La teoria dei “memi” di R. Dawkins


1.

Richard Dawkins è l'infant terrible della schiera dei biologi evoluzionisti ortodossi.

Nato nel 1941, docente di zoologia dal 1970 all'Università di Oxford, si è dedicato soprattutto alla divulgazione della teoria darwiniana raggiungendo una notevole fama già con il suo primo libro Il gene egoista, pubblicato nel 1976 e in seguito rivisto e aggiornato nel 1989 (Mondadori, Milano 1992). Nel libro egli, pur rimanendo fedele a Darwin, ne aggiorna la teoria identificando nel gene, anziché nell'organismo individuale, il soggetto principale della selezione naturale.

Questa nuova ottica, oltre che confutare l'ipotesi che la selezione abbia un qualunque interesse per il bene della specie, serve soprattutto a ribadire l'assoluta casualità dell'evoluzionismo. Su questo tema verte, infatti, un'altra opera – L'orologiaio cieco – pubblicata nel 1986 (Mondadori, Milano 2006), che si contrappone radicalmente all'ipotesi del Disegno Intelligente: «La selezione naturale è l'orologiaio cieco, cieco perché non vede dinanzi a sé, non pianifica conseguenze, non ha in vista alcun fine. Eppure, i risultati viventi della selezione naturale ci danno un'impressione molto efficace dell'esistenza di un disegno intenzionale di un maestro orologiaio; che alla base della complessità della natura vivente ci sia un disegno intenzionale, è però solo un'illusione.».

La polemica nei confronti del Disegno Intelligente torna anche ne Il fiume della vita, pubblicato nel 1995 (Rizzoli, Milano 2008), nel quale Dawkins scrive: «Un buon modo per rappresentare efficacemente il nostro compito è immaginare che le creature viventi siano opera di un Artefice divino e tentare, applicando la progettazione inversa, di comprendere che cosa l'Artefice abbia voluto massimizzare. Qual era la funzione di utilità di Dio? Il ghepardo indica in ogni dettaglio di essere stato superbamente progettato per qualche scopo, e dovrebbe essere abbastanza facile studiarlo applicando la progettazione inversa per comprendere la sua funzione di utilità. Il ghepardo sembra fatto apposta per uccidere la gazzella. I denti, gli artigli, gli occhi, il naso, la muscolatura degli arti, la colonna vertebrale e il cervello di questo predatore sono tutti come potremmo aspettarci se lo scopo di Dio nel progettarlo fosse stato quello di massimizzare le morti tra le gazzelle. Ma se applichiamo la progettazione inversa allo studio della gazzella troviamo evidenze ugualmente impressionanti dello scopo diametralmente opposto: la sopravvivenza delle gazzelle e la morte dei ghepardi per fame. È come se il ghepardo fosse stato progettato da una divinità e la gazzella da una divinità rivale. In alternativa, se vi è un solo Creatore che ha fatto la tigre e l'agnello, il ghepardo e la gazzella, qual è il Suo gioco? È un sadico che si diverte ad assistere a spettacoli cruenti? Cerca di scongiurare la sovrappopolazione tra i mammiferi africani? Oppure ha interesse a mantenere alta l'audience dei documentari naturalistici di David Attenborough? Tutte queste supposizioni sono funzioni di utilità del tutto plausibili. All'atto pratico, ovviamente, sono del tutto false.»

Il radicalismo di Dawkins giunge all'estremo nell'ultimo suo saggio – L'illusione di Dio -, pubblicato nel 2006 (Mondadori, Milano 2008). nel quale egli dichiara, con accenti di aperta intolleranza, la sua “fede” materialista, atea e scientista.

Devo premettere, a riguardo, che sono ideologicamente d'accordo con Dawkins, anche se non riesco a condividere il disprezzo che egli esprime nei confronti dei credenti, univocamente identificati con neonati che hanno bisogno del ciuccio. Il dogmatismo religioso va combattutto nella misura in cui ingabbia l'essere umano in una concezione che porta ad accettare lo stato di cose esistente nel mondo e a cullarsi nell'illusione di una giustizia oltremondana. Le religioni, però, a mio avviso, vanno affrontate come fenomeni culturali di lunga durata con cui la cultura laica dovrà fare ancoa a lungo I conti. Perché la stora umana progredisca occorre trovare qualche punto di convergenza tra i sistemi di valore religiosi e quelli laici, riservando il conflitto alle situazioni, per esempio bioetiche, in rapporto alle quali la divergenza è radicale.

Il mio disagio nei confronti di Dawkins, però, non riguarda la religione, ma l'evoluzionismo e in particolare l'atteggiamentio ipercritico che egli ha assunto nei confronti della teoria degli equilibri punteggiati, avanzata da S. J. Gould e da N. Eldridge al fine di risolvere il nodo cruciale della teoria darwiniana e del neodarwinismo: la carenza degli anelli paleontologici intermedi che consentono di avallare il gradualismo dell'evoluzione e le prove che la speciazione è proceduta in virtù di lunghi periodi di stasi e di salti relativamente rapidi.

Stento a capire perché Dawkins abbia assunto un atteggiamento così apertamente ostile nei confronti della teoria degli equilibri punteggiati, che integra senza mettere in discussione il darwinismo. Presumo che ciò possa dipendere, se non addirittura (ma tenderei ad escluderlo) da una sorta di invidia nei confronti di Gould, che è stato identificato (giustamente a mio avviso) come il legittimo “erede” di Darwin, dal fatto che la teoria degli equilibri punteggiati è stata assunta impropriamente dai sostenitori del Disegno Intelligente come una sorta di cavallo di Troia del darwinismo.

Questo articolo comunque non ha lo scopo di approfondire il dibattito all'interno del campo dei biologi evoluzionistici. Esso estrapola e mira ad analizzare il capitolo in assoluto più interessante de Il gene egoista, nel quale Dawkins avanza la ormai famosa ipotesi dei memi, che tenta di sopperire ad un'ulteriore lacuna del darwinismo: il rapporto tra natura e cultura.

Riporto integralmente il capitolo per procedere poi ad una sua analisi. Il corsivo è mio.

2.

Richard Dawkins
Il gene egoista (op. Cit. pp. 198-211)

“Cap. 11

Memi: i nuovi replicatori

Fino a ora non ho parlato molto dell'uomo in particolare, sebbene non lo abbia neppure escluso deliberatamente. Il motivo per cui ho usato il termine "macchina da sopravvivenza" è in parte il fatto che "animali" avrebbe escluso le piante e, nella mente di alcune persone, l'uomo. Gli argomenti che ho usato dovrebbero invece riguardare qualunque essere che si è evoluto. Se una specie deve essere esclusa, bisogna che ci sia una buona ragione per farlo. Esistono buone ragioni per supporre che la nostra specie sia unica? Io credo che la risposta sia sì.

Ciò che è insolito a proposito dell'uomo si può riassumere quasi tutto in una parola: "cultura". Non intendo questa parola nel suo senso snob, ma come la intende uno scienziato. La trasmissione culturale è analoga alla trasmissione genetica nel senso che, sebbene di base sia conservativa, può dare origine a una forma di evoluzione. Geoffrey Chaucer non potrebbe sostenere una conversazione con un inglese moderno, anche se i due sono legati da una catena ininterrotta di una ventina di generazioni di inglesi, ciascuno dei quali potrebbe parlare ai suoi vicini prossimi nella catena come un figlio parla al padre. Il linguaggio sembra "evolversi" attraverso mezzi non genetici a un ritmo che è parecchi ordini di grandezza più veloce dell'evoluzione genetica.

La trasmissione culturale non è esclusiva dell'uomo. Il miglior esempio non umano che conosco è stato descritto recentemente da P.F. Jenkins ed è il canto di un uccello chiamato saddleback (storno a schiena d'asino) che vive in alcune isole vicino alla Nuova Zelanda. Sull'isola dove lo studioso ha lavorato esisteva un repertorio totale di circa nove canti distinti. Ogni dato maschio emetteva solo un piccolo numero di canti o anche uno solo. I maschi potevano essere classificati in gruppi di dialetto. Per esempio, un gruppo di otto maschi con territori adiacenti emetteva un canto particolare chiamato CC; altri gruppi di dialetto cantavano canti differenti. Talvolta i membri di un gruppo di dialetto avevano in comune più di un canto. Confrontando i canti di padri e figli, Jenkins dimostrò che si svolgevano su schemi che non erano ereditati geneticamente. Ciascun maschio giovane adottava i canti dai suoi vicini territoriali per imitazione, in modo analogo al linguaggio umano. Durante la maggior parte del tempo in cui Jenkins restò nell'isola, il numero di canti era fisso, una specie di pool da cui ciascun giovane maschio traeva il suo piccolo repertorio. Ma occasionalmente Jenkins ebbe il privilegio di assistere all'invenzione di un nuovo canto, dovuta a un errore nell'imitazione di un canto vecchio. Egli scrive: "Si è visto che nuove forme di canti nascono di volta in volta dal cambiamento dell'altezza di una nota, dalla sua ripetizione, dall'eliminazione di note e dalla combinazione di parti di altri canti esistenti... L'apparizione della nuova forma è un evento improvviso e il prodotto rimane stabile per un periodo di anni. Inoltre, in alcuni casi la variante viene trasmessa accuratamente nella nuova forma ai giovani, così che si sviluppa un gruppo coerente di cantanti simili tra loro". Jenkins definisce le origini culturali dei nuovi canti "mutazioni culturali ".

I canti di questi uccelli hanno in effetti un'evoluzione non genetica. Esistono altri esempi di evoluzione culturale negli uccelli e nelle scimmie, ma si tratta soltanto di interessanti stranezze. E' la nostra specie che mostra sul serio che cosa può fare l'evoluzione culturale e il linguaggio ne è soltanto un esempio. Le varie forme dell'abbigliamento e dell'alimentazione, delle cerimonie e dei costumi, dell'arte e dell'architettura, dell'ingegneria e della tecnologia, si sono tutte evolute nei tempi storici in un modo che sembra accelerato dall'evoluzione genetica, ma che in realtà con essa non ha niente a che vedere. Tuttavia, come nell'evoluzione genetica, i cambiamenti possono rappresentare dei progressi. In più di un senso la scienza moderna è effettivamente migliore di quella antica; con il passare dei secoli la nostra comprensione dell'universo non è soltanto cambiata, ma si è anche perfezionata. Bisogna riconoscere che il progresso della moderna conoscenza è iniziato soltanto nel Rinascimento, preceduto da un periodo di stagnazione in cui la cultura scientifica europea era rimasta congelata al livello raggiunto dai greci. Ma, come abbiamo visto nel capitolo 5, anche l'evoluzione genetica può procedere come una serie di balzi improvvisi fra plateau stabili.

L'analogia fra l'evoluzione culturale e quella genetica è stata spesso tirata in ballo, spesso con toni esageratamente mistici. In particolare, Sir Karl Popper ha studiato l'analogia fra il progresso scientifico e l'evoluzione genetica a opera della selezione naturale. Vorrei spingermi ulteriormente in direzioni esplorate anche, per esempio, dal genetista L.L. Cavalli­Sforza, dall'antropologo F.T. Cloak e dall'etologo J.M. Cullen.

Come darwiniano entusiasta non sono mai stato soddisfatto delle teorie proposte da altri entusiasti per spiegare il comportamento umano. Tutti hanno cercato nei vari attributi della civiltà umana dei "vantaggi biologici". Per esempio, la religione tribale è stata vista come un meccanismo per consolidare l'identità di gruppo, utile per una specie che caccia in branco, i cui individui devono affidarsi alla cooperazione per catturare prede grosse e veloci. Spesso queste teorie sono implicitamente influenzate da un preconcetto evoluzionistico, quello della selezione di gruppo, ma è possibile riformulare le teorie nei termini di una selezione genica ortodossa. é vero che l'uomo ha vissuto per gran parte degli ultimi milioni di anni in piccoli gruppi di consanguinei; è vero che la selezione per parentela e la selezione in favore dell'altruismo reciproco possono avere agito sui geni umani per produrre molti dei nostri attributi e tendenze psicologiche di base. Queste idee sono plausibili, ma mi sembra che non inizino neppure ad affrontare la sfida formidabile costituita dal dover spiegare la cultura, l'evoluzione culturale e le immense differenze fra le culture umane delle varie parti del mondo, dall'estremo egoismo degli Ik in Uganda, descritto da Cohn Turnbull, al gentile altruismo degli Arapesh di Margaret Mead. Credo che dovremmo cominciare da capo partendo dai principi primi. Intendo affermare, per quanto quest'argomentazione possa sorprendere da parte dell'autore dei capitoli precedenti, che per comprendere l'evoluzione dell'uomo moderno dobbiamo anzitutto chiarire che il gene non è l'unica base delle nostre idee sull'evoluzione. Sono un darwiniano entusiasta, ma credo che il darwinismo sia una teoria troppo grande per essere confinata nel ristretto contesto del gene. Il gene entrerà nella mia tesi come analogia e niente di più.

Che cos'hanno di speciale i geni, dopo tutto? La risposta è che sono dei replicatori. Ora, come le leggi della fisica sono, a quanto si crede, vere per tutto l'universo accessibile, esistono principi biologici che potrebbero avere una validità altrettanto universale? Quando gli astronauti viaggiano verso pianeti distanti cercando la vita possono aspettarsi di trovare creature troppo strane e assurde persino da immaginare. Ma non c'è qualche caratteristica comune a tutte le forme di vita, dovunque si trovino e qualunque sia la base della loro chimica? Se esistono forme di vita la cui chimica si basa sul silicio invece che sul carbonio o sull'ammoniaca invece che sull'acqua, se si scoprono creature che muoiono bollite a -100 gradi centigradi, se si scopre una forma di vita che non si basa sulle proprietà chimiche ma sui circuiti elettronici, esisterà pur sempre un principio generale vero per tutte queste forme diverse? Naturalmente non lo so ma, se dovessi fare una scommessa, punterei su di un principio fondamentale, secondo il quale tutte le forme di vita evolvono attraverso la sopravvivenza differenziale di entità che si replicano. E' capitato che il gene, la molecola di DNA, fosse l'entità replicante che ha prevalso sul nostro pianeta. Potrebbero essercene delle altre e se ci sono, purché esistano altre condizioni, tenderanno quasi inevitabilmente a diventare la base di un processo evolutivo.

Ma è necessario andare su mondi distanti per trovare altre specie di replicatori e quindi altri tipi di evoluzione? Io credo che un nuovo tipo di replicatore sia emerso di recente proprio su questo pianeta. Ce l'abbiamo davanti, ancora nella sua infanzia, ancora goffamente alla deriva nel suo brodo primordiale ma già soggetto a mutamenti evolutivi a un ritmo tale da lasciare il vecchio gene indietro senza fiato.

Il nuovo brodo è quello della cultura umana.

Ora dobbiamo dare un nome al nuovo replicatore, un nome che dia l'idea di un'unità di trasmissione culturale o un'unità di imitazione. "Mimeme" deriva da una radice greca che sarebbe adatta, ma io preferirei un bisillabo dal suono affine a "gene": spero perciò che i miei amici classicisti mi perdoneranno se abbrevio mimeme in meme. Se li può consolare, lo si potrebbe considerare correlato a "memoria" o alla parola francese meme.

Esempi di memi sono melodie, idee, frasi, mode, modi di modellare vasi o costruire archi. Proprio come i geni si propagano nel pool genico saltando di corpo in corpo tramite spermatozoi o cellule uovo, così i memi si propagano nel pool memico saltando di cervello in cervello tramite un processo che, in senso lato, si può chiamare imitazione. Se uno scienziato sente o legge una buona idea, la passa ai suoi colleghi e studenti e la menziona nei suoi articoli e nelle sue conferenze. Se l'idea fa presa, si può dire che si propaga diffondendosi di cervello in cervello. Il mio collega N.K. Humphrey ha dato un chiarissimo riassunto di una versione precedente di questo capitolo, scrivendo: "... i memi dovrebbero essere considerati come strutture viventi e non soltanto in senso metaforico, ma anche tecnico. Quando si pianta un meme fertile in una mente, il cervello ne viene letteralmente parassitato e si trasforma in un veicolo per la propagazione del meme, proprio come un virus può parassitare il meccanismo genetico di una cellula ospite. E questo non è soltanto un modo di dire: il meme che predispone, diciamo, a "credere nella vita dopo la morte" si realizza fisicamente, milioni di volte, come una struttura del sistema nervoso degli uomini di tutto il mondo ".

Consideriamo l'idea di Dio. Non sappiamo in che modo si sia originata nel pool memico. Probabilmente si è originata molte volte per "mutazioni" indipendenti. In ogni caso, è molto antica. In che modo si replica? A voce e per iscritto, aiutata dalla grande musica e dalla grande arte. Perché ha un così forte valore di sopravvivenza? Ricordate che "valore di sopravvivenza" qui non significa valore di un gene in un pool genico, ma valore di un meme in un pool memico. La domanda in realtà sarebbe: cosa c'è nell'idea di Dio che le fornisce stabilità e capacità di penetrazione nell'ambiente culturale? Il valore di sopravvivenza del meme Dio nel pool memico deriva dal suo grande richiamo psicologico. Esso fornisce una risposta superficiale plausibile a problemi profondi e inquietanti dell'esistenza; suggerisce che le ingiustizie di questo mondo possano essere eliminate nell'altro; fa da cuscino alle nostre inadeguatezze e, come un placebo, non è meno efficace per il fatto di essere immaginario. Queste sono alcune delle ragioni per cui l'idea di Dio viene copiata così prontamente dalle successive generazioni di singoli cervelli. Dio esiste, non fosse altro che sotto forma di un meme ad alto valore di sopravvivenza, o ad alta virulenza, nell'ambiente fornito dalla cultura umana.

Alcuni dei miei colleghi mi hanno suggerito che questa spiegazione del valore di sopravvivenza del meme Dio evita la questione. In ultima analisi loro vogliono sempre riferirsi al "vantaggio biologico". Per loro non basta dire che l'idea di Dio ha una "grande attrattiva psicologica": vogliono sapere perché ce l'ha. Attrattiva psicologica significa attrattiva per il cervello e il cervello si forma in seguito alla selezione naturale di geni nel pool genico. I miei colleghi vogliono scoprire il motivo per cui avere un cervello di questo tipo migliori la sopravvivenza del gene.

Questo atteggiamento non mi dispiace e non ho dubbi che ci siano dei vantaggi genetici nell'avere un cervello come quello che abbiamo; ma credo che questi colleghi, se considerassero attentamente le fondamenta dei loro presupposti, scoprirebbero che stanno evi­tando un ugual numero di domande. In sostanza, la ragione per cui è buona politica cercare di spiegare i fenomeni biologici in termini di vantaggio per i geni è che i geni sono replicatori. Nel momento in cui il brodo primordiale fornì condizioni in cui le molecole potevano fare copie di se stesse, i replicatori presero il sopravvento. Per più di tremila milioni di anni il DNA è stato l'unico replicatore nel mondo di cui valesse la pena parlare, ma non è detto che debba mantenere sempre questo monopolio. Ogni volta che si verificheranno le condizioni in cui un nuovo tipo di replicatore potrà fare copie di se stesso, il nuovo replicatore renderà a prendere il sopravvento e a iniziare un nuovo tipo di evoluzione. Una volta iniziata, questa nuova evoluzione non sarà necessariamente asservita alla vecchia. La vecchia evoluzione per selezione genica, portando alla formazione del cervello, ha fornito il "brodo" in cui si sono originati i primi memi. Una volta che si sono formati memi capaci di fare copie di se stessi, ha preso il sopravvento il loro tipo di evoluzione, molto più veloce dell'altro. Noi biologi abbiamo assimilato così profondamente l'idea dell'evoluzione genetica che tendiamo a dimenticare che è soltanto uno dei tanti possibili tipi di evoluzione.

L'imitazione, in senso lato, è il modo in cui i memi possono replicarsi. Ma proprio come non tutti i geni possono replicarsi con successo, così nel pool memico alcuni memi hanno più successo di altri. Questo è l'analogo della selezione naturale. Ho menzionato esempi particolari di qualità che hanno un alto valore di sopravvivenza fra i memi. Ma in generale devono essere le stesse discusse per i replicatori del capitolo 2: longevità, fecondità e fedeltà di copiatura. La longevità di una copia qualunque di un meme ha probabilmente un'importanza relativa, esattamente come per le copie dei geni. La copia della melodia "Auld Lang Syne" che esiste nel mio cervello durerà soltanto per il resto della mia vita. La copia della stessa melodia che è stampata nella mia copia di The Scottish Student's Song Book difficilmente durerà molto di più. Ma mi aspetto che ci saranno copie della stessa melodia su carta e nella mente della gente per molti secoli ancora. Come nel caso dei geni, la fecondità è molto più importante della longevità di copie particolari. Se il meme è un dato scientifico, la sua diffusione dipenderà da quanto sarà accettabile per la popolazione dei singoli scienziati; una misura grossolana del suo valore di sopravvivenza potrebbe essere ottenuta contando il numero di volte in cui viene citato negli anni seguenti sulle riviste scientifiche. Se è una melodia popolare, la sua diffusione nel pool memico può essere misurata dal numero di persone che
la fischiano per la strada. Se è una forma di calzatura femminile, si possono usare le statistiche di vendita dei negozi di scarpe. Certi memi, come certi geni, ottengono un brillante successo a breve termine e si diffondono rapidamente, ma nel pool memico non durano a lungo: ne sono un esempio le canzoni popolari e i tacchi a spillo. Altri, come le leggi religiose ebraiche, possono continuare a propagarsi per migliaia di anni, di solito per la grande durata potenziale delle cose scritte.

Questo mi porta alla terza qualità generale dei replicatori di successo: la fedeltà di copiatura. Qui devo ammettere che non mi trovo su di un terreno solido. A prima vista sembra che i memi non siano per nulla dei replicatori ad alta fedeltà. Ogni volta che uno scienziato sente un'idea e la passa a qualcun altro, la cambia un po'. Non ho nascosto che per questo libro devo molto alle idee di R.L. Trivers, eppure non le ho riportate con le sue parole: le ho invece adattate ai miei scopi, modificandone l'accento e mescolandole con idee mie e di altra gente. I memi vengono trasmessi in forma alterata. Ciò sembra molto diverso dalla qualità discontinua, "tutto o niente" della trasmissione dei geni. Sembra che la trasmissione dei memi sia soggetta a mutare in modo non discontinuo e anche a omogeneizzarsi.

E possibile che questa non-discontinuità sia soltanto un'apparenza illusoria e che l'analogia con i geni sia valida. Dopo tutto, se osserviamo il modo in cui vengono ereditati molti caratteri genetici, come l'altezza o il colore della pelle, non sembra che questo sia il risultato di geni indivisibili e rigorosamente separati. Se un nero e un bianco si accoppiano, i loro figli non vengono fuori o bianchi o neri, ma intermedi. Ciò non significa che i geni coinvolti non siano discontinui, ma soltanto che ve ne sono molti coinvolti nel colore della pelle, ciascuno con un effetto così piccolo che sembrano fondersi. Fino a ora ho parlato di memi come se fosse ovvio di che cosa è fatta ogni singola unità-meme. Ma naturalmente non è ovvio per nulla. Ho detto che una melodia è un meme, ma che dire di una sinfonia: da quanti memi è composta? Ogni movimento è un meme, o forse lo è ogni frase riconoscibile, ogni misura, ogni accordo o che osa?

Mi rifaccio allo stesso trucco verbale che ho usato nel capitolo 3. In quel capitolo ho diviso il "complesso di geni" in unità genetiche grandi e piccole e le unità in unità più piccole. Il gene veniva definito non in un modo rigido del tipo "tutto o niente" ma come un'unità di convenienza, un tratto di cromosoma con quel tanto di fe­deltà di copiatura da servire da unità vitale di selezione naturale. Se una singola frase della nona sinfonia di Beethoven è abbastanza caratteristica e ricordabile da poter essere estratta dal contesto dell'intera sinfonia e usata come segnale da una stazione radio europea terribilmente invadente, allora per questo merita il nome di meme. Questo fatto ha, per inciso, materialmente diminuito la mia capacità di ascoltare con piacere la sinfonia originale.

Allo stesso modo, quando diciamo che tutti i biologi oggi credono nella teoria di Darwin non vogliamo dire che ogni biologo ha, incisa nel cervello, una copia identica delle parole esatte di Charles Darwin. Ciascun individuo ha il suo modo personale di interpretare le idee di Darwin, che non ha probabilmente imparato dagli scritti originali dello scienziato ma da autori più recenti. Molto di quanto Darwin ha detto è, in dettaglio, sbagliato. Se Darwin leggesse questo libro a fatica vi riconoscerebbe la sua teoria originale (spero però che gli piacerebbe il modo in cui la esprimo). Eppure, a dispetto di tutto ciò, c'è qualcosa, una sorta di essenza del darwinismo, che è presente nella testa di ogni individuo che capisce la teoria. Se non fosse così, allora non si potrebbe quasi mai dire che due persone sono d'accordo. Un "meme-idea" potrebbe essere definito come un'entità che è capace di essere trasmessa da un cervello a un altro. Il meme della teoria di Darwin è perciò quella base essenziale dell'idea che è comune a tutti i cervelli che capiscono la teoria. Le differenze nel modo in cui la gente rappresenta la teoria non sono allora, per definizione, parte del meme. Se la teoria di Darwin può essere suddivisa in componenti, così che alcuni credono al componente A ma non al componente B, mentre altri credono a B ma non ad A, allora A e B dovrebbero essere considerati memi separati. Se quasi tutti quelli che credono ad A credono anche a B se i memi sono, per usare il termine genetico, strettamente "legati" (linked) - allora è conveniente unirli insieme in un unico meme.

Spingiamo ancora un po' più in là l'analogia fra i memi e i geni. In tutto il libro ho sottolineato il fatto che non dobbiamo pensare ai geni come ad agenti consci che agiscono per uno scopo. La selezione naturale cieca però li fa comportare come se quello scopo l'avessero ed è stato conveniente, per semplicità, riferirsi ai geni usando un linguaggio finalistico. Per esempio, quando diciamo "i geni cercano di aumentare il loro numero nel futuro pool genico", ciò che si intende in realtà è "quei geni che si comportano in modo tale da aumentare il loro numero nei pool genici futuri tendono a essere geni i cui effetti si vedono nel mondo". Proprio come abbiamo trova­to conveniente pensare ai geni come ad agenti attivi che lavorano appositamente per la loro sopravvivenza, forse sarebbe conveniente pensare nello stesso modo ai memi. In entrambi i casi non dobbiamo essere mistici, perché l'idea della finalità è soltanto una metafora, anche se abbiamo già visto quanto questa metafora sia utile nel caso dei geni. Abbiamo usato parole come "egoista" e "spietato", sapendo bene che si tratta soltanto di linguaggio figurato. Possiamo, esattamente nello stesso spirito, cercare memi egoisti o spietati?

Qui c'è un problema che riguarda la natura della competizione. Nei casi in cui la riproduzione è sessuale, ciascun gene compete in modo specifico con gli alleli suoi rivali per la stessa tacca cromosomica. I memi sembrano non avere nulla di equivalente ai cromosomi e niente di equivalente agli alleli. Suppongo che in un certo senso si possa dire che molte idee hanno il loro "opposto", ma in generale i memi assomigliano alle prime molecole che si replicavano, fluttuando libere nel brodo primordiale e non ai geni moderni, irreggimentati nelle coppie di cromosomi. In che senso allora i memi competono fra loro? Dobbiamo o no aspettarci che siano "egoisti" o "spietati", se non hanno alleli? La risposta è che possiamo, perché c'è un caso in cui essi devono lasciarsi andare a competere fra di loro.

Chiunque usi un computer sa quanto siano preziosi il tempo del computer e lo spazio di memoria. In molti grossi centri informatici a queste grandezze viene letteralmente assegnato un costo in denaro o a ciascun utilizzatore vengono assegnati tempo, misurato in secondi, e spazio di memoria, misurato in "parole". Ora, il computer in cui vivono i memi è il cervello umano. Il tempo è probabilmente un fattore limitativo più importante dello spazio di memoria ed è oggetto di pesante competizione. Il cervello umano e il corpo che esso controlla non possono fare più di una o due cose alla volta. Se un meme deve dominare l'attenzione di un cervello umano, deve farlo a spese di memi "rivali". Altre cose per cui i memi competono sono il tempo alla radio e alla televisione, lo spazio sui manifesti, le colonne dei giornali e gli scaffali delle biblioteche.

Nel caso dei geni, abbiamo visto nel capitolo 3 che nel pool genico possono formarsi complessi di geni adattati fra loro. Un gran numero di geni coinvolti nel mimetismo delle farfalle si sono uniti insieme sullo stesso cromosoma, così strettamente che possono essere considerati un unico gene. Nel capitolo 5 abbiamo incontrato la più sofisticata teoria dell'assetto genico evolutivamente stabile. Nel pool genico dei carnivori si sono evoluti denti, artigli, stomaci e or­gani di senso coadattati tra loro, mentre un assetto stabile di caratteristiche diverse è emerso nel pool genico degli erbivori. Succede qualcosa di simile nel pool memico? Il meme dell'idea di Dio si è per esempio associato con qualche altro meme particolare e questa associazione aiuta la sopravvivenza di ciascuno dei memi partecipanti? Forse una chiesa organizzata, con la sua architettura, i suoi riti, le sue leggi, la sua musica, la sua arte e le sue tradizioni scritte, si potrebbe considerare appunto come un assetto stabile di memi che si rafforzano l'un l'altro.

Per prendere un esempio particolare, un aspetto della dottrina che è stato molto efficace per obbligare all'osservanza religiosa è la minaccia del fuoco dell'inferno. Molti bambini e anche alcuni adulti credono che soffriranno atroci tormenti dopo la morte se non obbediscono alle regole dei preti. Si tratta di una tecnica di persuasione particolarmente antipatica, che ha provocato grande angoscia psicologica nel Medioevo e anche nei nostri tempi. Potrebbe quasi essere stata pianificata deliberatamente da preti machiavellici addestrati nelle tecniche di indottrinamento psicologico profondo. Dubito tuttavia che i preti fossero così abili; è molto più probabile che memi inconsci abbiano assicurato la propria sopravvivenza usando le stesse qualità di pseudospietatezza possedute dai geni di successo. L'idea del fuoco dell'inferno, molto semplicemente, è autoperpetuante per il suo profondo impatto psicologico. Si è trovata unita al meme dell'idea di Dio perché i due si rinforzano l'un l'altro e aiutano la sopravvivenza reciproca nel pool memico.

Un altro membro del complesso dei memi religiosi si chiama fede. Significa fiducia cieca, senza prove, anche contro le prove. La storia di San Tommaso viene raccontata non perché noi lo ammiriamo ma per farci ammirare in confronto gli altri apostoli. Tommaso chiedeva prove e per certi memi niente è più letale della tendenza a chiederne le prove. Gli altri apostoli invece, la cui fede era così forte da non avere bisogno di prove, vengono considerati degni di imitazione. Il meme della fede cieca assicura la propria esistenza perpetua con il semplice espediente inconscio di scoraggiare le indagini razionali.

La fede cieca può giustificare qualunque cosa. Se un uomo crede in un dio diverso o anche se usa un diverso rituale per adorare lo stesso dio, la fede cieca può decretare che deve morire sulla croce, al palo, infilzato sulla spada di un crociato, ucciso da un proiettile in una strada di Beirut o fatto saltare in aria in un bar di Belfast. I memi della fede cieca hanno proprie regole spietate per propagarsi, valide non solo per la fede religiosa, ma anche per quella patriottica o politica.

I memi e i geni possono spesso rinforzarsi l'un l'altro, ma certe volte si trovano in opposizione. Per esempio, l'abitudine del celibato non si eredita geneticamente, a quanto sembra. Nel pool genico, un gene del celibato è condannato al fallimento, tranne in circostanze molto speciali, come quelle che si ritrovano fra gli insetti sociali. Invece un meme del celibato può avere successo nel pool memico. Per esempio, supponiamo che il successo di un meme dipenda in modo critico dalla quantità di tempo che la gente impiega a trasmetterlo ad altra gente. Tutto il tempo impiegato a fare cose diverse dal tentare di trasmettere il meme può essere considerato come tempo sprecato dal punto di vista del meme. Il meme del celibato viene trasmesso dai preti a giovani che ancora non hanno deciso ciò che vogliono fare nella vita. Il mezzo di trasmissione è l'influenza umana di vario tipo, la parola scritta e parlata, l'esempio personale e così via. Supponiamo, per ipotesi, che sia vero che il matrimonio indebolisce il potere di un prete di influenzare il suo gregge, diciamo perché occupa una buona parte del suo tempo e della sua attenzione. Questa è stata infatti avanzata come ragione ufficiale per obbligare i preti al celibato. Se questo fosse il caso, ne seguirebbe che il meme del celibato potrebbe avere un valore di sopravvivenza maggiore del meme del matrimonio. Naturalmente, sarebbe vero esattamente l'opposto per un gene del celibato. Ma se un prete è una macchina da sopravvivenza dei memi, il celibato ne è un attributo utile. Esso è soltanto un partner minore in un grosso complesso di memi religiosi che si assistono reciprocamente.

Io suppongo che i complessi di memi coadattati evolvano nello stesso modo dei complessi di geni coadattati. La selezione favorisce i memi che sfruttano a proprio vantaggio l'ambiente culturale. Questo ambiente culturale consiste di altri memi che vengono a loro volta selezionati. Il pool di memi si trova quindi ad avere gli attributi di una serie evolutivamente stabile che i nuovi memi fanno fatica a invadere.

Sono stato un po' negativo nei confronti dei memi che in realtà hanno anche dei lati positivi. Quando moriamo ci sono due cose che possiamo lasciare: i geni e i memi. Siamo costruiti come macchine dei geni, create allo scopo di tramandare i nostri geni. Ma questo nostro aspetto verrà dimenticato in tre generazioni. I nostri figli, i nostri nipoti forse, ci assomiglieranno, nei tratti del viso, per il talento musicale o per il colore degli occhi. Ma a ogni generazione il contributo dei nostri geni si dimezza e in breve scende a una proporzione trascurabile. I nostri geni possono essere immortali ma l'insie­me di geni che costituisce ciascuno di noi è destinato a sbriciolarsi. Elisabetta II è una diretta discendente di Guglielmo il Conquistatore, eppure è molto probabile che non abbia neppure un gene del vecchio re. Non dovremmo cercare l'immortalità nella riproduzione.

Ma se contribuiamo alla cultura del mondo, se abbiamo una buona idea, se componiamo una canzone, se inventiamo la candela, se scriviamo una poesia, queste cose possono vivere intatte per lungo tempo dopo che i nostri geni si sono dissolti nel pool comune. Socrate può avere o no un gene o due ancora vivi nel mondo d'oggi, come ha fatto notare G. C. Williams, ma che importa? I complessi di memi di Socrate, Leonardo, Copernico e Marconi stanno ancora andando forte.

Per quanto il mio sviluppo della teoria dei memi sia pura ipotesi, c'è un punto importante che vorrei sottolineare ancora una volta. Si tratta del fatto che quando osserviamo l'evoluzione dei tratti culturali e il loro valore di sopravvivenza, dobbiamo indicare chiaramente chi intendiamo che sopravviva. I biologi, come abbiamo visto, sono abituati a cercare vantaggi a livello dei geni (o dell'individuo, del gruppo o della specie secondo i gusti). Ciò che non abbiamo considerato in precedenza è che un tratto culturale possa essersi evoluto nel modo in cui si è evoluto semplicemente perché è vantaggioso per lui.

Non è necessario cercare valori biologici convenzionali di sopravvivenza di tratti come la religione, la musica e la danza rituale, sebbene possano esistere. Una volta che i geni hanno fornito alle loro macchine da sopravvivenza cervelli capaci di imitazione rapida, i memi prenderanno automaticamente il sopravvento. Non dobbiamo neppure assegnare un vantaggio genetico all'imitazione anche se certamente aiuterebbe. Tutto ciò che è necessario è che il cervello sia capace di imitare: si evolveranno allora memi che sfruttano in pieno questa capacità.

Chiudo adesso l'argomento dei nuovi replicatori e finisco il capitolo con una nota di speranza. Un aspetto unico dell'uomo, che può o no essersi evoluto memicamente, è la sua capacità di previsione conscia. I geni egoisti (e, se accettate le ipotesi di questo capitolo, anche i memi) non hanno preveggenza. Sono inconsci, ciechi replicatori. Il fatto che si replichino assieme a certe altre condizioni significa che tenderanno verso l'evoluzione di qualità che, nel senso speciale di questo libro, si possono chiamare egoiste. Non ci si può aspettare che un semplice replicatore, gene o meme che sia, rinunci a un vantaggio egoistico a breve termine, anche se in realtà gli converrebbe alla lunga comportarsi così. Lo abbiamo visto nel capitolo sull'aggressione. Anche se una "cospirazione di colombe" sarebbe migliore per ciascun singolo individuo della strategia evolutiva stabile, la selezione naturale è destinata a favorire l'ESS.

E possibile che un'altra qualità unica dell'uomo sia la capacità di comportarsi altruisticamente in modo genuino e disinteressato. Spero che sia così, ma non ho intenzione di discutere l'argomento né di fare speculazioni sulla sua possibile evoluzione memica. Il punto che mi interessa è che, anche se si decide di no e si assume che il singolo uomo sia fondamentalmente egoista, la nostra preveggenza conscia - la nostra capacità di simulare il futuro nella nostra mente - potrebbe salvarci dai peggiori eccessi di egoismo dei replicatori ciechi. Abbiamo almeno l'equipaggiamento mentale per coltivare i nostri interessi egoistici a lungo termine invece di badare semplicemente ai nostri interessi egoistici a breve termine. Possiamo vedere i benefici a lungo termine di partecipare a una "cospirazione di colombe" e possiamo riunirci per discutere il modo di far funzionare la cospirazione. Abbiamo il potere di andare contro ai nostri geni egoisti e, se necessario, ai memi egoisti del nostro indottrinamento. Possiamo addirittura discutere modi di coltivare deliberatamente l'altruismo disinteressato e puro - qualcosa che non trova posto in natura, qualcosa che non è mai esistito nell'intera storia del mondo. Siamo stati costruiti come macchine dei geni e coltivati come macchine dei memi, ma abbiamo il potere di ribellarci ai nostri creatori. Noi, unici sulla terra, possiamo ribellarci alla tirannia dei replicatori egoisti.”


3.

“Esempi di memi sono melodie, idee, frasi, mode, modi di modellare vasi o costruire archi.” In una frase come questa c’è il fascino e il limite dell’ipotesi di Dawkins. pongo tra parentesi il riferimento al modellamento dei vasi e alla costruzione degli archi - pratiche ormai desuete nel nostro mondo - alle quali l’autore fa riferimento solo per ribadire la sua fede ortodossa nel fatto che il cervello umano è stato selezionato originariamente per agevolare l’adattamento degli uomini primitivi che vivevano di caccia e di raccolta.

Il problema è che Dawkins ha una concezione astratta della cultura; egli la tratta come se fosse un insieme di unità significative a livello mentale che si trasmettono di generazione in generazione. La trasmissione culturale è un fatto certo: essa è il fondamento di ogni processo educativo, in ogni tempo e sotto ogni cielo. Intanto, però, ciò che viene trasmesso è riconducibile a tradizioni, vale a dire a modi di sentire, di pensare e di agire prodotti dalle generazioni precedenti, che i genitori o gli insegnati ricevono spesso senza capirne le origini storiche e l’autentico significato. In secondo luogo, la trasmissione avviene a livello cosciente e a livello inconscio: a quest’ultimo livello, essa implica una simbolizzazione con un forte contenuto emozionale e affettivo, che sfuggono alla critica di chi la riceve. Infine, anche senza cadere in una forma arcaica di materialismo sovrastrutturale, è molto difficile pensare che le “idee” o i “valori” culturali si producano del tutto indipendentemente dai processi economici e storico-sociali.
Il mistero della cultura umana è che, di generazione in generazione, si trasmettono infiniti contenuti che non sono coscienti e non sono necessariamente differenziati tra loro.

Qualcosa di analogo può essere detto anche per quanto riguarda la trasmissione culturale tra gli adulti. Le mode e gli stili di comportamento si modellano sulla base di influenze sotterranee, che spesso sfuggono al controllo della coscienza.

La cultura, insomma, non sembra un insieme di unità memiche chiare e distinte, quanto piuttosto come un calderone dal quale ogni soggetto attinge, interpretando tra l’altro ciò che attinge.

Per questo aspetto l’ipotesi della mentalità degli storici francesi, che fa riferimento a quadri mentali che ingabbiano un gruppo o un’etnia, se non addirittura un’intera civiltà, mi sembra molto più pregnante dell’ipotesi di Dawkins, che, a mio avviso, è troppo cartesiana.

La mentalità, tra l’altro, omologabile allo “spirito del tempo”, implica l’esistenza di un inconscio sociale, ove essa scorre, che influenza per molti aspetti inconsciamente l’inconscio dei singoli individui, e di conseguenza la loro coscienza.

Ritengo particolarmente importante questo aspetto non solo sul piano filosofico, ma anche neurobiologico.

Nella visione evoluzionistica ultradarwinista di Dawkins, il cervello è null’altro che un organo adattivo, selezionato originariamente per favorire l’adattamento, e che spinge le persone, senza che esse lo sappiano, a darsi da fare per trasmettere i loro geni.

In questa ottica, l’esistenza dell’inconscio, vale a dire di un’attività mentale indefinitamente ridondante che si realizza al di sotto della coscienza, è assolutamente inspiegabile. Per assolvere infatti alla funzione adattiva, una coscienza ricca di capacità cognitive e supportata da emozioni di base potrebbe bastare e, forse, avanzare.

L’apparato mentale umano, invece, ha un’indefinita complessità, che implica anche funzioni adattive, ma la cui dimensione sembra eccedere il piano dell’adattamento.

E’ probabile che un’integrazione tra evoluzionismo e psicoanalisi potrà intervenire solo quando gli evoluzionisti (non meno diversamente peraltro degli psicoanalisti) riusciranno a rispondere a questa inquietante domanda: a che serve l’inconscio? perché la Natura ha montato, per utilizzare una metafora banale, il motore di una Ferrari su di una Panda, che vibra di continuo e richiede ad ogni soggetto di adottare una serie indefinita di meccanismi difensivi per non andare in pezzi.

L’ipotesi di Dawkins penso che abbia una validità parziale in rapporto a flussi di informazioni che scorrono tra le menti e all’interno dei quali si danno di sicuro dei memi. Questi, però, rappresentano ben poca cosa in riferimento al fiume della cultura.