelle aree infestate. Ma, come abbiamo fatto notare nel capitolo 25, la selezione naturale non fabbrica il meglio: conserva semplicemente ciò che di meglio è disponibile. Nelle aree malariche le popolazioni in cui il gene della falcemia è presente con un'alta frequenza si trovano avvantaggiate grazie al successo riproduttivo degli eterozigoti più di quanto lo siano le altre popolazioni in cui l'allele è assente.

Nell'evoluzione i vantaggi adattativi non hanno un valore assoluto ma si riferiscono solamente agli ambienti locali. Da quando si è imparato a controllare la malaria il vantaggio offerto agli eterozigoti dall'allele per la falcemia è scomparso ed esso viene controselezionato a causa della continua morte degli omozigoti.

2. Eterogeneità spaziale e temporale.

In molte popolazioni i vantaggi adattativi variano al variare dell'ambiente con le stagioni o con la posizione geografica. La colorazione del guscio di Cepaea nemoralis, una chiocciola terrestre delle isole britanniche, è molto variabile sia nella tinta di fondo che per il numero, per lo spessore e per l'intensità delle bande colorate (fig. 26.6) e queste variazioni sono sotto il diretto controllo di un sistema genetico relativamente semplice. I tordi si nutrono avidamente di Cepaea; essi scovano le chiocciole a vista e le aprono rompendole su rocce che prendono il nome di "incudini". In media i gusci rotti dai tordi hanno colori più vistosi di quelli delle chiocciole che vivono nella stessa area. Perché i geni per queste colorazioni più evidenti non vengono eliminati dalla popolazione? Sembra che nei differenti luoghi e nei differenti periodi dell'anno sia particolarmente difficile vedere alcune delle colorazioni. Una chiocciola invisibile in una siepe scura può diventare molto evidente in un campo ben illuminato; una che in inverno si mischia nel marrone del letto di foglie, in estate può risultare molto visibile contro lo sfondo verde.



Complessivamente la popolazione deve contenere individui che possano vivere nelle diverse zone dell'ambiente che varia nello spazio e nel tempo. Una specializzazione più spiccata per una macchia di colore delimitata rappresenterebbe certamente un disastro per la popolazione in quanto le macchie sono così discontinue e temporanee. La popolazione paga il prezzo della morte degli individui male adattati alle condizioni immediate ma ottiene il guadagno del mantenimento di alleli utilizzabili efficacemente in un ampio spettro di circostanze. Ancora una volta la selezione lavora solamente su individui: essa non mantiene la variabilità per il bene astratto della specie ma conserva un campionario di alleli in quanto ciascuno di essi conferisce un vantaggio agli individui nei diversi momenti e nei diversi punti dello spazio.

3. Vantaggio della forma rara.

Consideriamo cosa accadrebbe se, quando diventassero rari, tutti i fenotipi di un insieme acquistassero automaticamente un vantaggio selettivo. Nessuno di essi verrebbe eliminato in quanto il processo di diminuzione si invertirebbe e qualsiasi fenotipo raro ritornerebbe ad avere una frequenza alta (e, a sua volta, farebbe diventare rari gli altri fenotipi). Sebbene questo sembri un aneddoto inventato per spiegare un altro meccanismo di mantenimento della diversità genetica, è un fenomeno che si verifica in molti animali. Ad esempio nel moscerino della frutta, Drosophila, i maschi corteggiano le femmine ma la scelta finale sull'accettazione o il rifiuto dell'accoppiamento spetta a queste ultime. In molte specie di Drosophila le femmine, per distinguere fra i diversi ceppi di maschi della loro specie, utilizzano un insieme di segnali uditivi, olfattivi, visivi e tattili e in molti casi è tipico che venga favorito il ceppo più raro. Non è noto perché e in che modo ciò si realizzi; si sa soltanto che, almeno in Drosophila pseudoobscura, il primo segnale è di tipo olfattivo. Potrebbe avere una certa importanza il fatto che i nostri sensi sono più sensibili all'elemento atipico il soldato fuori dai ranghi o il granello nero in una manciata di sabbia bianca. In ogni caso questo fenomeno del vantaggio del maschio raro in Drosophila è solo un esempio di quel processo denominato selezione dipendente dalla frequenza, che rappresenta un altro modo con cui la selezione conserva la variabilità genetica anziché consumarla.

Questi ed altri meccanismi rappresentano modi in cui la selezione naturale può conservare la variabilità genetica. L'argomento rimane però uno dei più dibattuti della biologia evoluzionistica: questi meccanismi possono spiegare, da soli, l'abbondanza di variabilità osservata nelle popolazioni naturali giustificano i 23 alleli della xantina deidrogenasi in Drosophila persimilis? Oppure dobbiamo invocare la pressione di mutazione e la deriva casuale come forze importanti dell'evoluzione togliendo importanza al ruolo quasi onnipotente che a suo tempo fu attribuito alla selezione naturale ? D'altra parte la scoperta dell'abbondanza di variabilità genetica corrobora la fiducia darwiniana nella selezione naturale: il materiale grezzo richiesto dalla selezione è certamente disponibile.

Cambiamento genetico e variabilità nelle popolazioni

476 Lo studio matematico della velocità e delle modalità del cambiamento genetico all'interno delle popolazioni costituisce la genetica di popolazioni. A partire dagli anni '30 questa è stata una delle discipline fondamentali della biologia evoluzionistica in quanto, dimostrando che almeno in teoria le mutazioni mendeliane (micromutazioni) potevano servire come materiale grezzo per il cambiamento evolutivo, ha dimostrato anche la validità del darwinismo classico. Dal momento che le micromutazioni hanno complessivamente l'aspetto della variabilità continua conosciuta ed invocata da Darwin, ciò consentì di riunire la genetica mendeliana ed il darwinismo per dare vita alla moderna teoria dell'evoluzione.

L'equazione di Hardy-Weinberg

La selezione naturale agisce solamente fenotipi degli organismi completi, aumentando o
diminuendo il successo riproduttivo degli individui. Per poter studiare i cambiamenti delle frequenze geniche dobbiamo tradurre le frequenze dei fenotipi all'interno delle popolazioni in frequenze geniche, nei pool genetici di quelle stesse popolazioni.

Questa traduzione si effettua mediante l'equazione fondamentale della genetica di popolazioni: la legge di Hardy-Weinberg (che prende il nome da quelli del malematico inglese e del biologo tedesco
che la svilupparono indipendentemente nel 19O8).

Supponiamo che un locus genetico abbia due alleli, A e a, e che l'80% di tutti gli alleli del pool genetico sia di tipo A. Se indichiamo con p la frequenza di A, avremo p = 0,8 e q = 0,2 dove q è la frequenza di a (p=q deve essere uguale a 1). Come saranno assortiti questi alleli fra gli individui di una popolazione di organismi che si riproducono sessualmente? Ogni individuo è portatore di due alleli e, se l'accoppiamento è casuale, la probabilità che sia portatore di un determinato allele è uguale alla frequenza di questo nella popolazione.

I due alleli possono formare individui di tre tipi: i due omozigoti AA e aa e l'eterozigote Aa. La probabilità che un individuo sia AA è uguale alla probabilità di avere A come primo allele moltiplicata per la probabilità di avere ancora A come secondo allele (fig. 26.7) (le probabilità congiunte vengono calcolate moltiplicando la probabilità di ottenere due teste consecutivamente è 1/2 X 1/2 cioè 1/4).



Quindi nella popolazione ii 64% (0,8 x 0,8) sarà AA e il 4% (0,2 x 0,2) sarà aa. In generale
la probabilità di essere AA è p2 (p*p) e la probabilità di essere aa è q2 (q*q). Gli eterozigo i si possono formare due modi: scegliendo prima A e poi a oppure prima a e poi A. La probabilità di scegliere prima A e poi a è 0,8 x 0,2 = 16%; ma anche quella di scegliere prima a e poi A è del 16%. Quindi gli eterozigoti formeranno il 32% della popolazione, con una probabilità di 2pq (2 x p x x q). La somma delle percentuali è corretta (64% AA + 32% Aa + 4% aa = 100%) e contemporaneamente abbiamo tradotto le frequenze alleliche del pool in percentuali di individui con differenti genotipi (e relativi fenotipi). Possiamo riscrivere la legge di Hardy-Weinberg in termini generali:
p2 + 2pq + q2= 1

Ora possiamo tornare agli alleli per vedere in che modo i nostri tre genotipi contribuiscono al pool genetico della generazione successiva (gli spermatozoi e le uova, aploidi, contengono per ogni gene un allele ciascuno e assumiamo che tutti gli individui abbiano lo stesso successo riproduttivo). Gli individui omozigoti AA forniscono ii 64% degli alleli, che sono tutti di tipo A. Gli eterozigoti producono il 32% degli alleli, che sono per metà di tipo A e per metà di tipo a. Gli omozigoti aa forniscono il 4% degli alleli, tutti di tipo a. Quindi nella generazione successiva l'80% degli alleli sarà di tipo A (64% + + 16%) mentre il rimanente 20% sarà di tipo a. Siamo tornati al punto di partenza. Avevamo un pool genetico di 80-20, abbiamo costruito una popolazione con tre genotipi nelle proporzioni 64-32-4 e da qui abbiamo formato il pool genetico della generazione seguente, che è di nuovo 80-20. Apparentemente il rimescolamento dei geni dovuto alla riproduzione sessuale di per sé non ha alterato le frequenze geniche, cioè non ha provocato alcun cambiamento evolutivo. Quindi la legge di Hardy-Weinberg afferma che, nelle popolazioni con rirpoduzione sessuata e accoppiamento casuale, le frequenze geniche e i relativi fenotipi non cambiano.

Perché la legge di Hardy-Weinberg è uno degli enunciati fondamentali della genetica di popolazioni? Sembrerebbe che essa tratti frequenze geniche statiche e non fornisca alcuna base al cambiamento evolutivo. Viceversa essa afferma solamente che le frequenze geniche non cambiano se tutti gli individui si accoppiano a caso e contribuiscono in modo uguale alla generazione successiva. Questo contributo differenziale è proprio la sostanza dell'evoluzione ed è implicito nella definizione di selezione naturale. Quindi noi possiamo usare l'equazione di Hardy-Weinberg per misurare gli effetti della selezione sulle frequenze geniche.

Ritornando al nostro esempio supponiamo che A sia dominante su a in modo che ai genotipi AA e Aa corrisponda lo stesso fenotipo. Supponiamo inoltre che a sia favorito dalla selezione naturale. La nostra popolazione inizia con 1000 individui giovani, 100 dei quali vivono abbastanza per riprodursi. Fra i giovani 640 sono AA, 320 Aa e solamente 40 hanno il fenotipo favorevole aa. Se la mortalità fosse casuale la popolazione che si riproduce sarebbe costituita da 64 AA, 32 Aa e 4 aa. Supponiamo, invece, che la selezione sia forte e che fra i riproduttori vi siano 10 fenotipi aa e 90 fra AA e Aa (60 AA e 30 Aa secondo il loro rapporto 2 : 1). Quali saranno le frequenze geniche nella generazione successiva? Rispondiamo con la formula di Hardy~ Weinberg:

0,60 AA + 0,30 Aa + 0,10 aa = 1

II 75% degli alleli sarà di tipo A (60% proveniente dagli AA più la metà del 30% proveniente dagli Aa) e il 25% sarà di tipo a. Quindi, per l'effetto della selezione naturale, in una generazione la frequenza dell'allele a è aumentata del 5%. Si noti che, sebbene il fenotipo aa abbia un successo più che doppio rispetto agli altri, la frequenza di a si è innalzata solamente del 5%; ciò perché in realtà la maggioranza dei geni a è presente in un fenotipo sfavorevole, cioè nell'eterozigote Aa.

Le frequenze geniche possono essere modificate anche dalla mutazione, dalla migrazione e dal caso. Ad esempio la frequenza di a può aumentare se la mutazione da A a a è più comune di quella da a ad A; ma ciò accade anche se si ha l'arrivo di individui aa da altre popolazioni o se gli individui AA e Aa hanno una maggior probabilità di emigrare rispetto agli individui aa. Nelle piccole popolazioni, a causa della deriva genetica, il caso può avere un effetto preponderante (v. cap. 25).

I genetisti utilizzano l'equazione di Hardy-Weinberg anche per saggiare l'ipotesi dell'accoppiamento casuale. Se, ad esempio, l’accoppiamento non è casuale, e gli individui aa tendono a scegliere compagni aa. mentre gli AA compagni AA, nella generazione successiva vi sarà una carenza di eterozigoti; questo scostamento dall’equilibrio di Hardy-Weinberg darà una misura della non-casualità dell'accoppiamento.

Riassumendo, l’equazione di Hardy-Weinberg afferma che, in presenza di accoppiamento casuale, i fenomeni sessuali producono un pool genetico costante. La mutazione, la migrazione o il caso, ma soprattutto la selezione naturale alterano la composizione genetica delle popolazioni. Questi effetti possono essere trasferiti nell’equazione di Hardy-Weinberg al fine di misurare i cambiamneti della frequenza degli alleli o dei genotipi degli individui.

L'azione della selezione naturale

478 Quando i fenotipi dipendono da un sistema genetico semplice e sono fortemente selezionati, il cambiamento evolutivo può essere molto rapido. In molti laboratori di tutto il mondo vengono eseguiti studi sui cambiamenti evolutivi conseguenti alla selezione in organismi quali i batteri e la Drosophila (in questi casi la selezione è imposta dagli sperimentatori e non dalla natura).

Dimostrare la selezione naturale in natura è molto più difficile (solo un osservatore fortunato può cogliere il momento in cui un uccello cattura una farfalla poco mimetizzata o seguire il destino delle migliaia di avannotti che nascono dalle uova di un solo pesce). Cionondimeno esistono esempi ben documentati, il più famoso dei quali è quello della falena Biston betularia. Questa falena trascorre il giorno riposando sui tronchi degli alberi o sulle rocce. Quando l'Inghilterra era veramente quella terra “verde e amena" a cui si riferiva il poeta William Blake, gli alberi erano chiari e spesso erano ricoperti di licheni ancora più chiari. Su questo sfondo gli esemplari di Biston bianchi maculati di nero erano pressoché invisibili (fig. 26.8a) e ciò costituiva una notevole protezione contro gli uccelli predatori che identificano le prede a vista. Poi, per dirla con Blake, vennero "gli scuri stabilimenti di Satana"; i licheni morirono e gli alberi e le rocce furono anneriti dagli scarichi industriali. Le Biston maculate, che prima si camuffavano, adesso si stagliavano su uno sfondo scuro (fig. 26.8b) e il valore selettivo del loro colore risultò invertito.



Nel 1848 vicino Manchester, in una delle regioni inglesi più insozzate dalla fuliggine, furono trovati alcuni esemplari neri della stessa specie. Sugli alberi anneriti queste farfalle erano altrettanto invisibili di quelle bianche sui licheni (fig. 26.8b). Alla fine degli anni '90 queste falene nere, dette melaniche dal nome del pigmento nero melanina, costituivano più del 95% della popolazione. Studi genetici successivi hanno dimostrato che il fenotipo melanico è dovuto ad un unico gene dominante. In Biston il gene per il colore chiaro muta alla sua forma allelica melanica con frequenza bassa. Ciò si è verificato probabilmente per migliaia di anni ma, fino alla metà del diciannovesimo secolo, le falene melaniche avevano avuto un forte svantaggio selettivo contro lo sfondo di licheni chiari e quindi non si erano diffuse nella popolazione. Eppure nell'arco di 50 anni l'allele melanico si è propagato nella popolazione ed esso, da raro mutante, è divenuto quello più frequente.

Tuttavia la frequenza della forma melanica non può essersi innalzata così velocemente come si potrebbe pensare. L'allele melanico è dominante e quello per la colorazione maculata continua ad
essere presente negli eterozigoti. Ritorniamo all'ipotetico esempio utilizzato per illustrare l'equazione di Hardy-Weinberg. Se a Manchester alla fine del diciannovesimo secolo la frequenza dei fenotipi maculati (q2) era del 4% (un valore realistico), in base all'equilibrio di Hardy-Weinberg la frequenza dell'allele per questo colore era del 20% (V504 = = 0,2). Indicando con A l'allele melanico e con a quello maculato possiamo applicare l'equazione di Hardy-Weinberg ed ottenere ¡'64AA + + ¡'32A(I + 0,O4aa = i per p = 0,8 e q = 0,2.

La formula di Hardy-Weinberg può essere usata per arrivare a calcolare la forza della selezione a favore dell'allele melanico. Perché la sua frequenza salisse da circa O a circa l'80% in soli 50 anni, l'allele melanico avrebbe dovuto avere un vantaggio del 30% sull'allele maculato. In questo modo l'evoluzione adattativa può avvenire con grande velocità: nella storia della vita, che risale a 3 000 000 000 di anni fa, mezzo secolo è un microsecondo (il fatto che l'allele melanico fosse dominante ha fortemente accelerato la sua diffusione in quanto esso aveva una espressione fenotipica completa sia negli omozigoti che negli eterozigoti; gli alleli vantaggiosi recessivi si diffondono più lentamente perché le copie presenti negli eterozigoti non sono espresse nel fenotipo e sono quindi controselezionate).

Fin qui questa è solamente una storia verosimile; una buona spiegazione evoluzionistica necessita però di controlli ed esperimenti. Inizialmente molti entomologi ed ornitologi dubitarono di questa spiegazione basata sull'individuazione visiva da parte degli uccelli, in quanto nessuno di loro aveva mai visto un uccello catturare una Biston su un albero. Poi, intorno al 1950, il biologo inglese H.B.D. Kettlewell eseguì l'esperimento appropriato: in una zona rurale priva di fuliggine e abbondantemente colonizzata da licheni egli rilasciò un numero uguale di falene maculate e melaniche, entrambe marcate; il 95% delle falene già presenti nella zona era del tipo maculato. Quando tentò di ricatturare le falene marcate con piccole trappole, egli trovò che il 12,5% era formato dagli esemplari maculati ma solo il 6% da quelli melanici. Chiaramente era scomparso un maggior numero di esemplari melanici ma, da solo, questo esperimento non poteva discriminare se la causa di ciò fosse la predazione a vista, l'emigrazione oppure una maggiore abilità di sfuggire alle trappole. Kettlewell fissò delle falene ai tronchi degli alberi e le inquadrò con cineprese nascoste; gli uccelli catturarono 164 falene nere ma solamente 26 maculate.

Per confermare questa osservazione Kettlewell eseguì lo stesso esperimento in una zona industriale vicino a Birmingham, dove circa l'85% delle falene selvatiche era del tipo melanico. Qui ritrovò il 40% delle falene melaniche marcate e solo il 19% di quelle maculate. Gli uccelli catturarono dagli alberi 43 falene maculate e solamente 15 melaniche.

Questa storia è assai più impressionante in quanto non è solamente quella di una specie particolare e della sua invenzione genetica. Il caso di Biston è solamente quello più documentato nell'ambito di un fenomeno più generale noto come melanismo industriale. Esistono almeno 100 specie di falene in cui la frequenza della forma melanica è aumentata nelle aree annerite dalla fuliggine di origine industriale. Inoltre, la differenza fra la forma chiara e quella scura è dovuta, normalmente, ad un solo gene e l'allele per il fenotipo scuro è quello dominante.

Variazione spaziale nelle popolazioni

479 Con l'esempio di Biston abbiamo visto che, in risposta ad un cambiamento ambientale, le popolazioni locali di una specie possono subire una modificazione, spesso rapida, delle frequenze geniche. Il risultato di questo processo è che, da un luogo all'altro del loro areale di distribuzione geografica, le specie possono variare per morfologia e composizione genetica. Tutti siamo perfettamente a conoscenza di questo fenomeno perché anche nella nostra specie gli abitanti originari dei diversi continenti sono molto diversi fra loro - malgrado le differenze genetiche fra i diversi gruppi siano molto piccole. Si ritiene che queste differenze abbiano una base adattativa, probabilmente a causa della selezione naturale. La pelle scura, che si è evoluta indipendentemente in molte popolazioni tropicali, costituisce uno schermo contro la radiazione ultravioletta. La bassa statura e gli arti relativamente corti e tozzi degli eschimesi aiutano a conservare il calore corporeo diminuendo la superficie attraverso la quale può essere perduto.

Questa differenziazione spaziale dei fenotipi e dei genotipi all'interno di una specie è detta variazione geografica. Al fine di documentare l'azione dell'evoluzione i naturalisti hanno provato a mettere in relazione la forma organica e l'ambiente. A volte la variazione geografica ha un andamento graduale nello spazio e in questi casi prende il nome di dine. Ad esempio in molte specie di animali a sangue caldo la variazione delle dimensioni corporee è clinale: alle alte latitudini, dove gli inverni sono lunghi e freddi, si trovano gli esemplari più grandi mentre, muovendosi verso i tropici, le dimensioni del corpo diminuiscono; questo fenomeno, noto fin dalla metà del secolo scorso, è detto regola di Bergmann. In figura 26.9 è riportata una mappa delle dimensioni dei passeri domestici maschi nell'America del Nord, che mostra questa tendenza alla variazione graduale: in questo caso le dimensioni maggiori si hanno nelle zone interne del Nord dove gli inverni sono più freddi. Questi passeri furono introdotti in America dopo il 1850 e quindi questa variazione clinale, che probabilmente ha un valore adattativo, si è sviluppata in soli 100 anni durante il processo di colonizzazione del continente a partire dalle poche aree dove i passeri furono introdotti.



Un'altra conferma della regola di Bergmann giunge dal lavoro eseguito dal paleontologo finlandese Bjorn Kurtén sugli orsi cavernicoli delle ere glaciali. In queste aree si sono alternati climi caldi e freddi e i ghiacci sono avanzati e si sono ritirati per molte volte. Kurtén ha riscontrato che gli orsi erano più grandi durante le epoche glaciali e divenivano più piccoli quando i ghiacci si scioglievano (fig. 26.10). Questa variazione ciclica si è ripetuta per molte volte, in concomitanza con l'espansione e la contrazione dei ghiacciai. Quindi la stessa correlazione fra clima freddo e dimensioni grandi, oltre ad essere valida per la distribuzione spaziale di una specie in un dato istante, è presente anche sotto forma di cambiamento nel tempo in un dato luogo in risposta ad oscillazioni climatiche.



Una delle spiegazioni della regola di Bergmann è che nelle zone fredde gli animali devono sviluppare sistemi per conservare il calore corporeo mentre nelle zone calde vi sono pressioni selettive che favoriscono lo sviluppo di sistemi per irradiare il calore in eccesso. La variazione delle dimensioni corporee è un eccellente adattamento per entrambe queste necessità: all'aumentare delle dimensioni l'area superficiale aumenta secondo il quadrato della lunghezza mentre il volume aumenta secondo il cubo (se viene conservata la stessa forma). Il corpo produce calore in tutto il suo volume ma lo irradia attraverso la sua superficie. Dal momento che il volume aumenta più rapidamente della superficie, negli animali grandi il rapporto fra superficie e volume è più basso rispetto agli animali più piccoli. Quindi i primi conservano il calore in modo migliore mentre i secondi, che hanno superfici relativamente estese, lo irradiano in modo più efficiente.

Questa spiegazione è corroborata da altri fenomeni della variazione geografica che hanno una base adattativa analoga. Le parti sporgenti del corpo (ad esempio la coda e le orecchie) tendono ad essere più corte e meno elaborate nei mammiferi che vivono in climi freddi e più lunghe e sottili negli animali tropicali: questa correlazione generale prende il nome di regola di Allen. Anche in questo caso le proiezioni sottili hanno un più alto rapporto superficie/volume e si comportano come strutture efficaci per irradiare il calore. Quindi nei climi freddi gli animali a sangue caldo tendono ad essere grandi e sferici mentre gli esemplari delle stesse speciehe vivono in climi caldi tendono ad essere piccoli ed esili (fig. 26.11).



Secondo la regola di Bergmann la variazione geografica sembrerebbe essere adattativa, ma ciò non basta perché noi non conosciamo le sue basi genetiche; nei vertebrati le dimensioni corporee sono controllate da molti geni e fortemente influenzate dall'ambiente. Non possiamo essere sicuri che tutti gli esempi della regola di Bergmann rappresentino un fenomeno genetico ed evolutivo. Forse nel Canada del Nord i lupi sono più grandi perché il loro periodo di crescita prima della maturazione è più lungo. Il notevole aumento della statura umana verificatosi nelle nazioni industrializzate durante il secolo scorso non sembra essere dovuto ad una evoluzione genetica ma piuttosto ad una migliore nutrizione. Nell'ampio intervallo degli ambienti nutrizionali la norma di reazione per la statura umana consente, ad ogni genotipo, una forte variazione.

In altri casi, invece, sono state raccolte prove a favore delle basi genetiche, oltreché adattative, della variazione geografica. Torniamo al gene per la falcemia e ai suoi rapporti con la malaria: sappiamo che la base genetica della falcemia è una semplice mutazione puntiforme che porta alla sostituzione dell'acido glutammico con la valina nella sesta posizione della catena 13 dell'emoglobina; sappiamo anche che in eterozigosi questo allele conferisce resistenza alla malaria. La variazione geografica della frequenza di questo allele dimostra chiaramente i suoi vantaggi adattativi nelle aree malariche e i suoi effetti nocivi altrove (fig. 26.12).



D'altra parte non possiamo assumere che qualsiasi variazione geografica regolare debba necessariamente essere sotto il controllo della selezione naturale. Ad esempio non è stato compreso il significato adattativo della variazione geografica dei gruppi sanguigni del sistema ABO nell'uomo: l'allele B è pressoché assente negli indiani d'America mentre in alcune parti dell'Asia la sua frequenza supera il 25%. Come spiegazione di ciò non si può escludere la selezione naturale, ma una causa più verosimile di questa riduzione dell'allele B fra gli indiani d'America sta nella bassa frequenza o nei fenomeni di deriva che si verificarono nelle popolazioni originarie che trasversarono lo stresso di Bering quando questo era transitabile e si diffusero poi in America. Inoltre c'è un impressionante cline dell'allele B che traversa tutta l'Europa (fig. 26.13), il quale riflette probabilmente le migrazioni umane del passato e non un equilibrio costantemente mantenuto dalla selezione.



La variazione geografica ci ha fornito molte informazioni sull'adattamento, sull'interazione fra i geni e ambiente e sul ruolo dei processi casuali nell'evoluzione. Darwin le attribuì un ruolo ancora più imponente; egli riteneva che la variazione geografica fornisse una chiave per il problema centrale dell'evoluzione: l'origine delle specie. Egli denominò "specie incipienti" quelle popolazioni ampiamente rappresentate e fortemente differenziate che occupano una porzione ben definita dell'areale totale di una specie. Oggi si ritiene - per ragioni che tratteremo fra poco - che solo raramente questi segmenti di una distribuzione continua si separano dalle popolazioni confinanti per diventare specie nel vero senso della parola.

La speciazione

480 Il mondo dei moderni organismi con riproduzione sessuata è più o meno suddiviso in specie discontinue. Nelle montagne Arfak della Nuova Guinea l'ornitologo Ernst Mayr ha identificato 137 specie di uccelli; egli ha trovato inoltre che i cacciatori locali e gli abitatori delle foreste, che non conoscono né Linneo né i criteri formali della tassonomia occidentale, ne riconoscono 136 con nomi dialettali. Eppure moti studiosi hanno l’impressione che le specie siano in realtà entità soggettive, individuabili in ogni dato momento, ma in continuo e lento cambiamento. A nostro parere, invece, le specie sono in maggioranza entità oggettive costanti nel tempo malgrado quelle incertezze che possono presentarsi nei punti ai contatto spaziali con specie molto affini, o temporali con specie discendenti o progenitrici.

I nuovi gruppi di organismi possono evolversi in due modi: la popolazione ancestrale può subire un cambiamento tale da giustificare un nuovo nome biologivo, oppure una sottopopolazione si può separare dalla popolazione originaria per formare una nuova specie.

Il primo processo è detto evoluzione filetica e il secondo speciazione (sfortunatamente il gergo tecnico può dare luogo a confusione; entrambi i processi producono specie nuove ma solo il secondo è chiamato speciazione; la speciazione è considerata il processo più importante e la chiave per comprendere gli aspetti più generali dell’evoluzione.

Innanzitutto la speciazione è l’unico processo che porta alla diversificazione evolutiva cioè all’aumento del numero delle specie. Come vedremo nel capitolo 27 l’estinzione delle specie è un processo comune e non un evento raro. L'evoluzione filetica può solamente modificare una specie in un'altra senza far aumentare il numero complessivo. Se le nuove specie si originassero solo per evoluzione filetica la vita ben presto scomparirebbe in quanto le diverse linee evolutive terminerebbero per estinzione. In secondo luogo è probabile che la speciazIone sia più frequente dell’evoluzione filetica, cioè che la maggior parte delle specie viventi si sia evoluta separandosi dai propri progenitori (fig. 26.14).


L'isolamento riproduttivo

481 E’ difficile che le nuove specie nascano all'interno di popolazioni grandi e molto numerose. Piccole sostituzioni di singoli alleli possono diffondersi molto rapidamente nelle popolazioni, soprattutto se questi sono dominanti e fortemente selezionati. Esse possono essere di grande importanza per il benessere della specie: l'allele per il colore scuro in Biston betularia soddisfa ad esempio tutti questi criteri. Tuttavia la sostituzione di qualche allele non basta per formare una nuova specie; affinché gli individui della nuova specie non si incrocino con i loro predecessori si deve accumulare un numero sufficiente di differenze genetiche. II criterio fondamentale per definire la speciazione è l'isolamento riproduttivo da tutte le altre specie. In natura un gruppo non può mantenere la propria integrità se si incrocia liberamente con altri gruppi: se gli accoppiamenti fra individui dello stesso gruppo e di gruppi diversi producono prole uguale per fecondità e adattamento, alla fine i due gruppi risulteranno amalgamati. Quindi, nella definizione valida per gli organismi con riproduzione sessuata, le specie sono gruppi di individui effettivamente o potenzialmente capaci di incrociarsi, con un pool genetico comune e riproduttivamente isolati da tutti gli altri gruppi. Come si sviluppa l'isolamento riproduttivo?

E raro che le nuove specie nascano nelle popolazioni grandi e ben ambientate o nella parte più favorevole del loro areale geografico. Spesso il raggiungimento dell'isolamento riproduttivo implica un'ampia riorganizzazione genetica. Ad esempio nel gruppo Drosophila willinstoni le nuove specie tendono a differenziarsi dai loro parenti più prossimi per più del 20% dei geni (una stima di minima basata sull'elettroforesi): è difficile immaginare come così tanti geni possano diffondersi uno dopo l'altro in una grande popolazione. Un allele favorevole può originarsi nella parte nordorientale dell'areale e un altro in quella sudoccidentale ma ambedue devono diffondersi su lunghe distanze per selezione, sostituendo gli altri alleli in popolazioni costituite da milioni o da miliardi di individui. Per un numero di geni ragionevole questo processo richiederebbe un tempo immensamente lungo. Inoltre, è possibile che l'ambiente e la pressione selettiva cambino arrestando la diffusione di alleli che in precedenza erano favorevoli. Quindi nelle grandi popolazioni il cambiamento genetico è presente normalmente come fluttuazioni secondarie e non come un processo costante e cumulativo verso la produzione di nuove specie: dal punto di vista evolutivo l'inerzia delle grandi popolazioni è molto forte.

Talvolta l'isolamento riproduttivo può originarsi da pochi cambiamenti genetici molto grandi normalmente mutazioni cromosomiche quali inversioni, traslocazioni, rotture e fusioni. Anche in questi casi è difficile immaginare come questi cambiamenti possano diffondersi in popolazioni grandi per formare nuove specie; se, fin dall'inizio, uno di questi cambiamenti è così grande che la prole nata dall'incrocio fra un mutante e un “normale" è sterile o fortemente sfavorita, esso non si diffonderà affatto anche se di per sé è favorevole. Se, invece, il cambiamento non pregiudica il successo dell'accoppiamento con individui normali esso risulterà diluito e la sua diffusione ostacolata in quanto gli individui che ne sono portatori si accoppieranno con individui normali la cui frequenza è enormemente maggiore. La selezione potrà innalzare la frequenza della mutazione ma, nelle grandi popolazioni, la velocità di questo aumento potrà essere così bassa che la fissazione non viene raggiunta prima che l'ambiente cambi nuovamente.

Di conseguenza buona parte del problema della speciazione si riduce alla questione di come i piccoli gruppi possano separarsi dalle grandi popolazioni; in questi gruppi, infatti, le mutazioni possono diffondersi molto rapidamente, e non c'è l'effetto inerziale degli alleli primordiali che devono essere eliminati dalla popolazione. I cambiamenti favorevoli non vengono diluiti in un'area enorme popolata da individui normali e, localmente, possono avere successo e arrivare alla fissazione. La speciazione dipende quindi dall'insediamento di popolazioni piccole e discrete "protette" dall'influsso dei geni portati da individui normali che migrano dalle popolazioni circostanti. La diffusione di geni dovuta allo scambio è detta flusso genico: esso tende a ridurre le differenze locali e a rendere più omogenee le popolazioni. Affinché la speciazione abbia successo è necessario eliminare il flusso genico dalle grandi popolazioni circostanti o almeno ridurlo ad un punto tale che le combinazioni genetiche favorevoli, che si originano e si diffondono localmente, non siano diluite o eliminate.

La speciazione allopatrica

482 Il modo migliore per impedire il flusso genico da una popolazione più vasta è che una piccola popolazione figlia si separi geograficamente isolandosi totalmente dalla popolazione parentale: questo processo è detto di speciazione allopatrica (o geografica). La separazione può essere il risultato di un cambiamento d'ambiente quale la modificazione del corso di un fiume, la formazione di una catena montuosa o l'innalzamento del livello del mare che provoca la formazione di isole dove prima c'era la terraferma. Alternativamente può essere il risultato dell'emigrazione di una piccola popolazione fondatrice dal nucleo centrale della specie.


Talvolta piccole popolazioni possono rimanere isolate anche all'interno dell'areale della specie parentale - ad esempio nelle oasi perenni di un deserto di recente formazione se questo è circondato dalla popolazione parentale. Normalmente, invece, le piccole popolazioni si isolano ai limiti esterni dell'areale della popolazione parentale (fig. 26.15) e pertanto prendono il nome di isolati periferici.

Dal momento che è raro che i cambiamenti evolutivi si verifichino all'interno del nucleo centrale della grande popolazione, questi isolati periferici sono le entità fondamentali dell'evoluzione o, per usare il termine di Darwin, "specie incipienti". Gli isolati periferici si prestano in modo particolare ai rapidi cambiamenti evolutivi che portano alla speciazione, per numerose ragioni:

1. Sono protetti dal flusso genico proveniente dalla popolazione parentale.

2. Sono costituiti da popolazioni piccole e spazialmente limitate. Le variazioni genetiche favorevoli possono diffondersi molto rapidamente.

3. Spesso sono fondati da pochissimi individui e ciò ha un forte influsso sui processi casuali quali la deriva genetica e l'effetto del fondatore. In questo modo vengono introdotte e sottoposte a verifica molte combinazioni genetiche nuove.

4. Essi vivono in ambienti che li sottopongono ad una intensa selezione per quei caratteri che li differenziano dalle forme parentali. Una specie ha un limite periferico proprio perché al di là di questo limite l'ambiente non le è favorevole. Viceversa gli isolamenti periferici vivono all'interno, o almeno nelle immediate vicinanze, di quelle aree inospitali per la popolazione parentale.

Con ciò non vogliamo affermare che tutti gli isolati periferici (e neppure la maggiore parte di essi) accumulano un numero di differenze genetiche sufficiente per formare nuove specie. Anzi, la stragrande maggioranza di essi segue il normale destino dei piccoli gruppi che vivono negli ambienti marginali cioè si estingue. Per una piccola popolazione il fatto di costituire un isolato periferico equivale semplicemente a possedere il biglietto di una lotteria: senza di esso non si può vincere (cioè realizzare la speciazione), ma i biglietti vincenti sono molto pochi.

La speciazione simpatrica

483 L'opposto della speciazione allopatrica è la speciazione simpatrica, cioè la separazione di una nuova specie all'interno dell'areale della popolazione parentale senza che vi sia isolamento spaziale. Teoricamente la speciazione simpatrica è possibile se i portatori di mutazioni favorevoli si accoppiano preferenzialmente fra loro e se a favore di queste mutazioni agisce una selezione sufficiente ad arginare il flusso genico prodotto dagli accoppiamenti fra i mutanti e le forme parentali. Alcuni biologi sostengono che la speciazione simpatrica può verificarsi solo in alcune circostanze particolari. Tuttavia le specie esistenti per le quali queste circostanze possono realizzarsi sono molte; esempi di speciazione simpatrica si trovano nelle specie vegetali poliploidi e nelle specie animali che hanno una specificità per un dato ospite.

La poliploidia nelle piante. Se l'isolamento riproduttivo può insorgere all'improvviso, la protezione contro il flusso genico non rappresenta più un problema e non vi sono difficoltà teoriche perché si realizzi una speciazione simpatrica. Una speciazione così improvvisa può realizzarsi mediante un evento genetico particolare, ma tutt'altro che raro. Se, durante la meiosi, i cromosomi appaiati non si dividono e rimangono nella stessa cellula (nondisgiunzione) si possono produrre gameti con un corredo cromosomico interamente diploide. A differenza di quanto avviene normalmente quando la fusione di due gameti aploidi ripristina il numero cromosomico diploide, occasionalmente si può verificare la fusione di due gameti diploidi con produzione di individui con un numero di cromosomi doppio rispetto al normale (tetraploidi). Gli individui tetraploidi possono accoppiarsi fra loro con successo mentre normalmente non producono prole feconda accoppiandosi con diploidi in quanto il prodotto di questi accoppiamenti sono individui triploidi in cui, alla meiosi, non si può ottenere una segregazione equilibrata dei cromosomi. Quindi, nel caso che abbiano adattamenti distintivi e che si diffondano per selezione, i tetraploidi costituiscono immediatamente una nuova specie.

Con il termine poliploidia si indica l'aumento del numero cromosomico ottenuto per moltiplicazione del normale corredo aploide oltre il livello di diploide (triplicazione nei triploidi, quadruplicazione dei tetraploidi ecc.). La poliploidia è stata molto importante nell'evoluzione delle piante. Il 50% delle piante con fiori potrebbe essere poliploidi; ad esempio come risultato di numerosi episodi di poliploidizzazione durante la sua storia evolutiva una specie di felci contiene 1260 cromosomi in ogni cellula.

Nelle piante la speciazione può verificarsi anche per un altro, e forse più importante, tipo di poliploidia: l'allopoliploidia, cioè il raddoppiamento dei cromosomi in un ibrido di due specie diverse. La maggioranza degli ibridi fra due specie vegetali è sterile; essi portano singole coppie di cromosomi paterni e materni provenienti da piante diverse. La meiosi non può avvenire perché ciascun cromosoma non ha un omologo con cui appaiarsi, ma se un tale ibrido raddoppia i propri cromosomi, ciascun cromosoma paterno e materno viene ad avere un partner con cui appaiarsi e la meiosi può aver luogo. In questo modo in un solo discendente possono essere combinate le proprietà di due piante e ciò costituisce un guadagno enorme in termini di potenziale evolutivo.

Il valore potenziale dell'allopoliploidia per l'agricoltura fu ben presto riconosciuto dai coltivatori. In un caso, in cui la natura trionfò sulle ambizioni umane, essi incrociarono un ravanello e un cavolo. Ambedue queste specie hanno 18 cromosomi che, nella meiosi normale, formano 9 coppie: l'ibrido aveva 18 cromosomi non appaiati (9 da ogni genitore) ed era sterile. Spontaneamente si formò un poliploide fertile con 36 cromosomi che alla meiosi formavano 18 coppie. Sfortunatamente questo aveva le foglie del ravanello e le radici del cavolo.

In altri casi l'allopoliploidia ha fornito benefici enormi all'agricoltura. Le cellule del grano comune (Triticum aestivum) contengono 42 cromosomi. Questa specie si formò circa 4500 anni fa per l'ibridazione spontanea di un grano a 28 cromosomi con un'erba a 14 cromosomi. L'ibrido a 21 cromosomi era sterile ma l'allopoliploide con 42 è ancora oggi una delle più importanti piante coltivate. Il progenitore a 28 cromosomi era esso stesso un allopoliploide formato da due ceppi a 14 cromosomi.

La specificità per l'ospite negli animali
      Molti animali parassiti possono vivere solamente su ospiti di un'unica specie. Se fra i parassiti si origina una mutazione che fa scegliere un'altra specie ospite, gli individui che ne sono colpiti perdono i contatti con la popolazione parentale e li stabiliscono con altri individui della loro specie che portano la stessa mutazione. Ad esempio nel 1864 una sottopopolazione della mosca del biancospino, Rhagoletis pomonella, si spostò sui meli. Attorno al 1960, nel Wisconsin, una sottopopolazione della specie del melo si spostò sui ciliegi. Dal momento che sono state descritte più di 500 000 specie di insetti con specificità per l'ospite, questo tipo di speciazione simpatrica potrebbe essere piuttosto comune fra gli animali.

La speciazione parapatrica

484 Sia nella speciazione allopatrica che in quella simpatrica l'arresto del flusso genico viene considerato il requisito necessario perché una specie si sviluppi con successo. Recentemente, però, molti evoluzionisti hanno iniziato a dubitare della potenza del flusso genico nel rendere omogenea la variazione favorevole all'interno della popolazione parentale. Essi sostengono che spesso il flusso genico è più debole di quanto si riteneva in precedenza (i nostri dati sul flusso genico sono insufficienti perché l'immigrazione e l'emigrazione sono fenomeni difficili da studiare; si dovrebbero marcare migliaia di semi o di organismi e sperare di recuperarne almeno alcuni in luoghi diversi). D'altra parte sembra che una selezione intensa sia un fenomeno piuttosto comune in natura. Se una selezione intensa può prevalere su un flusso genico debole - cioè se, a causa della selezione, le differenze genetiche di una popolazione locale si accumulano più rapidamente di quanto si perdano per emigrazione o si disperdano per immigrazione e a causa dell'accoppiamento con le forme parentali - la speciazione potrà verificarsi anche quando le popolazioni parentali e quella figlia rimangono a contatto. Questo caso intermedio prende il nome di speciazione parapatrica e consiste nella separazione di due popolazioni che abitano aree geografiche diverse e, mentre le differenze genetiche si accumulano, conservano i contatti attraverso una linea di confine. I clini sono buoni candidati per la speciazione parapatrica purché la selezione agisca in differenti direzioni ai due estremi e il flusso genico nella direzione del dine sia debole.

Criteri per definire le specie

485 Normalmente le popolazioni figlie accumulano le differenze genetiche quando sono isolate dalle popolazioni parentali. Come si può sapere, quindi, se la loro divergenza è sufficiente per considerarle specie nuove? La prova migliore è data dal comportamento assunto quando esse ristabiliscono i contatti (la simpatria) con la specie parentale (se le due popolazioni rimangono in allopatria può risultare impossibile determinare se la popolazione figlia è divenuta una vera specie). Dal momento che la definizione di specie implica l'isolamento riproduttivo dalle altre specie, il criterio fondamentale è il mantenimento, da parte della popolazione figlia, della propria integrità quale unità all'interno della quale c'è libero incrocio, anche quando rientra in contatto con la popolazione parentale. Se essa si incrocia liberamente e si amalgama con la popolazione parentale non può essere considerata in alcun caso una vera specie; essa è solamente una variante geografica, indipendentemente dalla quota di differenza genetica accumulata durante l'isolamento. Se, viceversa, conserva la propria integrità quale unità di incrocio, è una specie.

L'ibridazione limitata

486 Il mantenimento di una specie quale unità di incrocio stabile non sempre richiede una barriera di sterilità assoluta nei confronti di tutte le altre specie. E necessario solamente che due specie che si trovano a contatto non si fondano a causa di una ibridazione senza limitazioni. In effetti nelle piante, a differenza degli animali, l'ibridazione limitata fra specie che conservano la propria identità è stata un importante meccanismo evolutivo. Ad esempio durante l'evoluzione del granturco (Zea Mays) c'è stata l'introduzione di geni provenienti da una pianta affine, il teosinte (Zea mexicana). In Messico questa pianta è cresciuta come erba infestante nei campi di granturco fin da quando questo è stato coltivato.

Le due specie hanno una propria identità ma occasionalmente producono ibridi, i quali si incrociano con il granturco e quindi questo incorpora geni del teosinte; questo processo prende il nome di ibridazione introgressiva. Questa riserva di variabilità genetica proveniente dal teosinte ha avuto un ruolo fondamentale per la produzione di nuovi ceppi di granturco mediante la selezione artificiale. Attualmente i coltivatori temono che la possibile estinzione del teosinte, dovuta all'aumento dell'urbanizzazione e all'eliminazione dei campi di granturco selvatico, possa limitare la possibilità di produrre varietà di mais migliori-

Molti ibridi fra specie diverse sono sterili perché le differenze nella forma e nel numero dei cromosomi impediscono il loro appaiamento alla meiosi (il mulo è sterile per questo motivo). Negli animali gli ibridi di questo tipo non hanno alcuna funzione dal punto di vista evolutivo. Nelle piante, invece, dove si può passare dalla riproduzione sessuata a quella asessuata, gli ibridi sterili si possono moltiplicare. In molte piante si realizza la riproduzione vegetativa, o apomissi, in cui i nuovi individui nascono da porzioni della pianta parentale radici, stoloni (come per le fragole) o gemme (come per le patate). Per le specie vegetali a riproduzione prevalentemente apomittica l'ibridazione occasionale con altre specie è una tappa evolutiva di grande importanza. Inoltre, molte specie poliploidi sterili vengono propagate vegetativamente per l'impianto delle colture; ad esempio la banana è un triploide sterile.

I meccanismi di isolamento

487 L'integrità di una specie è mantenuta dall'isolamento riproduttivo. Sfortunatamente la terminologia può creare confusione; l'isolamento riproduttivo è un fenomeno completamente differente dall'isolamento geografico. Quest'ultimo consiste nella separazione spaziale di due popolazioni ed è una condizione necessaria che precede la speciazione, mentre il primo è il prodotto della speciazione cioè è la incapacità, da parte di una popolazione, di amalgamarsi con altre specie mediante l'incrocio.

I diversi sistemi che mantengono l'isolamento riproduttivo prendono il nome di meccanismi di isolamento (l'isolamento geografico non è un meccanismo di isolamento perché non conserva l'integrità delle popolazioni bensì le tiene separate indipendentemente dalla loro capacità di incrociarsi). I meccanismi di isolamento pre-copula (premating) impediscono i tentativi di incrocio fra i membri di due specie; ad esempio le due specie possono accoppiarsi in diversi periodi dell'anno o in zone differenti dell'habitat (ad esempio una sugli alberi e l'altra al suolo), oppure i membri di una delle due specie possono sviluppare comportamenti per riconoscere ed evitare i possibili partner dell'altra specie. In molti insetti gli organi copulatori hanno una forma così elaborata che quelli maschili e femminili di specie diverse non si adattano fra loro. I meccanismi di isolamento post-copula (postmating) assicurano la non-vitalità della prole di un ibrido; ad esempio i membri di specie diverse possono copulare senza produrre uova fertili. In altri casi, come quello del mulo, la prole ibrida può essere vitale ma sterile (normalmente perché i cromosomi materni e paterni sono troppo diversi per accoppiarsi correttamente alla meiosi). Infine gli ibridi possono essere fertili ma selettivamente inferiori ad entrambe le forme parentali.

Per sopravvivere una specie nuova deve competere con successo con la specie parentale. Se una nuova specie è riproduttivamente isolata dalle specie affini ma soccombe nella competizione con queste, essa può sopravvivere solo se è isolata geograficamente in un habitat particolare; in ogni caso le sue prospettive per una sopravvivenza a lungo termine non sono buone. Per il mantenimento di due specie affini in simpatria è necessario che queste si dividano l'habitat e che non vi siano sovrapposizioni per quanto riguarda le preferenze alimentari, le ore di raccolta del cibo ecc. Quindi, quando due specie entrano in simpatria per la prima volta, spesso si evolvono divergendo l'una dall'altra e godendo così dei vantaggi di una competizione ridotta: questo processo prende il nome di spostamento dei caratteri. Ad esempio sull'isola di Moorea, nel Pacifico, ogni vallata è abitata da una diversa specie di chiocciola terrestre del genere Partula. Le nuove specie si originano per speciazione allopatrica (invasione di nuove vallate) e spesso, più tardi, ristabiliscono i contatti con la popolazione parentale. Vi sono coppie, formate da una specie parentale ed una figlia, che condividono parte dei rispettivi areali in simpatria. E interessante notare che i gusci delle due specie sono sempre più differenti nelle zone dove queste vivono insieme rispetto a quelle dove vivono separate. Lo spostamento dei caratteri è una buona indicazione del fatto che due popolazioni simpatriche sono riproduttivamente isolate.

La velocità di speciazione

488 I tre modi di speciazione che abbiamo discusso hanno in comune la insolita caratteristica di prendere il via in modo rapido nelle piccole popolazioni. Con "rapido" non si intende nell'arco di una nottata o di un decennio, ma veloce rispetto alla durata geologica media di una specie che ha avuto successo. Questa durata si misura in centinaia o migliaia di anni ma, più comunemente, in milioni di anni. In questo contesto un isolato periferico in cui la speciazione dura poche centinaia o un migliaio di anni impiega per questo processo l'l% del tempo che poi trascorrerà sotto forma di specie prima di estinguersi.

Una conseguenza di questo è che il mondo è suddiviso in specie relativamente discrete e ben distinte (come esempio immediato si pensi al divario fra l'uomo e il suo parente più prossimo, cioè lo scimpanzé, malgrado la grande variabilità della specie Homo sapiens). Se, di norma, le specie si trasmutassero in altre specie durante la loro storia, il mondo della natura non sarebbe "parcellizzato" in unità discrete, ma sarebbe dominato da gruppi di transizione separati in modo imperfetto dai loro affini. In realtà i casi di transizione ambigui esistono, ma sono rari. Talvolta, ai confini spaziali e temporali di una specie si presentano "stranezze". Ad esempio in alcune specie c'è una grossa variabilità geografica fra le diverse popolazioni: ciascuna di queste può essere fertile negli incroci con le popolazioni limitrofe ma essere riproduttivamente isolata da quelle più lontane. Cosa fare in queste situazioni? Come devono essere considerate queste popolazioni, che hanno le proprietà caratteristiche sia delle specie vere e proprie che delle varianti geografiche? Spesso gli evoluzionisti usano l'espediente di coniare nuovi termini; essi indicano queste popolazioni con il nome di semispecie. Noi pensiamo che sia più corretto ammettere che questa ambiguità non è imprevista. Se, per nascere, le specie impiegano un centesimo del tempo della loro esistenza, ci attendiamo che una specie su 100 contenga popolazioni che sono nel mezzo della speciazione, cioè che sono separate ancora in modo imperfetto dalla popolazine parentale.

Epilogo


489 L'evoluzione deve essere considerata a diversi livelli. Al livello più basso è necessaria la presenza di un'unità di variazione. Il gene è questa unità e la mutazione è la sua fonte primaria di variabilità. Questa variabilità è alla base del secondo livello: quello dell'unità di selezione. L'unità di selezione è l'individuo. La selezione esercitata sugli individui modifica il corredo genetico delle generazioni successive. Gli individui, però, non si evolvono; essi possono solamente crescere, riprodursi e morire. Essi si aggregano in specie e queste rappresentano il terzo livello: l'unità di evoluzione.

In natura le specie sono entità reali. I loro membri interagiscono entrando in competizione gli uni con gli altri. L'evoluzione agisce tramite il successo differenziale di alcune specie rispetto ad altre e la formazione di nuove unità con il processo di speciazione. Per usare un'espressione del filosofo della scienza David Hull: "I geni mutano, gli individui sono selezionati e le specie evolvono".

Sommario 499

1. La somma dei geni di un organismo costituisce il suo genotipo; il prodotto del genotipo è il fenotipo, cioè la forma, la fisiologia e il comportamento dell'organismo. Fra il gene e il fenotipo non c'è una corrispondenza biunivoca. Le parti del corpo non sono semplici prodotti di singoli geni. I geni non codificano per parti morfologiche altamente specifiche; essi codificano per una norma di reazione, cioè un insieme di risposte fenotipiche che variano al variare dell'ambiente in cui il gene si esprime. Tutte le parti del corpo si originano come risultato di un insieme di influenze genetiche e ambientali inscindibili.

2. All'origine della variabilità genetica vi sono le mutazioni; la riproduzione sessuata, però, ridistribuendo nella prole i due programmi genetici parentali, è la sorgente più immediata di gran parte della variabilità fra gli individui di una popolazione.

3. La tecnica dell'elettroforesi su gel ha dimostrato che nelle popolazioni naturali esiste una grossa quota di variabilità genetica. Questa variabilità fornisce materiale grezzo a sufficienza perché la selezione naturale possa agire, ma la sua presenza è contemporaneamente enigmatica in quanto la selezione naturale, producendo gli adattamenti, dovrebbe consumare la variabilità. La grande abbondanza di variabilità presente in molte popolazioni potrebbe non conciliarsi con l'ipotesi secondo cui la selezione naturale sarebbe il principale fattore nella regolazione dell'evoluzione.

4. In alcuni casi l'azione della selezione conserva la variabilità anziché eliminarla. Fra questi vi è il vantaggio dell'eterozigote (che porta al mantenimento di entrambi gli alleli), l'eterogeneità spaziale e temporale dell'ambiente (che porta al mantenimento di molti genotipi nella popolazione), il vantaggio degli alleli che diventano rari (che previene la loro eliminazione).

5. L'equazione di Hardy-Weinberg mette in relazione le frequenze geniche di una popolazione con la distribuzione dei genotipi fra gli individui e mostra che, nelle popolazioni con riproduzione sessuata e accoppiamento casuale, in assenza di mutazione, selezione e migrazione, né le frequenze dei geni né quelle dei genotipi cambiano da una generazione all'altra.

6. Con esperimenti di laboratorio controllati si può chiaramente dimostrare il ruolo della selezione nel produrre cambiamenti evolutivi. In natura è più difficile identificare questi fenomeni (data la limitatezza delle nostre conoscenze sulla storia delle popolazioni) che tuttavia non sono affatto rari. Il caso più famoso e più documentato è quello della sostituzione delle falene chiare con falene scure nelle aree industriali inglesi quando gli alberi si coprirono di fuliggine. Le falene chiare, che riposavano sugli alberi ad ali spiegate, risaltavano sullo sfondo mentre quelle scure erano pressoché invisibili per gli uccelli predatori che devono individuarle a vista.

7. Spesso la variazione geografica all'interno di una specie illustra il valore adattativo di una diversa struttura corporea. Ad esempio nelle specie a sangue caldo spesso gli individui che abitano in climi freddi sono più grandi di quelli che abitano zone calde. Gli animali grandi hanno un rapporto fra superficie e volume più basso e conservano più efficacemente il calore.

8. L'evento fondamentale dell'evoluzione è la formazione di nuove specie. Normalmente queste si originano non per modificazione di una grande popolazione (evoluzione filetica), ma per lo scostamento di piccole sottopopolazioni da quella parentale fino a che la loro divergenza è tale da renderle nuove specie (speciazione).

9. Normalmente le nuove specie nascono quando piccole popolazioni rimangono geograficamente isolate dalla forma parentale (speciazione allopatrica). In assenza di flusso genico proveniente dalla popolazione parentale l'isolato geografico può divergere geneticamente. Una popolazione isolata diventa una nuova specie quando ha accumulato un numero di differenze genetiche tale da impedire il reincrocio con la forma parentale (nel caso che vengano ristabiliti i contatti con questa). Il criterio per riconoscere una nuova specie è l'isolamento riproduttivo da tutte le altre specie.

10. In alcuni casi le nuove specie possono originarsi da sottopopolazioni che conservano i contatti con la forma parentale (speciazione simpatrica). I casi più comuni sono la poliploidia nelle piante e la formazione di razze di insetti con specificità per un ospite. 11. I fattori che mantengono l'isolamento riproduttivo prendono il nome di meccanismi di isolamento. Fra questi vi sono meccanismi pre-copula che impediscono contatti riproduttivi fra membri di specie diverse (ad esempio riproduzione differente nel tempo o nell'habitat) e meccanismi post-copula che impediscono la fusione delle popolazioni nel caso che si verifichino frequenti accoppiamenti fra i loro membri (ad esempio sterilità o inferiorità adattativa della prole ibrida).