CARLO DARWIN

L'ESPRESSIONE DEI SENTIMENTI NELL'UOMO E NEGLI ANIMALI

Prima Traduzione italiana (1878) di

GIOVANNI CANESTRINI

in corso di revisione linguistica da parte di Luigi Anepeta

INDICE SISTEMATICO DELLE MATERIE


INTRODUZIONE


CAPITOLO I.

PRINCIPI GENERALI DELLA ESPRESSIONE

Determinazione dei tre principi fondamentali. - Primo principio. Gli atti divengono abituali associandosi a certi stati di spirito, e sono compiuti, anche ove il bisogno non se ne faccia sentire, in ciascun caso particolare. - Potenza dell'abitudine. - Eredità. - Movimenti associati abituali nell'uomo. - Azioni riflesse. - Trasformazione delle abitudini in azioni riflesse. - Movimenti associati abituali negli animali. - Conclusioni.

CAPITOLO II.

PRINCIPII GENERALI DELLA ESPRESSIONE (seguito)

Principio dell'antitesi. - Esempi nel cane e nel gatto. - Origine del principio. - Segni convenzionali. - Il principio dell'antitesi non ha per origine azioni opposte compiute con conoscenza di causa sotto l'influenza di opposti impulsi.

CAPITOLO III.

PRINCIPII GENERALI DELLA ESPRESSIONE (fine).

Terzo principio: Azione diretta sulla economia dell'eccitazione del sistema nervoso, indipendentemente dalla volontà e, in parte, dall'abitudine. - Cambiamento di colore dei peli. - Tremito dei muscoli. - Modificazione delle secrezioni. - Sudore. - Espressione d'un vivo dolore, del furore, della gioia, dello spavento. - Differenza tra le espressioni che producono o no movimenti espressivi. - Stati d'animo che eccitano o deprimono. - Riassunto.

CAPITOLO IV.

MEZZI D'ESPRESSIONE NEGLI ANIMALI

Emissione di suoni. - Suoni vocali. - Suoni prodotti da vari meccanismi. - Sollevamento delle appendici cutanee, peli, piume ecc., sotto l'influenza del furore o dello spavento. - Rovesciamento all'indietro delle orecchie, quale disposizione alla lotta o come segno di collera. - Raddrizzamento delle orecchie ed elevazione del capo in segno di attenzione.

CAPITOLO V.

ESPRESSIONI SPECIALI DEGLI ANIMALI

Diversi movimenti espressivi nel cane. - Gatto. - Cavallo. - Ruminanti. - Scimmie. - Espressioni di gioia e d'affetto, di dolore, di collera, di stupore e di spavento in questi animali.

CAPITOLO VI.

ESPRESSIONI SPECIALI ALL'UOMO: DOLORE E PIANTO

Grida e pianto nel fanciullo. - Aspetto dei lineamenti. - Età in cui comincia il pianto. - Effetti della repressione abituale del pianto. - Singulto. - Causa della contrazione dei muscoli che attorniano l'occhio durante le grida. - Causa della secrezione delle lacrime.

CAPITOLO VII.

ABBATTIMENTO - ANSIETÀ - AFFANNO - SCORAGGIAMENTO - DISPERAZIONE

Effetti generali dell'affanno sulla economia. - Obliquità dei sopraccigli sotto l'influenza del dolore. - Causa di questa obliquità. - Abbassamento degli angoli della bocca.

CAPITOLO VIII.

GIOIA - ALLEGREZZA - AMORE - SENTIMENTI AFFETTUOSI - DEVOZIONE

Riso, prima espressione della gioia. - Idee piacevoli. - Moti e lineamenti del volto durante il riso. - Natura del suono prodotto. - Secrezione di lacrime che accompagna lo sghignazzamento. - Gradi intermedi fra lo sghignazzare e il sorridere. - Allegria. - Espressione dell'amore. - Sentimenti affettuosi. - Devozione.

CAPITOLO IX.

RIFLESSIONE - MEDITAZIONE - CATTIVO UMORE - BORBOTTAMENTO - DETERMINAZIONE

Corrugamento delle sopracciglia. - Riflessione accompagnata da sforzo o dalla percezione di una cosa difficile o disaggradevole. - Meditazione astratta. - Cattivo umore. - Tetraggine. - Ostinazione. - Borbottamento, smorfia. - Decisione o determinazione. - Energica chiusura della bocca.

CAPITOLO X.

ODIO E COLLERA

Odio. - Furore, suoi effetti sul fisico. - Atto di scoprire i denti. - Furore degli alienati. - Collera e sdegno. - Loro espressione nelle varie razze umane. - Derisione e disfida. - Atto di scoprire il dente canino da una parte sola.

CAPITOLO XI.

DISISTIMA - DISPREZZO - DISGUSTO - ORGOGLIO, ECC. - IMPOTENZA - PAZIENZA - AFFERMAZIONE E NEGAZIONE

Disprezzo, alterigia e disistima; diversità nella loro espressione. - Sorriso sarcastico. - Gesti che esprimono il disprezzo. - Disgusto. - Colpevolezza, astuzia, orgoglio, ecc. - Rassegnazione, debolezza o impotenza. - Pazienza. - Ostinazione. - Stringimento delle spalle, gesto comune a quasi tutte le razze umane. - Segni di affermazione e di negazione.

CAPITOLO XII.

SORPRESA - STUPORE - PAURA - ORRORE

Sorpresa, stupore. - Sopracciglia rialzate. - Bocca aperta. - Labbra sporte. - Gesti che accompagnano la sorpresa. - Ammirazione. - Paura. - Terrore. - Erezione dei capelli. - Contrazione del muscolo pellicciaio. - Dilatazione delle pupille. - Orrore. - Conclusione.

CAPITOLO XIII.

ATTENZIONE RIVOLTA SU SE STESSI - VERGOGNA - TIMIDEZZA - MODESTIA - ROSSORE

Natura del rossore. - Eredità. - Parti del corpo che vi sono più soggette. - Il rossore nelle diverse razze umane. - Gesti concomitanti. - Confusione. - Cause del rossore. - L'attenzione rivolta su se stessi ne è l'elemento fondamentale. - Timidezza. - Vergogna, determinata dalla violazione delle leggi morali e delle regole di convenienza. - Modestia. - Teoria del rossore. - Ricapitolazione.

CAPITOLO XIV.

CONSIDERAZIONI FINALI E RICAPITOLAZIONE

I tre principii fondamentali che hanno determinato i principali movimenti dell'espressione. - Loro ereditabilità. - Sulla parte che hanno avuto la volontà e l'intenzione nel conseguimento dei modi dell'espressione. - Della conoscenza istintiva dell'espressione. - Rapporti del soggetto con la questione dell'unità specifica delle razze umane. - Sul graduale conseguimento delle diverse forme dell'espressione nella serie dei progenitori dell'uomo. - Importanza dell'espressione. - Conclusione.


 

INTRODUZIONE

Molti libri furono scritti sull'espressione fisica dei sentimenti, e un numero maggiore sulla fisionomia, vale a dire sul mezzo di riconoscere il carattere con lo studio dello stato abituale dei lineamenti. Di quest'ultimo argomento io più non m'intrattengo. Gli antichi trattati (1) che ho consultato mi sono stati di scarso aiuto. Le famose Conférences (2) del pittore Le Brun, pubblicate nel 1667, sono fra le opere antiche la migliore che si conserva, e contengono alcune buone osservazioni. Un altro saggio, piuttosto antico, i Discours, fatti dal 1774 al 1782 da Camper (3), il celebre anatomico olandese, non possono essere considerati tali da aver fatto progredire notevolmente la questione. Le opere posteriori, viceversa, meritano la maggiore considerazione.

Sir Carlo Bell, tanto illustre per le sue scoperte in fisiologia, pubblicò nel 1806 la prima edizione, e nel 1844 la terza della sua Anatomia e Filosofia della Espressione (4). Si può dire con certezza: egli ha gettate le basi dell'argomento che c'intrattiene, ne ha fatto un ramo della scienza, e, ben più, ha elevato un bell'edificio. La sua opera è profondamente interessante sotto ogni riguardo; essa contiene pittoresche descrizioni di parecchi sentimenti, ed è mirabilmente illustrata. In generale si ammette che il suo merito principale consista nell'aver provato l'intimo rapporto che sta fra i movimenti dell'espressione e quelli della respirazione. Uno dei punti più importanti, per quanto insignificante possa a primo aspetto apparire, è questo: i muscoli che attorniano gli occhi si contraggono energicamente durante gli sforzi respiratori, allo scopo di proteggere questi organi delicati contro la pressione del sangue. Il professore Donders, d'Utrecht, ebbe la bontà di studiare completamente questo fatto dietro mia inchiesta, il quale getta, come vedremo più avanti, una viva luce sulle espressioni principali della fisionomia umana. L'opera di sir Carlo Bell non venne apprezzata, od anche fu ignorata da molti autori stranieri. Alcuni gli hanno resa giustizia, ad esempio Lemoine (5), che dice con molta ragione: «Il libro di Carlo Bell dovrebbe essere meditato da chiunque tenti di far parlare la fisionomia dell'uomo, così dai filosofi che dagli artisti, perché sotto una leggera apparenza e col pretesto dell'estetica, è uno dei più bei monumenti della scienza dei rapporti del fisico e del morale».

Sir Carlo Bell, per motivi che vogliono essere esposti, non cercò di spingere le sue idee così lontano come avrebbe potuto fare. Egli non tenta di spiegare perché muscoli differenti siano messi in azione sotto l'impero di differenti emozioni; perché, ad esempio, le estremità interne delle sopracciglia si elevino e gli angoli della bocca si abbassino in una persona cui tormentano l'angoscia e l'ansietà.

Nel 1807, il Moreau fece un'edizione del trattato di Lavater sulla Fisiognomonia (6), dove incorporò molti dei suoi saggi con eccellenti descrizioni dei movimenti dei muscoli della faccia ed un gran numero di buone note. Tuttavia egli non rischiara che poco la parte filosofica dell'argomento. Ad esempio il Moreau, parlando dell'aggrottamento del sopracciglio, vale a dire della contrazione del muscolo chiamato dagli autori francesi il sopraccigliare (corrugator supercilii), osserva a buon diritto che: «Quest'azione dei sopracciliari è uno dei sintomi più spiccati dell'espressione delle affezioni penose o concentrate». Quindi egli aggiunge che «questi muscoli, per il loro attacco e la loro situazione, sono atti a restringere, a concentrare i principali lineamenti della faccia, siccome conviene in tutte queste passioni veramente oppressive o profonde, in queste affezioni di cui il sentimento sembra portare l'organizzazione a ripiegarsi su se stessa, a contrarsi, ad impicciolirsi, come per offrir meno attacco e meno superficie ad impressioni formidabili o moleste». Se alcuno trova che osservazioni di tale natura rischiarino il significato o l'origine delle differenti espressioni, comprende l'argomento ben altrimenti che non lo faccia io stesso.

Il passo precedente segna un leggero progresso, se pur ve n'ha uno, nello studio filosofico del soggetto, di fronte a ciò che scriveva il pittore Le Brun nel 1667, descrivendo l'espressione dello spavento: «Il sopracciglio ch'è abbassato da un lato ed innalzato dall'altro, fa vedere che la parte elevata sembra volerlo accostare al cervello per garantirlo dal male che l'anima scorge, e il lato ch'è rivolto in basso e sembra rigonfio ci fa trovare in questo stato per gli spiriti che vengono abbondanti dal cervello, quasi a coprir l'anima e a difenderla dal pericolo ch'ella paventa. La bocca molto aperta fa veder l'ambascia del cuore in causa del sangue che si ritira verso di lui; il che l'obbliga, volendo respirare, a far uno sforzo, per cui la bocca si apre esternamente; e quand'esso passa per gli organi della voce, produce un suono inarticolato del tutto; che se i muscoli e le vene sembrano gonfiati, ciò dipende solo dagli spiriti che il cervello manda a quelle parti». Ho creduto valere la pena di citare le frasi precedenti come esempio delle strane follie che furono scritte sull'argomento.

La Physiologie or Mecanisme of Blushing, del dott. Burgess, apparve nel 1839, ed io farò spesso allusione a quest'opera nel terzo capitolo.

Nel 1862 il signor dott. Duchenne pubblicò due edizioni in-foglio ed in-ottavo, del suo Mécanisme de la Physionomie humaine, dove egli analizza, col mezzo della elettricità, e rappresenta con magnifiche fotografie i movimenti dei muscoli della faccia. egli mi ha generosamente permesso di copiarne quante volessi. Le sue opere vennero poco considerate ed anche affatto ignorate da alcuni suoi compatrioti. È possibile che il dott. Duchenne abbia esagerata l'importanza della contrazione dei singoli muscoli nella produzione dell'espressione, perché, se ci riportiamo alle intime connessioni dei muscoli rappresentati dai disegni anatomici di Henle (7), - i migliori, ritengo, che siano stati pubblicati finora, - è cosa difficile credere alla loro azione separata. Ma nondimeno è certo che il dottore Duchenne si è messo in guardia contro questa ed altre cause d'errore, e siccome è perfettamente riuscito a determinare la fisiologia dei muscoli della mano coll'aiuto della elettricità, è molto probabile che dica in generale il vero anche relativamente ai muscoli della faccia. A mio avviso, il dottore Duchenne col proprio lavoro ha fatto fare un gran passo alla questione. Nessuno ha più attentamente studiata la contrazione di ogni singolo muscolo in particolare ed il conseguente increspamento della pelle. Per giunta egli ha reso un servizio importante col dimostrare quali muscoli dipendano meno dall'azione della volontà. Entra poco in considerazioni teoriche e cerca raramente di spiegare perché certi muscoli e non altri si contraggano sotto l'influenza di certe emozioni.

Un distinto anatomico francese, Pietro Gratiolet, diede alla Sorbonne una serie di lezioni sulla Espressione, e le sue note furono pubblicate (1865) dopo la morte di lui sotto il titolo: De la Physionomie et des Mouvements d'Expression. Si tratta di un'opera assai interessante e piena di preziose osservazioni. La sua teoria è un po' complessa, e per quanto può dirsi con una sola frase, essa è la seguente (p. 65): «Da tutti i fatti da me richiamati risulta che i sensi, l'immaginazione e il pensiero medesimo, per quanto elevato ed astratto si supponga, non possono essere esercitati senza risvegliare un correlativo sentimento, e che questo sentimento si traduce direttamente, simpaticamente, simbolicamente e metaforicamente, in ogni sfera degli organi esterni, i quali tutti lo riportano secondo il proprio modo di azione, come se ciascun d'essi fosse stato direttamente impressionato».

Pare che Gratiolet trascuri l'abitudine ereditaria, e fino a un certo punto anche l'abitudine individuale; da ciò risulta, mi sembra, l'impossibilità di lui a spiegare giustamente e in qualunque altro modo molti atti ed espressioni. Come esempio di ciò ch'egli chiama i movimenti simbolici, citerò le sue note (p. 37) tolte a Chevreul, intorno ad un uomo che gioca al bigliardo: «Se la palla devia leggermente dalla direzione che il giocatore intende di imprimerle, non l'avete visto le cento volte a dirigerla con lo sguardo, con la testa e fin con le spalle, come se questi movimenti, puramente simbolici, potessero modificare il suo corso? Movimenti non meno espressivi si producono quando la palla manca di un sufficiente impulso. E, nei giocatori novizi, essi sono talora così pronunziati, da muovere il sorriso sul labbro degli spettatori». - Tali movimenti, pare a me, possono essere attribuiti semplicemente all'abitudine. Tutte le volte che un uomo ebbe desiderio di muovere un oggetto in una certa direzione, egli l'ha sempre spinto da quella parte; per farlo avanzare, l'ha cacciato innanzi; volendo arrestarlo, l'ha tratto all'indietro. Per conseguenza, allorché un tale vede la sua palla correre per una falsa direzione ed egli desidera vivamente ch'essa ne prenda un'altra, non può a meno, in causa di una lunga abitudine, di fare automaticamente quei movimenti dei quali in altre occasioni ebbe a provare l'efficacia.

Come esempio di movimenti simpatici, Gratiolet riporta (p. 212) il fatto seguente: «Un giovane cane, ad orecchie diritte, al quale il padrone presenta da lontano qualche appetitosa vivanda, fissa con ardore gli occhi su quest'oggetto, ne segue tutti i movimenti, e mentre gli occhi guardano, le due orecchie si portano in avanti, come se l'oggetto potesse essere udito». - In questo caso, senza ricorrere alla simpatia tra gli orecchi e gli occhi, ecco ciò che mi pare più semplice da ammettere: i cani per molte generazioni, allorquando guardavano un oggetto con molta attenzione, hanno rizzate le orecchie onde non lasciar fuggire alcun rumore; e nello stesso tempo han guardato attentamente nella direzione di tutti i rumori che udivano; i movimenti di questi organi sono stati definitivamente associati da una lunga abitudine.

Il dottor Piderit pubblicò nel 1859 un lavoro sulla Espressione, ch'io non ho mai letto, ma nel quale egli pretende di aver preceduto il Gratiolet in molte idee. Nel 1867 egli diede alla luce il suo Wissenschaftliches System der Mimik und Physiognomik. È quasi impossibile dare in poche parole una chiara idea delle sue viste; forse le due proposizioni che seguono ne diranno brevemente tanto che basti: «I movimenti muscolari di espressione sono in parte relativi ad oggetti immaginari, in parte ad impressioni sensorie immaginarie. Questa proposizione tiene in sé la chiave che permette di comprendere tutti i movimenti muscolari espressivi» (p. 25). Ed ancora: «I movimenti espressivi si manifestano soprattutto nei numerosi muscoli mobili della faccia; ciò è dovuto e al fatto che i nervi, i quali li mettono in movimento, nascono assolutamente appresso all'organo pensante, e a quell'altro che questi muscoli sono annessi agli organi dei sensi» (p. 26). Se il dottor Piderit avesse studiata l'opera di sir C. Bell, non avrebbe probabilmente detto (p. 101) che un riso violento produce un aggrottamento di sopracciglia, perché s'avvicina al dolore; o che nei fanciulli (p. 103) le lacrime irritano gli occhi, eccitando così la contrazione dei muscoli circostanti. - Parecchie buone note sono sparse in questo volume, ed io vi farò allusione più avanti.

In varie opere si potranno trovare brevi dissertazioni sulla espressione, delle quali non è il casoche noi qui c'intratteniamo. Il sig. Bain, peraltro, in due suoi lavori, ha trattato il soggetto con qualche sviluppo: «Io considero, egli dice (8), ciò che si chiama l'espressione, semplicemente come una parte della sensazione; io credo legge generale dell'intelletto che vi sia un'azione od un'eccitazione sparsa sulle parti del corpo, nello stesso tempo che si effettua la sensazione interna o la coscienza». In un altro passo aggiunge: «Un: gran numero di fatti potrebbero essere riuniti sotto il principio seguente: ogni stato di piacere corrisponde ad un aumento, ogni stato di dolore ad una parziale o totale depressione delle funzioni vitali». Ma la legge precedente sulla dispersione delle sensazioni sembra essere troppo generale per gettar qualche luce sulle espressioni in particolare.

Herbert Spencer, trattando delle sensazioni nei suoi Principles of Psychology (1855), fa le osservazioni seguenti: «Lo spavento, quand'è forte, è espresso da grida, da sforzi per celarsi o per fuggire, da palpiti e da tremore; ora gli è ciò precisamente che viene provocato dalla presenza del male temuto. Le passioni distruttive si manifestano per una tensione generale del sistema muscolare, lo stridere dei denti, lo sporgere degli artigli, la dilatazione degli occhi e delle narici, i borbottamenti; ora, tutte queste azioni riproducono in grado minore quelle che accompagnano il sacrificio di una preda». Io credo che in ciò noi abbiamo la vera teoria di un gran numero di espressioni; ma il principale interesse e la difficoltà del soggetto stanno nel riconoscere lo straordinario complesso dei risultati. Io congetturo che un autore (ma non potrei precisar quale) abbia di già avanzata un'opinione presso che simile, perché sir C. Bell scrive (9): «Fu sostenuto che ciò che si chiama i segni esteriori della passione non sia che l'accompagnamento di quei movimenti volontari, che la struttura del corpo rende inevitabili». H. Spencer (10) inoltre ha pubblicato un bello studio sulla fisiologia del riso, nel quale insiste su «questa legge generale che la sensazione, quando sorpassa un certo grado, si trasforma d'ordinario in azione corporale»; e su questo fatto «che un afflusso di forza nervosa senza un agente regolatore prende manifestamente e subito le vie più abituali, e che se queste non bastano, esso si riversa poi verso le vie non abituali». Questa legge, io credo, è della più alta importanza per la luce che getta sul nostro argomento (11).

Tutti gli autori che scrissero sulla espressione, eccettuato Spencer - il grande interprete del principio evolutivo - sembra abbiano avuta la ferma convinzione che la specie, compresa, ben inteso, anche l'umana, sia apparsa nello stato attuale. Sir C. Bell, penetrato da questa convinzione, sostiene che molti dei nostri muscoli facciali sono «unicamente strumenti della espressione»; o «sono specialmente disposti» per questo solo oggetto (12). Ma il semplice fatto che le scimmie antropomorfe possiedono gli stessi muscoli facciali che noi (13), rende molto improbabile l'idea che questi nell'uomo servano esclusivamente all'espressione; perché nessuno, io ritengo, sarà disposto ad ammettere che le scimmie siano state provviste di muscoli speciali unicamente per eseguire le loro orride smorfie. Usi distinti, indipendenti dalla espressione, possono infatti essere assegnati con molta verosimiglianza a quasi tutti i muscoli della faccia.

Sir C. Bell aveva il desiderio evidente di stabilire una distinzione possibilmente profonda tra l'uomo e gli animali; ed affermava, per conseguenza, che «nelle creature inferiori non si dà null'altra espressione all'infuori di quella che si può riferire con più o meno certezza ai loro atti volitivi o ai loro necessari istinti». E più in avanti sostiene che le facce di essi «sembrano sopra tutto capaci di esprimere la rabbia ed il terrore» (14). Ma l'uomo stesso non può esprimere con segni esteriori l'amore e l'umiltà così bene, come fa il cane allorquando colle orecchie rilassate, colle labbra pendenti, col corpo ondulante e dimenando la coda, viene davanti al suo diletto padrone. Ed è altrettanto impossibile di spiegar questi movimenti nel cane ricorrendo agli atti volitivi o alla fatalità degli istinti, com'è impossibile spiegare a questa maniera il raggiar degli occhi ed il sorridere del volto in un uomo che s'abbatte in un vecchio amico. Se si fosse domandato a sir C. Bell com'egli spiegasse l'espressione dell'affezione nel cane, ecco, senza dubbio, ciò che avrebbe risposto: Questo animale è stato creato con istinti speciali che lo rendono atto ad associarsi all'uomo, ed ogni ricerca ulteriore su questo argomento riesce superflua.

Quantunque Gratiolet neghi espressamente (15) che un muscolo qualunque sia stato sviluppato unicamente in vista dell'espressione, sembra tuttavia ch'egli non abbia giammai riflesso al principio della evoluzione. A quel che pare, egli riguarda ciascuna specie come il prodotto di una creazione separata. E così è anche di altri autori che scrissero sulla Espressione. - Per esempio, il dottore Duchenne, dopo di aver parlato dei movimenti delle membra, si riporta a quelli che dànno l'espressione alla faccia (16), e fa l'osservazione seguente: «Il creatore non ha quindi avuto a preoccuparsi qui dei bisogni della meccanica; egli ha potuto, con la sua saggezza, o - mi si perdoni questo modo di parlare, per una divina fantasia, egli ha potuto mettere in azione tale o tal altro muscolo, uno solo o più muscoli alla volta, allorquando volle che i segni caratteristici delle passioni, anche le più fugaci, fossero momentaneamente scritti sulla faccia dell'uomo. Questo linguaggio della fisionomia una volta creato, gli ha bastato per renderlo universale e immutabile, da dare ad ogni essere umano la facoltà istintiva di esprimere sempre i propri sentimenti con la contrazione dei muscoli medesimi».

Molti scrittori considerano l'espressione un soggetto affatto inesplicabile. Anche l'illustre fisiologo Müller (17) dice: «L'espressione dei lineamenti completamente differente nelle diverse passioni è una prova che gruppi assai distinti delle fibre del nervo facciale sono impressionati secondo la natura della sensazione prodotta. Quanto alla causa di questo fatto, noi la ignoriamo completamente».

Non c’è dubbio che quando, sia pure fra molto, l'uomo e gli altri animali saranno considerati come creazioni indipendenti, sarà messo un freno efficace alla nostra brama naturale di spingere il più lontano possibile la ricerca delle cause della Espressione. Con questa dottrina, tutto potrebbe e può ugualmente essere spiegato; ed essa s'è mostrata controproducente tanto relativamente alla Espressione, quanto a tutte le altre branche della storia naturale. Nella specie umana certe espressioni, come i capelli che si rizzano sotto l'influenza di un estremo terrore o i denti che si scoprono nel trasporto della rabbia, riescono quasi inesplicabili senza ammettere che l'uomo abbia vissuto altra volta in una condizione molto inferiore e vicina alla bestialità. La comunanza di certe espressioni in specie distinte, quantunque affini, come i movimenti dei medesimi muscoli della faccia durante il riso nell'uomo e in diverse scimmie, vien resa un po' più chiara se si crede alla loro discendenza da antenati comuni. Chi ammette in modo generale il graduale sviluppo della struttura e delle abitudini in tutti gli animali, vedrà tutta la questione dell'Espressione sotto una luce nuova e interessante.

Lo studio della Espressione è difficile, vista l'estrema delicatezza e la fugacità dei movimenti. Può darsi che un cambiamento venga chiaramente percepito, senza che tuttavia sia possibile di dire in che cosa consista. Ciò almeno è capitato a me. - Quando siamo testimoni di una profonda emozione, la nostra simpatia è così vivamente eccitata, che si dimentica l'osservazione rigorosa o la ci è resa quasi impossibile: io dispongo di molte prove curiose di questo fatto. La nostra immaginazione è un'altra sorgente di errori ancora più gravi; se noi ci aspettiamo, in una data situazione, di vedere una certa espressione, immaginiamo facilmente ch'essa esista. Il dottore Duchenne, malgrado la sua grande esperienza, dice di essersi figurato per lungo tempo che molti muscoli si contraggano sotto l'impero di certe emozioni, mentre più tardi s'è convinto che il movimento era limitato ad un muscolo solo.

Ecco i metodi di studio da me adottati col maggiore profitto per avere un punto di partenza quanto buono altrettanto possibile, e per verificare, senza tener conto dell'opinione ricevuta, fino a qual punto i vari cambiamenti dei lineamenti e dei gesti traducano in realtà certi stati dell'animo.

1° Ho osservato i fanciulli, perché essi esprimono molte emozioni, secondo l'osservazione di sir C. Bell, «con una forza straordinaria»; di fatti, man mano che noi cresciamo in età, alcune delle nostre espressioni «non derivano più dalla sorgente semplice e pura d'onde provengono durante l'infanzia» (18).

2° Mi parve che sarebbe ben fatto studiar gli alienati, perché questi sono soggetti alle più forti passioni, a cui concedono libero corso. Io non aveva occasione di farlo da me; mi rivolsi dunque al dottor Maudsley; egli mi presentò al dottor J. Crichton Browne, che è direttore d'un immenso Asilo vicino a Wakefield, e che, quando lo vidi, s'era di già occupato della questione. Questo valente osservatore, con infaticabile bontà, mi spedì note ed estese descrizioni con preziose idee su molti punti, ed io non saprei valutare abbastanza il prezzo della sua cooperazione. Io sono inoltre debitore di fatti interessanti intorno a due o tre argomenti al signor Patrick Nicol del manicomio del Sussex.

3° Il dottor Duchenne, come abbiamo già veduto, ha galvanizzato i muscoli della faccia in un vecchio, la pelle del quale era poco sensibile, e ne produsse anche parecchie espressioni, che furono fotografate in grandi proporzioni. Io ebbi la ventura di poter mostrare molti fra i saggi migliori, senza un cenno di spiegazione, a una ventina di persole istruite, d'età diversa e d'entrambi i sessi. Domandai loro, volta per volta, da quale emozione o da qual sensazione supponevano fosse animato quel vecchio, e raccolsi le loro risposte coi termini precisi onde s'erano servite. Di tali espressioni, molte vennero ben tosto riconosciute quasi da tutti: queste, mi pare, possono ritenersi fedeli, e noi le descriveremo più avanti. Ma alcune furono l'oggetto di giudizi oltremodo diversi. Questo esame mi riuscì utile sotto un altro punto di vista, dimostrandomi la facilità con la quale possiamo essere sviati dalla nostra immaginazione. - Di fatti, quando io osservai per la prima volta le fotografie del dottor Duchenne, leggendo contemporaneamente il testo ed apprendendo per tal modo l'intenzione dell'autore, fatte rare eccezioni, fui sempre colpito dalla loro meravigliosa verità. E frattanto, se io le avessi esaminate senza alcuna spiegazione, sarei stato sicuramente imbarazzato in certi casi così, come lo furono le altre persone.

4° Nutrivo speranza di trovare un potente soccorso presso i grandi maestri in pittura ed in scultura, che sono osservatori così attenti. Conseguentemente studiai le fotografie e le incisioni di molti rinomatissimi lavori; ma, salvo qualche eccezione, non ne trassi profitto alcuno. La ragione di questo fatto sta senza dubbio in ciò, che nelle opere d'arte la bellezza è scopo precipuo; ora, la violenta contrazione dei muscoli della faccia è incompatibile con la bellezza (19). In generale l'idea della composizione è tradotta con un vigore ed una verità meravigliosi per mezzo di accessori abilmente disposti.

5° Mi parve della più alta importanza verificare se le stesse espressioni ed i medesimi gesti, come fu spesso assicurato senza prove bastanti, esistano in tutte le razze umane, specialmente in quelle le quali non ebbero che pochi rapporti cogli Europei. Se gli stessi movimenti dei lineamenti o del corpo esprimono le stesse emozioni nelle diverse razze umane distinte, possiamo concluderne con molta probabilità che queste espressioni sono le vere, cioè sono innate od istintive. Espressioni o gesti convenzionali acquistati dall'individuo al principio della sua vita sarebbero probabilmente differenti nelle varie razze, come avviene del loro linguaggio. Di conseguenza, al principio dell'anno 1867, feci stampare e circolare una serie di questioni, domandando (e di ciò tenni conto perfetto) che vi si rispondesse con dirette osservazioni, non con semplici note. Queste questioni furono scritte in un momento nel quale la mia attenzione era da lungo rivolta altrove, e presentemente mi rendo conto che avrebbero potuto esser molto meglio redatte. In taluno degli ultimi esemplari io aggiunsi, scritte a mano, alcune osservazioni addizionali.

1) Lo stupore si esprime spalancando gli occhi e la bocca ed alzando le sopracciglia?

2) La vergogna, quando il colore della pelle permetta di osservarlo, fa dessa arrossire? e, particolarmente, qual è il limite inferiore del rossore?

3) Quando un uomo è sdegnato od in sospetto, aggrotta le sopracciglia, raddrizza il corpo e la testa, solleva le spalle e stringe i pugni?

4) Quando riflette profondamente sopra un argomento o cerca di risolvere un problema, increspa le sopracciglia o la pelle al di sotto della palpebra inferiore?

5) Nell'abbattimento, gli angoli della bocca sono abbassati e l'estremità interna dei sopraccigli è innalzata dal muscolo che i Francesi chiamano «muscolo del dolore?» In questo stato il sopracciglio diviene leggermente obliquo e si gonfia un poco alla sua estremità interna; la fronte è corrugata trasversalmente nella parte mediana, ma non in tutta la sua larghezza, come allorquando i sopraccigli si elevano sotto l'impero della sorpresa.

6) Durante il buon umore, brillano gli occhi, è la pelle attorno e al disotto di essi leggermente increspata, con la bocca un po' stirata all'indietro verso gli angoli?

7) Quando un uomo si beffa di un altro o lo rampogna, solleva egli il labbro superiore al disopra del canino e dente dell'occhio dal lato che guarda l'individuo cui si rivolge?

8) A questi segni principali: labbra chiuse, sguardo minaccioso e sopracciglia leggermente aggrottate, si riconosce un carattere stizzoso ed ostinato?

9) Il disprezzo si esprime avanzando leggermente le labbra ed alzando il naso in aria con una debole espirazione?

10) Il disgusto fa rovesciare il labbro inferiore ed alzar leggermente il superiore con una brusca espirazione, quasi come allora che si è nauseati o si sputa?

11) L'estremo terrore è espresso nella maniera abituale agli Europei?

12) Il riso è spinto a tal segno da portar lacrime agli occhi?

13) Un uomo, quando vuol dimostrare che una cosa non si può fare, o ch'egli stesso non può far qualche cosa, alza le spalle, porta i gomiti in dietro e tende in fuori il palmo della mano sollevando le sopracciglia?

14) I fanciulli, quando sono di cattivo umore fanno le boccacce, ossia protendono molto le labbra?

15) Una espressione da delinquente, o maliziosa, o invidiosa si può riconoscere? Io non saprei con tutto ciò in qual modo la si possa nettamente determinare.

16) Per affermare si muove dall'alto al basso la testa e la si dimena lateralmente per dir di no?

Le osservazioni fatte su indigeni che abbiano poco comunicato cogli Europei sarebbero senza dubbio le più preziose; nondimeno quelle che si faranno, non monta sopra quali indigeni, riusciranno per me di molto interesse. Le generalità sulla Espressione hanno relativamente poco valore, e la memoria è tanto infedele, che io prego ed insto affinché non si ricorra a semplici ricordanze. Una precisa descrizione dell'attitudine presa sotto l'influenza di una emozione o di uno stato qualunque dell'animo, con la indicazione delle circostanze che la produssero, saranno informazioni di grande valore.

A queste domande, ebbi trentasei risposte da differenti osservatori, i più dei quali sono missionari o protettori degl'indigeni; ed io sono loro riconoscentissimo della pena che s'ebbero e della preziosa cooperazione prestatami. Indicherò i loro nomi, ecc., alla fine di questo capitolo, per non interrompere adesso le mie osservazioni. Le risposte sono relative a molte fra le razze umane più spiccate e più selvagge. Spesso s'annotarono le circostanze sotto l'impero delle quali ciascuna espressione fu osservata e descritta. In simili casi le risposte meritano un'assoluta fiducia. Quand'esse si ridussero semplicemente ad un sì o ad un no, vi prestai poca credenza. Dalle informazioni che mi vennero a questo modo fornite risulta che il medesimo stato di spirito è espresso dovunque con una rimarchevole uniformità, e questo fatto è per se stesso interessante, perché dimostra una stretta somiglianza nella struttura fisica e nelle condizioni mentali presso tutte le razze della specie umana.

6° E per ultimo, osservai più vicino che per me si potesse l'espressione delle diverse passioni in alcuni dei nostri animali domestici. Io credo che questo punto sia di capitale importanza, senza dubbio non per decidere fino a qual grado certe espressioni siano nell'uomo caratteristiche di certi stati dell'animo, ma perché ci fornisce la base più sicura stabilire in via generale le cause o l'origine dei vari movimenti della Espressione. Osservando gli animali, siamo meno soggetti ad essere influenzati dalla nostra immaginazione e non abbiamo a temere che le loro espressioni siano convenzionali.

L'osservare le espressioni non è cosa facile, e le persone che pregai di osservare alcune particolarità se ne accorsero ben tosto. Le ragioni sono la vacillante natura di certe espressioni (chè spesso il cangiar dei lineamenti è di un'estrema delicatezza); la facilità con la quale la nostra simpatia si risveglia a vedere una forte emozione e la distrazione che ne deriva; le illusioni prodotte dalla fantasia allorquando sappiamo vagamente ciò che deve avvenire, benché senza dubbio pochi di noi conoscano esattamente il gioco della fisionomia; in ultimo potrei aggiungere la lunga abitudine che abbiamo del soggetto. E’ dunque cosa difficile determinar con certezza quali siano i lineamenti e le attitudini che caratterizzano abitualmente certe condizioni dell'animo. Checché ne sia, alcuni punti dubbi e talune difficoltà sono state, io spero, chiarite, osservando i fanciulli, gli alienati, le diverse razze umane, i lavori artistici, e in ultimo luogo studiando l'azione della elettricità sui muscoli della faccia, come ha fatto il dottore Duchenne.

Resta una difficoltà ancora più grave: comprendere la causa o l'origine delle varie espressioni e giudicare se esista una spiegazione teorica degna di fede. Anche quando ci siamo del nostro meglio applicati, senza norma alcuna, per giudicare se fra due o tre spiegazioni ve ne sia una più soddisfacente delle altre o se non ve n'abbia alcuna, io non vedo che un sol mezzo di controllare le nostre conclusioni: osservare se gli stessi principii generali possano venir applicati in modo soddisfacente e all'uomo ed agli animali. Inclino a credere che quest'ultimo metodo giovi più di tutti gli altri. La difficoltà di giudicare una spiegazione teorica qualunque e di controllarla con un determinato metodo di ricerca è ciò che diminuisce maggiormente l'interesse cui questo studio sembra sì adatto ad eccitare.

Infine, quanto alle mie proprie osservazioni, devo notare ch'esse ebbero principio nell'anno 1838; e da allora sino ad oggi m'occupai frequentemente della questione. A quell'epoca inclinavo già a credere al principio evolutivo, vale a dire alla produzione delle specie da altre forme inferiori. Per conseguenza, quando lessi la grande opera di sir C. Bell, fui colpito dall'insufficienza della sua teoria, secondo la quale l'uomo venne creato con certi muscoli speciali adatti all'espressione dei propri sentimenti. egli mi parve probabile che l'abitudine di esprimere le nostre sensazioni per mezzo di dati movimenti avesse dovuto essere in una maniera qualunque gradualmente acquisita, sebbene adesso sia divenuta innata. Ma scoprire come queste abitudini fossero state acquistate non era facile compito. Bisognava considerare tutta la questione sotto un nuovo punto di vista e dare razionale spiegazione di ogni espressione. Tale è il desiderio che m'indusse a intraprendere questo lavoro, per quanto imperfetta ne possa essere l'esecuzione.

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Passo ora a citare i nomi di coloro che meritarono la mia riconoscenza fornendomi informazioni sull'espressione nelle diverse razze umane; contemporaneamente accennerò parecchie circostanze nelle quali ciascuna osservazione fu fatta. Grazie alla benevolenza ed all'alta influenza dei sig. Wilson, di Hayes Place, Kent, io non ricevetti dall'Australia meno di tredici serie di risposte alle mie questioni. E me ne sono particolarmente rallegrato, perché gl'indigeni Australiani stanno fra le più spiccate razze umane. Si vedrà che le osservazioni si fecero sopra tutto nel Sud, al di fuori delle frontiere della colonia di Victoria; tuttavia alcune eccellenti risposte mi sono venute dal Nord.

Dyson Lacy mi fornì con ampi dettagli alcune preziose osservazioni fatte a molte centinaia di miglia nell'interno di Queensland. Il sig. R. Brough Smyth di Melbourne mi fu utilissimo per le sue personali osservazioni e per avermi inviate molte lettere scritte dalle seguenti persone: il rev. M. Hagenauer, del lago Wellington, missionario a Gippsland, Victoria, che menò lunga vita fra i naturali; Samuele Wilson, proprietario residente a Langerenong, Wimmera, Victoria; il rev. Giorgio Taplin, direttore dello Stabilimento industriale indigeno a Porto Macleay; Arcibaldo G. Lang, di Coranderick, Victoria, professore alla Scuola dove i naturali, giovani e vecchi, sono accettati da tutte le parti della colonia; H. B. Lane di Belfast, Victoria, funzionario dell'Amministrazione giudiziaria, le osservazioni del quale, ne sono sicuro, meritano la massima fiducia; Templeton Bunnet, di Echuca, ch'è stabilito sui confini della colonia di Victoria, ch'ebbe agio anche di osservare molti indigeni, i quali non avevano avuti che pochi rapporti coi bianchi, e che ha confrontato le proprie osservazioni con quelle di due altri signori che da lungo tempo abitavano nei dintorni; finalmente J. Bulmer, missionario in un canto remoto di Gipplsland, Victoria.

Sono anche debitore al dottor Ferdinando Müller, distinto botanico di Victoria, di alcune osservazioni fatte da lui stesso; egli me ne ha per giunta spedite altre dovute al sig. Green, e m'ha inviato parecchie delle lettere precedenti.

Relativamente ai Maoris della Nuova Zelanda, il rev. J. W. Stack non ha risposto che a piccola parte delle mie questioni; ma le risposte furono notevolmente complete, chiare e nette, con menzione delle circostanze nelle quali vennero instituite le osservazioni.

Il principe indiano Brooke m'ha date alcune informazioni sui Dyaks di Borneo.

In rapporto ai Malesi, fui ben favorito; infatti F. Geach (al quale m'aveva presentato il signor Wallace), durante il suo soggiorno, in qualità d'ingegnere delle miniere, nell'interno di Malacca, osservò molti naturali che non avevano avuto per lo innanzi relazione alcuna coi bianchi. egli mi scrisse due lunghe lettere, dettagliate e piene di ammirabili osservazioni sulla loro espressione. Ed osservò allo stesso modo i Cinesi che migrano nell'Arcipelago Malese.

Il celebre naturalista Swinhoe, console di S. M. Britannica, osservò pure per conto mio i Cinesi nel loro paese natale, e trasse informazioni da altre persone degne di fede.

Nell'India, durante la sua residenza con titolo officiale nel distretto Admednugur della Presidenza di Bombay, H. Erskine rivolse l'attenzione sull'espressione degli abitanti ma ebbe ad incontrare gravi difficoltà per giungere a risultati sicuri, perché in presenza degli Europei essi dissimulano qualunque specie di emozioni. Ottenne inoltre per me dei cenni dal signor West, giudice a Canara, e prese informazione su certi punti da intelligenti persone, nate nella colonia. A Calcutta, J. Scott, direttore dei Giardino botanico, studiò con cura le varie tribù a cui appartenevano gli uomini che v'erano impiegati da tempo considerevole: nessuno m'ebbe a spedire dettagli così completi e preziosi. L'abito d'attenta osservazione ch'egli deve a suoi studi sulle piante fu messo a profitto del nostro argomento. Quanto a Ceylan, devo molto al rev. S. O. Glenie, il quale rispose a parecchie delle mie questioni.

Per l'Africa, riguardo ai Negri non fui fortunato, quantunque Winwood Reade m'abbia aiutato per quant'era in sua possa. Mi riuscì relativamente facile ottenere informazioni sui negri schiavi in America, ma siccome da lungo furono misti ai bianchi, codeste osservazioni non avrebbero avuto che poco valore. Nella parte meridionale di questo continente, Barber considerò i Cafri ed i Fingoes, e mi spedì molte esplicite risposte. J. P. Mansel Weale fece pure alcuni studi sui naturali e mi fornì un curioso documento, cioè l'opinione sulle espressioni dei suoi compatrioti, scritta in inglese da Cristiano Gaika, fratello del capo Sandilli. Nelle regioni settentrionali dell'Africa, il capitano Speedy, che stette a lungo cogli Abissini, rispose alle mie questioni, in parte servendosi dei suoi ricordi, in parte da osservazioni fatte sui figli del re Teodoro, che era in allora sotto la sua custodia. Il professore Asa Gray e la signora di lui rimasero colpiti da alcune particolarità nell'espressione dei naturali ch'essi stessi osservarono rimontando il Nilo.

Sul grande continente americano, Bridges, catechista che abita coi Fuegiani, rispose ad alcune questioni sulle loro espressioni, che gli erano state indirizzate da molti anni. - Nella metà settentrionale del continente, il dottor Rothrock studiò le espressioni degli Atnah e degli Espyox, tribù selvaggie della Riviera Nasse verso il nord-ovest dell'America. Washington Matthews, aiutante maggiore dell'armata degli Stati Uniti (dopo aver viste le mie questioni stampate nello Smithsonian Report), osservò con cura particolare parecchie tribù occidentali degli Stati Uniti, cioè i Tetoni, i Grossiventri, i Mandani e gli Assinaboini; e si riscontrò che le sue risposte sono del più grande valore.

Per ultimo, oltre a queste sorgenti speciali di informazioni, io riunii alcuni fatti trovati incidentalmente nei libri di viaggi.

Siccome avrò spesso occasione, specialmente nell'ultima parte di questo volume, di parlare intorno ai muscoli della faccia umana, colloco qui un disegno (fig. 1) copiato e ridotto dall'opera di sir C. Bell, insieme a due altri, nei quali i dettagli sono più accurati (fig. 2 e 3), tolti dal noto lavoro di Henle: Handbuch der systematischen Anatomie des Menschen.


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Fig. 1 - Disegno dei muscoli della faccia, tratto dall'opera di sir C. Bell.
Fig. 2 - Disegno dall'opera di Henle.
Fig. 3 - Disegno dall'opera di Henle.
A. Occipito-frontalis, o muscolo frontale.
B. Corrugator supercilii, o muscolo sopraccigliare.
C. Orbicularis palpebrarum, o muscolo orbicolare delle palpebre.
D. Pyramidalis nasi, o muscolo piramidale del naso.
E. Levator labii superioris alaeque nasi, o sollevatore del labbro superiore e dell'ala del naso.
F. Levator labii proprius, o sollevatore proprio del labbro.
G. Zigomaticus, o zigomatico.
H. Malaris, o malare.
I. Piccolo zigomatico.
K. Triangularis oris, o depressor anguli oris, o depressore dell'angolo della bocca.
L. Quadratus menti, o quadrato del mento.
M. Risorius, o risorio, porzione del Platysma moydes.

Le stesse lettere si riportano ai medesimi muscoli nelle tre figure, ma indicai solo i nomi dei più importanti cui avrò a fare allusione. I muscoli facciali si uniscono molto fra loro e, a quel che mi dicono, appaiono difficilmente tanto distinti in una dissezione come lo sono in questi disegni. - Alcuni autori descrivono tali muscoli siccome formati da diciannove pari ed uno impari (20); secondo altri, il loro numero è molto più grande, chè monta sino a cinquantacinque, al dire di Moreau. Tutti che scrissero su questo argomento ammettono che la loro disposizione sia variabilissima; e Moreau nota che difficilmente si trovano identici sopra una mezza dozzina di individui (21); e sono parimenti variabili nelle loro funzioni. Così la facoltà di scoprire il dente canino di un lato varia d'assai nelle diverse persone. La facoltà di allargar le narici è pure soggetta, secondo il dottor Piderit (22), a variazioni notevoli, - e molti altri esempi potrebbero essere citati.

Infine avrò il piacere di esprimere la mia riconoscenza a Rejlander per la briga che s'ebbe a fotografare per me diverse espressioni ed attitudini. E sono del pari debitore a Kindermann, di Amburgo, che m'ha prestato eccellenti impronte stereotipate di fanciulli piangenti; devo anche al dottor Wallich una graziosa impressione di sorridente bambina. Ho di già esternate le mie obbligazioni al dottore Duchenne per il generoso permesso concessomi di far copiare e ridurre alcune delle sue grandi fotografie, le quali vennero incise col metodo della eliotipia, che garantisce sulla fedeltà della copia. Questi tavole sono distinte con cifre romane.

Sono anche tenuto a T. W. Wood, che si sobbarcò alla grave fatica di riprodurre dal vero le espressioni di vari animali. Un distinto artista, Rivière, ebbe la bontà di darmi due disegni di cani: l'uno con intenzioni ostili, umile e carezzevole l'altro. A. May mi ha pur favorito abbozzi simili di cani. Cooper fece incisioni in legno molto accurate. Parecchie fotografie ed alcuni disegni, cioè quelli di May e di Wolf, che rappresentano il cinopiteco, furono subito, grazie a Cooper, riprodotti sul legno con la fotografia, e poi incisi; onde possiamo essere sicuri di una esattezza quasi assoluta.


CAPITOLO I. PRINCIPI GENERALI DELL'ESPRESSIONE

Determinazione dei tre principii fondamentali. - Primo principio. - Gli atti utili divengono abituali associandosi a certi stati di spirito, e sono compiuti, anche ove il bisogno non se ne faccia sentire, in ciascun caso particolare. - Potenza dell'abitudine. - Eredità. - Movimenti associati abituali nell'uomo. - Azioni riflesse. - Trasformazione delle abitudini in azioni riflesse. - Movimenti associati abituali negli animali. - Conclusioni.

Comincerò con lo stabilire i tre principii che mi sembrano render conto della maggior parte delle espressioni e dei gesti involontari nell'uomo e negli animali, come si producono sotto l'impero delle emozioni e delle diverse sensazioni (23). Io non vi giunsi che al termine delle mie osservazioni. Essi saranno discussi in via generale nel presente capitolo e nei due susseguenti. Ci gioveremo qui dei fatti osservati tanto nell'uomo che sugli animali; ma sono da preferirsi gli ultimi, perché meno soggetti a trarci in inganno. Nel quarto e nel quinto capitolo descriverò le espressioni speciali di alcuni animali, e quelle dell'uomo nei successivi. Ognuno potrà giudicar da se stesso fino a qual punto i miei tre principii rischiarino la spiegazione dell'argomento. Mi sembra che così si spieghino tante espressioni in modo soddisfacente, che in seguito probabilmente tutte potranno essere ridotte a questi stessi principii o ad altri affatto analoghi. Ben inteso che i movimenti o i fenomeni di una parte qualunque del corpo, il dimenar della coda nel cane, il rovesciamento all'indietro delle orecchie del cavallo, il sollevar delle spalle dell'uomo, o la dilatazione dei capillari della pelle, tutto ciò può egualmente servire alla espressione. Ecco i tre principii:

I. Principio dell'associazione delle abitudini utili. - In date condizioni dell'animo, per rispondere o per soddisfare a date sensazioni, a dati desiderii, ecc., certe azioni complesse sono di un'utilità diretta o indiretta; e tutte le volte che si rinnovella il medesimo stato di spirito, sia pure a un debole grado, la forza dell'abitudine e dell'associazione tende a produrre gli stessi movimenti, benché d'uso alcuno. Può nascere che atti ordinariamente associati per l'abitudine a certi stati d'animo siano in parte repressi dalla volontà; in tali casi, i muscoli sopra tutto quei meno soggetti alla diretta influenza della volontà, possono tuttavia contrarsi e produrre movimenti che ci paiono espressivi. Altra volta, per reprimere un movimento abituale, altri leggeri movimenti si compiono, e pur essi sono espressivi.

II. Principio dell'antitesi. - Talune condizioni di spirito determinano certi atti abituali che sono utili, come lo stabilisce il nostro primo principio. Poi, allorché si produce uno stato dell'animo direttamente inverso, siamo fortemente e involontariamente tentati di compiere movimenti del tutto opposti, per quanto inutili, e in alcuni casi questi movimenti sono molto espressivi.

III. Principio degli atti dovuti alla costituzione del sistema nervoso, affatto indipendenti dalla volontà e, fino a un certo punto, anche dall'abitudine. - Quando il cervello è fortemente eccitato, la forza nervosa si produce in eccesso e si trasmette in certe determinate direzioni, dipendenti dalle connessioni delle cellule nervose, e in parte dell'abitudine; oppure può avvenire che l'afflusso della forza nervosa sia, in apparenza, interrotto. Ne risultano effetti che noi troviamo espressivi. Questo terzo principio potrebbe per maggior brevità dirsi quello dell'azione diretta del sistema nervoso.

Per ciò che riguarda il nostro primo principio, la potenza dell'abitudine è un fatto manifesto. I movimenti più complessi e più difficili, se ve ne sia l'occasione, possono essere compiuti senza il minimo sforzo e senza alcuna coscienza. Non si sa precisamente come avvenga che l'abitudine giovi tanto al compimento dei movimenti complessi. Ma i fisiologi affermano (24) «che il potere conduttore delle fibre nervose cresce con la frequenza della loro eccitazione». Ciò si applica tanto ai nervi motori ed ai sensitivi, quanto alle fibre destinate al fenomeno del pensiero. Non si può in alcun modo dubitare che non si produca qualche cambiamento fisico nelle cellule e nelle fibre nervose che più frequentemente vengono usate; senza di cui non si potrebbe comprendere come la predisposizione a certi movimenti acquisiti sia ereditaria. Questa eredità noi vediamo presso i cavalli nella trasmissione di certe andature che non sono punto naturali a loro, come il breve galoppo o l'ambio; la vediamo ancora nella ferma dei giovani cani e nel cercare dei giovani cani da uccelli, e nel volo particolare di certe specie di piccioni, ecc. La specie umana ci offre analoghi esempi per l'eredità di date abitudini o di dati gesti inusitati: e noi ne parleremo quanto prima. Chi ammette lo sviluppo graduale delle specie rinverrà un esempio significativo della perfezione con cui i più difficili movimenti associati possono essere trasmessi nella Sfinge-Sparviere (Macroglossa): poco dopo uscita dal bozzolo, come rilevasi dalla polvere sulle squame non scompaginate delle ali, possiamo veder questa farfalla mantenersi immobile nell'aria, con la lunga tromba filiforme sviluppata ed immersa nei nettari dei fiori; ora nessuno, ch'io sappia, ebbe mai ad osservare questa farfalla intenta a far, come si dice, il tirocinio della difficile opera che richiede sì perfetta precisione.

Allorquando esiste una predisposizione ereditaria o istintiva al compimento di un atto, o un gusto ereditario per un dato genere di nutrizione, bisogna che vi si aggiunga un certo grado di abitudine individuale in quasi tutti od anche in tutti i casi. Gli è ciò che troviamo nelle andature del cavallo e, fino a un certo punto, nei cani da ferma; alcuni giovani cani, benché mettano in ferma molto bene anche la prima volta che son condotti a caccia, non presentano men di frequente, insieme a questa qualità ereditaria, un odorato difettoso ed anche una cattiva vista. Ho sentito assicurare che, se si lascia un vitello poppare una sola la propria madre, dopo riesce molto più difficile nutrirlo artificialmente (25). Si videro due bruchi, nutriti colle foglie di un albero d'una data specie, morire di fame piuttosto che mangiare quella di un altro albero, benché questo fornisse loro il nutrimento allo stato naturale (26); e questo avviene egualmente in molti altri casi.

Il potere dell'associazione è ammesso da tutti. Il Bain osserva che «azioni, sensazioni o condizioni d'animo, producendosi assieme o assai prossime tra loro, tendono ad avvicinarsi od a collegarsi, per tal modo che quando una di esse si presenta allo spirito, le altre non sono lontane dal pensiero» (27). Per il nostro argomento è importantissimo conoscere la facilità con la quale certi atti si associano ad altri atti e a diversi stati di spirito; darò dunque parecchi esempi, i primi relativi all'uomo, gli ultimi agli animali. Alcuni di questi esempi si riferiscono ad azioni di una portata insignificante, ma giovano al nostro argomento come le più importanti abitudini. Tutti sanno quanto sia difficile, od anche impossibile, a meno di ripetuti sforzi, di muovere le membra in direzioni opposte a quelle in cui siamo esercitati. Un simile fatto si produce riguardo alle sensazioni, come nella nota esperienza che consiste nel voltolare una pallottola sotto i polpastrelli di due dita accavalcate, ciò che dà esattamente la sensazione di due palle. Chiunque, ove caschi a terra, si protegge stendendo le braccia, e, secondo l'osservazione del professore Alison, pochi possono astenersi dal fare altrettanto, lasciandosi cadere sopra un morbido letto. Un uomo, uscendo di casa, infila i guanti senza pure saperlo, e per quanto semplice codesta operazione possa apparire, chi abbia insegnato a un fanciullo a mettersi i guanti sa bene che la è cosa tutt'altro che semplice.

L'alterazione dell'animo nostro si comunica al corpo; ma in questo caso, oltre l'abitudine, un altro principio vi ha parte in una data misura, intendo dire lo sregolato afflusso della forza nervosa. Norfolk, parlando del cardinale Wolsey, dice: «Una strana confusione regna nel suo cervello; si morde nel labbro, e fissa gli occhi; d'un tratto ferma il passo, guarda a terra, e porta le dita verso le tempia; poi di subito si muove, corre veloce, si ferma, e batte veemente al suo petto; ma tosto dopo spalanca gli occhi verso la luna: noi lo vedemmo cambiare pose singolari».

Avviene di spesso che un uomo imbarazzato si gratta la testa. Io credo ch'egli agisca così, spinto dall'abitudine, come se avesse una sensazione corporea leggermente molesta; il prurito alla testa, cui è maggiormente soggetto, è in tal modo alquanto alleviato. Un altro, quand'è perplesso, si strofina gli occhi, o, imbarazzato, tosse debolmente, come se provasse una leggera indisposizione agli occhi o alla gola (28).

In seguito all'uso continuo che noi facciamo degli occhi, questi organi sono più influenzati dalla associazione nei diversi stati dell'animo, quand'anche la vista non vi prenda parte alcuna. Secondo l'osservazione di Gratiolet, un uomo che rigetti energicamente una proposta, quasi di certo chiuderà gli occhi e distoglierà la testa. Ma s'egli l'accetta, inclinerà il capo, come per affermare, aprendo molto gli occhi. In quest'ultimo caso egli opera come se vedesse chiaramente la cosa, e nel primo, come se non la vedesse o non volesse vederla. Io ho notato di spesso che, descrivendo un orribile fatto, alcune persone chiudevano di quando in quando gli occhi con forza, o scuotevano la testa, quasi per non vedere o discacciare un oggetto disaggradevole; e a me stesso è avvenuto di chiuder vivamente gli occhi mentre pensavo nell'oscurità ad uno spettacolo spaventevole. Quando volgiamo bruscamente lo sguardo verso un oggetto, o guardiamo intorno, eleviamo sempre le sopracciglia in modo da poter aprire presto e molto gli occhi; e il dottore Duchenne osserva (29) che una persona la quale faccia appello alla sua memoria innalza sovente le sopracciglia come per vedere ciò che ricerca. Un Indù comunicò al sig. Erskine la stessa osservazione relativamente a' suoi compatrioti. Io ho osservato una giovane signora che faceva grandi sforzi per richiamare alla mente il nome d'un pittore; ella fissava lo sguardo su un angolo della stanza, poi sull'angolo opposto, elevando il corrispondente sopracciglio, benché nulla vi fosse colà da attirare l'attenzione di lei.

Nella maggior parte dei casi precedenti noi possiamo comprendere come i movimenti associati siano stati acquisiti coll'abitudine; ma in alcuni individui certi gesti bizzarri e certi ghiribizzi si son fatti veder associati a certi stati dell'animo per cause affatto inesplicabili, e sono indubbiamente ereditari. Senza contare analoghi casi, io ho riferito in altro luogo, dietro osservazione mia propria, l'esempio di un atto straordinario e complicato, associato a sentimenti giocondi, che s'è trasmesso di padre in figlio (30). E nel corso di questo volume sarà esposto un altro esempio curioso d'un gesto bizzarro, ereditario, associato ad un desiderio.

Vi sono altri atti che vengono d'ordinario compiuti in date circostanze, indipendentemente dall'abitudine, e che sembrano dovuti alla imitazione o ad una specie di simpatia. Così possiamo vedere taluni a muovere la mascella nello stesso tempo che fanno agire le forbici, quando le adoperano a tagliar qualche cosa. I fanciulli, quando imparano a scrivere, traggono spesso la lingua e la dimenano in modo ridicolo, seguendo i movimenti delle dita. Allorché in un pubblico luogo un cantante vien subitamente preso da leggera raucedine, possiamo osservare molti fra gli astanti grattarsi la gola, siccome m'ebbe ad assicurare una persona degna di fede; ma qui probabilmente vi prende parte l'abitudine, visto che noi ci grattiamo la gola nelle stesse circostanze. Mi venne anche raccontato che nei circhi ove si salta, quando il giocatore prende lo slancio, molti spettatori che son generalmente uomini o giovanotti, muovono i piedi; ma pur là entra l'abitudine, perché molto dubbio se le donne farebbero lo stesso.

Azioni riflesse. - Le azioni riflesse, nello stretto senso della parola, sono dovute alla eccitazione di un nervo periferico che trasmette la sua influenza a date cellule nervose, le quali, alla loro volta, provocano l'azione di muscoli o di determinate ghiandole; tutto ciò, almeno nella maggior parte dei casi, può essere prodotto senza alcuna sensazione, ossia senza che noi ne abbiamo coscienza. Siccome molte azioni riflesse sono assai espressive, dobbiamo qui estenderci alquanto su questo argomento. Vedremo per giunta che alcune di esse giungono a confondersi colle azioni prodotte dall'abitudine, e difficilmente ne possono essere distinte (31). La tosse e lo starnuto sono esempi comuni di azioni riflesse. Nei fanciulli, il primo atto respiratorio è spesso uno starnuto, quantunque questo esiga i movimenti coordinati di numerosi muscoli. La respirazione è in parte volontaria, ma sopra tutto è riflessa, ed è senza l'intervento della volontà ch'ella si effettua nel modo più naturale e più regolare. Un numero considerevole di movimenti complessi sono di natura riflessa. Uno degli esempi migliori che si possa citare è quello della rana decapitata, la quale non può evidentemente sentire né compiere alcun movimento, rendendosene conto. Ciò nondimeno, se si mette una stilla di acido sulla faccia inferiore della coscia di una rana cui si sia mozza la testa, essa tergerà la goccia con la faccia superiore del piede dello stesso lato; che se si taglia il piede, non può più fare così: «per conseguenza, dopo alcuni sforzi infruttuosi, ella rinuncia a questo mezzo, e sembra inquieta, come se, dice Pflüger, ne cercasse un altro; infine si giova dell'altra gamba e riesce a tergere l'acido. Qui certo non abbiamo soltanto semplici contrazioni muscolari, ma anche contrazioni combinate e disposte in un ordine determinato per un fine speciale. Esse costituiscono degli atti che sembra proprio siano guidati dall'intelligenza e provocati dalla volontà, e ciò in un animale cui sia stato tolto l'organo incontrastato dell'intelligenza e della volizione» (32).

Vediamo la differenza che sta tra i movimenti riflessi ed i volontari nei bimbi; essi, mi dice sir Henry Holland, non sanno compiere atti analoghi allo starnuto e alla tosse; sono specialmente incapaci di espurgarsi il naso (cioè di premerlo e di soffiar con violenza attraverso l'orifizio ristretto) e di sbarazzare la gola dal muco. Bisogna insegnar loro a compiere questi atti, benché, quando siano un po' cresciuti cogli anni, ci riescano facili come fossero azioni riflesse. Peraltro lo starnuto e la tosse sono poco o nulla soggetti alla volontà, mentre gli atti del grattarci la gola e del soffiarci il naso sono affatto volontari.

Allorché sentiamo che una particella ci irrita le narici o i canali respiratorii - il che avviene per l'eccitazione delle stesse cellule nervose sensitive che agiscono nei casi di starnuto e di tosse - noi possiamo espellere volontariamente il corpo straniero cacciando dell'aria con forza traverso questi condotti, ma siamo molto lungi dal farlo con tanta forza, rapidità e precisione con cui vien compiuto dall'azione riflessa. In quest'ultimo caso, a quanto sembra, le cellule nervose sensitive eccitano le cellule nervose motrici senza che v'abbia consumo di forza per l'antecedente comunicazione cogli emisferi cerebrali - sede della coscienza e della volizione. In ogni caso sembra ch'esista un profondo contrasto tra identici movimenti, a seconda che sono governati dalla volontà o da un'eccitazione riflessa, relativamente all'energia con la quale vengono compiuti ed alla facilità con cui sono eccitati. Lo dichiara anche Claudio Bernard: «l'influenza del cervello tende dunque a inceppare i movimenti riflessi, a limitare la loro forza e la loro estensione» (33).

Basta talvolta il desiderio consapevole di adempiere un atto riflesso per arrestare od interrompere il suo adempimento, malgrado l'eccitazione dei nervi sensitivi speciali. Eccone un esempio: molti anni or sono, feci una piccola scommessa con una dozzina di giovani: io sostenni che avrebbero preso tabacco senza starnutire, benché m'avessero dichiarato che, aspirandone, starnutavano sempre. Conseguentemente, ne presero tutti una leggera dose, ma siccome desideravano assai di riuscir vincitori, nessuno starnutò, quantunque gli occhi lacrimassero; e tutti, senza eccezione, dovettero pagarmi la scommessa. Sir H. Holland osserva (34) come l'attenzione che si mette per inghiottire ne inceppi i movimenti; ciò che spiega senza dubbio, almeno in parte, la difficoltà che provano certe persone ad ingoiare le pillole.

Altro esempio comune di atto riflesso consiste nell'abbassamento involontario delle palpebre, appena la superficie dell'occhio venga irritata. Un ammiccare di simile fatta si effettua quando vien diretto un colpo al viso; ma questo, a dir vero, più che un'azione riflessa, è un atto derivante dall'abitudine, perché lo stimolo è trasmesso per mezzo dell'organo pensante, e non per l'eccitazione del nervo periferico. Spessissimo la testa ed il corpo tutto sono nello stesso tempo gettati bruscamente all'indietro. Possiamo tuttavia frenare questi ultimi movimenti e il pericolo non sembra imminente alla nostra immaginazione, ma non basta che la ragione ci dica che non c’è pericolo. Posso citare un fatto insignificante che viene in appoggio del mio asserto e che mi ha altra volta molto ricreato. Appoggiai la faccia contro il grosso cristallo della gabbia d'una vipera al Giardino zoologico, con la ferma intenzione di non rinculare ove il serpente si slanciasse verso di me; ma esso aveva appena battuto il cristallo, che la mia risoluzione sparì, ed io saltai addietro un metro o due con un'incredibile rapidità. La mia volontà e la mia ragione erano riuscite impotenti contro l'immaginazione che mi rappresentava un pericolo, cui per lo innanzi non ero giammai stato esposto.

La violenza di un sussulto sembra dipendere in parte dalla vivacità dell'immaginazione, in parte dallo stato abituale o momentaneo del sistema nervoso. Se si vuol bene osservare il sussultar di un cavallo, a seconda che è affaticato o riposato, si vedrà quanto è perfetto il passaggio tra un semplice sguardo ad un oggetto inatteso, una breve esitazione in faccia del presunto pericolo, fino ad un balzo sì rapido e sì violento, che l'animale non potrebbe probabilmente fare di sua volontà un deviamento tanto pronto. Il sistema nervoso di un cavallo nutrito bene e di fresco manda i suoi ordini all'apparecchio locomotore con tanta rapidità, ch'egli non ha il tempo di giudicare se il pericolo sia reale o no. Dopo un violento sussulto, quand'è eccitato ed il sangue gli circola riccamente nel cervello, esso è disposto a sussultare ancora; e, secondo le mie osservazioni, avviene lo stesso anche nei fanciulli.

Il sussulto prodotto da repentino rumore, quando lo stimolo è trasmesso dai nervi uditivi, è sempre accompagnato, nelle persone attempate, dall'ammiccar delle palpebre (35). Io ho peraltro osservato che i miei figli, se trasalivano agli improvvisi strepiti, quando non avevano ancora quindici giorni, non ammiccavano certo tutte le volte, e credo per giunta non lo facessero mai. Il sussulto di un fanciullo più grande rappresenta apparentemente un modo di prender un punto d'appoggio per evitare di cadere. Io scossi una scatola di cartone proprio vicino agli occhi di un mio figlio di 114 giorni ed egli non ammiccò affatto; ma avendo messi nel bossolo alcuni confetti, tenendolo nella stessa posizione, lo agitai, ed il fanciullo battè ogni volta gli occhi e trasalì leggermente. Evidentemente era impossibile che un fanciullo ben custodito potesse aver imparato dall'esperienza che un simile strepito vicino agli occhi indicava pericolo. Ma questa esperienza sarà stata lentamente acquistata a un'età più avanzata per volgere di molte generazioni; e, dopo ciò che sappiamo dell'eredità, non è niente improbabile che l'abitudine si sia trasmessa ed appaia in un'età minore di quella in cui fu contratta dagli antenati.

Le precedenti osservazioni permettono di credere che certe azioni, compiute dapprima ragionatamente, siano divenute riflesse in virtù dell'abitudine e dell'associazione, e che ora siano così stabilite ed acquisite, da effettuarsi, anche senza utilità alcuna (36), tutte le volte in cui sorgano cause simili a quelle che, in origine, ce ne risvegliavano il volontario compimento. In tali casi, le cellule nervose sensitive eccitano le cellule nervose motrici, senza prima comunicare con quelle d'onde la nostra percezione e la nostra volizione dipendono. Probabilmente lo starnuto e la tosse in origine sono stati acquisiti dall'abitudine di espellere con la massima forza una particella qualunque che irritasse la sensibilità dei canali respiratorii. Queste abitudini ebbero tutto tempo per diventare innate o per venir convertite in azioni riflesse, che sono comuni a tutti od a quasi tutti i grandi quadrupedi, e devono quindi essere state la prima volta acquisite in un'epoca remotissima. perché l'atto del grattarsi la gola non è un'azione riflessa, e dev'essere appresa dai nostri fanciulli? Gli è ciò che non posso aver la pretesa di dire: all'incontro, ci è dato comprendere per quale ragione si debba imparare a soffiarsi il naso in un fazzoletto.

I movimenti di una rana decapitata che terge dalla coscia una goccia d'acido, o che scaccia un altro oggetto, sono perfettamente coordinati ad un fine speciale; come non si può non ammettere che, volontari dapprima, essi sono quindi divenuti sì facili in seguito ad una lunga abitudine e poterono finalmente essere compiuti automaticamente, ossia indipendentemente dagli emisferi cerebrali.

Nella stessa maniera sembra probabile che il sussulto abbia avuto per origine prima l'abitudine di saltare all'indietro il più presto possibile per evitare il pericolo tutte le volte che uno dei nostri sensi ce ne avvertisse della presenza. Il sussulto, siccome abbiamo veduto, è accompagnato dall'ammiccar delle palpebre che proteggono gli occhi, gli organi più delicati e più sensibili del corpo; e questo atto, io credo, è sempre accompagnato da una subitanea e forte inspirazione, ciò che costituisce la naturale disposizione ad uno sforzo violento. Ma quando un uomo od un cavallo sussultano, i battiti del cuore sollevano il petto con violenza, e si può dire che in ciò abbiamo l'esempio di un organo, il quale non fu mai influenzato dalla volontà, e che prende parte ai movimenti riflessi generali della economia. Tuttavia questo punto sarà trattato di nuovo in uno dei seguenti capitoli.

La contrazione dell'iride, allorché la retina è eccitata da viva luce, è un altro esempio di un movimento che, a quanto sembra, in origine non può essere stato volontario, e reso quindi stabile dall'abitudine; perché non si conosce alcun animale in cui l'iride sia sottomessa all'azione diretta della volontà. Per quei casi resta a scoprire una spiegazione qualunque, certo differente dall'influenza dell'abitudine. L'irradiazione della forza nervosa da cellule energicamente eccitate ad altre cellule unite alle prime, come nel caso in cui una viva luce che colpisca la retina fa starnutare, potrà forse giovare a comprendere la causa di certe azioni riflesse. Un irradiamento nervoso di questa specie, se dà luogo ad un movimento inteso a diminuire l'irritazione primitiva, come allorquando la contrazione dell'iride impedisce che un eccesso di luce ferisca la retina, questo irradiamento forse sarà stato in processo di tempo utilizzato e modificato ad un fine speciale.

Inoltre dobbiamo notare che, secondo ogni probabilità, le azioni riflesse sono soggette a leggere variazioni, come lo sono tutte le parti anatomiche e gl'istinti, e che qualunque variazione vantaggiosa e sufficientemente importante avrà dovuto essere conservata e trasmessa per eredità. Così le azioni riflesse, una volta acquisite per un bisogno qualsiasi, possono quindi venir modificate indipendentemente dalla volontà o dall'abitudine, per essere destinate ad un determinato bisogno. Noi siamo in diritto di credere che questi fatti siano della stessa portata di quelli che si produssero in riguardo a molti istinti, perché, sebbene alcuni di questi abbiano avuto sviluppo da una lunga ed ereditaria abitudine, pur ve ne hanno di quelli molto complessi, che si sono sviluppati con la fissazione delle variazioni prodotte nei preesistenti istinti, cioè per elezione naturale.

Ho trattato piuttosto a lungo, benché, lo comprendo, assai imperfettamente, il modo con cui si sono acquisite le azioni riflesse, perché esse prendono parte di spesso nei moti ch'esprimono le nostre emozioni, e faceva d'uopo mostrare che almeno taluna di loro poté in origine essere stata acquistata volontariamente allo scopo speciale di soddisfare un desiderio o di evitare una sgradevole sensazione.

Movimenti abituali associati negli animali inferiori. - Ho di già citati, a proposito dell'uomo, molteplici esempi di movimenti associati a diversi stati dell'animo o del corpo che presentemente sono inutili, ma che in origine avevano un uso, ed in certe circostanze ne hanno ancor uno. Siccome questa questione è molto importante per noi, citerò qui un numero considerevole di fatti analoghi in rapporto agli animali, benché molti siano comunissimi. Io mi propongo di dimostrare che taluni movimenti sono stati compiuti originariamente con un fine determinato, e che, in circostanze pressoché identiche, continuano tuttavia ad essere compiuti per una inveterata abitudine, benché inutili affatto. La parte che prende l'eredità nel maggior numero dei casi seguenti è mostrata dal fatto che questi atti sono compiuti nella medesima maniera da tutti gl'individui della stessa specie, senza distinzione di età. Vedremo anche ch'essi vengono prodotti dalle associazioni più varie, spesso indirette e talora anche ignote.

Quando i cani vogliono mettersi a dormir sulla terra o sopra un'altra superficie dura, d'ordinario girano attorno e raspano insensatamente il suolo colle zampe anteriori, quasi volessero svellere l'erba e scavare una buca, come senza dubbio facevano i loro antenati allo stato selvaggio, allorché vivevano nelle vaste pianure coperte di erba o nei boschi. Gli sciacalli, i cerdoni ed altri simili animali, al Giardino zoologico, si comportano nella stessa maniera col loro giaciglio; ma è un fatto piuttosto singolare che i guardiani, in seguito all'osservazione di più mesi, non videro mai i lupi fare altrettanto. Un cane mezzo idiota - ed un animale in questa condizione dev'essere particolarmente atto a seguire un'abitudine insensata - fu visto da un mio amico a fare trenta giri completi sopra un tappeto prima di cucciarsi a dormire.

Molti animali carnivori, quando si avvicinano alla preda e si dispongono a precipitarsi od a saltarle addosso, abbassano la testa e si curvano tanto, sembra, per nascondersi, quanto per prepararsi all'assalto; e questa abitudine spinta allo estremo è divenuta ereditaria nei nostri cani da ferma e da uccelli. Ora, ebbi a notare spesso che, quando due cani fra loro sconosciuti si incontrano in una larga via, quello che scorge l'altro per primo, benché alla distanza di cento o duecento metri, abbassa tosto la testa, molto spesso si curva leggermente ed anche si cuccia affatto; in una parola, prende la posa più conveniente per celarsi e per disporsi alla corsa od allo slancio. Eppure la strada è assolutamente libera e la distanza ancor più grande. Altro esempio; i cani di qualunque razza, allorché spiano avidamente la preda e lenti lenti vi si approssimano, tengono spesso una delle zampe anteriori ripiegata e sollevata per lungo tempo; essi sono pronti così ad avanzarsi prudentemente - e questa attitudine è assai comune nei cani da ferma. Ora, per effetto dell'abitudine, fanno precisamente così tutte le volte che la loro attenzione è risvegliata (fig. 4). Ho visto ai piedi di un alto muro un cane con una gamba ripiegata in aria, ascoltare attentamente un rumore che veniva dal lato opposto, e in tal caso egli non poteva avere l'intenzione di avvicinarvisi prudentemente.


Fig. 4 - Piccolo cane che spia un gatto collocato sopra una tavola (Da una fotografia del sig. Rejlander).

I cani, poi che hanno deposto i loro escrementi, grattano spesso il suolo dall'avanti all'indietro con tutte quattro le zampe, anche se stanno su terreno affatto nudo: sembra sia loro intenzione di ricoprire con terra le feci, quasi come fanno i gatti. I lupi e gli sciacalli, al Giardino zoologico, si comportano proprio egualmente, quantunque, da quel che m'hanno assicurato i guardiani, né i lupi, né gli sciacalli, né le volpi, allorché ne hanno il mezzo, ricoprono i loro escrementi più di quello che facciano i cani. - Eppure tutti questi animali nascondono sotterra il sovrappiù del loro nutrimento. Questo ne lascia comprendere il vero significato della precedente abitudine, simile a quella dei gatti. Non possiamo dubitar punto che v'abbia in quell'atto una inutile traccia di un movimento abituale, che altra volta, in un lontano progenitore del genere cane, aveva un fine determinato e che s'è conservato da antichità prodigiosa.

I cani e gli sciacalli (37) si dilettano assai a voltolarsi, a sfregare il con lo e la schiena attorno alle carogne: sembra godano del loro odore, quantunque almeno i cani non ne mangino. Il Bartlett ha fatto per conto mio delle osservazioni sui lupi; diede loro della carogna e non li vide mai rotolarvisi sopra. Ho sentito osservare (e credo sia vero) che i grandi cani, i quali probabilmente derivarono dai lupi, non si avvoltolano sulla carogna così spesso, come lo fanno i piccoli, discesi probabilmente dagli sciacalli. Quando si dà ad un mio terriere (e so di altri fatti simili) un pezzo di biscotto nero, e che questa cagna non abbia fame, essa lo straccia e lo fa balzellare, come se fosse un sorcio od altra preda; poi vi s'avvoltola sopra a più riprese, proprio come si trattasse di un pezzo di carogna; quasi fa d'uopo dare un gusto immaginario a questa poco appetitosa porzione; e a tale scopo il cane opera secondo la sua abitudine, come se il biscotto fosse un animale vivente od avesse l'odore della carogna, quantunque esso sappia meglio di noi che non è l'uno né l'altra. Ed ho visto questo stesso terriere far egualmente dopo aver ucciso un piccolo uccello od un topo.

I cani si grattano con un rapido movimento delle zampe anteriori; e se si scorre sul loro dorso con una canna, tanta è l'abitudine, che non possono a meno di raspare rapidamente in aria o sul terreno in un modo illusorio e ridicolo. Il terriere cui feci poc'anzi allusione, allorché lo si grattava in questa maniera, esprimeva talvolta la propria soddisfazione con un altro movimento abituale, leccando, cioè, in aria, come il facesse sulla mia mano.

I cavalli si grattano mordendosi le parti del corpo cui possono giunger coi denti; ma più di spesso un cavallo indica a un altro il punto dove ha bisogno d'esser grattato, ed entrambi si morsicchiano reciprocamente. Un amico di cui ebbi a richiamar l'attenzione su questo argomento, osservò che quando egli carezzava il con lo del proprio cavallo, questo avanzava la testa, mostrava i denti e moveva le mascelle, davvero come se mordesse il con lo di un altro cavallo, perché è naturale che non avrebbe potuto mordere il suo. Se un destriero vien molto solleticato, come quando lo si striglia, il suo desiderio di mordere è così irresistibile, che fa stridere i denti e, benché addomesticato, può mordere il palafreniere; nello stesso tempo, per abitudine, abbassa molto le orecchie, in modo da preservarle dai morsi, quasi avesse a fare con un altro cavallo.

Un destriero impaziente di partire per una corsa, scalpitando la terra, si avvicina moltissimo al movimento che gli è abituale quando procede. Inoltre, allorché i cavalli, nelle scuderie, vogliono mangiare e attendono con impazienza l'avena, scalpitano sul terreno o sulla paglia. Due miei cavalli fanno così, quando vedono o comprendono che si dà l'avena ai loro vicini. In tali casi, a dir vero, noi abbiamo quasi ciò che può chiamarsi una espressione propriamente detta, chè lo scalpitio del suolo è dovunque riconosciuto per un segno di impazienza.

I gatti coprono di terra i loro escrementi; ed il mio avo (38) ha visto un piccolo gatto a spargere della cenere sopra una cucchiaiata di acqua pura rovesciata sul focolare; sicché, in questo caso un atto abituale od istintivo era provocato senza ragione, non in seguito ad un'azione precedente o ad un odore, ma dalla vista. È noto a tutti che i gatti non amano di bagnarsi i piedi; ciò ch'è dovuto probabilmente al fatto ch'essi in origine abitarono un clima secco, l'Egitto; e quando li bagnano, li scuotono vivamente. Mia figlia ebbe a versare dell'acqua in un bicchiere proprio vicino alla testa di un piccolo gatto; questo scrollò subito i piedi nel solito modo; abbiamo qui dunque un movimento abituale eccitato senza motivo da un suono associato, invece ch'esserlo dal senso del tatto.

I piccoli gatti, i piccoli cani, i piccoli maiali e probabilmente anche molti altri giovani animali, battono alternativamente colle zampe anteriori le mammelle della loro madre per eccitare la secrezione del latte o per facilitarne l'afflusso. Ora, assai di spesso si vedono i giovani gatti, e non raramente i vecchi, nati dalla razza comune o dalla persiana (la quale, a dire di alcuni naturalisti, non esisterebbe più allo stato di purezza), quando sono comodamente cucciati sopra uno scialle ben caldo o sopra un altro oggetto morbido, si vedono, dico, a premerlo dolcemente e alternativamente colle zampe anteriori: le loro dita sono allora distese e gli artigli un po' in fuori, proprio come quando poppano. E quel che prova esservi in ciò lo stesso movimento, gli è il fatto che spesso prendono nel medesimo tempo un lembo dello scialle in bocca e si mettono a succhiarlo, chiudendo d'ordinario gli occhi e facendo sentire un mugolìo di contento. Questo curioso movimento di solito non è eccitato che in associazione con la sensazione d'una superficie calda e delicata; io ho visto un vecchio gatto batter l'aria coi piedi nella stessa maniera, quando gli si procacciava piacere grattandogli il dorso; sicché questo atto è quasi divenuto l'espressione d'una sensazione gradita.

Dopo di aver parlato dell'azione di poppare, posso aggiungere che questo movimento complesso, come pure l'alternata distensione delle zampe anteriori, sono azioni riflesse; in fatto, esse vengon compiute quando si colloca un dito bagnato di latte nella bocca di un piccolo cane, che sia stato privato della parte anteriore del cervello (39). Fu recentemente constatato, in Francia, che l'azione del poppare è provocata solo per mezzo dell'odorato, per lo che, se i nervi olfattivi d'un cagnolino sono esportati, non poppa. Parimenti il potere straordinario che ha il pollo, pochissime ore dalla nascita, di dar di becco a piccole briciole onde nutrirsi, sembra esser messo in azione dal senso dell'udito; perché nei polli nati a calore artificiale, un buon osservatore trovò che battendo coll'unghia sopra una tavola, in modo da imitare lo strepito cui fa la chioccia, egli poté loro apprendere a pigliare il nutrimento (40).

Darò ancora un solo esempio d'un movimento abituale ed inutile. L'anitra tadorna vive sulle sabbie lasciate allo scoperto dalla marea, e quando scopre la traccia d'un verme «prende a batter il suolo, quasi danzando sopra il pertugio», onde n'esce il verme. Ora, il signor St-John riferisce che quando le sue anitre tadorne addomesticate «venivano a chiedergli il cibo, battevano il terreno con un movimento impaziente e rapido» (41). Questo può dunque considerarsi quasi come il loro modo di esprimer la fame. Il Bartlett mi dice che il fenicottero ed il Kagu (Rhinochetus jubatus), allorché hanno fame, battono la terra con i piedi nella stessa foggia bizzarra. Parimente anche i piombini, quando prendono un pesce, il battono sempre fin che l'hanno morto, ed al Giardino zoologico battono tutte le volte la carne cruda onde si nutrono, prima di divorarla.

Or noi abbiamo, credo, sufficientemente dimostrato il nostro primo principio, cioè che tutte le volte in cui una sensazione, un desiderio, una ripugnanza, ecc. provocarono per lunga serie di generazioni un dato movimento volontario, quasi di certo sarà sempre eccitata una tendenza a compiere un movimento simile, quando capiterà, sia pure a debole grado, la stessa sensazione, od altra analoga od associata; e questo benché il movimento, nel caso presente, possa riuscire di nessuna utilità. Movimenti abituali di tal fatta sono spesso, se non costantemente, ereditari, ed allora variano poco dalle azioni riflesse. Quando noi parleremo delle espressioni speciali dell'uomo, si vedrà la giustezza dell'ultima parte del nostro primo principio, siccome venne esposto al principio di questo capitolo, vale a dire che allorquando movimenti associati dall'abitudine a certi stati di spirito sono in parte repressi dalla volontà, i muscoli affatto involontari, come i meno collocati sotto il diretto controllo della volontà, possono nondimeno contrarsi, e la loro azione è spesso molto espressiva. Inversamente, quando la volontà è per poco tempo o per sempre affievolita, i muscoli volontari fanno difetto a confronto degl'involontari. Questo è un fatto comune ai patologi, come osserva sir C. Bell (42): «Quando un'affezione del cervello dà luogo a debolezza, la sua influenza si fa maggiormente sentire sui muscoli che sono, allo stato normale, collocati sotto l'impero più immediato della volontà». Nei capitoli susseguenti, ci arresteremo sopra un'altra proposizione, pur contenuta nel nostro primo principio: che, cioè, per reprimere un movimento abituale, fa d'uopo talvolta eseguire altri leggeri movimenti, che servono essi medesimi alla espressione.


CAPITOLO II. PRINCIPI GENERALI DELL'ESPRESSIONE (seguito).

Principio dell'antitesi. - Esempi nel cane e nel gatto. - Origine del principio. - Segni convenzionali. - Il principio dell'antitesi non ha per origine azioni opposte compiute con conoscenza di causa sotto l'influenza di opposti impulsi.

Eccoci al nostro secondo principio, il principio dell'antitesi. Certe condizioni dell'animo, siccome abbiamo veduto nell'altro capitolo, dànno luogo a certi movimenti abituali, che in origine furono realmente utili, e possono esserlo ancora; vedremo ora che quando si produce uno stato di animo affatto inverso, si manifesta una tendenza energica ed involontaria a movimenti inversi del pari, benchè non siano mai stati di utilità alcuna. Daremo alcuni esempi meravigliosi di antitesi trattando delle espressioni speciali all'uomo; ma gli è sopra tutto nei casi di questo genere che certe abitudini ed espressioni convenzionali od artificiali vengono facilmente confuse con quelle che sono innate od universali e che solo meritano di essere collocate fra le vere espressioni; per ciò, nel presente capitolo, mi limiterò quasi affatto alle espressioni degli animali.


Fig. 5 - Cane che si avvicina ad un altro con ostili intenzioni, dis. dal sig. Rivière.

Allorché un cane di umore intrattabile o con ostili intenzioni si abbatte in un cane straniero od in un uomo, cammina diritto in avanti e tenendosi duro duro; la sua testa è leggermente rialzata o poco abbassata; la coda ritta in aria; i peli si rizzano, specialmente lungo il con lo e la schiena; le orecchie tese si dirigono in avanti e gli occhi guardano fissi (V. fig. 5 e 7). Tali particolarità, come spiegheremo qui presso, provengono dall'intenzione che ha il cane di attaccare il suo nemico, e per la maggior parte sono anche facili a comprendersi. Quando egli si dispone a slanciarsi sull'avversario con un selvaggio brontolìo, i denti canini si scoprono e le orecchie sono affatto rovesciate all'indietro contro la testa; ma qui non abbiamo ad occuparci di questi ultimi atti. Supponiamo adesso che il cane riconosca d'un tratto nell'uomo cui s'avvicina non già uno straniero, ma il proprio padrone; ed osserviamo come tutto se stesso trasforma in modo subitaneo e completo. In luogo di avanzarsi rigidamente, si abbassa od anche si cuccia, imprimendo al suo corpo movimenti flessuosi; la coda non è più ritta in aria, ma volta all'ingiù e dimenata da una parte a quell'altra; i peli vengono istantaneamente lisci; le orecchie, pur rovesciate all'indietro, non sono però più applicate contro la testa, e le labbra pendono liberamente. In seguito al rovesciamento delle orecchie all'indietro, le palpebre sono allungate e gli occhi perdono l'aspetto arrotondato e fisso.


Fig. 6 - Lo stesso, umile ed affettuoso, dis. dal sig. Rivière.

Fig. 7 - Cane da pastore mezzo sangue, nella stessa condizione di quello alla fig. 5, dis. dal sig. A. May.

Devesi aggiungere che in questo momento l'animale è in un trasporto di gioia, e che c’è produzione eccessiva di forza nervosa, ciò che dà luogo naturalmente ad atti determinati. Non uno dei precedenti moti, che con tanta chiarezza esprimono l'affezione, non uno è della minima utilità per l'animale. A mio parere, essi trovano spiegazione solamente in ciò, che sono in opposizione completa, ossia in antitesi coll'attitudine e coi significativi movimenti del cane che si preparava alla lotta, i quali per conseguenza denotano la collera. Prego il lettore di voler dare un'occhiata ai quattro abbozzi qui annessi, che hanno lo scopo di richiamare in modo toccante l'aspetto d'un cane in questi due stati dell'animo. È certo difficile rappresentar l'affezione in un cane che carezza il padrone e dimena la coda, perché ciò che sopra tutto ne costituisce l'espressione, è appunto la continua ondulazione dei suoi movimenti.


Fig. 8 - Lo stesso, che accarezza il proprio padrone, dis. dal sig. A. May.

Ed ora parliamo del gatto. Quando questo animale è minacciato da un cane, curva la schiena in maniera sorprendente, arruffa il pelo, apre la bocca e soffia. Ma qui non ci occupiamo di questa comunissima attitudine che esprime il terrore associato alla collera; noi c'intratteniamo soltanto sulla espressione del furore o della collera. Questa non s'è osservata di spesso, ma può osservarsi quando due gatti lottano tra loro; io l'ebbi a vedere molto marcata in un gatto selvaggio tormentato da un fanciullo. L'attitudine è quasi identica a quella d'un tigre quando, disturbato durante il pasto, grugnisce, siccome ciascuno ha potuto vedere nei serragli di bestie. L'animale prende una posizione strisciante, stendendo il corpo, e tutta la coda, o l'estremità soltanto, ripiegata o ricurva, si volge da un lato a quell'altro. Il pelo non è punto arruffato. All'infuori di questo, l'attitudine ed i movimenti sono quasi gli stessi d'allora che l'animale si dispone a lanciarsi sopra la preda, e certamente come quando la sua ferocia risvegliasi. Ma allorché si prepara alla lotta, corre questo divario, che le orecchie sono assai riversate all'indietro, la bocca a mezzo aperta e lascia vedere i denti; le zampe davanti sono talvolta gettate all'infuori e gli artigli sporgenti, e talora l'animale manda un feroce grugnito (V. fig. 9 e 10). Tutti questi atti, o quasi, provengono naturalmente (come sarà fatto vedere fra poco) dal modo col quale il gatto si propone di attaccare il nemico.


Fig. 9 - Gatto sgomento e pronto a lottare, disegnato dal vero dal sig. Wood.

Esaminiamo adesso un gatto di umore affatto inverso, mentre esprime la propria affezione al padrone, carezzandolo, e facciamo rimarco al contrasto spiccato ch'esiste nella sua posa. Esso si raddrizza, il dorso leggermente curvato, il che gli solleva un po' il pelo, ma senza arruffarlo; la coda, in luogo d'essere distesa e di battere i fianchi, sta ritta del tutto e s'eleva perpendicolarmente; le orecchie sono dritte ed erette; la bocca è chiusa; la bestia si strofina contro il padrone ed il mugolìo di contento rimpiazza il grugnito. Guardiamo ancora fin dove il gatto, nel modo di esprimere l'affetto, differisce dal cane, che carezza il padrone col corpo curvato e ondulante, la coda abbassata ed in moto e le orecchie pendenti. Simile contrasto nelle attitudini e nei movimenti di questi due carnivori sotto la influenza del medesimo stato dell'animo grato e affettuoso, non può trovar spiegazione, a quanto mi pare, che nella completa antitesi di tali movimenti con quelli naturali a questi animali quando sono irritati e si dispongono a combattere o ad assalire la preda.

In codesti casi del cane e del gatto, si ha diritto di credere che gli atti che esprimono l'ostilità e l'affezione sono gli uni e gli altri innati o ereditari; perché corrispondono quasi perfettamente nelle differenti razze di queste due specie e in tutti gl'individui, vecchi o giovani, della medesima razza.

Offro un altro esempio della funzione dell'antitesi nella Espressione. Possedevo tempo addietro un grande cane, il quale, come tutti, godeva assai d'andare a passeggio. Egli esprimeva la sua contentezza, trottando gravemente innanzi a me, a passo misurato, la testa ben alta, le orecchie un po' rialzate e la coda in aria, però senza rigidezza. Non lungi da casa mia, s'offre un sentiero a destra, che mena alla serra; io aveva l'abitudine di visitarla sovente per alcuni istanti onde osservare le mie piante messe a sperimento. Codesta era per il cane occasione d'un grande scoramento; perché egli non sapeva se avrei continuata la via; e riusciva ridicolo il vedere l'improvviso e radicale cambiamento di espressione che si produceva in lui, quando muovevo pur mezzo passo verso il sentiero (ciò ch'io faceva talvolta in via di osservazione). Il suo sguardo abbattuto era conosciuto da tutti di mia famiglia, e lo si chiamava la sua aria da serra.


Fig. 10 - Gatto d'umore affettuoso, dis. dal sig. Wood.

Ecco in che consisteva: la testa s'inclinava d'assai, tutto il corpo s'abbassava un poco, rimanendo immobile; le orecchie e la coda ricadevano bruscamente, senza che questa fosse dimenata; alle orecchie cascanti, alle mascelle pendenti, si aggiungeva un gran cambiamento negli occhi, che mi parevano meno brillanti. Il miserando aspetto di lui esprimeva profonda afflizione, e, come dissi, era ridicolo, vista la causa insignificante che l'aveva prodotta. Ogni particolarità della sua attitudine era in completa opposizione con la precedente andatura allegra e dignitosa, e mi sembra non possa venir altrimenti spiegata che col principio dell'antitesi. Se il cambiamento non fosse stato tanto istantaneo, avrei attribuito quest'attitudine alla reazione del suo abbattimento sul sistema nervoso e sul circolatorio, come si osserva nell'uomo, e quindi sulla tonicità di tutto il di lui apparecchio muscolare; ed è anche possibile che nella produzione del fenomeno v'entri in parte pur quello.

Passiamo adesso a vedere l'origine del principio dell'antitesi. Negli animali che vivono in società, poter comunicare fra' membri di una stessa unione è della più alta importanza, e nelle altre specie questo bisogno esiste tra gli animali di sesso diverso, fra i giovani ed i vecchi. D'ordinario tale scopo è raggiunto col mezzo della voce, ma è certo che i gesti ed i segni espressivi giovano sino a un dato punto alla reciproca intelligenza. L'uomo non s'è limitato all'uso di grida inarticolate, di atti e di segni espressivi; egli inventò il linguaggio articolato, se pur si può dare l'appellativo d'invenzione a un progresso compiuto in seguito a innumerevoli perfezionamenti appena ragionati. E' basta aver osservate le scimmie per esser convinti ch'esse comprendono perfettamente i gesti ed i segni fatti fra loro e in buona parte anche quelli dell'uomo, come Rengger asserisce (43). Un animale, allorché ne attacca un altro, ed ha paura, prende spesso un aspetto terribile, rizzando il pelo, onde pare più grosso, mostrando i denti, vibrando le corna o mettendo grida feroci.

Siccome la facoltà di comunicare fra loro è certo di grandissima utilità a molti animali, così non è a priori improbabile che gesti manifestamente contrari a quelli che esprimevano in passato dati sentimenti, abbiano potuto in origine prodursi naturalmente sotto l'impero di un opposto sentimento; il fatto che adesso questi gesti sono innati non basta per impedirci di credere che sul bel principio siano stati compiuti ad un fine, perché dopo molte generazioni sarebbero probabilmente divenuti ereditari. Checchè ne sia, è più che dubbio, come fra poco vedremo, che tutti i casi cui s'applica il principio dell'antitesi abbiano avuto una origine pari.

Nei segni convenzionali che non sono innati, siccome quelli impiegati dai sordomuti e dai selvaggi, fu messo parzialmente in opera il principio di opposizione o di antitesi. I monaci di Citeaux credevano di peccare parlando; essi inventarono un linguaggio mimico dove pare sia stato impiegato il principio della opposizione (44). Il dottore Scott, dell'Istituto dei sordo-muti di Exeter, mi scrive «che le opposizioni sono molto usate nella istruzione dei sordo-muti, i quali le sentono assai vivamente». E frattanto io rimasi sorpreso dello scarso numero di esempi incontestabili che si possono offrire su questo punto. Ciò dipende in parte dal fatto che tutti i segni hanno avuto d'ordinario qualche origine naturale, e in parte dall'abitudine presa dai sordo-muti e dai selvaggi di abbreviare più che si potesse i loro segni per renderli più rapidi (45). Donde viene che la loro sorgente ossia la loro origine è spesso dubbia od anche completamente perduta, il che pur si riscontra riguardo al linguaggio articolato.

D'altra parte, molti segni, evidentemente opposti fra loro, sembra abbiano avuto in origine, ciascuno dal canto suo, una significazione propria. Pare che sia stato così dei segni impiegati dai sordo-muti per indicare la luce e l'oscurità, la forza e la debolezza, ecc. In un altro capitolo tenterò di dimostrare che i movimenti opposti di affermazione e di negazione, quello, cioè, di abbassare verticalmente la testa e quello di muoverla in senso laterale, furono probabilmente sul principio tutti e due naturali. Il dimenare la mano da destra a sinistra, onde si giovano alcuni selvaggi per dire di no, poté essere inventato ad imitazione del movimento del capo; in quanto poi al gesto contrario, per cui la mano si muove in basso in linea retta dinanzi al viso in segno di affermazione, non sapremmo decidere se provenga dall'antitesi o se sia derivato in modo diverso.

Ora, se veniamo ai gesti innati, ossia comuni a tutti gl'individui della medesima specie, e che stanno fra quelli che produce l'antitesi, è molto dubbio che alcuno d'essi sia stato sul principio inventato deliberatamente e con cognizione di causa. Nella specie umana, il miglior esempio che si possa citare di movimento direttamente opposto ad altri gesti e che sopraggiunge naturalmente in una contraria condizione dell'animo, è l'atto di alzare le spalle. Esso esprime l'impotenza od un rifiuto, - vuol dire che una cosa non può farsi o non può evitarsi. Questo gesto è talvolta impiegato scientemente e volontariamente, ma è molto improbabile che in origine si sia inventato con deliberato proposito e che in seguito sia stato reso stabile dall'abitudine; perché non solo il bambino alza le spalle sotto l'influenza delle precitate condizioni dell'animo, ma anche questo movimento è accompagnato, come sarà fatto vedere in uno dei seguenti capitoli, da vari movimenti subordinati, da cui un uomo su mille non ha la coscienza, a meno di essersi specialmente occupato dell'argomento.

I cani, quando si avvicinano ad un cane straniero, possono trovar cosa utile di mostrare coi loro atti che hanno intenzioni amichevoli e non vogliono battersi. Allorché due giovani cani, giocando, borbottano e si mordono il muso e le gambe, la è cosa evidente ch'essi comprendono reciprocamente i loro gesti e il loro modo d'agire. egli pare che nei piccoli cani e nei piccoli gatti v'abbia una specie di nozione istintiva che, mentre giocano, non devono usare senza precauzione i loro piccoli denti o gli artigli, benché ciò accada talvolta e provochi un grido; che se non fosse così, certo si farebbero spesso male agli occhi. Allorché il mio cane terriero mi morde la mano per gioco, se stringe di troppo ed io dico: piano, piano, egli non smette di mordere, ma mi risponde con certi guizzi di coda che sembrano dire: «Non vi badate, lo faccio per gioco». I cani dunque esprimono o possono avere il desiderio di esprimere ad altri cani ed all'uomo che nutrono disposizioni amichevoli; né si può credere ch'essi abbiano mai potuto pensare deliberatamente a gettar indietro le orecchie, in luogo di tenerle diritte, ad abbassare ed agitare la coda, invece di mantenerla rizzata in aria, ecc., con la conoscenza che questi movimenti erano in diretta opposizione con quelli che al contrario si producano sotto l'influenza di un umore ostile.

Allo stesso modo, quando un gatto, o piuttosto uno dei più antichi progenitori della specie, sotto l'impero di sentimenti affettuosi, ha per la prima volta curvato un po' il dorso, levata perpendicolarmente in aria la coda e rizzate le orecchie, si può credere forse che l'animale abbia avuto il desiderio ragionato di mostrare così un umore direttamente inverso a quello che, quando si dispone a combattere od a slanciarsi sopra la preda, gli dà un'attitudine strisciante, una coda ripiegata e che s'agita dall'un lato a quell'altro, ed orecchie tese all'indietro? Ed ancor meno io posso credere che il mio cane prendesse volontariamente quella posa abbattuta e quell'aria da serra, che faceva sì completo contrasto con la sua primitiva attitudine e coll'andatura tutta ripiena di gioia. Si potrebbe forse supporre ch'egli sapesse di farmi comprendere la propria espressione, di potermi così intenerire, d'indurmi a rinunciare alla visita della serra?

Dunque, per lo sviluppo dei movimenti di quest'ordine, bisogna che un altro principio, distinto dall'influenza della volontà e della coscienza, sia intervenuto. Questo principio sembra essere il seguente: ogni movimento da noi volontariamente compiuto nel corso della nostra esistenza ha chiesto l'azione di certi muscoli; e quando abbiamo fatto un movimento assolutamente contrario, un gruppo opposto di muscoli fu messo abitualmente in gioco, - come negli atti di girare a destra o a sinistra, di respingere un oggetto o di avvicinarlo, di sollevare o di abbassare un peso. Sì forte è il legame che riunisce le nostre intenzioni e i nostri movimenti, che se desideriamo che un oggetto si muova in una direzione, non sappiamo astenerci dal piegare il corpo in quel senso, per quanto possiamo esser convinti dell'inefficacia dell'atto. Una buona dimostrazione di ciò venne già data nella introduzione, ove sono indicati i movimenti grotteschi di un giocatore di bigliardo novizio e appassionato, mentre accompagna col guardo il cammino percorso dalla palla. Quando un uomo od un fanciullo incolleriti gridano a taluno: «Andatevene!», il più delle volte tendono il braccio, come a respingerlo, benché l'avversario possa esser lontano, e riesca completamente inutile indicare col gesto ciò che vogliono dire. D'altra parte, allorché desideriamo che una persona ci si faccia vicina vicina, noi la chiamiamo col gesto; ed è così in un numero infinito di casi.

Il compimento di ordinari movimenti di opposta natura sotto l'impero di contrari impulsi della volontà, divenne abituale in noi e negli animali; ne risulta che quando azioni di qualunque specie siano state strettamente associate con una sensazione od una emozione, sembra naturale che atti di natura del tutto contraria, benché assolutamente inutili, siano automaticamente compiuti in seguito dell'abitudine e dell'associazione, sotto l'influenza di una sensazione o di una emozione direttamente inversa. Questo principio mi permette solo di concepire come abbiano avuto loro vita i gesti e le espressioni compresi sotto questo capitolo della antitesi. Certamente, se tornano di qualche utilità all'uomo o ad alcun altro animale, per supplire le grida inarticolate o il linguaggio, saranno anche volontariamente impiegati, e l'abitudine in tal modo prenderà forza. Ma, siano essi utili o no come mezzi di comunicare, per renderli ereditari dopo un lungo uso, basterebbe, se possiamo ragionare per analogia, la tendenza a compiere opposti movimenti sotto l'influenza di sensazioni o di emozioni inverse; né si saprebbe mettere in dubbio che molti movimenti espressivi dovuti al principio dell'antitesi non siano ereditari.


CAPITOLO III. PRINCIPI GENERALI DELL'ESPRESSIONE (fine).

Terzo principio: Azione diretta sulla economia dell'eccitazione del sistema nervoso, indipendentemente dalla volontà e, in parte, dall'abitudine. - Cambiamento di colore dei peli. - Tremito dei muscoli. - Modificazione delle secrezioni. - Sudore. - Espressione d'un vivo dolore, del furore, della gioia, dello spavento. - Differenza tra le espressioni che producono o no movimenti espressivi. - Stati dell'animo che eccitano o deprimono. - Riassunto.

Siamo al nostro terzo principio: taluni atti che riconosciamo siccome espressivi di tali o tali altre condizioni dell'animo, risultano direttamente dalla costituzione medesima del sistema nervoso, e, sul principio, furono indipendenti dalla volontà ed in gran parte anche dall'abitudine. Quando il sensorio è vivamente eccitato, la forza nervosa, generata in eccesso, si trasmette in direzioni dipendenti dalle connessioni delle cellule nervose, e, se si tratta del sistema muscolare, dalla natura dei movimenti che sono abituali. In altri casi, l'affluenza della forza nervosa sembra all'incontro interrompersi. Senza dubbio l'organismo non esegue alcun movimento che non sia determinato dalla costituzione del sistema nervoso, ma qui non si tratta di atti compiuti sotto l'impero della volontà o dell'abitudine, né di quelli provenienti dal principio dell'antitesi. L'argomento che noi discutiamo è pieno di oscurità; tuttavia, vista la sua importanza, egli dev'essere trattato con qualche estensione; d'altra parte non torna inutile mai di farsi una giusta idea della propria ignoranza.

Il caso più meraviglioso che si possa citare di questa diretta influenza del sistema nervoso - caso d'altro canto raro ed anormale - è lo scoloramento dei capelli che capita di osservare qualche volta in seguito ad un grande spavento o ad un dolore eccessivo. Venne riferito un esempio autentico, relativo ad un uomo che si menava al supplizio, nell'India, e nel quale il mutamento di colore si operò con tale rapidità, che l'occhio poteva seguirne il progresso (46).

Un altro buon esempio è il tremito muscolare, comune all'uomo ed a molti animali, se non al numero maggiore. Questo tremito non è di alcuna utilità, spesso anche riesce molto nocivo; per certo, egli non dovette prodursi volontariamente dapprima sotto l'impero di una emozione qualunque, per associarsi quindi per influenza dell'abitudine. In circostanze che avrebbero provocato nell'adulto un tremito eccessivo, in seguito ad una testimonianza degna di tutta fede, il bambino non trema più, ma cade in convulsioni. Il tremore si produce in individui diversi, in grado assai differente, e per le cause più varie: il raffreddamento, il principio degli accessi febbrili, malgrado l'elevazione della temperatura del corpo sopra il grado normale; l'avvelenamento del sangue; il delirium tremens e certe altre malattie; l'affievolimento generale nella vecchiaia; lo spossamento dopo un'eccessiva fatica; le gravi affezioni locali, siccome le scottature; infine, in maniera veramente particolare, l'introduzione di una siringa. Nessuno ignora che fra tutte le emozioni, più adatta a provocare il tremito è lo spavento; tuttavia una violenta collera, una viva gioia producono talvolta il medesimo effetto. Mi rammento di aver visto un giorno un giovinetto che aveva appena uccisa la sua prima beccaccia; il piacere faceva tremar le sue mani così, ch'egli dovette aspettare un momento prima di ricaricare il fucile. Ho inteso riferire un fatto perfettamente simile, relativo ad un selvaggio Australiano, cui s'era prestato un fucile. In alcune persone la musica, colle vaghe emozioni che suscita, fa correre un fremito per il corpo. In mezzo a cause fisiche o ad emozioni di natura tanto dissimile, come trovare un carattere comune, che possa render conto di questo effetto comune, il tremore? Secondo sir J. Paget, al quale io devo molte delle precedenti osservazioni, questa è una fra le più oscure questioni. Dal momento che il tremito accompagna ora la gioia, ora il furore lungo tempo avanti il periodo della loro fine, sembrerebbe che ogni energica eccitazione del sistema nervoso dovesse interrompere il regolare afflusso della forza nervosa al sistema muscolare (47).

Il modo con cui le secrezioni del canale alimentare e di certe ghiandole — fegato, reni, mammelle — vengono impressionate da violente emozioni, è pure un buonissimo esempio dell'azione diretta del sensorio sopra questi organi, senza qualunque intervento della volontà o di qualche abitudine utile associata. Quanto alla scelta degli organi che sono così impressionati, ed al grado della impressione ricevuta, esistono, nei diversi individui, le più spiccate differenze.

Il cuore, i battiti del quale si succedono senza interruzione giorno e notte con una regolarità sì meravigliosa, è estremamente sensibile alle eccitazioni esterne. Claudio Bernard, sommo fisiologo, ha fatto vedere (48) sino a qual punto questo organo risenta il contraccolpo della più debole eccitazione portata sopra un nervo sensitivo, d'un tocco tanto leggero che certo non ebbe a risultarne alcun dolore. Era fin d'allora cosa naturale che una violenta eccitazione dell'animo dovesse agire istantaneamente e direttamente su lui; gli è ciò infatti che ciascuno conosce per propria esperienza. Un altro fatto che devo richiamare e sul quale Claudio Bernard ebbe ad insistere a più riprese, si è che, quando il cuore viene impressionato, reagisce sul cervello; lo stato del cervello reagisce alla sua volta sul cuore coll'intermezzo del nervo pneumogastrico; in modo che, sotto l'influenza di una eccitazione qualunque, si producono molteplici azioni e reazioni reciproche fra questi due organi, i più importanti della economia.

Il sistema vaso-motore, che regola il calibro delle piccole arterie, subisce pure la diretta influenza del sensorio, come il rossore della vergogna lo prova; tuttavia in questo caso particolare noi potremo, io credo, trovare in parte nell'azione dell'abitudine, una curiosa spiegazione di questa brusca soppressione dell'influsso nervoso, che dilata i vasi della faccia. E penso che ci sarà possibile anche di gettare un po' di luce, benché meschina, sul raddrizzamento involontario dei peli che accompagna le emozioni della rabbia e dello spavento. La secrezione delle lacrime è pure un fenomeno che dipende certamente dalle connessioni di certe cellule nervose; ma, per questo come per i precedenti, saremo ben presto arrestati, quando vorremo cercare quali possano essere le vie che l'abitudine fa percorrere all'influsso nervoso, sotto l'influenza di determinate emozioni.

Un rapido esame dei segni esteriori di alcune fra le più vive sensazioni ed emozioni, ci mostrerà assai meglio, benché ancora imperfettamente, il modo complesso con cui si combinano questi due principii: quello dell'azione diretta sull'economia dell'eccitamento del sistema nervoso, attualmente in questione, e quello dell'associazione dei movimenti utili dovuta all'abitudine.

Allorché un animale è tormentato dal dolore, d'ordinario si contorce spaventevolmente; che se ha l'abitudine di usar della voce, manda grida penetranti o sordi gemiti. Quasi tutti i muscoli del corpo entrano vigorosamente in azione. Nell'uomo la bocca talvolta si contrae fortemente; più di spesso le labbra s'increspano, i denti si serrano o battono con strepito gli uni contro gli altri. Si dice che all'inferno v'hanno stridori di denti. In una vacca malata d'una dolorosissima infiammazione intestinale, io ho perfettamente sentito questo battito dei denti molari. La femmina dell'ippopotamo, osservata al Giardino zoologico, soffre assai quando si sgrava; cammina incerta, od anche si rotola sui fianchi, aprendo e chiudendo le mascelle e facendo stridere rumorosamente i denti (49). Nell'uomo, ora si vedono spalancarsi gli occhi, come nello stupore, ora contrarsi vivamente le sopracciglia; il corpo è molle di sudore, la faccia gronda; la circolazione e la respirazione sono profondamente modificate; anche le narici sono dilatate e spesso frementi; altra fiata il respiro s'arresta al punto da produrre nei vasi facciali una stasi sanguigna che rende il viso purpureo. Quando il dolore è molto vivo e prolungato, tutti questi sintomi si trasformano: succede una estrema prostrazione, accompagnata da debolezza e da convulsioni.

Allorché un nervo sensitivo subisce una eccitazione, esso trasmette un'impressione alla cellula nervosa donde procede; questa la trasmette alla sua volta prima alla cellula corrispondente del lato opposto, e quindi ad altre cellule collocate lungo l'asse cerebro-spinale, sopra e sotto di essa, per una estensione più o meno notevole, secondo il grado della eccitazione; in modo che alla fine tutto il sistema nervoso può essere impressionato (50). Questa involontaria trasmissione della forza nervosa può essere o no avvertita dalla coscienza. Perché l'irritazione di una cellula nervosa genera o mette in libertà della forza nervosa? Non possiamo rispondere a questa questione; ma se ci resta ignota la causa, la realtà del fatto non par meno ammessa da tutti i più grandi fisiologi, Müller Virchow, Bernard (51), ecc. Dopo l'osservazione di Herbert Spencer, si può considerare come «una verità indiscutibile che, in un momento qualunque, la quantità della forza nervosa libera che produce in noi, per un misterioso meccanismo, lo stato che si chiama sensazione, deve forzatamente dispensarsi in una certa maniera, deve generare in qualche parte un'equivalente manifestazione di forza»; così che, quando sotto l'influenza d'una violenta eccitazione del sistema cerebro-spinale un eccesso di forza nervosa vien messo in libertà, esso può consumarsi in intense sensazioni, in rapidi pensieri, in disordinati movimenti, infine in un aumento di attività ghiandolare (52). Lo Spencer sostiene inoltre che «un afflusso di forza nervosa, che nessun motivo diriga, seguirà evidentemente prima le vie più abituali; se queste non bastassero, passerà nelle meno usitate»; per conseguenza i muscoli facciali ed i respiratorii, che sono quelli più frequentemente in funzione, saranno subito disposti ad entrare immediatamente in azione, verranno quindi i muscoli degli arti superiori, poi degli arti inferiori, finalmente i muscoli di tutto il corpo (53).

Allorquando un'emozione non venne abitualmente accompagnata da un atto volontario che ha per oggetto il sollievo o la soddisfazione corrispondenti alla sua natura, essa non ha che poca tendenza, per quanto forte possa riuscire, a provocar movimenti di un ordine qualunque; quando invece si producono dei movimenti, la loro natura è largamente determinata da quelli cui la volontà ha frequentemente diretto, con un determinato fine, sotto l'influenza dell'emozione in discorso. Un acuto dolore spinge l'animale, siccome fa da innumerevoli generazioni, ad eseguire gli sforzi più violenti e più variati per sfuggire alla causa che lo produce. Allorché una ferita aggrava una estremità, od un'altra parte isolata del corpo, si constata di spesso nell'animale una disposizione a scuotere questa parte, quasi egli potesse contemporaneamente scuotere il male e sbarazzarsene. Gli è così che dovette stabilirsi l'abitudine di mettere energicamente in gioco tutti i muscoli, sotto l'influenza di un vivo dolore. I muscoli del petto e gli organi della voce, tanto di frequente impiegati, sono eminentemente suscettibili di entrare allora in azione, e ne risultano grida acute, rauche, prolungate. Tuttavia il fine utile che raggiungono queste grida medesime ha dovuto probabilmente aver anche una funzione importante; vediamo infatti i piccoli di molti animali, nel dolore o nel pericolo, chiamare fragorosamente i genitori al soccorso; ed altrettanto fanno i diversi membri di una stessa società.

Si dà ancora un principio che ebbe a contribuire per parte sua, benché in minor grado, a fortificare questa tendenza ad un'azione violenta sotto l'influenza di un dolore eccessivo; intendo parlare della intima coscienza posseduta dall'animale che il potere, ossia la capacità del sistema nervoso ha dei limiti. Un uomo non può nello stesso tempo profondamente riflettere e mettere vigorosamente in azione la propria forza muscolare. Quando due dolori si fanno sentir simultanei, in seguito ad un'osservazione che rimonta ad Ippocrate, il più vivo rintuzza quell'altro. Nei rapimenti delle loro estasi religiose, alcuni martiri parvero restar insensibili alle più orrende torture. Si vedono talvolta dei marinai condannati alla frusta afferrare un frammento di piombo fra i denti e morderlo con tutta la forza, per sopportare più facilmente fa pena. La donna partoriente arreca qualche sollievo ai propri dolori contraendo i muscoli con tutta l'energia di cui è capace.

Così, riepilogando: la fluttuante irradiazione della forza nervosa dalle cellule che han ricevuta la prima impressione, - la lunga abitudine d'una lotta penosamente sostenuta per sfuggire alla causa del dolore, - e finalmente la coscienza che l'azione muscolare in se stessa è un sollievo, - questi tre elementi probabilmente concorsero, come abbiamo ora veduto, a produrre questa tendenza ai movimenti violenti, quasi convulsivi, provocati da un eccessivo dolore fin negli organi della voce e che ne sono (è universale il consenso) la più perfetta manifestazione espressiva.

Giacchè una leggera provocazione d'un nervo sensitivo reagisce direttamente sul cuore, un vivo dolore dee evidentemente reagire anche su lui, nella stessa maniera, ma con molto più d'energia. nondimeno, in questo caso, non dobbiamo dimenticare gli effetti indiretti dell'abitudine sopra quest'organo, siccome vedremo studiando i segni del furore.

Allorché un uomo è tormentato dal dolore, il sudore gronda di spesso sopra il viso di lui. Un veterinario mi assicurò di aver visto sovente, in simile caso, nei cavalli, delle gocce colare dal ventre sulla superficie interna delle cosce, e nei buoi il corpo tutto inondarsi di sudore. Egli osservò questo fatto quando alcuno sforzo dell'animale non poteva fornirne la spiegazione. Il corpo intero dell'ippopotamo femmina, onde prima parlai, era coperto d'una rossastra traspirazione, durante il parto dell'animale. Lo stesso fenomeno avviene nell'estremo spavento; il citato veterinario l'ebbe frequentemente a constatare sopra cavalli; Bartlett l'osservò nel rinoceronte; nell'uomo gli è un segno universalmente noto. La causa della produzione del sudore in tali circostanze è molto oscura; tuttavia qualche fisiologo pensa ch'essa si leghi ad un indebolimento della circolazione capillare; or noi sappiamo che il sistema vaso-motore, il quale regge questa circolazione, dipende immediatamente dallo spirito. Quanto ai moti di alcuni muscoli della faccia, sotto l'impero del dolore e di diverse altre emozioni, il loro studio verrà naturalmente allorquando ci occuperemo delle speciali espressioni dell'uomo e degli animali.

Passiamo adesso ai sintomi caratteristici del furore. Sotto l'influenza di questa potente emozione, i battiti del cuore s'accelerano d'assai (54) o si turbano notevolmente. La faccia vien rossa, purpurea, in seguito all'arresto della circolazione centripeta; talvolta al contrario si fa d'un pallore cadaverico. La respirazione è affannosa, il petto si solleva; le narici fremendo si dilatano. Spesso trema tutto il corpo. La voce si altera; i denti si serrano o battono gli uni contro gli altri, ed il sistema muscolare è in generale eccitato a qualche atto violento, quasi frenetico. Ma i gesti dell'uomo ch'è in questo stato differiscono ordinariamente dalle contorsioni disordinate e senza scopo di chi è tormentato dal dolore; infatti essi rappresentano in maniera più o meno completa l'atto di battere o di lottare contro un nemico.

Tutti questi sintomi del furore sono probabilmente dovuti in gran parte all'azione diretta del sensorio eccitato; taluni sembrano anche dipendere in modo esclusivo da quest'ultima causa. Tuttavia gli animali di ogni specie, e prima d'essi i loro progenitori, risposero alle minacce o all'attacco del nemico impiegando ogni loro energia per combattere e difendersi. Se un animale non si mette così in stato di piombar sul nemico, se non ne ha l'intenzione, o per lo meno il desiderio, non può dirsi, in verità, che sia furioso. Gli è così che un'abitudine ereditaria di sforzo muscolare ha dovuto associarsi al furore, e quest'abitudine implica direttamente od indirettamente parecchi organi, quasi nella stessa maniera con cui agisce un gran dolore fisico.

Il cuore è senza alcun dubbio impressionato in modo diretto; ma, secondo ogni probabilità, lo è così per effetto dell'abitudine, tanto più che non è giammai sottomesso al controllo della volontà. Ogni violento esercizio, volontariamente eseguito, impressiona, come sappiamo, quest'organo per mezzo di un complesso meccanismo onde non abbiamo qui ad occuparci; d'altra parte vedemmo nel capitolo primo che la forza nervosa si propaga facilmente per le vie che le sono più abituali, vale a dire per i nervi motori volontari od involontari e per i nervi sensitivi. Così un esercizio anche moderato tenderà ad agire sul cuore, e, in virtù del principio dell'associazione onde abbiamo dato tanti esempi, potremo ritenere quasi sicuro che ogni sensazione od emozione, valgano il dolore od il furore, la quale abitualmente ha provocato atti muscolari, dovrà immediatamente influenzare l'afflusso della forza nervosa verso del cuore, anche allorquando gli sforzi muscolari non sono necessari.

Il cuore, l'ho detto, sarà tanto più facilmente impressionato dalle associazioni abituali, poiché non è sottomesso al controllo della volontà. L'uomo, moderatamente irritato od anche furioso, può comandare ai movimenti del proprio corpo, ma non impedire i rapidi battiti del cuore. Forse il petto si solleverà assai poco, le narici tremeranno a pena, perché i movimenti della respirazione non sono volontari che in parte. Parimenti, i muscoli facciali, che obbediscono meno alla volontà manifesteranno solo qualche volta una leggera e momentanea emozione. Le ghiandole sono ancora affatto indipendenti dalla volontà, e l'uomo che soffre può comandare a' suoi atti, ma non può sempre impedire alle lacrime di riempirgli gli occhi. Un uomo affamato, davanti ad un cibo appetitoso, non paleserà forse la fame con alcun gesto, ma non saprà trattenere la secrezione della saliva.

In un trasporto di gioia o di vivo piacere, si manifesta una spiccatissima tendenza a diversi movimenti inutili ed alla emissione di suoni variali. Gli è ciò che osserviamo nei fanciulli, quando ridono fragorosamente, battendo le mani e saltellando di gioia; gli è ciò che osserviamo negli scodinzolii e negli abbaiamenti di un cane che il padrone sta per condurre al passeggio; nello impaziente scalpitar d'un cavallo che si vede aperto dinanzi lungo tratto per correre. La gioia accelera la circolazione, che stimola il cervello, e questo alla sua volta reagisce sull'economia intera. Tali movimenti senza scopo e questa esagerata attività del cuore devono essere precipuamente attribuiti all'eccitazione del sensorio (55), e, secondo l'osservazione di Herbert Spencer, all'afflusso eccessivo e non diretto di forza nervosa che ne risulta. è degno di nota che questi strani ed inutili movimenti e questi suoni diversi sono provocati dal pregustare il piacere, non dal piacere medesimo. è quel che osserviamo nei nostri fanciulli, quando aspettano qualche gran gioia o qualche festa; così un cane che faccia dei lieti salti alla vista d'un piatto pieno di cibo, quando il possiede, non manifesta più la sua soddisfazione, con alcun segno, nemmeno dimenando la coda. Negli animali di ogni specie, quasi tutti i piaceri, salvo il calore ed il riposo, sono associati a dei movimenti, e lo furono da lungo tempo, come si vede in una caccia o nella ricerca di una preda, o nei loro amori. Ben più, il semplice esercizio dei muscoli, dopo un prolungato riposo od una lunga reclusione, produce da se stesso un piacere, come sappiamo per nostra propria esperienza e come si constata nei giovani animali, allorché si trastullano. In virtù di quest'ultimo principio soltanto, si poteva forse aspettarsi che un vivo piacere potesse manifestarsi col mezzo di movimenti muscolari.

In tutti, o quasi tutti gli animali, negli uccelli medesimi, il terrore fa tremare il corpo. Impallidisce la pelle, gronda il sudore ed il pelo si rizza. Le secrezioni del canale alimentare e dei reni sono aumentate, e, in seguito al rilassamento dei muscoli sfinteri, involontariamente espulse; gli è questo un fatto ben noto nell'uomo, e di cui ho visti esempi nel bue, nel cane, nel gatto e nella scimmia. La respirazione si accelera. Il cuore batte presto, tumultuoso e con violenza. Ma si può dubitare se esso perciò invii il sangue più efficacemente in tutto il corpo, perché la superficie di questo sembra esangue ed il vigore muscolare fa difetto ben presto. In un cavallo spaventato, ho sentito traverso la sella i battiti del cuore così distinti da poterli contare. Le facoltà intellettuali sono profondamente turbate. Ben presto sopraggiunge una gran prostrazione che va fino al deliquio. S'è visto un canarino atterrito, non solo tremare e venir bianco attorno la base del becco, ma addirittura svenire (56), ed un giorno io trovai in una stanza un pettirosso, il quale tramortì in maniera ch'io per un momento lo credetti morto.

La maggior parte di questi sintomi sono probabilmente il risultato diretto dell'alterazione portata nello stato del sensorio, indipendentemente da ogni influenza dell'abitudine; tuttavia è incerto se basti questa spiegazione a renderne conto. Quando un animale è allarmato, resta quasi sempre un momento immobile, per radunare le sue sensazioni, riconoscere la sorgente del pericolo, e qualche volta ancora per evitare di venire scoperto. Ma ben tosto si mette a fuggir precipitoso, senza cercare di risparmiar le sue forze per una lotta; continua così a correre fino a che dura il pericolo, fino a che viene trattenuto da una completa prostrazione, con arresto del circolo e della respirazione, con un tremito generale di tutti i muscoli e un abbondante sudore. Questo fatto sembra autorizzarci a credere che il principio dell'associazione abituale può spiegare in parte o almeno accrescere alcuni dei sintomi caratteristici del terrore indicati qui sopra.

La funzione importante che dovette svolgere il principio dell'associazione abituale nel conseguimento dei movimenti espressivi delle diverse emozioni o sensazioni violente or passate in rivista, mi sembra ben dimostrato da due ordini distinti di considerazioni: prima quella delle vive emozioni in cui la natura d'ordinario non sollecita alcun movimento volontario per procurare il sollievo o la soddisfazione che loro corrispondono; in secondo luogo quell'altra del contrasto essenziale ch'esiste tra gli stati dell'animo distinti coi termini generali di stati eccitanti e di stati deprimenti. Qual c’è più potente emozione dell'amore materno? E tuttavia questa profonda tenerezza di cui una madre attornia il suo debole figlio può non palesarsi con alcun segno esteriore, o solo con leggere carezze, accompagnate da un dolce sorriso o da un tenero sguardo. Ma che si faccia volontariamente del male al bambino, e vedrete qual cambiamento nella madre! Ella si rizza minacciosa, le brillano gli occhi, si colora nel volto, il suo seno si solleva, le narici si dilatano, le palpita il cuore. Queste sono manifestazioni non dell'amore materno, ma della collera, che ne è infatti la vera causa provocatrice. L'amore reciproco dei due sessi non rassomiglia per nulla all'amore materno. Noi lo sappiamo: quando due amanti si vedono, il loro cuore batte rapidi colpi, la respirazione si accelera, il viso arrossisce; è un fatto che quest'amore non è inattivo come quel della madre per il suo figlio.

Un uomo può essere divorato da sospetti o da odio, da invidia o da gelosia, senza che questi sentimenti provochino atto alcuno, senza che si rivelino per alcun segno esteriore, benché la loro durata sia in generale più o men prolungata; tutto quello che si può dire si è che quest'uomo non par certamente gaio, né d'umore giocondo. Se avvenga che tali sentimenti diano luogo a segni esterni, gli è che vennero rimpiazzati dal furore, il quale si palesa fin d'allora coi suoi soliti mezzi di espressione. La pittura non rappresenta che difficilmente il sospetto, la gelosia, l'invidia, ecc., a meno che non si ricorra a degli accessori i quali giovino a far comprendere la situazione. Per caratterizzare questi stessi principii, la poesia non sa trovare che qualificazioni vaghe e fantastiche. Gli è così che si dice: «La gelosia dagli occhi fulvi». Spencer, descrivendo il sospetto, vi applica gli epiteti seguenti: «Nero, spaventevole, raggrinzato, dal guardo fosco ed obliquo, ecc.». Shakespeare, parlando dell'invidia, dice: «L'invidia dal viso scarno sotto la sua orrida maschera», e in un altro punto: «Nessuna nera invidia mi porterà alla tomba», ed altrove ancora: «Fuori del cerchio minaccioso della pallida invidia».

Si distinsero spesso le emozioni e le sensazioni in due categorie: quelle che eccitano, quelle che deprimono. Quando tutte le funzioni del corpo e dell'animo, - movimento volontario ed involontario, percezione, sensazione, pensiero, ecc. - si compiono con una energia ed una rapidità maggiore che non allo stato normale, si può dire dell'uomo o dell'animale ch'egli è eccitato; nel caso contrario, ch'egli è depresso. Fra le emozioni eccitanti, stanno in prima linea la collera e la gioia; esse provocano naturalmente, soprattutto la prima, energici movimenti che reagiscono sul cuore, e, per mezzo di questo, sopra il cervello. Un giorno un medico mi fece osservare, come prova della natura eccitante della collera, che talvolta si vede un uomo estenuato dalla fatica irritarsi di offese immaginarie, col fine non conosciuto di rianimare le sue forze; ed io ebbi poi l'occasione di verificare la perfetta esattezza di questa osservazione.

Molti altri stati dell'animo, che sembrano sul principio eccitanti, divengono ben tosto deprimenti al massimo grado. Osservate una madre, cui è appena morto improvvisamente il figlio; si può di certo considerarla come in uno stato di eccitazione; osservatela; pazza di dolore, correre a caso, strapparsi i capelli, stracciarsi le vesti, torcer le mani. Quest'ultimo atto deriva forse dal principio dell'antitesi, manifestando un intimo sentimento della sua impotenza e della inanità d'ogni sforzo. Quanto agli altri gesti disordinati, possono trovare spiegazione, parte nel sollievo cui procura l'azione muscolare in se stessa, parte nella influenza della forza nervosa in eccesso e senza direzione, emanata dal sensorio sovreccitato. E’ noto che uno fra i primi pensieri che assai comunemente si presentano al nostro spirito, in faccia alla perdita impreveduta d'un essere che ci era caro, è questo: si poteva fare qualche cosa di più per salvarlo. Uno dei nostri romanzieri, osservatore eccellente (57), descrivendo la condotta di una fanciulla, orba appena del padre improvvisamente mancatole, così si esprime: «Ella correva per la stanza come una pazza, torcendosi le mani ed accusando se stessa: Sì, la è colpa mia; perché l'ho io mai abbandonato? Se almeno l'avessi assistito!...» Sotto l'impero di tali pensieri, fortemente impressi nell'animo, deve prodursi, in virtù del principio del l'associazione abituale, una spiccatissima tendenza ad un'energica azione di natura qualunque.

Ma non appena nell'anima desolata s'è fatta l'intima convinzione che non v'era ripiego alcuno, questo dolore frenetico dà luogo alla disperazione o ad una cupa tristezza. Allora si siede, immobili, o con una leggera oscillazione; si rallenta il circolo, la respirazione è quasi insensibile, ed il petto manda profondi sospiri. Questo novello stato reagisce sul cervello, e ben presto giunge la prostrazione: i muscoli sono rilassati, le palpebre si fanno pesanti. L'associazione abituale non provoca più alcun atto. Gli è allora che intervengono i nostri amici e ci eccitano a compiere qualche volontario esercizio, in luogo di assopirci in un dolore muto ed immobile. Questo esercizio stimola il cuore, che reagisce sopra il cervello, ed aiuta l'animo a sopportare il triste fardello, onde è gravato.

Un vivo dolore apporta tosto una depressione od una estrema prostrazione; peraltro lì sul principio agisce come stimolante ed eccita all'azione; ricorderò a questo riguardo il noto effetto d'una scudisciata sopra un cavallo ed inoltre le orrende torture che in certi paesi stranieri si fanno subire alle bestie da soma spossate, per sforzarle a compiere un nuovo lavoro. Lo spavento è, fra tutte le emozioni, la più depressiva; esso produce rapidamente una completa prostrazione, che si prenderebbe per una conseguenza di prolungati sforzi fatti allo scopo di sfuggire al pericolo, e che infatti può riconoscere questa causa, benché tali sforzi non siano stati eseguiti realmente. Tuttavia un estremo terrore agisce spesso in sul principio come stimolante potente: tutti sanno che l'uomo o l'animale spinto dallo spavento alla disperazione acquista una forza prodigiosa e diviene pericoloso al massimo grado.

Riassumiamo e concludiamo. Nella determinazione d'un gran numero di espressioni, è necessario attribuire una somma influenza al principio d'una azione diretta del sensorio sopra l'economia, azione unicamente dovuta alla costituzione del sistema nervoso, e fin dal principio indipendente dalla volontà. Il tremito dei muscoli, la traspirazione della pelle, le modificazioni delle secrezioni del canale alimentare e delle ghiandole, che si manifestano sotto l'influenza di diverse emozioni o sensazioni, ci fornirono esempi dell'applicazione di questo principio. Tuttavia i fenomeni di quest'ordine si combinano spesso con altri fenomeni derivanti dal primo principio che abbiamo stabilito e che richiamiamo: ogni atto il quale frequentemente fu di una utilità diretta od indiretta in alcune condizioni d'animo, per procurarsi certe sensazioni, soddisfare a certi desiderii, ecc., si compie ancora, in analoghe circostanze, per effetto della sola abitudine, anche quando è diventato inutile. Almeno in parte, noi rinveniamo combinazioni di questo genere nei gesti frenetici che inspira il furore, nelle contorsioni provocate da un'estrema sofferenza, e forse ancora nell'aumentata attività del cuore e degli organi respiratorii. Allora quando queste emozioni o sensazioni, od altro che siano, si producono, anche ad un debolissimo grado, esiste ancora una tendenza a simili atti, dovuta alla forza dell'abitudine per lungo tempo associata, e fra questi atti, i meno soggetti al controllo della volontà sono generalmente i più duraturi. né ci sfugga di mente la parte che in certi casi ha dovuto prendere anche il nostro secondo principio, quello dell'antitesi.

Spero di dimostrare nel seguito di quest'Opera che i tre principii da noi successivamente studiati possono già rendere conto di moltissimi movimenti espressivi; e ci è permesso di credere che un giorno verrà, nel quale tutti gli altri saranno alla loro volta spiegati con questi stessi principii o con altri molto analoghi. Peraltro, e' fa mestieri di confessarlo, è spesso impossibile decidere qual parte spetti, in ogni singolo caso, a tale o tal altro dei nostri principii, e molti punti restano tuttavia inesplicati nella teoria dell'Espressione.


CAPITOLO IV. MEZZI D'ESPRESSIONE NEGLI ANIMALI

Emissione di suoni. - Suoni vocali. - Suoni prodotti da vari meccanismi. - Sollevamento delle appendici cutanee, peli, piume ecc., sotto l'influenza del furore o dello spavento. - Rovesciamento all'indietro delle orecchie, quale disposizione alla lotta o come segno di collera. - Raddrizzamento delle orecchie ed elevazione del capo in segno di attenzione.

I due capitoli che seguono saranno consacrati alla descrizione dei movimenti espressivi che manifestano alcuni noti animali, sotto l'influenza dei diversi stati dell'animo loro; io m'atterrò a quei dettagli che mi parranno strettamente necessari per mettere in chiaro questa parte del mio argomento. E, ad evitare inutili ripetizioni, prima di passare in rivista questi vari animali in un ordine logico, fa mestieri di studiare fin d'ora certi mezzi d'espressione che sono comuni alla maggior parte fra loro.

Emissione di suoni. - In un gran numero di specie animali, e particolarmente nella specie umana, gli organi vocali costituiscono un mezzo d'espressione d'incomparabile valore. Vedemmo in uno dei precedenti capitoli che, quando una intensa eccitazione agisce sopra il sensorio, i muscoli di tutto il corpo vengono energicamente contratti. Allora, per quanto muto sia d'ordinario l'animale, lascia sfuggire grida violente, e ciò anche allora che queste grida non possono riuscirgli di utilità alcuna. Così il lepre e il coniglio non si servono mai, ch'io mi sappia, dei loro organi vocali, se non vi sono spinti dal dolore; il lepre, ad esempio, quando, di già ferito, vien preso dal cacciatore, ed il coniglio allorché cade fra gli artigli del furetto. I cavalli ed i buoi sopportano il dolore in silenzio; tuttavia, se oltrepassa certi limiti e diviene eccessivo, e soprattutto se s'associa al terrore, mandano spaventevoli grida. Nei Pampas, io ho spesso riconosciuto di lontano l'ultimo muggito dei tori agonizzanti presi al laccio ed ai quali si tagliavano i tendini del garretto. Si dice che i cavalli assaliti dai lupi mandino grida d'angoscia facilmente riconoscibili.

E’ possibile che l'emissione dei suoni vocali non sia stata in principio che una involontaria ed inutile conseguenza delle contrazioni dei muscoli toracici e laringei, provocata dal dolore o dalla paura. nondimeno è un fatto che presentemente molti animali fanno uso della voce con scopi ragionati e diversi, ed anche in alcune circostanze nelle quali sembra che l'abitudine abbia la prima parte. Gli animali che vivono in truppe e nei quali la voce costituisce un mezzo di reciproca comunicazione frequentemente impiegato, ne fanno uso in qualunque occasione, più volentieri di quelli che hanno differenti costumi. La precedente osservazione fatta da parecchi naturalisti è, io credo, perfettamente giusta. Nonostante ciò questa regola soffre spiccatissime eccezioni; ad esempio, nei conigli. Anche il principio dell'associazione, tanto fecondo, tanto lato nelle sue conseguenze, dovette senza alcun dubbio esercitare la sua parte di influenza. In virtù di questo principio, la voce, impiegata dapprima siccome un utile soccorso in diverse circostanze che eccitano nell'animale impressioni di piacere, di dolore, di rabbia, ecc. divenne più tardi di uso abituale, tutte le volte che queste stesse sensazioni od emozioni si sono riprodotte, sia ad un grado minore, sia in condizioni interamente diverse.

Presso un gran numero di specie, durante la stagione degli amori, i sessi si chiamano continuamente l'un l'altro; né avviene di rado che il maschio cerchi anche di allettare o di eccitare la femmina. Pertanto sembra essere stato questo il primitivo uso della voce e l'origine del suo sviluppo, siccome ho tentato di dimostrare nella mia Origine dell'Uomo; l'impiego degli organi vocali sarebbe dunque stato sul principio associato al preludio del piacere più vivo che l'individuo sappia sentire. Gli animali che vivono in società si chiamano spesso l'un l'altro allorché son separati, e provano palesemente gran gioia a ritrovarsi insieme; osservate ad esempio un cavallo nel punto in cui lo rendete al compagno ch'egli richiamava nitrendo. La madre non cessa di chiamare i suoi figli che ella ha perduto; così una vacca mugghia lontana dal proprio vitello. Di riscontro i piccoli di molti animali chiamano la madre. Quando un branco di montoni è disperso, si sentono a belare continuamente le pecore per riunire gli agnelli, e si può osservare con qual piacere si ritrovano. Guai a quell'uomo che s'avventuri in mezzo ai piccoli dei quadrupedi selvaggi di grande statura, se questi giungono a sentire un grido d'angoscia della loro progenie! Il furore mette violentemente in azione i muscoli tutti, compresi quei della voce; così si vedono parecchi animali, sotto l'impero di questo sentimento, emettere suoni che si sforzano di rendere forti e rauchi, certo per far tremare di paura il nemico; così fa il leone con i propri ruggiti, il cane con i suoi urli, ecc. Nel tempo stesso il leone raddrizza la criniera, il cane rabbuffa il pelo del dorso; per tal modo si gonfiano ed assumono l'apparenza più formidabile che per loro si possa. I maschi rivali si sfidano, si provocano con la voce e s'impegnano ancora in lotte sanguinose, talvolta mortali. Gli è a questo modo che l'uso della voce dovette associarsi all'emozione della collera e divenire un modo generale di espressione di questo sentimento, sia qualunque la causa che possa eccitarlo. D'altra parte, abbiamo già veduto che un vivo dolore provoca pure grida violente, le quali da se stesse arrecano una specie di sollievo; è così che l'uso della voce dovette associarsi anche al dolore, di qualunque natura questo essere possa.

Perché le varie emozioni e sensazioni provocano l'emissione di suoni estremamente diversi? Rispondere a tale questione è assai difficile. Questa regola d'altra parte è lungi dall'esser costante; nel cane, ad esempio, l'abbaiamento della collera e quel della gioia differiscono assai poco, benché sia possibile distinguere l'uno dall'altro. Probabilmente non si darà mai una spiegazione completa alla causa o all'origine di ciascun suono particolare ad ogni stato dell'animo. Certi animali, come sappiamo, passando allo stato di domesticità, hanno assunta l'abitudine di emettere alcuni suoni, che non erano loro naturali (58). Così pure i cani domestici, e talvolta ancora gli sciacalli addomesticati hanno appreso ad abbaiare; in fatti l'abbaiamento non esiste in alcuna specie del genere, se non c’è, come dicesi, nel Canis latrans dell'America settentrionale. Si videro anche certe razze di colombi imparare a tubare in una maniera nuova e del tutto particolare.

Nella sua interessante opera sopra la musica, Herbert Spencer (59) studiò i caratteri che assume la voce umana sotto l'influenza delle varie emozioni. Egli ha chiaramente dimostrato che la voce si modifica assai, secondo le circostanze, sotto i diversi rapporti della forza e della qualità, vale a dire dell'intensità e del timbro, come anche dell'altezza e della estensione. Ascoltate un oratore od un predicatore eloquente, ascoltate un uomo che parla con collera o che esprime una viva sorpresa, e voi sarete certamente colpiti dalla verità dell'osservazione di Spencer. è curioso a vedere come l'intonazione della voce divenga espressiva fino dall'infanzia. In un mio figlio, quando non aveva ancor compiuti i due anni, io sapeva distinguere nettamente l'affermativa sfumatura con la quale egli rendeva enfatico l'assenso, dalla specie di pianto ch'esprimeva un ostinato rifiuto. H. Spencer dimostrò inoltre, che il linguaggio appassionato ha intimi rapporti, sotto tutti i punti di vista da me ora indicati, con la musica vocale, e per conseguenza con la musica strumentale; e si sforzò di spiegare le qualità rispettive che le caratterizzano con ragioni fisiologiche, cioè «con questa legge generale che ogni sentimento è uno stimolo imitatore di un'azione muscolare». Si può ammettere di certo che la voce obbedisca a questa legge; nondimeno codesta spiegazione mi sembra troppo generale e troppo vaga per poter gettare molta luce sulle differenze esistenti tra il linguaggio ordinario ed l’appassionato od il canto; essa non spiega che la forza maggiore di quest'ultimo.

La precedente osservazione rimane vera, qualunque sia l'opinione che si vuol adottare; tanto che le diverse qualità della voce abbiano avuta l'origine parlando sotto l'eccitazione di violenti sentimenti e si siano ulteriormente trasmesse alla musica vocale; quanto (com'è mio parere) che sul principio abbia preso sviluppo l'abitudine di emettere suoni musicali, come mezzo di seduzione, negli antichi progenitori dell'uomo, e si sia associato così alle più energiche emozioni che risentire si possano, cioè all'amore, alla rivalità, alla vittoria. è un fatto ben conosciuto che alcuni animali emettono suoni musicali: il canto degli uccelli è un esempio comune e familiare. Cosa più rimarchevole: una scimmia, un gibbone, cantò un'ottava completa di note musicali, montando e scendendo la scala per mezzi tuoni; così può dirsi di lui che «solo fra tutti gli animali mammiferi, egli canta» (60). Questo fatto e l'analogia m'indussero a credere che gli antenati dell'uomo abbiano cominciato ad emettere suoni musicali, prima d'acquistare la facoltà di articolare il linguaggio, donde concludo che, allorquando la voce umana vien messa in gioco da qualche violenta emozione, essa, in virtù del principio dell'associazione, dee tendere a rivestire un carattere musicale. Negli animali, si può perfettamente comprendere che i maschi usino la voce per piacere alle femmine e che trovino pur essi diletto nei loro esercizi di musica; ma, sino al presente, è impossibile spiegare perché producano certi suoni determinati, e donde venga la soddisfazione che ne ritraggono.

Né vi èi dubbio che l'altezza della voce stia in rapporto con certi stati dell'animo. Una persona che si lamenta pian piano d'un cattivo trattamento o d'una leggera indisposizione, parla quasi sempre con un tuono elevato. Quando un cane è un po' impaziente, manda spesso per le narici una specie di sibilo acuto, che colpisce immediatamente come fosse lamento (61); ma quanto riesce difficile sapere se questo suono è in vero essenzialmente gemebondo, o se solo par tale a noi, perché l'esperienza ci indusse ad apprenderne il significato! Rengger constatò (62) che le scimmie (Cebus Azarae) da lui possedute al Paraguay esprimevano: lo stupore con uno strepito che stava tra il fischio ed il grugnito; la collera o l'impazienza ripetendo il loro hou-hou sopra un tono più basso, simile al grugnire; infine la paura o il dolore per mezzo di penetranti grida. D'altra parte, nella specie umana, l'angoscia del dolore è pur espressa da sordi gemiti e da acute grida. Il riso è ora alto, ora basso; così, secondo un'antica osservazione dovuta ad Haller (63), nell'uomo adulto, il suono del riso partecipa dei caratteri delle vocali O ed A (pronunciate alla tedesca); nel fanciullo e nella donna al contrario, ricorda piuttosto le vocali E ed I, che, come fu dimostrato da Helmholtz, sono più alte delle precedenti; malgrado questa differenza, esso esprime bene, tanto nell'uno che nell'altro caso, la gioia od il divertimento.

Studiando la maniera con cui le emissioni vocali esprimono i sentimenti, noi siamo naturalmente condotti a ricercare la causa di ciò che in musica si chiama espressione. Intorno a questo argomento, Litchfield, che per lungo tempo si occupò di questioni musicali, ebbe la cortesia di comunicarmi le osservazioni seguenti: «La natura dell'espressione musicale è un problema a cui si riannoda gran numero di oscure questioni, le quali, per quanto io mi sappia, costituiscono, fino al presente, altrettanti enigmi insoluti. Tuttavia, ogni legge che conviene all'espressione delle emozioni col mezzo di suoni semplici deve, sino a un certo punto, applicarsi al modo d'espressione più sviluppato del canto, potendo essere questo considerato quale tipo primitivo di ogni musica. Una gran parte dell'effetto di un canto sull'anima dipende dal carattere dell'azione coll'aiuto della quale si producono i suoni. Nelle canzoni, ad esempio, ch'esprimono una veemente passione, l'effetto dipende spesso sopra tutto dalla viva emissione d'uno o due passi caratteristici, i quali richiedono un vigoroso esercizio della forza vocale; e s'ebbe ad osservare spesso che un canto di questo carattere manca d'effetto, quando venga eseguito bensì da una voce d'una forza e d'una estensione sufficiente per poter dare senza sforzo questi passi caratteristici, ma fu compiuto con poca fatica. Tale è senza alcun dubbio il secreto della diminuzione di effetto che produce sì spesso la trasposizione di un canto da un tuono ad un altro. Or dunque si vede che l'effetto non dipende solo dai suoni medesimi, ma dalla natura dell'azione che li produce. Ogni volta che noi sentiamo che l'espressione d'una melodia risulta dalla rapidità e dalla lentezza del suo movimento, dalla dolcezza o dall'energia di lei, e via così, egli è evidente che noi interpretiamo realmente le azioni muscolari che producono il suono, come in generale interpretiamo l'azione muscolare. Peraltro codeste considerazioni non bastano a spiegare l'effetto più sottile e più specifico che chiamiamo espressione musicale del canto, il piacere arrecato dalla sua melodia, od anche dai suoni separati, il complesso dei quali costituisce questa melodia. Ecco un effetto indefinibile, cui nessuno, ch'io sappia, è giunto ad analizzare, e che le ingegnose speculazioni di Herbert Spencer sull'origine della musica lasciano interamente inesplicato. In fatti egli è certo che l'effetto melodioso di una serie di suoni non dipende per nulla dalla loro forza o dalla loro dolcezza, né dalla loro altezza assoluta. Un'aria cantata resta sempre la stessa, sia che venga eseguita forte o piano, dalla voce di un uomo o da quella di un fanciullo, da un flauto o da un trombone. L'effetto puramente musicale d'un suono qualunque dipende dal posto occupato da lui in ciò che tecnicamente si chiama una scala, chè un medesimo suono produce all'orecchio effetti completamente diversi, secondo ch'egli giunge associato con una o con quest'altra serie di suoni.

«E’ dunque da quest'associazione relativa dei suoni che dipendono tutti gli effetti essenzialmente caratteristici riassunti col motto: espressione musicale. Ma perché certe associazioni di suoni hanno i tali o i tal altri effetti? Gli è codesto un problema non ancora risolto. A dir vero, questi effetti devono in un modo o nell'altro trovarsi in rapporto colle note relazioni aritmetiche esistenti tra i numeri delle vibrazioni dei suoni che costituiscono una scala musicale. è possibile, ma è tuttora un'ipotesi, che la facilità meccanica più o meno grande con la quale lo apparecchio vibrante della laringe umana passa da uno stato di vibrazione ad un altro, sia stata primitivamente la causa per cui le differenti serie dei suoni produssero un piacere più o meno grande.

Lasciando da banda queste complesse questioni e non occupandoci che dei più semplici suoni, noi possiamo riconoscere almeno alcune fra le ragioni dell'associazione di certi generi di suoni con certi stati dell'animo. Un grido, ad esempio, mandato da un giovane animale o da un membro d'una società, per chiamare al soccorso, sarà naturalmente forte, prolungato ed acuto, affinché possa essere inteso lontano. Infatti, in seguito alle dimensioni della interna cavità dell'orecchio e del potere di risonanza che ne risulta, le note elevate producono nell'uomo, siccome l'ha dimostrato Helmholtz (64), una impressione particolarmente violenta. Un animale maschio che voglia piacere alla sua femmina impiegherà naturalmente i suoni che riescono graditi all'orecchio della propria specie; ciò nonostante egli pare che i medesimi suoni piacciano spesso ad animali assai differenti, grazie alla rassomiglianza del loro sistema nervoso; gli è ciò che constatiamo su noi stessi ascoltando con diletto il garrire degli uccelli ed anche il canto di certe ranocchie. Al contrario, i suoni destinati a spaventare un nemico, saranno naturalmente rauchi e sgradevoli.

Se il principio dell'antitesi abbia avuto una funzione nello sviluppo dei suoni, come forse poteva attendersi, è cosa assai dubbia. I suoni tronchi del riso, emessi dall'uomo e da parecchie specie di scimmie, per palesare il piacere, sono immensamente diversi dai gridi prolungati coi quali è espresso il dolore. Il sordo grugnito di soddisfazione del porco, allorquando è ripieno, non rassomiglia per nulla allo stridulo grido ch'egli manda sotto l'influenza del dolore o dello spavento. Nel cane, al contrario, come ho già fatto notare, l'abbaiamento della collera e quello della gioia nulla hanno di opposto fra loro; ed è così in molti altri casi.

Ecco ancora un punto oscuro, se cioè i suoni prodotti sotto l'influenza di parecchi stati dell'animo, determinano la forma della bocca, o se invece sia la forma della bocca che, determinata da cause indipendenti, agisce su questi suoni e li modifica. Un bambino che piange apre largamente la bocca, il che è evidentemente necessario per la emissione di un suono voluminoso; ma nello stesso tempo l'orificio orale prende una forma quasi quadrangolare, in seguito ad una causa affatto distinta, la quale, come vedremo più avanti, consiste nell'energico rinserrar delle palpebre e nella elevazione del labbro superiore, che n'è la conseguenza. Fino a qual punto questa forma quadrata della bocca modifica il suono espressivo del pianto? Egli è ciò che io non saprei dire; solo sappiamo, grazie ai lavori di Helmholtz e di parecchi altri osservatori, che la forma della cavità boccale e quella delle labbra determinano la natura e l'altezza dei suoni vocali che vengono prodotti.

Vedremo anche in uno dei seguenti capitoli, che sotto l'influenza del disprezzo e del disgusto, esiste una tendenza, d'inesplicabile causa, a soffiar per la bocca o per le narici ed a produrre così un suono analogo a puh o pish. Se vi capita d'esser ad un tratto arrestato od improvvisamente sbigottito, ed avrete ben tosto una disposizione a spalancare la bocca come ad eseguire una rapida e profonda inspirazione, senza dubbio perché eravate disposto a prolungar l'esercizio che eseguivate. Durante la profonda espirazione che sussegue, la bocca si chiude leggermente e le labbra si protendono un poco, per ragioni che saranno studiate più tardi; questa forma della bocca, secondo Helmholtz, corrisponde al suono della vocale o. È certo che una calca di gente lascia in fatto sfuggire un oh prolungato, assistendo a meraviglioso spettacolo. Se il dolore si mesce alla sorpresa, si produce una tendenza a contrarre tutti i muscoli del corpo, compresi quei della faccia, e le labbra si portano indietro; ciò spiega forse perché il suono diventa allora più elevato e prende il carattere di ah o ach. La paura, che fa tremar tutti i muscoli, produce naturalmente un tremito nella voce; questa diviene nello stesso tempo rauca, in seguito all'aridità della bocca, che arresta la funzione delle ghaindole salivari. Non si può spiegare perché il rider dell'uomo e della scimmia sia un suono rapidamente troncato. Gli angoli della bocca sono allora tesi in alto e all'indietro, il che l'allunga trasversalmente; noi tenteremo più avanti di renderci ragione di questo fatto. Tuttavia la questione delle differenze dei suoni che si producono sotto l'influenza dei vari stati dell'animo è nel suo complesso oscura così, che è già molto se l'ho potuta illuminare d'una pallida luce, né saprei dissimularmi lo scarso valore delle osservazioni raccolte.


Fig. 11 - Spine sonore della coda dell'istrice.

Tutti i suoni di cui ho parlato fin qui dipendono dagli organi respiratori, ma ve ne sono certuni il cui meccanismo è affatto diverso e che valgono anche come mezzi di espressione. I conigli si avvertono reciprocamente per mezzo del rumore che fanno battendo il suolo coi piedi; un uomo che sappia esattamente imitarlo, se la sera è tranquilla, può sentire i conigli a rispondergli da parecchie bande. Questi animali, e con essi molti altri ancora, battono pure la terra quando si fanno montar in collera. In questa stessa condizione d'animo, gl'istrici fanno risuonare le loro spine e scuotono strepitosamente la coda: n'ebbi a veder uno a comportarsi in tal maniera, allorché s'introduceva nella gabbia di lui un serpente vivo. Le spine della coda sono assai diverse da quelle del corpo: corte, incavate, sottili come penne d'oca; la loro estremità è tagliata trasversalmente ed aperta e stanno appese con un lungo pedicello, delicato ed elastico. Quando l'animale scuote rapidamente la coda, le spine si urtano producendo un suono particolare e continuo. Fui testimonio di questo fatto alla presenza di Bartlett. Mi sembra possibile concepire in qual modo l'istrice, in seguito ad una modificazione delle sue punte protettrici, sia stato munito di questo apparecchio sonoro veramente singolare. Esso è infatti un animale notturno: ora se nelle tenebre egli venga a fiutare od a sentire un nemico che sia alla caccia, sarà certamente un bene prezioso per esso poter fargli capire con cui ha da fare ed avvertirlo ch'egli è armato di formidabili punte. Può così evitare un attacco. Si aggiunga poi ch'esso conosce così la potenza delle sue armi che, quando viene irritato, fa l'attacco a ritroso colle punte rizzate, benché alquanto inclinate all'indietro.

Moltissimi uccelli producono nella stagione degli amori suoni variati coll'aiuto di penne che offrono una speciale disposizione. La cicogna, provocata, fa sentire un rumoroso stridore col becco. Alcuni serpenti fanno uno strepito come della coda dell'istrice di confricazione o di raschiamento. Molti insetti ronzano strofinando fra loro parti specialmente modificate del tegumento corneo che li riveste. Codesto ronzio è in generale impiegato siccome un richiamo o quale mezzo di seduzione fra i sessi, ma serve ancora alla espressione di differenti emozioni (65). Tutti coloro che studiarono le api, sanno che il loro ronzio muta carattere quando sono irritate, il che può metterci in guardia contro il pericolo di venir punti. Alcuni autori hanno insistito così sugli organi respiratorii considerati quali mezzi speciali di espressione, ch'io credetti di dover fare queste poche osservazioni per mostrare che suoni prodotti da altri meccanismi servono pure al medesimo oggetto.

Erezione delle appendici cutanee. - Forse nessun altro movimento espressivo è così generale quanto la erezione involontaria dei peli, delle penne e delle altre appendici cutanee; essa è infatti comune a tre delle grandi classi di vertebrati. Tali appendici si erigono sotto l'influenza della collera o dello spavento, e più specialmente allorquando queste emozioni sono fra loro associate o si succedono. Codesta azione serve d'altra parte a dare all'animale un'apparenza più imponente e più terribile in faccia ai nemici od ai rivali; essa è generalmente accompagnata da parecchi movimenti volontari che tendono al medesimo scopo, e dall'emissione di suoni selvaggi. Bartlett, tanto perfetto conoscitore degli animali di ogni specie, non mette dubbio alcuno sulla verità di questa interpretazione; ma è tutt'altra questione sapere se la proprietà di tal genere di erezione sia stata primitivamente acquistata con un fine speciale.

Comincerò dal richiamare i fatti che, in numero considerevole, dimostrano come questo fenomeno sia generale nei mammiferi, negli uccelli e nei rettili; ciò che riguarda all'uomo sarà riservato ad un ulteriore capitolo. Il sig. Sutton, intelligente guardiano del Giardino zoologico, avendo, dietro mia inchiesta, osservato con cura lo scimpanzé e l'orango, constatò che il pelo di questi animali si erige ogni volta che sono bruscamente spaventati, come ad un colpo di fulmine, od irritati, per esempio aizzandoli. Ho veduto io stesso un scimpanzé in apprensione per l'insolito aspetto d'un carbonaio dal volto annerito; il suo pelo era dovunque rizzato; egli faceva piccoli movimenti in avanti, come per piombare su quest'uomo, senz'alcuna intenzione di farlo, ma, diceva il suo guardiano, nella speranza di spaventarlo. Secondo Ford (66), quando il gorilla è infuriato, drizza la sua cresta di peli e la spinge in avanti; gli si dilatano le nari, il labbro inferiore si abbassa. Nello stesso tempo manda il suo urlo caratteristico, probabilmente allo scopo di mettere spavento al nemico». Nel babbuino Anubis ho visto prodursi l'orripilazione, sotto l'influenza della collera, dal con lo ai lombi, ma non sopra il dorso né sulle altre parti del corpo. Avendo un dì messo un serpente impagliato nella gabbia delle scimmie, vidi il pelo rizzarsi istantaneamente sopra un gran numero d'individui appartenenti a specie diverse; la coda soprattutto era la sede del fenomeno, ed io ne feci particolarmente l'osservazione sul Cercopithecus nictitans. Brehm constatò che il Midas oedipus (che appartiene alla famiglia delle scimmie americane) solleva la criniera quando viene provocato, «per darsi, aggiunge quest'osservatore, l'aspetto più spaventevole che per lui si possa» (67).

Nei Carnivori, l'erezione dei peli sembra essere un carattere quasi universale; essa s'accompagna di spesso a movimenti minacciosi; l'animale mostra i denti e manda selvaggi brontolii. Ho osservato questa erezione nella Mangusta su tutto il corpo, compresa la coda. Nella iena e nel Proteles la cresta dorsale si rizza in modo notevole. Il leone in furore rizza la criniera. Tutti osservarono erigersi il pelo, nel cane, sul collo e sul dorso; nel gatto, su tutto il corpo e particolarmente sulla coda. In quest'ultima specie, pare che il solo spavento dia luogo al fenomeno in questione; ma non, come ho potuto osservare, per effetto di quell'umile timore che, ad esempio, sente un cane quando un guarda-caccia irritato gli si avvicina per infliggergli una punizione. Secondo un'osservazione di cui ebbi sovente a verificare la giustezza, la circostanza più favorevole all'orripilazione, nel cane, è questo stato intermedio fra la collera e lo spavento, nel quale egli si trova, ad esempio, quando fissa un oggetto che nelle tenebre vede solo imperfetto.

Un veterinario m'assicurò di aver visto di spesso rizzarsi il pelo nei cavalli e nei buoi che avevano già subito delle operazioni e sui quali passava a praticarne di nuove. Avendo mostrato un serpente impagliato ad un pecarì, vidi il pelo rizzarglisi lungo la schiena in modo sorprendente: simile fatto si osserva nel verro quando è in furore. Agli Stati Uniti, un alce diede una mortale cornata ad un uomo; egli brandì dapprima le corna, belando rabbiosamente e battendo il suolo coi piedi; quindi si vide «rizzarglisi il pelo», infine si precipitò in avanti per attaccare (68). Simile orripilazione si produce nelle capre, e, in base a quello che sentii riferire da Blyth, in certe antilopi delle Indie. Ho constatato lo stesso fenomeno nel velloso formichiere e nell'Aguti, fra i rosicanti. Un pipistrello femmina, che allevava i suoi piccoli entro una gabbia, «erigeva la pelle del dorso quando vi si guardava, e mordeva le dita che gli si presentavano» (69).


Fig. 12 - Chioccia che protegge i propri pulcini contro di un cane. Dal vero di Wood.

Fig. 13 - Cigno che respinge un importuno. Dal vero, di Wood.

Gli uccelli appartenenti a tutte le grandi specie erigono le penne quando sono irritati o sgomenti. Ciascuno ebbe a vedere due galli, fino dalla più tenera età, prepararsi a piombar addosso l'un all'altro, col con lo sollevato; l'erezione di queste penne non è tuttavia per loro un mezzo di difesa, perché l'esperienza provò agli amatori dei combattimenti di galli che torna meglio tagliarle. Il Machetes pugnax maschio, quando si batte, rizza pure il suo collare di penne. Allorché un cane s'avvicina ad una delle nostre chiocce seguìta da' suoi pulcini, ella stende le ali, spiega la coda, erige tutte le penne, ed assumendo l'aspetto più fiero, si precipita sull'importuno. La coda non è sempre esattamente nella posizione medesima; talvolta mostrasi eretta così, che le penne centrali quasi toccano il dorso, come nella figura 12. Un cigno irritato solleva nella stessa maniera le ali e la coda e rizza le penne; apre il becco e nuotando fa dei piccoli balzi aggressivi verso chi s'appressa di troppo alla sponda (Fig. 13). Alcuni uccelli dei tropici, quando si va a disturbarli nei loro nidi, non volano via, ma dicesi «che si contentano di rizzare le penne mandando delle grida» (70). Quando ci appressiamo ad un gufo (Strix flammea), «gonfia istantaneamente le piume, stende le ali e la coda, fischia e fa crocchiare il suo becco con forza e rapidità» (71). Altre specie di barbagianni fanno egualmente. Dalle informazioni fornitemi dal signor Jenner Weir, anche il falco, in simili circostanze, rizza le penne e distende le ali e la coda. Alcune specie di pappagalli erigono le piume; io ho veduto nella stessa maniera un casoario, spaventato alla vista di un formichiere. I giovani cuculi, nel nido, rizzano le piume, spalancano il becco e si mostrano più spaventevoli che per loro si possa.

Mi riferì il Weir, che certi piccoli uccelli, come alcuni fringuelli, cinciallegre e capinere, quando sono irritati, erigono tutte le piume, o solamente quelle del con lo, oppure stendono le ali e le penne caudali. In questo stato, si slanciano l'uno contro l'altro, col becco aperto ed in atto minaccioso. Il signor Weir, con la sua grande esperienza, conclude che l'erezione delle penne viene provocata molto più dalla collera che dal terrore. egli cita l'esempio d'un cardellino meticcio, dall'umore irascibilissimo, che, avvicinato di troppo da un domestico, prendeva istantaneamente l'apparenza di una palla di piume erette. egli pensa che, in tesi generale, gli uccelli, sotto l'influenza dello spavento, rinserrino strettamente tutte le penne: la diminuzione di volume che ne risulta è spesso meravigliosa. Appena rimessi dalla paura o dalla sorpresa, per primo scuotono le piume. E’ nella quaglia ed in certi pappagalli (72) che il Weir trovò gli esempi migliori di questo ravvicinamento delle penne e di tale apparente diminuzione del corpo, sotto l'azione dello spavento. Codesta abitudine si comprende in tali uccelli, perché essi, di fronte a un pericolo, sono abituati a rannicchiarsi sul suolo od a starsene immobili sopra di un ramo per non essere scoperti. Sebbene negli uccelli la collera sia la principale e più comune causa dell'erezione delle penne; tuttavia è probabile che i giovani cuculi, allorché siano visti nel loro nido, e la gallina coi suoi pulcini, quando sia avvicinata da un cane, sentano almeno un po' di terrore. Il Tegetmeier mi dice che, nelle lotte dei galli, l'erezione delle piume della testa, sul campo di battaglia, sia riguardata da lungo tempo come un segno sicuro di codardia.

I maschi di alcuni Sauriani, quando si battono fra loro nell'epoca degli amori, dilatano il gozzo o sacco laringeo ed erigono la cresta dorsale (73). Tuttavia il dott. Günther ritiene che non possano rizzare isolatamente le loro spine o scaglie.

Gli esempi citati mostrano che la erezione delle appendici cutanee, sotto la influenza della collera e dello spavento, è generale nei Vertebrati delle due prime classi, ed anche in alcuni Rettili. Il meccanismo di codesto fenomeno ci fu rivelato da un'interessante scoperta dovuta al signor Kölliker, quella dei piccoli muscoli lisci, involontari, che s'attaccano ai follicoli dei peli, delle penne, ecc., e che spesso vengono distinti col nome di muscoli arrectores pili (74). Per la contrazione di questi muscoli, i peli, nello stesso tempo che sono tratti un po' fuori del loro follicolo, possono istantaneamente rizzarsi, come vediamo nel cane; e subito dopo si abbassano. Il numero di questi piccoli muscoli esistenti su tutto il corpo di un quadrupede coperto di pelo è veramente prodigioso. In certi casi, alla loro azione s'aggiunge quella delle fibre striate e volontarie del pannicolo carnoso sottostannte: ad esempio, nell'uomo, quando gli si rizzano i capelli sul capo. Così, per la contrazione di quest'ultimo strato muscolare, anche il riccio solleva le sue spine. Inoltre, dalle ricerche di Leydig (75), e di altri osservatori, risulta che da questo pannicolo ad alcuni dei peli più grandi, per esempio ai vibrissi di certi quadrupedi, si portano delle fibre striate. La contrazione degli arrectores pili non solo si produce sotto l'influenza delle emozioni ora indicate, ma anche per effetto del freddo. Mi ricordo d'aver osservato, nel mattino susseguente ad una gelida notte passata al sommo delle Cordigliere, che i miei muli ed i miei cani, condotti da una stazione inferiore e più calda, avevano su tutta la superficie del corpo il pelo rizzato così, come se fossero stati soggetti ad un profondo terrore. Constatiamo lo stesso fenomeno nella pelle d'oca, che in noi si produce durante il fremito che precede un accesso di febbre. Il signor Lister notò (76) che anche il solletico provoca l'erezione dei peli nelle parti vicine del tegumento.

Dai precedenti fatti risulta evidente che la erezione delle appendici cutanee è un atto riflesso, indipendente dalla volontà; quando esso si produce sotto l'influenza della collera o del terrore, bisogna considerarlo, non come un'attitudine acquistata per raggiungere qualche scopo, ma come un risultato collegato, almeno in gran parte, con un'affezione del sensorio. Sotto questo riguardo, lo si può paragonare all'abbondante sudore provocato dall'intenso dolore o dallo spavento. Ciò nondimeno è rimarchevole cosa vedere con quale facilità esso si manifesti di spesso in seguito alla più leggera eccitazione; così rizzasi il pelo di due cani che vogliono gettarsi l'un sull'altro per gioco. D'altra parte, moltissimi esempi tratti dalle classi più varie ci dimostrarono che l'erezione dei peli o delle penne è quasi sempre accompagnata da movimenti volontari diversi: l'animale prende un'attitudine minacciosa, apre la bocca e mostra i denti; gli uccelli stendono le ali e la coda; talvolta ancora vengono articolati suoni selvaggi. Ora non si può disconoscere il fine di questi movimenti volontari; né sembra degno di fede che l'erezione delle appendici cutanee, la quale si produce contemporaneamente e per cui l'animale si gonfia ed assume un aspetto più formidabile in faccia al nemico o al rivale, sia solo un fenomeno affatto accidentale, un inutile risultato della perturbazione del sensorio. egli sarebbe così inverosimile come il considerare come altrettanti atti senza scopo l'erezione delle punte nel riccio, o quella delle spine nell'istrice, o meglio ancora il raddrizzamento delle penne che adornano parecchi uccelli, nell'epoca dei loro amori.

Ma qui sorge una seria difficoltà. Come mai la contrazione degli arrectores pili, muscoli lisci e involontari, ha potuto associarsi a quella di muscoli volontari per questo medesimo oggetto speciale? Se si potesse ammettere che gli arrectores furono in principio muscoli volontari e perdettero in seguito le loro strie per cessare di essere sottomessi all'impero della volontà, la questione sarebbe singolarmente semplificata. Ma, per quanto io mi sappia, nessuna prova esiste che favorisca questo modo di vedere. Tuttavia si può credere che la opposta trasformazione non avrebbe presentato difficoltà molto grandi, dal momento che negli embrioni dei più elevati animali e nelle larve di certi crostacei esistono i muscoli volontari allo stato liscio. Per giunta sappiamo, secondo Leydig (77), che negli strati più profondi del derma, in certi uccelli adulti, il reticolo muscolare è in una specie di stato intermedio: le fibre non presentano che alcuni rudimenti di strie trasversali.

Ecco un'altra spiegazione che mi sembra accettabile. Possiamo supporre che in principio, sotto l'influenza della rabbia e dello spavento, gli arrectores pili siano stati messi leggermente in azione, in una maniera diretta, dalla perturbazione del sistema nervoso, proprio come in noi nella pelle d'oca che precede un accesso febbrile. Essendosi frequentemente riprodotte le eccitazioni della rabbia e del terrore, per lungo seguito di generazioni, questo effetto diretto della perturbazione del sistema nervoso sulle appendici cutanee dovette quasi di certo aumentarsi per l'abitudine e per la tendenza della forza nervosa a passar facilmente lungo le vie che le sono abituali. Questa opinione intorno alla funzione attribuita alla forza dell'abitudine sarà ben presto confermata dallo studio dei fenomeni che gli alienati presentano; noi vedremo, infatti, in uno dei seguenti capitoli, che in essi l'impressionabilità del sistema peloso diventa eccessiva, in seguito alla frequenza dei loro accessi furiosi o di spavento. Per tal modo accresciuta o fortificata una volta questa proprietà dell'orripilazione, l'animale maschio dovette veder di spesso i suoi rivali in furore rizzar i peli o le penne, aumentando così il volume del corpo. È cosa probabile che allora abbia avuto pur esso il desiderio d'apparire più grande e più formidabile in faccia ai nemici, prendendo volontariamente un'attitudine minacciosa e mandando grida selvagge: dopo un certo tempo, quest'attitudine e queste grida, per effetto dell'abitudine, divennero istintive. Così gli atti compiuti dalla contrazione dei muscoli volontari poterono combinarsi, per uno stesso fine speciale, cogli atti effettuati dai muscoli involontari. È ancora possibile che un animale soggetto ad una eccitazione, e più o meno cosciente della modificazione avvenuta nello stato del suo sistema peloso, possa agire su questo per mezzo di un esercizio attentamente e volontariamente ripetuto. Infatti non abbiamo ragione di credere che la volontà sia suscettibile di influenzare, in un'occulta maniera l'azione di certi muscoli lisci od involontari: citerò quali esempi i movimenti peristaltici dell'intestino e la contrazione della vescica. né ci fugga di mente la parte che la variazione e la elezione naturale han dovuto sostenere, perché i maschi che seppero darsi il più terribile aspetto in faccia ai loro rivali o agli altri nemici, dovettero lasciare un numero maggiore di discendenti, eredi delle loro qualità caratteristiche, antiche o di recente acquisite.

Rigonfiamento del corpo, ed altri mezzi per mettere spavento al nemico. - Alcuni anfibi e certi rettili che non possiedono spine da rizzare, né muscoli atti a produrre questo movimento, gonfiano il corpo, inspirando dell'aria, sotto l'influenza della paura o della collera. Gli è questo un fenomeno perfettamente conosciuto nei rospi e nelle rane. Chi non rammenta la favola di Esopo, intitolata: il Bue e la Rana, secondo cui quest'ultimo animale per invidia e vanità, si gonfiò così da scoppiarne? L'osservazione di questo fatto deve rimontare all'epoca più remota, perché, secondo Hensleigh Wedgwood (78), la parola botta esprime, in quasi tutte le lingue d'Europa, l'abitudine di gonfiarsi. Questa particolarità fu constatata in alcune specie esotiche, al Giardino zoologico, e il dottor Günther pensa ch'essa sia generale in tutto questo gruppo. Noi, lasciandoci guidare dall'analogia, ammetteremo che il fine primitivo di tale rigonfiamento fu probabilmente quello di dare al corpo l'apparenza più imponente e più terribile in faccia d'un nemico. nondimeno un altro vantaggio, forse più importante, ne risulta ancora: quando una rana è presa da un serpente, suo principale nemico, ella si gonfia prodigiosamente, e, secondo il dottor Günther, se il serpente non è di grande statura, non riesce ad inghiottire la rana, che sfugge così al pericolo di venir divorata.

I Camaleonti ed alcuni altri Sauriani si gonfiano pure quando sono irritati. Citerò, ad esempio, il Tapaya Douglasii, specie che abita l'Oregon. Essa è lenta nei suoi movimenti; non morde, ma ha un aspetto feroce: «Allorché quest'animale è irritato, si slancia minaccioso su qualunque oggetto che gli stia dinanzi; nello stesso tempo spalanca la bocca, soffia con forza, infine gonfia il corpo e manifesta la collera con parecchi altri segni» (79).

Molte specie di serpenti si gonfiano egualmente sotto l'influenza della collera. Il Clotho arietans è particolarmente notevole sotto questo punto di vista: solo io credo, in seguito ad un'attenta osservazione su questo animale, ch'esso non agisca in tal modo allo scopo di aumentare il proprio apparente volume; ma semplicemente col fine di inspirare una considerevole quantità d'aria, che gli permette di produrre un sibilo rumoroso, acuto e prolungato. Il Cobra-de-capello, irritato, si gonfia un po' e soffia dolcemente; ma nello stesso tempo solleva la testa, e col mezzo delle lunghe coste anteriori, dilata la pelle d'ambo i lati del con lo, in modo da formare una specie di disco largo e appiattito, distinto col nome di cappuccio. Allora, con la sua bocca spalancata, prende uno spaventevole aspetto. Il vantaggio che gliene deriva dev'essere evidentemente considerevole, per compensare la sensibile diminuzione che questa dilatazione fa provare alla rapidità (ancora, a dir vero, grandissima) dei suoi movimenti, quando si slancia sopra un nemico o sopra una preda; gli è come un pezzo di legno largo e sottile che non può fender l'aria al pari di un piccolo bastone cilindrico. Un serpente inoffensivo dell'India, il Tropidonotus macrophthalmus, quando è irritato, dilata il con lo nella stessa maniera, ciò che di spesso lo confonde col suo compatriota, il terribile Cobra (80). Forse questa rassomiglianza costituisce una salvaguardia per lui. Un'altra specie inoffensiva, il Dasypeltis dell'Africa meridionale, si gonfia, distende il con lo, sibila e si slancia sull'importuno che lo molesta (81). Molti altri serpenti sibilano in simili circostanze. Essi dardeggiano anche la lingua e l'agitano rapidamente, ciò che può ancora contribuire a dar loro un formidabile aspetto.

Oltre il sibilo, certi serpenti possiedono mezzi per produrre particolari suoni. Son già molti anni, io ho rimarcato nell'America del Sud, che quando si toccava un Trigonocephalus velenoso, esso agitava vivamente l'estremità della coda, la quale, battendo sull'erba e sui ramoscelli secchi, produceva un vivo e rapido strepito che si faceva nettamente distinguere alla distanza di sei piedi (82). L'Echis carinata dell'India, specie feroce e la di cui puntura riesce mortale, produce «un suono particolare, strano, prolungato, quasi un sibilo», per un meccanismo affatto diverso, cioè strofinando «le une contro le altre le pieghe del corpo», mentre la testa si mantiene quasi immobile. Le scaglie laterali, e solamente queste, sono fortemente convesse, ed il loro rilievo mediano è dentellato come una sega; allorché l'animale avviluppato strofina le sue pieghe, questi denti raschiano fra loro (83). Richiamiamo finalmente il noto esempio del serpente a sonaglio. Chi si limitò a scuotere il sonaglio può avere una giusta idea del suono prodotto dall'animale vivente. Secondo il professore Shaler, questo suono non può distinguersi da quello che produce il maschio della grande Cicala (insetto omottero) che abita lo stesso paese (84). Al Giardino zoologico fui colpito dalla rassomiglianza dei suoni mandati dal serpente a sonaglio e dal Clotho arietans, allorché si provocavano contemporaneamente; e, quantunque il rumore prodotto dal Crotalo fosse più risonante e più acuto che il sibilo del Clotho, io duravo pena, stando ad alcuni metri di distanza, a distinguerli uno dall'altro. Ora, qualunque sia il significato dello strepito prodotto da una di queste specie, non posso minimamente dubitare che pur nella seconda non serva al medesimo scopo; e dai gesti minacciosi eseguiti nello stesso tempo da molti serpenti concludo che il loro sibilo, il rumore del sonaglio del Crotalo e della coda del Trigonocefalo, il raschiare delle scaglie dell'Echis e la dilatazione del cappuccio del Cobra, servono tutti al medesimo oggetto, cioè a farli apparire formidabili in faccia ai nemici (85).

Si potrebbe supporre che i serpenti velenosi, come quelli da noi poc'anzi citati, che possiedono nei loro denti uno strumento di difesa tanto formidabile, non debbano essere esposti ad attacchi, e che quindi non abbiano alcun bisogno dei mezzi atti a provocare la paura nei nemici. Tuttavia non è così, e in tutti i paesi del mondo si vedono questi rettili servire pur essi di preda a un grandissimo numero di animali. È un fatto ben conosciuto che agli Stati Uniti, onde purgare i distretti infesti da serpenti a sonaglio, s'impiegano porci, i quali adempiono perfettamente quest'opera (86). In Inghilterra il riccio attacca e divora la vipera. Ho sentito riferire al dottor Jerdon che nell'India molte specie di falconi ed almeno un mammifero, l'Herpestes, uccidono i Cobra ed altri serpenti velenosi (87); ed avviene altrettanto nel sud dell'Africa. È dunque permesso di credere che i suoni od i segni di ogni genere, per i quali le specie velenose possono farsi immediatamente riconoscere siccome formidabili, riescano a loro almeno tanto utili quanto alle specie inoffensive, che sarebbero incapaci, ove fossero attaccate, di produrre alcun male reale.

Poiché la storia dei serpenti m'ha di già intrattenuto in così lunghi sviluppi, non posso resistere alla tentazione di aggiungere alcune osservazioni sul meccanismo che probabilmente presiedette allo sviluppo del sonaglio del Crotalo. Parecchi animali, certi Sauriani in particolare, quando siano provocati, ripiegano la coda o l'agitano vivamente; gli è ciò che si osserva in molte specie di serpenti (88). Al Giardino zoologico si vede una specie inoffensiva, Coronella Sayi, la quale fa girare la coda così rapidamente, che diviene quasi invisibile. Il Trigonocefalo, di cui ho già parlato, ha la stessa abitudine; l'estremità della sua coda è un poco rigonfiata. Nel Lachesis, che è sì affine al Crotalo da venir messo da Linneo nel medesimo genere, la coda, appuntita, si termina con un'unica scaglia, grande, in forma di lancetta. Ora, in seguito alle osservazioni del professore Shaler, in alcuni serpenti «la pelle si distacca più difficilmente sulla regione caudale che sulle altre parti del corpo». Supponiamo che fin d'allora, in qualche antica specie americana, la coda allargata abbia prima portata una sola grande scaglia; supponiamo che all'epoca della muta, questa scaglia non abbia potuto staccarsi e sia rimasta definitivamente fissa al corpo dell'animale; ad ogni novello periodo dello sviluppo del rettile, una nuova scaglia, più grande della precedente, si sarà formata al disopra di questa e avrà potuto del pari restar aderente. Ecco il punto di partenza dello sviluppo d'un sonaglio, l'impiego del quale sarà abituale, se la specie aveva l'abitudine, come tante altre, di agitare la coda in presenza di una provocazione. È difficile mettere in dubbio che il sonaglio non si sia in seguito sviluppato specialmente per servire da strumento sonoro; perché le vertebre stesse della coda provarono modificazioni nella loro forma e subirono una sinfisi. D'altra parte il fatto che alcuni apparecchi, siccome il sonaglio del Crotalo, le scaglie laterali nell'Echis, le coste cervicali nel Cobra, il corpo tutto nel Clotho, hanno potuto soffrire certe modificazioni tendenti a produrre l'apprensione e lo spavento in un nemico, non è più improbabile di quello che in un uccello, lo strano Segretario (Gypogeranus), l'economia intera si è resa specialmente adattata alla caccia ai serpenti, senza che ne risulti alcun danno per lui. È assai probabile, da quel che vedemmo, che quest'uccello, quando si precipita sopra un serpente, rizzi le penne; è certo che l'Erpeste, al momento in cui piomba su un rettile, raddrizza il pelo di tutto il corpo e particolarmente quello della coda (89). Si sa parimenti che alcuni istrici, quando siano irritati o se la vista d'un serpente li spaventi, agitano rapidamente la coda, producendo così un suono particolare, che risulta dallo scontro delle loro punte tubulari. Per tal modo l'assalitore e l'assalito cercano entrambi di rendersi a vicenda spaventevoli più che per loro si possa; ciascuno d'essi possiede a questo fine mezzi speciali, i quali, cosa singolare, si rinvengono talvolta pressoché identici. Concludo: da un lato fra i serpenti gli individui privilegiati, ch'erano i più capaci di spaventare i loro nemici, sfuggirono più facilmente alla morte; d'altra parte fra questi nemici prosperarono soprattutto coloro che potevano meglio vincere le difficoltà presentate dalla caccia ai serpenti velenosi; nell'un caso e nell'altro, ed ammettendo la variabilità delle specie, risulta che le variazioni utili si sono conservate per la sopravvivenza degli individui più adatti.

Rovesciamento delle orecchie all'indietro. - In un gran numero di animali, i movimenti delle orecchie costituiscono un mezzo espressivo di grande valore; in certe specie all'incontro, ad esempio nell'uomo, nelle scimmie superiori, e in molti ruminanti, questi organi, sotto il punto di vista della espressione, non presentano utilità alcuna. Bastano spesso leggere oscillazioni per accusare nel modo più evidente differenti stati dell'animo, come ogni giorno osserviamo nel cane. Ma noi qui ci occuperemo soltanto di quello speciale movimento per cui le orecchie s'arrovesciano completamente all'indietro e si applicano contro la superficie della testa. Questo movimento indica ostili disposizioni, ma solo nel caso in cui si tratti di animali che combattono a colpi di denti; e ciò si spiega in allora naturalmente con la preoccupazione che hanno questi animali, combattendo, di garantire codeste appendici sì esposte e d'impedire all'avversario di afferrarle. L'influenza dell'abitudine e dell'associazione fa loro in seguito eseguire lo stesso movimento tutte le volte che sono stizziti, anche ad un debole grado, o ch'essi vogliono, giocando, darsene l'aria. A convincersi che questa spiegazione è veramente l'espressione della realtà, basta considerare la relazione che in un gran numero di specie animali esiste fra codesta contrazione delle orecchie ed il modo di combattere.

Tutti i carnivori lottano coi denti canini, e tutti anche, almeno nei limiti delle osservazioni che potei fare, arrovesciano le orecchie per esprimere ostili disposizioni. Gli è ciò che ogni giorno si può osservare negli alani, quando si battono seriamente fra loro, e nei piccoli cani, allorché lottano per dilettarsi. Questo movimento è ben distinto dall'abbassamento delle orecchie accompagnato da un leggero rovesciamento all'indietro, che si nota in un cane festevole e carezzato dal padrone. Lo si può anche constatare nei piccoli gatti quando lottano giocando, come anche nei gatti adulti, allorché sono realmente di un umore intrattabile (vedi più addietro la fig. 9). Lo si sa: benché efficacemente protette fino ad un certo punto dalla posizione che prendono allora, le orecchie non escono mai sane e salve dalla battaglia, e nei vecchi gatti si vedono di spesso scorticature più o meno profonde, tracce delle loro bellicose rivalità. Nei serragli di belve, questo stesso movimento è assai manifesto nelle tigri, nei leopardi, ecc., quando s'accosciano brontolando sul pasto. La lince possiede orecchie di lunghezza notevole; se si avvicina uno di questi animali nella sua gabbia, egli le contrae con energia, in una maniera che esprime al massimo grado ostili intenzioni. Una foca, l'Otaria pusilla, che ha orecchie piccolissime, le arrovescia egualmente all'indietro quando si slancia incollerita alle gambe del suo guardiano.

Allorché i cavalli lottano fra loro, mordono cogli incisivi e battono colle estremità anteriori, molto più che non tirino calci colle gambe di dietro. Codeste osservazioni vennero eseguite su stalloni fuggiti; ciò d'altra parte risulta in modo evidente dalla natura delle ferite che vicendevolmente si fanno. Ciascuno conosce l'aspetto vizioso che questo rovesciamento di orecchie dà ad un cavallo, perfettamente distinto dal movimento per cui esso presta attenzione ad un rumore prodotto dietro a lui. Se un cavallo di cattivo carattere, collocato nella propria stalla, ha disposizioni a tirar calci, le sue orecchie si contraggono per abitudine, benché egli non abbia l'intenzione o il potere di mordere. Osservate all'incontro un cavallo che liberamente si slancia o che riceve una scudisciata; egli lancia vigoroso le estremità posteriori, ma in generale non arrovescia le orecchie, perché in quel caso non è incollerito. I Guanachi si battono ad oltranza coi denti; codeste lotte devono anche essere frequenti, perché io ho trovato di spesso squarci profondi nella pelle di quelli che uccisi in Patagonia. I cammelli fanno egualmente. Ora, in queste due specie, le orecchie si arrovesciano ancora molto all'indietro, in segno di ostilità. Ho rimarcato che i Guanachi contraggono le orecchie anche allorquando non hanno l'intenzione di mordere, ma solo di lanciare lontano la loro ripugnante saliva sull'aggressore. L'ippopotamo stesso, quando s'avanza minaccioso, con la bocca spalancata, sopra un animale della propria specie, arrovescia le sue piccole orecchie, proprio come il cavallo.

Quale contrasto tra i precedenti animali ed i buoi, i montoni, le capre, che non adoperano mai i denti per combattere e che giammai contraggono le orecchie sotto l'influenza della collera! Per quanto mansueti appaiano i montoni e le capre, i loro maschi appiccano talvolta lotte accanite. I cervi costituiscono una famiglia molto vicina ai precedenti; ed io, non sapendo che lottassero coi denti, rimasi un giorno sorpreso trovando in un racconto del maggiore Ross King i seguenti dettagli sull'alce d'America, da lui osservato al Canadà: «Quando avviene che due maschi s'incontrino, egli dice, si precipitano l'uno sull'altro con spaventoso furore, rovesciando le orecchie e ringhiando» (90). Appresi poi dal signor Bartlett che alcune specie di cervi si battono furiosamente a colpi di denti, sicché il rovesciamento delle orecchie dell'alce è ancora una conferma della regola generale. Molte specie di kangurù, conservate al Giardino zoologico, combattono graffiando coi piedi davanti e tirando calci coi posteriori; non si mordono mai, né i loro custodi li ebbero mai visti a rovesciare le orecchie, quand'erano irritati. I conigli si battono sopratutto a colpi di pedi e di artigli, ma per giunta si mordono, ed io conosco un esempio nel quale l'uno dei due strappò con un colpo di denti mezza coda dell'avversario. Al principio della lotta essi rovesciano le orecchie, ma poi, quando si precipitano gli uni sugli altri e si battono a colpi di piedi, le mantengono ritte o le muovono vivamente in tutti i sensi.

Il signor Bartlett fu testimonio di un accanito combattimento tra un cinghiale e la femmina di lui; entrambi avevano aperta la bocca e le orecchie arrovesciate. Tuttavia egli non pare che questa attitudine sia abituale ai maiali domestici nelle loro querele. I cinghiali combattono colpendo dal basso in alto colle zanne; Bartlett non osa affermare che arrovescino le orecchie. Gli elefanti, che lottano pure colle zanne, non contraggono codeste appendici, ma al contrario le drizzano, precipitandosi gli uni sugli altri o sopra un nemico.

I rinoceronti del Giardino zoologico si battono col corno nasale, né si vide giammai che tentassero di mordersi, se non per gioco; ed i loro custodi asseriscono che per manifestare ostili disposizioni, non arrovesciano mai le orecchie, a somiglianza dei cavalli o dei cani. né posso spiegarmi come sir S. Baker, narrando che un rinoceronte, ucciso da lui, aveva perdute le orecchie, aggiunga: «Esse erano state strappate con una dentata, lottando con un altro animale della medesima specie; del resto tale mutilazione non è rara» (91).

Per terminare, un cenno sulle scimmie. Alcune specie, che posseggono orecchie mobili e si battono a colpi di denti, valga ad esempio il Cercopithecus ruber, quando sono irritate rovesciano le orecchie, precisamente al pari dei cani; prendono allora un aspetto notevolmente feroce. In altre, come l'Inuus ecaudatus, nulla si osserva di simile. Altre infine - ed è questa una singolare anomalia - allorché si carezzano, contraggono le orecchie, mostrano i denti e fanno sentire un mugolio di soddisfazione. Osservai ciò su due o tre specie di macachi e sul Cynopithecus niger. Per certo, senz'esserne prevenuti, siccome siamo avvezzi alla fisionomia dei cani, ci riuscirebbe difficile riconoscere nei precedenti caratteri l'espressione della gioia o del piacere.

Raddrizzamento delle orecchie - Su questo movimento ho poco da dire. Ogni animale che possa movere liberamente le orecchie, quand'è spaventato o guarda con attenzione un oggetto, le dirige verso quest'oggetto medesimo, allo scopo di afferrare ogni suono che provenir ne possa. Nello stesso tempo solleva generalmente la testa; tutti i suoi sensi sono allora in attenzione; alcuni animali di piccola statura si rizzano per giunta sulle zampe di dietro. Anche le specie che s'accosciano sul suolo o che fuggono immediatamente in faccia al pericolo, sul primo momento assumono in generale la precedente attitudine, allo scopo di scoprire la sorgente e la natura del pericolo che le minaccia. La testa sollevata, le orecchie rizzate ed il guardo diretto in avanti dànno a qualunque animale un'espressione di profonda attenzione che non si può disconoscere.


CAPITOLO V. ESPRESSIONI SPECIALI DEGLI ANIMALI

Diversi movimenti espressivi nel cane. - Gatto. - Cavallo. - Ruminanti. - Scimmie. - Espressioni di gioia e d'affetto, di dolore, di collera, di stupore e di spavento in questi animali.

Cane. - Ho già descritto l'aspetto d'un cane che s'avvicina ad un altro con ostili intenzioni (fig. 5 e 7); le orecchie si rizzano, il guardo si dirige fisso in avanti; il pelo si erige sul con lo e sul dorso, l'andatura è notevolmente rigida, la coda levata in aria e in linea retta. Di questi vari caratteri, due soli, la rigidità dell'incesso e il drizzamento della coda, richiedono ancora qualche sviluppo. Sir C. Bell fa osservare (92), che, quando un tigre od un lupo, battuto dal suo guardiano, monta improvviso in furore, «tutti i muscoli sono tesi e le estremità sono in una attitudine di contrazione forzata: l'animale è pronto a slanciarsi». Questa tensione dei muscoli e la rigidità dell'attitudine che ne risulta possono trovar spiegazione nel principio dell'associazione delle abitudini; infatti, la collera ha sempre spinto a sforzi furibondi e quindi a mettere violentemente in azione i muscoli tutti del corpo. Ora v'hanno ragioni per supporre che il sistema muscolare, prima di poter produrre un'energica azione, esiga in qualche modo una rapida preparazione, un certo grado di innervazione. Le sensazioni mie proprie confermano per conto mio questa ipotesi, che pure, a quanto ne so, non è ammessa dai fisiologi. Tuttavia sir J. Paget mi apprende che, quando i muscoli si contraggono bruscamente con grandissima forza, senza preparazione alcuna, possono rompersi; gli è ciò che talora si osserva in un uomo, il quale fa un passo falso e sdrucciola improvvisamente e senza aspettarsela; una simile rottura al contrario si produce molto di rado, quando l'atto muscolare, per quanto violento, è compiuto di proposito deliberato e sotto l'influenza della volontà.


Fig. 14 - Testa d'un cane che ringhia. Dal vero, del sig. Wood.

Riguardo alla posizione rialzata della coda, sembra dipendere da un'eccessiva potenza dei muscoli elevatori sugli abbassatori: eccesso che avrebbe naturalmente per effetto di collocare quest'organo in posizione orizzontale, quando tutti i muscoli della parte posteriore del corpo sono contratti. Non posso asserir tuttavia che questa interpretazione sia l'espressione della verità. Un cane che trotta festevole innanzi al padrone con un'andatura gaia e briosa, tien d'ordinario la coda in aria, ma assai meno rigida di quando è irritato. Un cavallo che per la prima volta si slancia sulla libera via, corre d'un trotto grazioso ed aperto, tenendo alta la testa e la coda. Le vacche medesime, allorché saltellano allegramente, alzano la coda in modo grottesco. Al Giardino zoologico si può fare la stessa osservazione su diversi animali. Tuttavia, in certi casi, la posizione della coda è determinata da speciali circostanze; ad esempio, appena un cavallo si slancia al galoppo, abbassa costantemente la coda, in modo da offrir meno presa che sia possibile alla resistenza dell'aria.

Quando un cane sta per slanciarsi sopra un nemico, manda un grugnito selvaggio; le sue orecchie si arrovesciano completamente all'indietro, e il labbro superiore si contrae per lasciar liberi i denti e specialmente i canini (fig. 14). Questi stessi movimenti possono pure osservarsi negli alani e nei piccoli cani, quando giocano assieme. Tuttavia, se a mezzo del gioco l'animale incollerisce sul serio, la sua espressione cangia immediatamente; il che consiste solo in ciò, che le labbra e le orecchie si contraggono con energia di molto maggiore. Se un cane brontola contro di un altro, il suo labbro si contrae generalmente da un lato soltanto, da quello cioè che guarda il nemico.

Ho descritto nel capitolo II le movenze di un cane ch'esprime il suo affetto al padrone (fig. 6 ed 8). La testa ed il corpo intero si abbassano e si aggirano in movimenti flessuosi; la coda è distesa e si dondola da un lato a quell'altro. Le orecchie stanno abbassate e portate un tantino all'indietro, attitudine che sforza le palpebre ad allungarsi e modifica l'apparenza di tutta la faccia. Le labbra sono rilassate e pendenti; il pelo si mantiene liscio. Tutti questi movimenti e queste attitudini possono, io credo, spiegarsi col principio dell'antitesi; perché sono in completa opposizione con quelli naturalmente eseguiti da un cane irritato, cioè sottomesso ad uno stato d'animo precisamente inverso. Allorché un uomo parla semplicemente al suo cane, o gli indica un oggetto da richiamar l'attenzione, si vedono le ultime vestigia di questi movimenti nel dondolamento della coda, che solo fra tutti persiste e nemmeno s'accompagna coll'abbassamento delle orecchie. Il cane manifesta anche la sua affezione sfregandosi contro il padrone; lo stesso sentimento lo porta a desiderare anche lo strofinamento o l'amichevole picchiar della mano.

Gratiolet rende conto delle affettuose manifestazioni ora indicate nel modo seguente: il lettore giudicherà da se stesso sul valore delle interpretazioni di lui. Parlando degli animali in generale, compresovi il cane: «È sempre, egli dice, la parte più sensibile del loro corpo che ricerca le carezze o le fa. Quando i fianchi ed il corpo sono sensibili per tutta la loro lunghezza, l'animale serpeggia e striscia sotto le carezze, e propagandosi le ondulazioni lungo i muscoli analoghi dai segmenti sino all'estremità della colonna vertebrale, la coda si piega e si agita» (93). Più lungi egli aggiunge che i cani, esprimendo il loro affetto, abbassano le orecchie, onde scacciare ogni percezione sonora e concentrare tutta l'attenzione sulle carezze del loro padrone!

I cani hanno un'altra notevolissima maniera di palesare il loro affetto, e consiste nel leccare le mani od il viso. Talvolta si leccano fra loro, e in tal caso lo fanno sempre sul muso. Ho visto ancora dei cani leccare dei gatti coi quali vivevano in buona armonia. Codesta abitudine deriva probabilmente dal fatto che le femmine leccano i propri piccini, oggetto del loro più tenero affetto, onde pulirli. Di spesso si vedono ancora, dopo una breve assenza, dare alcune rapide leccate ai loro nati, che sembrano semplicemente destinate ad esprimere la loro affezione. È così che questa abitudine dovette associarsi colle emozioni affettuose, sia qualsivoglia l'origine di queste. Oggi ell'è sì fortemente acquisita per eredità od innata, che si trasmette egualmente ai due sessi. Ultimamente rimasero uccisi a casa mia i piccoli d'una femmina di cane terriero, che io posseggo e che si è sempre mostrata affettuosissima; in questa circostanza fui veramente colpito dal modo con cui essa tentò di soddisfare il suo istintivo amore materno, riportandolo sopra di me: il suo desiderio di leccarmi le mani era passato allo stato di passione insaziabile.

Lo stesso principio spiega probabilmente perché i cani, onde esprimere la propria affezione, amino di strofinarsi contro i loro padroni e di venirne strofinati o amichevolmente picchiati. Infatti, durante l'allattamento dei loro piccini, il contatto con un oggetto amato si associò fortemente nel loro spirito colle emozioni affettuose.

Il sentimento d'affezione d'un cane per il suo padrone si mesce ad un profondo sentimento di sommissione, che s'avvicina un po' alla paura. Anche certi cani non si limitano di abbassare le orecchie e di strisciare un po' approssimandosi ai loro padroni, ma s'allungano sul suolo, col ventre in aria. Gli è codesto un movimento assolutamente opposto ad ogni dimostrazione di resistenza. Ho posseduto un tempo un gran cane che non temeva punto di misurarsi con avversari della sua specie; nelle vicinanze v'aveva nondimeno un cane da pastore, specie di cane-lupo, d'umore pacifico ed assai meno forte, che esercitava su lui una strana influenza. Quando per caso essi s'incontravano, il mio cane aveva costume di corrergli incontro, con la coda fra le gambe ed il pelo liscio; poi si sdraiava in terra col ventre in aria. Pareva che gli dicesse, meglio che per ogni discorso: «A te! io sono tuo schiavo».

Certi cani esprimono in modo assai particolare una disposizione dell'animo gioconda, gaia, e nello stesso tempo affettuosa, voglio dire con una specie di ghigno. Somerville aveva fatto già da gran tempo questa osservazione, quando diceva: «E il cane con ghignare giocondo ti saluta, dimenando la coda, s'accuccia, spalanca le ampie narici, e i grandi suoi occhi neri si effondono in dolci carezze e in umile gioia».

Il famoso levriere scozzese di Walter-Scott, Maïda, aveva quest'abitudine, comune del resto ai terrieri. Io l'ho constatato anche in un pòmero ed in un cane da pastore. Rivière, che s'è occupato con particolare attenzione di questa espressione, m'apprende ch'essa si produce assai comunemente ad un debole grado. Il labbro superiore allora si contrae come per il brontolio, in modo che i canini si scoprono; contemporaneamente le orecchie si portano indietro; peraltro l'aspetto generale dell'animale indica chiaramente ch'egli non è irritato. «Il cane, dice sir C. Bell, per esprimere la tenerezza, rovescia leggermente le labbra, e saltellando, fa smorfie e respira per le narici, in un modo che rassomiglia al riso» (94). Alcuni considerano infatti queste smorfie come un sorriso; ma se realmente lo fossero, noi vedremmo in quest'animale, quando abbaia di gioia, un simile movimento delle labbra e delle orecchie, benché più pronunciato. Ora ciò non avviene; solo si osserva che i due fenomeni si succedono frequentemente. D'altra parte, quando i cani giocano coi loro compagni o coi padroni, hanno quasi sempre l'aria di voler mordere, ed allora contraggono (poco energicamente, è vero) le labbra e le orecchie. Così pure io credo che in certi cani, quando provano un vivo piacere unito ad un sentimento affettuoso, esista una tendenza ad agire sui medesimi muscoli, per effetto dell'abitudine e dell'associazione, come se volessero ancor morsicchiare qualche compagno di gioco o le mani dei loro padroni.

Nel capitolo II ho descritto l'attitudine e la fisionomia del cane allora ch'è festevole, e la distinta opposizione ch'esse presentano quando l'animale è abbattuto e scorato. Allora abbassa la testa, le orecchie, il corpo, la coda e la mascella, ed i suoi occhi divengono tristi. Se all'incontro un gran piacere l'attenda, egli balza e saltella in modo stravagante, abbaiando di gioia. In codesto stato dell'animo, la tendenza ad abbaiare fu acquistata per eredità; essa è penetrata nel sangue; si sa che i levrieri abbaiano di rado; osservate al contrario un pòmero che il padrone sta per condurre al passeggio: i suoi abbaiamenti continui diventano penosi.

Nel cane un vivo dolore si manifesta press'a poco come nella maggior parte degli animali, vale a dire con urli, contorsioni e movimenti convulsivi per tutto il corpo.

L'attenzione viene espressa sollevando la testa, raddrizzando le orecchie e dirigendo fisso lo sguardo sull'oggetto o sul punto che la provoca. Se trattasi di un rumore di origine ignota, vediamo di spesso il cane girare obliquamente la testa da destra a sinistra nel modo più espressivo, probabilmente per giudicare con maggior esattezza da qual parte venga lo strepito. Ho visto un cane, vivamente sorpreso di sentire un suono nuovo per lui, girare in questa maniera la testa, per effetto dell'abitudine, benché ne scorgesse chiaramente la fonte. Feci di già osservare che un cane, il quale stia comunque in attenzione, spii un oggetto o presti l'orecchia a qualche rumore, alza spesso una zampa (fig. 4) e la tien ripiegata, quasi volesse disporsi ad avvicinarsi lentamente e con precauzione.

Sotto l'influenza d'un estremo terrore, il cane si rotola a terra, urla e lascia sfuggire i propri escrementi. Io credo che in tali circostanze non gli si rizzi mai il pelo, a meno che non provi contemporaneamente la collera a un grado più o meno spiccato. Ho visto un cane spaventato all'udire una musica strepitosa eseguita in strada da una brigata di suonatori: tutti i muscoli del suo corpo tremavano; il cuore gli palpitava con tale rapidità da poterne difficilmente numerare i battiti; la sua respirazione era anelante, ed egli spalancava la bocca: questi sintomi sono pur quelli che caratterizzano lo spavento nell'uomo. Ben inteso che questo cane non aveva fatto alcun esercizio; egli camminava placido e lento lungo la stanza; aggiungerò che faceva freddo.

Il terrore, anche a un debolissimo grado, si manifesta costantemente dalla posizione della coda che si nasconde tra le gambe. Nello stesso tempo le orecchie si portano indietro, ma senza applicarsi esattamente contro la testa e senza abbassarsi; movimenti che si producono, il primo quando il cane brontola, il secondo allora ch'è festevole e vuol dimostrare la propria affezione. Quando due giovani cani s'inseguono per gioco, quello che fugge cela sempre la coda fra le gambe. La stessa attitudine vien presa dal cane che, al colmo della gioia, gironzola come pazzo attorno al padrone descrivendo dei cerchi o degli otto. Esso opera allora come fosse inseguito da un altro cane. Codesta foggia singolare di gioia, nota a tutti che abbiano osservato questo animale, è frequente in particolare allorché è un po' sorpreso o spaventato, quando, ad esempio, il padrone si getta bruscamente su lui nell'oscurità. In tal caso, come pure quando due giovani cani s'inseguono l'un l'altro per gioco, pare che l'inseguito tema di venir afferrato per la coda; eppure, a mio sapere, questi animali non si assalgono così che assai raramente. Un dilettante, il quale aveva osservato per tutta la vita cani in corsa, m'assicurò di non averne giammai visto uno afferrare una volpe per la coda; osservazione confermata da altri sperimentati cacciatori. Sembra che quando un cane è inseguito o corre pericolo di venir colpito per di dietro, od è esposto alla caduta di un oggetto qualunque, egli voglia ritirare il più presto possibile le estremità posteriori; allora, in seguito a qualche simpatia o a qualche connessione tra i muscoli, la coda si ritira completamente all'indentro e si cela in mezzo alle gambe.

Un analogo movimento, che talvolta interessa le estremità posteriori e la coda, può constatarsi nella iena. Secondo le osservazioni di Bartlett, quando due di questi animali lottano insieme, ciascun d'essi conosce perfettamente la potenza della mascella del proprio avversario, ed entrambi sono pieni di diffidenza e di precauzione. E sanno che se una delle loro gambe vien presa, sarà senza tempo di mezzo fatta in minuzzoli. E’ perciò che s'avvicinano colle ginocchia piegate, colle gambe più che sia possibile in dentro e tutto il corpo curvato, in modo da non presentare alcun punto saliente; nello stesso tempo la coda si cela affatto fra le gambe. In questa attitudine, essi s'approssimano di fianco ed anche un po' per di dietro. Parecchie specie di cervi, lottando, nascondono pur essi nello stesso modo la coda. Quando un cavallo tenta per gioco di mordere le estremità posteriori di un altro cavallo, quando un brutale monello batte un asino per di dietro, si vedono ancora le gambe posteriori e la coda dell'animale portarsi in basso ed in dentro, quantunque sia difficile dire se unico scopo di tal movimento sia quello di mettere la coda al salvo da ogni lesione. Noi abbiamo parlato più in su dell'opposto movimento; quando un animale corre d'un trotto allegro ed aperto, la coda è quasi sempre sollevata in aria.

Siccome vedemmo, un cane inseguito e che fugge dirige le orecchie all'indietro; ma le conserva aperte, evidentemente allo scopo di udire i passi di chi lo insegue. Per effetto dell'abitudine, le orecchie si mantengono spesso nella medesima posizione, mentre la coda si cela fra le gambe, anche allora che il pericolo è manifestamente di fronte. Ho sovente osservato in un mio pauroso terriero, che quando è spaventato da qualche oggetto che gli sta dinanzi, di cui egli sa la perfetta natura e che non ha bisogno di riconoscere, conserva tuttavia per lungo tempo la coda e le orecchie in questa posizione, mostrando un evidente malessere. La contrarietà, senza spavento, si esprime nella medesima foggia; così, io uscivo un giorno proprio al momento in cui questo stesso cane sapeva che gli si dava a mangiare: io non lo chiamavo; egli aveva voglia di accompagnarmi, ma contemporaneamente desiderava il cibo; e restava immobile, guardando ora avanti ora indietro, con la coda tra le gambe e le orecchie pendenti, presentando un'apparenza d'indecisione e di contrarietà intorno alla quale non si poteva ingannarsi.

Quasi tutti i movimenti descritti qui sopra sono innati od istintivi; perché comuni a tutti gl'individui, giovani o vecchi, di tutte le specie; bisogna però eccettuare la piacevole smorfia ch'esprime la gioia. La maggior parte di questi movimenti è pure comune ai progenitori aborigeni del cane, cioè al lupo ed allo sciacallo, ed alcuni ad altre specie del medesimo gruppo. I lupi e gli sciacalli addomesticati quando si carezzano, saltellano di gioia, agitano la coda, abbassano le orecchie, leccano le mani del padrone, s'accosciano ed anche si rotolano sul suolo col ventre in aria (95). Ho visto uno sciacallo d'Africa, originario dal Gabon, e molto rassomigliante ad una volpe, abbassare le orecchie allorché lo si carezzava. Il lupo e lo sciacallo, atterriti, nascondono di certo la coda fra le gambe. Ho udito narrare che uno sciacallo addomesticato girava attorno al padrone descrivendo, proprio a somiglianza di un cane, dei circoli e degli otto, e celando la coda nella stessa maniera.

Si sostenne l'idea (96) che la volpe, anche addomesticata, non eseguisce giammai alcuno dei movimenti espressivi or ora citati; tuttavia ciò non è rigorosamente vero. Da già molti anni io osservai al Giardino zoologico una volpe inglese domesticissima, la quale, accarezzata dal proprio padrone, agitava la coda, abbassava le orecchie, poi si rotolava in terra col ventre in aria. Questo fatto fu da me pubblicato in quell'epoca. La volpe nera dell'America settentrionale abbassa pure le orecchie a un debole grado. Ma io credo che le volpi non lecchino mai le mani dei loro padroni, e mi sono accertato che sotto l'influenza della paura non nascondono la coda. Ammettendo l'interpretazione ch'io diedi alla espressione dei sentimenti affettuosi nel cane, sembra che animali, i quali non passarono mai allo stato di domesticità - come il lupo, lo sciacallo ed anche la volpe - abbiano tuttavia acquisiti, in virtù del principio dell'antitesi, alcuni gesti espressivi; in fatto non è cosa probabile che questi animali, racchiusi nelle loro gabbie, abbiano potuto apprendere codesti movimenti imitando dei cani.

Gatto. - Ho già descritta la condotta di un gatto irritato, senza spavento (fig. 9). egli s'accoscia e striscia sul suolo; talvolta avanza la zampa anteriore, facendo sporgere le unghie, per essere pronto a colpire. La coda è distesa e si muove ondulando o batte vivamente da una parte all'altra. Il pelo non si rizza: ciò almeno è quello ch'io vidi nei casi in cui ebbi occasione di osservare. L'animale rovescia molto le orecchie all'indietro e mostra i denti mandando sordi brontolii. perché l'attitudine di un gatto che si dispone a lottare con un altro, o che è violentemente irritato in un modo qualunque, differisca così da quella che prende il cane in circostanze simili, si può comprendere pensando che il gatto colpisce colle zampe anteriori, il che rende comoda od anche necessaria la posizione accosciata. Per giunta esso, assai più che il cane, ha l'abitudine di imboscarsi per piombar bruscamente sopra la preda. Quanto ai movimenti della coda, è impossibile assegnarvi una causa con qualche certezza. Essi s'incontrano in molte altre specie, ad esempio nel Puma, nel punto in cui si dispone allo slancio (97); non si osservano all'incontro nel cane, né nella volpe, secondo le osservazioni fatte da Saint-John sopra una volpe in agguato, mentre appostava una lepre. Vedemmo di già che certe specie di sauriani ed alcuni serpenti agitano rapidamente l'estremità della coda in segno di collera. egli sembra che, sotto l'influenza di una energica eccitazione, si produca un irresistibile bisogno di movimento di qualsivoglia natura dovuto alla sovrabbondanza di forza nervosa emanata dal sensorio; allora la coda, che resta libera e i di cui movimenti non turbano punto l'attitudine generale del corpo, si dondola o sferza l'aria da una parte e dall'altra.

Allorché un gatto vuol palesare la propria affezione, tutti i suoi movimenti sono completamente in antitesi con quelli or ora descritti. egli si tiene ritto sulle zampe, col dorso leggermente arcuato, la coda alzata verticalmente, le orecchie rizzate; nello stesso tempo strofina il muso ed i fianchi contro il padrone o la padrona. Questo desiderio di sfregarsi contro qualche cosa è così intenso nei gatti, che si vedono di spesso strofinarsi contro i piedi delle sedie o delle tavole, o contro gli stipiti delle porte. Codesta maniera di esprimere l'affetto deriva probabilmente, per via d'associazione come nel cane, dalle carezze che la madre prodiga ai suoi piccoli durante l'allattamento, e forse ancora dall'amicizia che i nati stessi si nutrono a vicenda e si manifestano nei loro giochi. Ho già descritto un altro gesto, molto diverso, per cui questo animale esprime il piacere; intendo parlare del modo curioso col quale i gatti giovani, ed anche vecchi, avanzano alternativamente le zampe anteriori scostando le dita, quasi fossero tuttora sospesi alla mammella materna.

Quest'abitudine è così analoga all'altra di strofinarsi contro qualche cosa, che tanto l'una come l'altra devono derivare da atti compiuti durante il periodo dell'allattamento. perché il gatto manifesti il suo affetto sfregandosi molto più del cane, benché quest'ultimo ami il contatto del proprio padrone; perché il gatto lecchi di raro le mani di coloro che ama, mentre il cane lo fa di continuo, non so dire. Il gatto si pulisce leccando la sua pelliccia molto più regolarmente del cane; eppure la lingua del primo parrebbe molto meno disposta per questo genere di lavoro in confronto della lingua molto più lunga e più flessibile del secondo.


Fig. 15 - Gatto spaventato da un cane. Dal vero, dis. dal sig. Wood.

Sotto l'influenza del terrore, il gatto si drizza più alto che può, arcuando il dorso in modo noto e ridicolo. Esso sputacchia, soffia o brontola. Il suo pelo si erige in tutto il corpo e particolarmente alla coda. Negli esempi osservati da me, la coda medesima si rialzava verso la base, mentre l'estremità si portava da un lato; talvolta quest'appendice si solleva un po' solo e s'inclina lateralmente quasi presso la sua radice. Le orecchie si portavano indietro; i denti si scoprivano. Quando due piccoli gatti giocano assieme, noi vediamo di spesso che cercano di spaventarsi a vicenda coi gesti. Se rammentiamo quel che abbiamo veduto nei precedenti capitoli, possiamo spiegare tutti i caratteri espressivi qui sopra esposti, tranne uno solo, l'esagerato inarcamento del dorso (fig. 15). Io inclino a credere che, come molti uccelli rizzano le piume e distendono le ali e la coda per mostrarsi più grandi che sanno, così il gatto si rizza fin che può, inarca il dorso, solleva spesso la base della coda ed erige il pelo, tutto al medesimo scopo. Dicesi che anche la lince, quando è attaccata, inarca il dorso; gli è in codesta attitudine che Brehm l'ha rappresentata. I custodi del Giardino zoologico non ebbero mai a constatare la minima tendenza ad assumere questa posizione nei felini di grande statura, tigri, leoni, ecc., i quali, veramente, hanno pochi motivi per essere spaventati da alcun altro animale.

Il gatto impiega frequentemente la voce come mezzo di espressione; egli emette, sotto l'influenza di emozioni o di desiderii diversi, almeno sei o sette differenti suoni. Il mugolìo di soddisfazione ch'egli produce nella inspirazione e nella espirazione, è uno dei più curiosi. Il puma, il cheetah e l'ocelot fanno anche la ruota; la tigre esprime il piacere «con un breve soffio nasale tutto particolare, accompagnato dall'avvicinamento delle palpebre» (98). Sembra che il leone, lo jaguar ed il leopardo non faccian la ruota.

Cavallo. - Quando vuole manifestare ostili intenzioni, il cavallo rovescia completamente le orecchie all'indietro, avanza la testa e discopre in parte i denti incisivi, per essere pronto a mordere. Se è disposto a tirar calci, l'abitudine gli fa ancora rovesciare le orecchie; per giunta i suoi occhi si volgono indietro in modo particolare (99). Per esprimere il piacere, quando, ad esempio, nella scuderia gli si mette davanti un pasto desiderato, solleva la testa e la porta indietro, drizza le orecchie, segue con attento sguardo l'amico che giunge a soddisfare il desiderio di lui, e spesso nitrisce. Egli esprime l'impazienza battendo il suolo col piede.

L'attitudine d'un cavallo improvvisamente atterrito è espressiva al massimo grado. Osservai un dì il mio cavallo spaventato alla vista d'una macchina seminatrice coperta da una tela incerata e abbandonata in mezzo alla via. Sollevò la testa tanto in alto che il collo gli venne quasi verticale; era questo evidentemente un gesto di pura abitudine, perché, essendo la macchina collocata in un pendio sotto di lui, non poteva giovare a fargliela veder più distinta, né ad udir meglio il rumore ch'essa avrebbe potuto mandare. Gli occhi e le orecchie erano fissamente diretti in avanti. Attraverso la sella, io sentivo i rapidi battiti del suo cuore. Respirava con violenza per le narici, rosse e dilatate. La dilatazione delle narici non ha per scopo di fiutare la sorgente del pericolo, perché quando un cavallo fiuta con cura un oggetto, senz'essere spaventato, questa dilatazione non si produce. Per la presenza di una valvola nella gola, il cavallo che palpita non respira per la bocca aperta, ma per le narici, le quali per conseguenza hanno dovuto acquistare un'attitudine di espansione molto spiccata. Questa espansione, siccome l'ansare ed i palpiti del cuore, sono atti che, per lungo seguito di generazioni; dovettero fortemente associarsi alle emozioni del terrore; perché il terrore ha spinto abitualmente il cavallo al più violento esercizio, per fuggir a precipizio la causa del pericolo.

Ruminanti. - I buoi ed i montoni sono notevoli per la scarsità dei mezzi, coll'aiuto dei quali esprimono generalmente le loro emozioni o le loro sensazioni; bisogna però eccettuarne l'estremo dolore. Un toro furioso non manifesta il proprio furore che nel modo onde abbassa la testa, dilatando le narici e muggendo. Talvolta anche batte il suolo col piede, ma questo movimento dev'essere assai diverso da quello d'un cavallo impaziente; perché quando il terreno è polveroso, egli solleva turbini di polvere. Ritengo che il toro si comporti in siffatta maniera, allorché è vessato dalle mosche, allo scopo di liberarsene. Le razze di montoni selvaggi ed il camoscio, quando sono atterriti, battono col piede e sibilano per le narici, avvertendo così del pericolo i loro compagni. Il bue muschiato delle regioni artiche batte parimenti il suolo, in faccia a un nemico (100). Qual sia l'origine di questo gesto, non saprei indovinare, perché dalle mie ricerche non pare che alcuno di questi animali lotti colle gambe davanti.

Certe specie di cervi manifestano la collera in una maniera molto più espressiva che non i buoi, i montoni e le capre. Infatti vedemmo che questi animali arrovesciano le orecchie all'indietro, digrignano i denti, rizzano il pelo, mandano grida, battono il suolo col piede e scuotono le corna. Un giorno, al Giardino zoologico, il Cervus pseudaxis s'avvicinò a me in una singolare attitudine, con la testa un po' obliqua ed il muso levato in aria, in modo che le corna erano riverse sul con lo. L'espressione del suo sguardo m'indicava evidentemente ostili intenzioni; egli s'approssimò lentamente, poi, arrivando all'inferriata, in luogo d'abbassare la testa per colpirmi, raccolse d'improvviso il con lo e venne ad urtar fortemente colle corna le sbarre di ferro. Il Bartlett m'apprende che alcune altre specie di cervi, allorché sono furiose, assumono la stessa attitudine.

Scimmie. - Le scimmie delle diverse specie e dei diversi generi esprimono i propri sentimenti in maniere assai varie. Questo fatto è interessante, perché fino ad un certo punto sta in relazione con la questione di sapere se le pretese razze umane debbano venir considerate come specie o come varietà; in fatti, lo vedremo fra breve, le varie razze umane esprimono le loro emozioni e le loro sensazioni con una notevole uniformità su tutta la superficie del globo. Alcuni atti espressivi delle scimmie riescono interessanti sotto un altro punto di vista, perché, cioè, sono esattamente analoghi a quelli dell'uomo. Siccome non ebbi l'occasione d'osservare alcuna specie del gruppo in tutte le circostanze possibili, le sparse annotazioni che potei fare saranno meglio discusse sotto il capitolo dei vari stati dell'animo.

Piacere, gioia, affezione. - Nelle scimmie, almeno senza esperienza maggiore di quella ch'io m'abbia, è impossibile distinguere l'espressione del piacere o della gioia da quella dell'affezione. I giovani scimpanzé fanno sentire una specie di abbaiamento, al fine di esprimere la gioia che provano per il ritorno d'una persona a cui nutrono affetto. Producendo questo rumore, che i custodi qualificano col nome di riso, essi sporgono le labbra. Questo movimento del resto è comune alla espressione di alcune altre emozioni; per altro, in seguito alle mie osservazioni, la forma delle labbra è un po' varia a seconda ch'esprime il piacere o la collera. Allorché si solletica un giovane scimpanzé (come nei fanciulli, è soprattutto l'ascella che si mostra sensibile al solletico), esso articola un gaio suono od un riso abbastanza caratteristico, che però qualche volta è un riso muto. Gli angoli della bocca sono allora tirati all'indietro, il che talvolta increspa un poco le palpebre inferiori. Tuttavia questo increspamento delle palpebre, ch'è un tratto caratteristico del riso umano, s'osserva meglio in altre scimmie. I denti della mascella superiore non si discoprono, ciò che distingue il ridere del scimpanzé dal nostro. D'altra parte, secondo le osservazioni di W. L. Martin, che studiò in una maniera affatto speciale l'espressione nelle scimmie (101), gli occhi del scimpanzé sfavillano e si fan più brillanti.

Quando si solletica un giovane orango, ci fa un'analoga smorfia piacevole e produce un rumore di soddisfazione, e, secondo Martin, i suoi occhi divengono nello stesso tempo più brillanti. Appena cessa questo riso, si vede passargli sulla faccia un'espressione, che, da un'osservazione di Wallace, può paragonarsi a un sorriso. Io ho notato qualche cosa di analogo nel scimpanzé. Il dottor Duchenne - né potrei citare autorità migliore - mi narrò d'aver conservato per un anno in sua casa una scimmia perfettamente addomesticata; quando, al momento del pasto, egli le dava qualche leccornìa, vedeva leggermente elevarsi gli angoli della bocca di lei, ed allora distingueva assai nettamente sulla faccia di questo animale una espressione di compiacenza somigliante ad un abbozzo di sorriso e che richiamava quel che di spesso si osserva sul volto dell'uomo.

Anche il Cebus Azarae (102) emette un suono particolare, una specie di ghigno (in tedesco kichernden), per esprimere la contentezza che prova nel rivedere una persona amata. egli palesa anche sensazioni gradite tirando indietro gli angoli della bocca, senza produrre strepito alcuno. Rengger dà il titolo di riso a questo movimento, ma più esattamente si potrebbe chiamare un sorriso. La forma della bocca è affatto diversa nella espressione del dolore o dello spavento, i quali si manifestano inoltre con penetranti grida. Al Giardino zoologico si osserva un'altra specie di Cebus (C. hypoleucus), che palesa la propria soddisfazione mandando una nota acuta, penetrante, ripetuta, e tirando del pari all'indietro le commessure delle sue labbra, probabilmente per la contrazione dei medesimi muscoli che si contraggono in noi. Nella scimmia di Barberia (Inuus ecaudatus), questo movimento è singolarmente pronunciato, e la pelle della palpebra inferiore s'increspa. Nello stesso tempo l'animale muove spasmodicamente la mascella inferiore o le labbra e scopre i denti; ma lo strepito ch'esso produce non è per nulla più distinto di quello che noi designiamo talvolta sotto il nome di riso muto. Quando non avevo ancora alcuna esperienza sulle abitudini di questi animali, avendomi un giorno due fra i loro custodi asserito che questo strepito appena percettibile costituiva realmente la loro maniera di ridere, io esposi qualche dubbio in proposito; allora essi collocarono uno di quegli animali in presenza d'una scimmia Entellus che viveva nella medesima gabbia e ch'egli detestava. Ben tosto l'espressione della faccia dell'Inuus cambiò affatto: esso aprì molto di più la bocca, scoperse più completamente i denti canini e mandò un suono rauco e latrante.


Fig. 16 - Cynopithecus niger, in riposo. Dal vero, dis. dal sig. Wood

Fig. 17 - Lo stesso accarezzato e ch'esprime la propria soddisfazione.

Ho visto un guardiano provocare un babbuino Anubis (Cynocephalus anubis) e ridurlo così facilmente in uno stato di rabbia violenta, poi far la pace con lui e stendergli la mano. Al momento di questa riconciliazione, il babbuino moveva rapidamente d'alto in basso le mascelle e le labbra, con una espressione di visibile compiacenza. Quando noi sghignazziamo, le nostre mascelle son agitate da un movimento o da un tremito simile più o meno distinto; solo, nell'uomo, i muscoli del petto sono più specialmente messi in azione; nel babbuino all'incontro e in alcune altre scimmie, gli è sui muscoli delle mascelle e delle labbra che si produce questo movimento spasmodico.

Ebbi di già l'occasione di far osservare la singolare maniera onde due o tre specie di macachi ed il Cynopithecus niger esprimono la soddisfazione che loro procurano le carezze, contraendo le orecchie all'indietro e facendo sentire un leggero cinguettare. Nel Cynopithecus (fig. 17) gli angoli della bocca sono nel medesimo tempo tirati indietro ed in alto, in modo che i denti si scoprono. Senza esserne prevenuti, riuscirebbe difficile di riconoscere in questi caratteri una espressione di piacere. Il lungo ciuffo di peli che adorna la fronte si appiana e i tegumenti di tutta la testa sembrano tesi all'indietro. Anche le palpebre si sollevano un poco e lo sguardo assume un'aria sbalordita. Le palpebre inferiori s'increspano leggermente, ma quest'ultimo carattere non è molto visibile, in causa delle rughe che solcano in direzione trasversale e permanentemente la faccia.

Emozioni e sensazioni dolorose. - Nelle scimmie l'espressione di un leggero dolore o di qualsivoglia emozione penosa, affanno, contrarietà, gelosia, ecc., si distingue difficilmente dall'espressione di una collera moderata: d'altra parte questi stati d'animo si trasformano agevolmente e rapidamente gli uni negli altri. Tuttavia in certe specie l'angoscia si manifesta di certo col pianto. Una donna, la quale vendette alla Società zoologica una scimmia che fu supposto provenisse da Borneo (Macacus maurus o M. inornatus di Gray), asserì ch'essa piangeva di frequente; infatti, più tardi, Bartlett e Sutton videro a più riprese questo stesso animale piangere così quand'era affannato o semplicemente intenerito, che le lacrime gli colavano sulle guance. Peraltro, in questo fatto c’è qualche cosa di strano, perché non si videro mai a piangere due altri individui, conservati poi al Giardino zoologico e considerati siccome appartenenti alla medesima specie, benché fossero stati attentamente osservati dal loro custode e da me stesso, quand'erano molto afflitti e gridavano con forza. Secondo Rengger (103), gli occhi del Cebus Azarae, quando è assai atterrito o quando gli s'impedisce d'impadronirsi d'un oggetto molto desiderato, si riempiono di lacrime, ma non tanto in copia da poterne colare. Humboldt pretende ancora che gli occhi del Callithrix sciureus, colpito di paura, si riempiano istantaneamente di lacrime. Tuttavia, allorché al Giardino zoologico si aizzava questa leggiadra scimmietta, in modo da farle mandar forti grida, nulla si osservava di simile. Non è però ch'io voglia mettere minimamente in dubbio l'esattezza dell'asserzione di Humboldt.

L'aspetto abbattuto, negli orang e negli scimpanzé giovani, quando sono malati, è altrettanto manifesto e quasi altrettanto espressivo che nei nostri fanciulli. Questo stato dell'animo e del corpo è fatto palese dai movimenti trascurati, dalla fisionomia abbattuta, dallo sguardo languido e dal colorito alterato.

Collera. - Questa emozione, manifestata di spesso dalle scimmie di diverse specie, si esprime nelle più differenti maniere. «Certe specie, dice Martin (104), sporgono le labbra, fissano uno sguardo scintillante e feroce sul loro nemico; fanno ripetuti saltelli come per slanciarsi in avanti, ed emettono un suono gutturale e soffocato. Altre palesano la collera avanzandosi bruscamente, eseguendo salti interrotti, aprendo la bocca ed increspando le labbra in modo da nascondere i denti, fissando audacemente gli occhi sul loro nemico, quasi ad indicare una feroce diffidenza. Altre infine, e precipuamente le scimmie a lunga coda o bertucce, mostrano i denti ed accompagnano le loro maliziose smorfie con un grido acuto, tronco, ripetuto». Sutton conferma il fatto che certe specie, in segno di furore, scoprono i denti, mentre altre li nascondono avanzando le labbra. In talune le orecchie si arrovesciano indietro. Il Cynopithecus niger, onde abbiamo già parlato, si comporta egualmente, nello stesso tempo in cui abbassa il ciuffo di peli che gli adorna la fronte e mostra i denti; sicché la disposizione dei lineamenti della sua faccia è quasi la stessa sotto l'influenza della collera e sotto quella del piacere, e senz'avere una grande esperienza sulla fisionomia dell'animale in discorso, riesce difficile distinguere l'una dall'altra queste due espressioni.

I babbuini manifestano spesso la collera e minacciano i nemici in un modo molto bizzarro: spalancano la bocca come volessero sbadigliare. Bartlett vide più volte due babbuini, collocati per la prima volta nella medesima gabbia, sedersi in faccia l'uno dell'altro ed aprire alternativamente la bocca: atto che sembra per giunta terminarsi di frequente con un vero sbadiglio. Bartlett pensa che i due animali vogliano così mostrarsi a vicenda che son forniti di formidabili file di denti, il che è vero. Siccome io duravo fatica a prestar fede alla realtà di un tal movimento, il signor Bartlett provocò un giorno in mia presenza un vecchio babbuino e lo ridusse in uno stato di estremo furore; il babbuino quasi subito aprì la bocca. Alcune specie di Macachi e di Cercopitechi (105) si comportano nella stessa maniera. In seguito alle osservazioni fatte da Brehm su quelli ch'egli tenne vivi in Abissinia, il babbuino manifesta la collera anche in un'altra maniera, battendo, cioè, il suolo con una mano «come un uomo irritato batte col pugno una tavola che gli sta dinanzi». Infatti io constatai questo gesto nei babbuini del Giardino zoologico; ma sembra piuttosto ch'essi abbiano sovente lo scopo di cercare una pietra o qualche altro oggetto nel loro strame di paglia.

Il signor Sutton osservò spesse volte che quando un Macacus rhesus montava nel massimo furore, la faccia di lui diveniva rossa. Nel momento stesso in cui mi descriveva questo fatto, un'altra scimmia attaccò un rhesus, ed io vidi in realtà la faccia di quest'ultimo arrossare così palesemente come il volto d'un uomo in un accesso di collera violenta. Dopo la lotta, la faccia della scimmia in capo ad alcuni minuti riprende il colorito abituale. egli mi sembra che la parte posteriore, glabra, del tronco, la quale è normalmente rossa, lo divenisse ancor più insieme alla faccia; peraltro non posso asserirlo. Si dice che quando il mandrillo è irritato in un modo qualunque, le parti glabre della sua pelle, che hanno tinte vivaci, assumano un colorito ancora più spiccato.

In molte specie di babbuini la parte superiore della fronte sporge d'assai al di sopra degli occhi ed è fornita di un piccolo numero di lunghi peli, che rappresentano le nostre sopracciglia, Codesti animali osservano incessantemente da tutte le bande, e, per guardare in alto, sollevano questa parte del fronte. Secondo ogni apparenza, è così che dovettero acquistar l'abitudine di movere frequentemente i sopraccigli. Comunque sia, molte specie di scimmie e specialmente i babbuini, sotto l'influenza della collera o di fronte a una provocazione qualunque, li agitano rapidamente e continuamente dall'alto in basso insieme al peloso tegumento del fronte (106). Siccome abbiamo presa l'abitudine di associare nella specie umana l'elevazione e l'abbassamento dei sopraccigli con certi stati dell'animo, il movimento quasi incessante di questi organi nelle scimmie dà loro una fisionomia affatto insensata. Ebbi l'occasione di osservare un individuo che aveva il ghiribizzo di levar di continuo le sopracciglia senza che vi corrispondesse alcun sentimento, cosa che gli dava l'aria di un imbecille. Ed è lo stesso di certe persone, le. quali hanno costantemente gli angoli della bocca un po' rialzati e tesi all'indietro, come per abbozzare un sorriso, senza che provino il minimo sentimento di gioia e di allegrezza il quale giustifichi una tale attitudine.


Fig. 18 - Scimpanzè disgustato e di cattivo umore. Dal vero, dis. dal sig. Wood.

Un giovane orango, geloso delle premure che il suo custode accordava ad un'altra scimmia, scoprì leggermente i denti, poi, facendo sentire un grido di cattivo umore analogo al suo tish-shist, gli voltò la schiena. Sotto l'influenza d'una collera un po' più intensa, gli orang ed i scimpanzé sporgono molto le labbra e mandano un rauco guaìto. Un giovane scimpanzé femmina, in un accesso di collera violenta, offrì una curiosa rassomiglianza con un fanciullo che si trovi nel medesimo stato d'animo. con la bocca spalancata, le labbra contratte ed i denti completamente scoperti, mandava risonanti grida. Lanciava da ogni lato le braccia e le riuniva talvolta sopra la testa. Si rotolava in terra, ora sul dorso, ora sul ventre e mordeva tutto ciò che era alla sua portata. In base ad una descrizione (107), un giovane gibbone (Hylobates syndactylus) in un accesso di collera si comportò quasi esattamente nella stessa maniera.

I giovani orang ed gli scimpanzé in diverse circostanze sporgono le labbra, talvolta in modo meraviglioso. Essi operano così, non solo quando sono leggermente stizziti, sguaiati o disgustati, ma anche allorché sono atterriti da un oggetto qualunque, - ad esempio, venendo ad un caso particolare, alla vista di una testuggine (108) - ed anche quando sono allegri. Tuttavia io credo che né il grado di questa proiezione delle labbra, né la forma della bocca siano esattamente identici in tutti i casi. Per giunta, i suoni emessi in queste diverse circostanze variano assai. Il disegno qui annesso rappresenta un scimpanzé ridotto di cattivo umore, togliendogli un arancio che prima gli era stato offerto. Nei fanciulli sguaiati si può osservare un analogo movimento delle labbra, benché men pronunciato.

Alcuni anni or sono, io collocai un giorno sul pavimento, al Giardino zoologico, uno specchio dinanzi a due giovani orang, i quali, per quanto almeno mi consta, non avevano giammai visto nulla di simile. Essi cominciarono a guardarlo con la più manifesta sorpresa, cangiando spesso il punto di vista. Poi vi si avvicinarono affatto, sporgendo le labbra verso la loro immagine, quasi per darle un bacio, precisamente come avevano fatto fra loro alcuni giorni avanti, quand'erano stati messi per la prima volta nella medesima gabbia. Quindi eseguirono ogni specie di smorfie e si collocarono in faccia allo specchio nelle più svariate attitudini: s'appoggiavano sulla sua superficie e la sfregavano; mettevano le mani a diverse distanze dietro di esso; finalmente parvero quasi atterriti, rincularono alquanto, divennero di cattivo umore e rifiutarono di guardarlo più a lungo.

Allorché noi cerchiamo di compiere qualche atto che richiede poca forza, ma è minuzioso ed esige precisione, quando, ad esempio, vogliamo infilare un ago, serriamo di solito le labbra con energia, allo scopo, io penso, di non turbare i nostri movimenti col respiro. Ho visto un giovane orang comportarsi in modo simile. La povera bestiola era malata e si dilettava tentando di uccidere colle dita sui vetri le mosche che ronzavano attorno; ad ogni tentativo chiudeva esattamente le labbra e le sporgeva alquanto.

Così, in certe circostanze, nell'orang e nel scimpanzé la fisionomia e più ancora l'attitudine sono notevolmente espressive; tuttavia io credo che lo siano ancor più in altre specie di scimmie. Tale differenza si può spiegare in parte coll'immobilità delle orecchie, nelle scimmie antropomorfe, in parte con la nudità dei loro sopraccigli, i di cui movimenti sono quindi meno apparenti. Peraltro quando elevano le sopracciglia, la loro fronte si copre, come in noi, di rughe trasversali. Confrontata a quella dell'uomo, la loro faccia è inespressiva; il che dipende precipuamente da ciò che nessuna emozione fa in esse aggrottar le sopracciglia, per quanto almeno io potei osservare (ed è questo un punto sul quale portai la mia particolare attenzione). L'aggrottamento dei sopraccigli, uno dei segni più importanti nell'espressione del volto umano, è dovuto alla contrazione dei sopraccigliari, che abbassano i tegumenti e li avvicinano alla radice del naso, in modo da produr sulla fronte delle pieghe verticali. Pare (109) che l'orang e lo scimpanzé posseggano entrambi questo muscolo, ma pare altresì che lo mettano raramente in azione, almeno in maniera molto visibile. Avendo disposte le mie mani così da formare una specie di gabbia, ed avendovi chiuse delle frutta appetitose, lascia fare all'orang ed al scimpanzé tutti gli sforzi per impadronirsene: essi finirono col mettersi alquanto di cattivo umore, ma non osservai traccia alcuna di sopracciglia aggrottate. né, quando montano in furia, se ne può scorgere alcuna. Due volte feci bruscamente passare due scimpanzé dalla relativa oscurità della loro gabbia alla viva luce del sole, che ad un uomo avrebbe di certo fatto aggrottare il sopracciglio; essi battevano gli occhi, ma solo una volta mi fu dato osservare un leggerissimo aggrottamento. In un'altra occasione, solleticai con una paglia il naso d'un scimpanzé, e siccome contraeva il viso, vidi apparire tra i sopraccigli delle grinze verticali poco distinte. Non ho mai osservato alcun aggrottamento sulla fronte dell'orang.

Quando il gorilla è in furore, si dice che rizzi la cresta di peli, abbassi il labbro inferiore, dilati le narici e mandi spaventevoli urli. Secondo i signori Savage e Vyman (110), il cuoio capelluto può muoversi libero dall'indietro in avanti, e, sotto l'influenza della collera «si contrae» vivamente. Io credo che con quest'ultima espressione essi vogliano dire che il cuoio capelluto si abbassa, «quando grida, egli ha le sopracciglia molto contratte». La grande mobilità del cuoio capelluto nel gorilla, in molti babbuini e in parecchie altre scimmie, merita di venir segnalata a causa del rapporto tra questo fenomeno e la facoltà che possiedono alcuni uomini di muoverlo anche volontariamente per un effetto di reversione o di persistenza (111).

Stupore, spavento. - Un giorno, al Giardino zoologico, feci collocare una testuggine d'acqua dolce, viva, nella medesima gabbia con molte scimmie; esse manifestarono uno smisurato stupore, ed insieme un po' di spavento. Restavano immobili, guardando fisso, cogli occhi spalancati, e muovendo frequentemente le palpebre dall'alto in basso. Il loro viso pareva alquanto allungato. Di quando in quando si sollevavano sulle gambe di dietro per veder meglio. Spesso rinculavano di alcuni passi, poi si rimettevano a guardare con attenzione, girando la testa sopra una spalla. Cosa curiosa, erano assai meno sgomentate dalla vista di questa testuggine che da quella di un serpente vivo da me giorni addietro collocato nella loro gabbia (112); perché, in capo ad alcuni minuti, parecchie di esse s'azzardarono di avvicinarsi e di toccar la testuggine. Peraltro taluno fra i più grandi babbuini era atterrito al massimo grado, e mostrava i denti come fosse stato sul punto di mandar delle grida. Feci vedere al Cynopithecus niger una piccola fantoccia vestita: egli s'arrestò immobile, cogli occhi spalancati e fissi, e le orecchie piegate alquanto in avanti. Ma quando fu collocata la testuggine nella sua gabbia, questa scimmia cominciò a muover le labbra in un modo singolare, rapido e rumoroso, il che, a dir del custode, aveva allo scopo di carezzare o di allettar la testuggine.

Non ebbi mai occasione di osservare nettamente se, nella espressione dello stupore, le sopracciglia della scimmia si mantengono permanentemente elevate, mentre le ho viste spesse volte muoversi dall'alto in basso. Nell'uomo, l'attenzione, che precede lo stupore, si esprime con una leggera elevazione delle sopracciglia. Il dottor Duchenne m'ha narrato che, quando presentava alla scimmia cui ho fatto cenno qualche novella e sconosciuta leccornia, questo animale dapprima rialzava alquanto le sopracciglia e si dava un'aria di profonda attenzione; prendeva quindi l'oggetto tra le dita, e colle sopracciglia abbassate o rettilinee, lo grattava, lo fiutava, lo esaminava, ed in allora assumeva un'espressione riflessiva. Quando a quando rovesciava un po' la testa all'indietro e ricominciava il suo esame alzando bruscamente le sopracciglia; infine lo assaporava.

Le scimmie non aprono mai la bocca in segno di stupore. Il signor Sutton, che per mio conto osservò a lungo un giovane orang ed uno scimpanzé, non li vide mai aprire la bocca, nemmeno quando erano affatto sbalorditi o quando prestavano l'orecchio a qualche inusitato rumore. Questo fatto è curioso, perché nell'uomo, sotto l'impressione della sorpresa, non si dà forse carattere espressivo più generale della bocca spalancata. Per quanto potei osservare, la scimmia respira per le narici più liberamente dell'uomo, il che può dare spiegazione al precedente fenomeno; infatti, vedremo in uno dei seguenti capitoli che l'uomo, colpito di stupore, apre probabilmente la bocca, prima per effettuare una profonda inspirazione, e in secondo luogo, per respirare più facilmente che sia possibile.

Molte specie di scimmie esprimono il terrore mandando penetranti grida; nello stesso tempo le labbra si ritirano indietro, in modo da mettere a nudo i denti. Il pelo si erige, soprattutto quando un po' di collera si mesce al predetto sentimento. Il sig. Sutton vide distintamente la faccia del Macacus rhesus farsi pallida sotto l'influenza dello spavento. Il terrore fa tremare anche le scimmie, che lasciano talora sfuggire i loro escrementi. N'ebbi a veder una la quale tutte le volte che la si afferrava, per eccessivo terrore cadeva quasi in deliquio.

In presenza al numero considerevole di fatti che abbiamo citati relativamente alle espressioni dei diversi animali, è impossibile condividere l'opinione di sir C. Bell, quando dice (113) che «la faccia degli animali sembra principalmente capace di esprimere la collera e lo spavento», ed altrove, che tutte le loro espressioni «possono essere rapportate, più o meno completamente, ai loro atti di volizione o ai loro istinti necessari». Se si vuole osservare bene un cane nel punto in cui si dispone ad attaccare un altro cane od un uomo, e lo stesso animale quando carezza il proprio padrone; se si studia la fisionomia d'una scimmia allorché è provocata e quando è carezzata dal suo custode, si dovrà ad ogni costo riconoscere che i moti dei lineamenti ed i gesti sono quasi altrettanto espressivi in questi animali che nell'uomo. Benché alcune di codeste espressioni negli animali non possano ancora ricevere interpretazione soddisfacente, nondimeno già ci è dato spiegare il maggior numero di esse coi tre principi enunciati all’inizio del primo capitolo.


CAPITOLO VI. ESPRESSIONI SPECIALI ALL'UOMO: DOLORE E PIANTO

Grida e pianto nel fanciullo. - Aspetto dei lineamenti. - Età in cui comincia il pianto. - Effetti della repressione abituale del pianto. - Singulto. - Causa della contrazione dei muscoli che attorniano l'occhio durante le grida. - Causa della secrezione delle lacrime.

In questo e nei seguenti capitoli mi propongo di descrivere e di spiegare - per quanto è possibile - le espressioni manifestate dall'umana fisionomia sotto l'influenza dei vari stati dell'animo. E disporrò le mie osservazioni secondo l'ordine che a me pare più logico, vale a dire facendo, in maniera generale, succedere l'una all'altra emozioni o sensazioni di carattere opposto.

Dolori fisici e morali; pianto. - Nel capitolo III ho già descritto con sufficienti dettagli, quali segni di un estremo dolore, le grida o i gemiti, le convulsioni di tutto il corpo, il restringimento delle mascelle o il digrignare dei denti. Questi segni sono spesso accompagnati o seguiti da un abbondante sudore, dalla pallidezza, dal tremito, da una completa prostrazione, dal deliquio. Non c’è dolore più grande di quello cagionato da una paura o da un orrore spinto all'ultimo limite; ma, in questo caso, entra in gioco una speciale e distinta emozione, sulla quale avremo a ritornare. Il dolore prolungato, soprattutto il dolore morale, si trasforma in abbattimento, tristezza, scoraggiamento, disperazione; questi stati diversi formeranno soggetto del seguente capitolo. Per ora m'intratterrò quasi esclusivamente sul pianto e sulle grida, in particolare nel fanciullo.

Quando il bambino soffre un dolore anche leggero, una fame moderata, una semplice contrarietà, manda grida violente e prolungate. Allo stesso tempo i suoi occhi si chiudono energicamente e si cingono di pieghe; la fronte s'aggrinza e il sopracciglio s'increspa. La bocca si spalanca e le labbra si contraggono in un modo speciale, che dà a questo orifizio una forma pressoché quadrangolare; le gengive od i denti si discoprono più o meno. La respirazione si precipita e diviene quasi spasmodica. Non è cosa difficile far osservazioni del genere su di un fanciullo mentre grida; ma io credo si ottengano migliori. risultati ricorrendo a fotografie istantanee, le quali si possono studiare a bell'agio e con ogni attenzione. Io riunii una dozzina di queste fotografie, la maggior parte eseguite per conto mio: esse rappresentano tutte gli stessi generali caratteri; sicché ne feci riprodurre sei (Tavola I) coll'incisione eliografica (114).

L'energico rinserrare delle palpebre, che costituisce un elemento di primo ordine nelle varie espressioni della fisionomia, e la compressione esercitata sui globi oculari, che n'è la conseguenza, proteggono gli occhi, come sarà or ora spiegato, contro il pericolo di un afflusso sanguigno troppo considerevole. Quanto all'ordine, secondo il quale i vari muscoli si contraggono per produrre tale compressione, fu questo, da parte del dottor Langstaff, di Southampton, l'oggetto di alcune osservazioni, cui mi volle comunicare e ch'io ho verificate poi. A rendersene conto, il miglior mezzo è quello di pregare una persona a voler alzare dapprima le sopracciglia in modo da solcare la fronte di rughe trasverse, poi di contrarre lentamente tutti i muscoli che attorniano gli occhi con una energia gradualmente crescente ed infine con tutte le forze. Prego qui il lettore poco familiarizzato colle cognizioni anatomiche di gettare lo sguardo sulle figure 1, 2 e 3. Pare che i corrugatori sopraccigliari (corrugatores supercilii) siano i primi muscoli che si contraggono; essi attirano i tegumenti in basso ed in dentro verso la base del naso, facendo comparire le pieghe verticali che costituiscono l'aggrottamento dei sopraccigli, e tolgono nello stesso tempo le grinze trasversali del fronte. Quasi simultaneamente, entrano in azione i muscoli orbicolari ed increspano i tegumenti che attorniano gli occhi; tuttavia sembra che la loro contrazione acquisti una maggiore energia, appena quella dei sopraccigliari ha dato loro un punto d'appoggio. Ultimi entrano in gioco i piramidali del naso, abbassando ancora le sopracciglia e la pelle del fronte, e producendo delle corte rughe trasverse sulla radice del naso (115). A dir breve, noi distingueremo spesso l'insieme di questi diversi muscoli col termine generale di muscoli orbicolari o peri-oculari.


Tav. I

Quando gli anzidetti muscoli siano energicamente contratti, quelli che corrono al labbro superiore (116), entrano alla loro volta in azione e lo elevano; conseguenza facile a prevedersi, allorché si rammentino le connessioni esistenti almeno fra uno di loro, il malaris e l'orbicolare. Contraete grado grado i muscoli peri-oculari, e sentirete quasi subito, a misura che lo sforzo diverrà più energico, il vostro labbro superiore sollevarsi alquanto in uno alle pinne del naso, che in parte sono dirette dai medesimi muscoli. Nello stesso tempo tenete la bocca perfettamente chiusa, poi lasciate andar bruscamente le labbra e sentirete ben presto farsi maggiore la pressione esercitata sui vostri occhi. Esaminate parimenti una persona che, esposta ad una vivida luce o volendo fissare un oggetto lontano, è costretta a chiudere in parte le palpebre, - e quasi sempre osserverete che il suo labbro superiore leggermente s'innalza. In alcuni individui, i quali, per una miopia, hanno l'abitudine di restringere, guardando, l'orifizio palpebrale, si vede che la bocca assume, dopo lungo tempo, un'espressione di smorfia.

L'elevazione del labbro attira la parte superiore delle guance, e dà luogo su ciascuna di esse ad uno spiccatissimo solco, il solco naso-labiale, che, partendo daccanto alla pinna del naso, si prolunga fino al di sotto della commissura. Questo solco può osservarsi su tutte le mie fotografie; esso costituisce un segno assai caratteristico della fisionomia del fanciullo che piange; per altro se ne produce uno quasi eguale nell'atto del riso o del sorriso (117).

Mentre, come abbiamo spiegato, il labbro superiore, durante le grida, è a questo modo teso in alto, i muscoli abbassatori degli angoli della bocca (fig. 1 e 2 K), per mantenere questa spalancata e lasciar passare un volume considerevole di suono, vengono energicamente contratti. Codesta azione antagonista dei muscoli superiori ed inferiori tende a dare all'apertura boccale una forma oblunga, pressoché quadrata; gli è ciò che si vede nelle annesse fotografie. Un romanziere, osservatore eccellente (118), descrivendo un bambino che grida mentre gli si dà a mangiare, dice: «La sua bocca si faceva quadrata, e la zuppa sfuggiva dai quattro angoli». Io penso - e d'altra parte torneremo su questo punto in un altro capitolo - io penso che gli abbassatori degli angoli della bocca siano meno soggetti al controllo isolato della volontà che i muscoli vicini; sicché, quando un fanciullo si dispone a piangere senza esservi ancora ben deciso, questi muscoli sono in generale i primi a contrarsi, e gli ultimi a cessare d'essere contratti. Allorché un fanciullo d'età più avanzata comincia a piangere, i muscoli che corrono al labbro superiore sono spesso i primi a contrarsi; forse perché il fanciullo più avanti cogli anni ha meno tendenza a piangere fragorosamente e di conseguenza a tener la bocca spalancata, sicché i muscoli abbassatori su accennati non agiscono tanto energicamente.

Ho osservato di spesso in uno dei miei figlioli, a partire dall'ottavo giorno dalla sua nascita e per qualche tempo dopo che il primo segno d'un accesso di grida, quando pure lo si poteva cogliere, era un leggero aggrottamento delle sopracciglia dovuto alla contrazione dei sopraccigliari; nello stesso tempo, i vasi capillari della faccia e della testa, sprovvista di capelli, si riempiono di sangue. Appena l'accesso cominciava realmente, tutti i muscoli peri-oculari si contraevano con forza e la bocca si spalancava nel modo su esposto; per la qual cosa, fin da un'età così tenera, i lineamenti assumono già la medesima forma che ad un'epoca più avanzata.

Il. dottor Piderit (119) insiste molto sulla contrazione di certi muscoli che tirano in basso il naso e restringono le narici, come se questo fosse un segno eminentemente caratteristico della espressione del pianto. I depressori (depressores anguli oris), siccome vedemmo, sono generalmente contratti nel medesimo tempo, e, secondo il dottor Duchenne, tendono indirettamente ad agire nello stesso modo sul naso. Questa stessa apparenza di restrizione del naso si può notare nei fanciulli molto infreddati: apparenza in parte dovuta, come m'ha fatto osservare il dottor Langstaff, al loro continuo respirar per il naso ed alla pressione dell'atmosfera che in seguito si esercita da ciascun lato. Lo scopo di questa contrazione delle narici nei fanciulli che sono infreddati o che piangono, sembra esser quello d'opporsi al flusso del muco o delle lacrime e d'impedire a questi fluidi di riversarsi sul labbro superiore.

Dopo un accesso di grida prolungato e violento, il cuoio capelluto, il volto e gli occhi si fanno rossi, in seguito all'ostacolo arrecato alla circolazione centripeta dagli sforzi violenti di espirazione; ma l'arrossamento degli occhi irritati si deve all'abbondante spargimento di lacrime. I vari muscoli della faccia, che furono energicamente contratti, stirano ancora un po' i lineamenti, ed il labbro superiore è leggermente rialzato o rovesciato (120), mentre gli angoli orali un poco si abbassano. Ho provato io stesso, ed osservai su altre persone adulte, che quando si dura fatica a trattenere le lacrime, siccome alla lettura di un commovente racconto, è quasi impossibile impedire che i vari muscoli, i quali agiscono così energicamente nei fanciulli durante gli accessi di grida, sussultino o tremino leggermente.

Nelle prime settimane di vita il bambino, come san bene le nutrici ed i medici, non sparge lacrime. né ciò dipende solo dall'inettitudine delle ghiandole lacrimali a secernere; perché (l'ebbi a notare per la prima volta) avendo sfiorato accidentalmente con la fodera del mio soprabito l'occhio aperto di un mio figliolino di settantasette giorni, glie ne venne un'abbondante lacrimazione; e quantunque il bambino mandasse grida violente, l'altro occhio si mantenne asciutto, o per lo meno non s'umettò che assai leggermente. Dieci dì avanti, in un accesso di grida, avevo osservato questo debole spargimento di lacrime su entrambi gli occhi. In questo medesimo pargoletto, a cento e ventidue giorni, le lacrime non celavano ancora sotto le palpebre, né discendevano lungo le guance. Ciò avvenne per la prima volta diciassette giorni più tardi, cioè all'età di centotrentanove giorni. Feci sottoporre all'osservazione anche altri bambini, e l'epoca in cui appaiono veramente le lacrime mi sembra molto variabile. In un caso gli occhi si umettano leggermente a soli venti giorni di vita; in un altro a sessantadue. In due altri bambini le lacrime non colavano ancora sul viso a ottantaquattro e a cento e dieci giorni; in un terzo, a cento e quattro. Mi venne asserito che in un pargoletto si videro colare le lacrime all'età notevolmente precoce di quarantadue giorni. Sembra che le ghiandole lacrimali abbiano uopo di una certa abitudine acquisita prima di poter entrare agevolmente in azione, quasi nella stessa maniera con cui i vari movimenti e gusti consensuali trasmessi per eredità richiedono un certo esercizio prima d'essere stabiliti e ridotti al loro stato definitivo. Questa ipotesi è soprattutto verosimile per un'abitudine qual è quella del pianto, che dev'essere stata acquisita posteriormente all'epoca in cui l'uomo si è separato dalla origine comune del genere Uomo e dalle Scimmie antropomorfe, le quali non piangono.

E’ cosa notevole che né il dolore, né alcun'altra emozione provochi nel primo periodo della vita la secrezione delle lacrime, le quali più tardi diventano l'espressione più generale e più spiccata. Una volta che il fanciullo acquistò l'abitudine, essa esprime nel modo più chiaro la sofferenza di ogni genere, il dolore corporale come l'angoscia dell'anima, anche allora che questa si accompagna ad altre emozioni, come la paura o la collera. Peraltro il carattere del pianto si modifica molto per tempo, siccome osservai sui miei propri figli, ed il pianto della collera differisce da quello del dolore. M'ha narrato una madre, che la sua figliolina, di nove mesi, quand'è in collera, grida con violenza, ma senza piangere; ma se la si punisce facendola sedere col dorso contro la tavola, le sue lacrime cominciano a cadere. Questo divario deve forse attribuirsi al fatto che, avanzando in età, noi reprimiamo il pianto nella maggior parte dei casi, tranne nell'angoscia; e a quell'altro che l'influenza di codesta abituale repressione si trasmette per eredità ad un'epoca della vita più precoce di quella in cui fu dapprima esercitata.

Nell'adulto, e soprattutto nel sesso maschile, il dolore fisico non provoca più lo spargimento di lacrime, e questo espressivo carattere sparisce assai presto. Ciò si spiega pensando che tanto le nazioni civilizzate quanto le razze barbare considerano una indegna viltà per un uomo di manifestare con segni esteriori il dolore fisico. Fattane questa eccezione, si sa che i selvaggi versano abbondanti lacrime per cause estremamente futili. Sir J. Lubbock raccolse «molte osservazioni in proposito (121). Un capo della Nuova Zelanda «si mise a piangere come un fanciullo, perché i marinai avevano lordato il suo mantello prediletto spandendovi della farina». Nella Terra del Fuoco ho visto un naturale, orbo appena del fratello, che, passando alternativamente dal dolore alla gaiezza, piangeva con una violenza isterica, e un momento dopo sghignazzava di tutto che poteva distrarlo. Del resto le nazioni civilizzate dell'Europa, in riguardo alla frequenza del pianto, presentano spiccatissime differenze. L'Inglese non piange che sotto l'incubo di un eccessivo dolore; in alcune parti del continente, all'incontro, gli uomini spargono lacrime molto più facilmente ed in copia maggiore.

È noto che gli alienati si abbandonano senza ritegno, o quasi, a qualunque emozione. Secondo le informazioni fornitemi dal dottor J. Crichton Browne, il sintomo più caratteristico della semplice malinconia, anche nel sesso maschile, è una tendenza a piangere per i più futili motivi, ed anche senza causa alcuna, o a piangere in un modo affatto esagerato in presenza d'un reale argomento d'affanno. Il tempo per cui possono piangere certi malati di questa categoria, siccome la quantità delle lacrime sparse, son veramente prodigiosi. Una giovinetta, colta da malinconia, dopo aver pianto per tutto un giorno, finì col confessare al dottor Browne che ciò dipendeva unicamente dalla ricordanza di essersi rase un dì le sopracciglia, al fine di farle crescer più fitte. Nell'Asilo si vedono talvolta malati star ore intere a dondolarsi dall'avanti all'indietro, e «se si fa per parlare a loro, s'arrestano, increspano gli occhi, abbassano gli angoli della bocca e scoppiano in lacrime». In certi casi sembra che un motto, un saluto benevolo bastino ad inspirar loro qualche idea fantastica e mesta; altre volte, è uno sforzo di qualunque natura che provoca il pianto, indipendentemente da ogni doloroso pensiero. Gli individui colti da acuta mania hanno anche, in mezzo al loro incoerente delirio, violenti accessi di pianto. Non bisogna peraltro considerare questi abbondanti spargimenti di lacrime negli alienati, siccome unicamente dovuti alla mancanza di ogni ritegno; perché certe affezioni cerebrali, come l'emiplegia, il rammollimento e il marasma, presentano pure una speciale disposizione a provocare le lacrime. D'altra parte, negli alienati il pianto è frequente anche poiché hanno raggiunto uno stato di completa imbecillità e perduta la facoltà di parlare. I nati idioti piangono pur essi (122); sembra che così non avvenga dei cretini.

In seguito a ciò che osserviamo nel fanciullo, sembra che il pianto costituisca l'espressione naturale e primitiva di ogni dolore, del dolore morale, e del dolore fisico quando questo non è spinto agli ultimi limiti. Tuttavia i precedenti fatti e la continua esperienza ci mostrano che uno sforzo ripetuto sovente per soffocare le lacrime, associato a certi stati dell'animo, agisce molto efficace, ed alla fine ci dà, sotto questo riguardo, un grande impero su noi medesimi. Sembra all'incontro che l'abitudine abbia anche il potere di accrescere la facoltà di piangere: così il reverendo R. Taylor (123), che tenne a lungo sua residenza nella Nuova Zelanda, asserisce che là le donne possono volontariamente spargere abbondanti lacrime: esse si riuniscono a pianger sui morti, e si gloriano di farlo «a gara nel modo più compassionevole».

Sembra che uno sforzo isolato allo scopo di reprimere le lacrime eserciti poca influenza sulle ghiandole lacrimali, ed anzi che abbia di spesso un effetto contrario a quello che se n'attende. Un vecchio medico, ricco d'esperienza, mi diceva di non aver mai trovato che un solo mezzo per metter un termine agl'indomabili accessi di pianto che talvolta vediamo prodursi nelle donne: ed era di pregarle con insistenza onde non facessero sforzo alcuno per contenersi e d'assicurarle che nulla porterebbe loro sollievo meglio d'un lungo e copioso spargimento di lacrime.

Nel bambino le grida consistono in prolungate espirazioni, interrotte da inspirazioni corte e rapide, quasi spasmodiche; ad un'età più avanzata appare il singhiozzo. Secondo Gratiolet (124) la glottide ha la principale funzione nell'atto del singhiozzo, che si produce «al momento in cui l'inspirazione vince la resistenza della glottide e l'aria si precipita nel petto». nondimeno l'atto completo della respirazione è parimenti spasmodico e violento. In generale le spalle si sollevano, moto che rende più facile la respirazione. In un mio figlioletto, quand'aveva settantasette giorni, le inspirazioni erano sì rapide e forti, che il loro carattere s'avvicinava a quello del singhiozzo: solo all'età di cento e trentotto giorni notai per la prima volta un distinto singulto, e da questo momento, ogni accesso violento di pianto era seguito da singhiozzi. Come si sa, i movimenti respiratorii sono in parte volontari ed in parte involontari, ed io credo che il singhiozzo, almeno parzialmente, sia dovuto al fatto che il bambino, poco dopo la nascita, acquista una certa potenza per comandare ai propri organi vocali e per arrestare le grida, mentre fruisce d'un potere ben inferiore sui muscoli respiratorii, i quali, messi violentemente in azione, continuano ancor qualche tempo ad agire in modo involontario o spasmodico. Il singulto sembra speciale alla specie umana; infatti, i custodi del Giardino zoologico mi hanno asserito di non aver giammai osservato nulla di simile in alcuna specie di Scimmia; quantunque le Scimmie, inseguite o prese, mandino spesso acute grida e restino poi per lungo tempo anelanti. Così tra il singhiozzo e l'abbondante spargimento di lacrime esiste un'intima analogia; infatti, il singulto non comincia dalla più tenera infanzia, ma compare più tardi e quasi improvviso, per seguire in avanti ogni accesso di pianto, fino a che codesta abitudine col progredir dell'età venga repressa.

Cause della contrazione dei muscoli, che circondano l'occhio, durante le grida. - Vedemmo che i bambini, nell'infanzia ed anche nella puerizia, allora che gridano, per la contrazione dei muscoli circostanti, chiudono invariabilmente gli occhi con energia, in modo da produr sulla pelle delle pliche caratteristiche. Nel giovinetto ed anche nell'adulto, tutte le volte in cui si produca un accesso di pianto violento e senza ritegno, si può pure notare una tendenza alla contrazione di questi medesimi muscoli; tuttavia la volontà fa spesso ostacolo a tal contrazione, onde la vista non ne sia incomodata.

Sir C. Bell spiega questo fatto nel modo seguente (125): «Quando si produce un violento sforzo di espirazione, sia che si tratti di ghigno, di pianto, di tosse o di starnuto, il globo dell'occhio vien fortemente compresso dalle fibre dell'orbicolare; questa compressione ha lo scopo di proteggere il sistema vascolare dell'interno dell'occhio contro un impulso retrogrado comunicato in tal momento al sangue venoso. Allorché si contrae il petto per espellere l'aria, il sangue s'arresta nelle vene del con lo e della testa, e, nei più energici sforzi, esso non si limita a distendere i vasi, ma rifluisce nei ramoscelli vascolari. Se in questo momento l'occhio non andasse soggetto ad una conveniente pressione, opponendo resistenza all'urto sanguigno, potrebbero avvenire irreparabili lesioni nei delicatissimi tessuti del globo oculare». E più avanti, lo stesso autore aggiunge: «Se si sollevano le palpebre d'un fanciullo per esaminare i suoi occhi, nell'istante in cui piange e grida con collera, la congiuntiva s'inietta bruscamente di sangue e le palpebre vengono respinte, perché a questo modo è soppresso il punto d'appoggio naturale del sistema vascolare dell'occhio ed insieme l'ostacolo opposto alla corrente circolatoria d'invadere i canali sanguigni».

In base alla nota di sir C. Bell, spesso confermata dalle mie proprie osservazioni, i muscoli peri-oculari si contraggono con energia non solo durante il pianto, il riso, la tosse e lo starnuto, ma ancora in vari altri atti di analoga natura. Osservate ad esempio un individuo che si soffi il naso con forza. Pregai un dì un mio ragazzo a mandar con ogni sua possa un grido violento; ben tosto egli prese a contrarre i muscoli orbicolari: ripetei varie volte la stessa esperienza col medesimo risultato; e quando gli chiesi perché ad ogni momento chiudesse tanto gli occhi, conobbi ch'egli non se n'accorgeva neanche; per la qual cosa egli agiva per istinto e affatto inconsciamente.

Affinché questi muscoli entrino in azione, non è indispensabile che l'aria sia realmente cacciata fuori del petto; basta che i muscoli del torace e dell'addome si contraggano con gran forza, mentre l'occlusione della glottide impedisce all'aria di sfuggire. Nel vomito e nella nausea, l'aria riempie i polmoni e fa scendere il diaframma, che in seguito è mantenuto in posizione dalla chiusura della glottide «e dalla contrazione delle sue proprie fibre» (126). I muscoli addominali si contraggono allora vigorosamente, comprimendo lo stomaco, le di cui fibre agiscono contemporaneamente, ed il contenuto ne viene così espulso. Durante ogni sforzo di vomito, «nasce una forte congestione alla testa, il viso si fa rosso e si gonfia, e le grosse vene che solcano la faccia e le tempia si dilatano visibilmente». Io ho constatato che nel medesimo tempo i muscoli circostanti dell'occhio sono in stato di forzata contrazione. Ed è pur così quando i muscoli dell'addome agiscono dall'alto in basso, con insolita energia, per espellere il contenuto del canale intestinale.

L'azione dei muscoli del corpo, per quanto sia energica, non provoca la contrazione dei muscoli peri-oculari, se anche il torace non agisce vigorosamente per espellere l'aria o per comprimerla nei polmoni. Osservai i miei figlioli al momento in cui facevano gli sforzi più violenti nei loro esercizi ginnastici, quando, ad esempio, si sollevavano sulle braccia più volte di seguito, o quando portavano pesi notevoli, ma non vi seppi scorgere che una traccia appena apprezzabile di contrazione nei muscoli peri-oculari.

Siccome la contrazione di questi muscoli, ad uno scopo di protezione per gli occhi durante una espirazione violenta, costituisce indirettamente, come vedremo più tardi, un elemento fondamentale di molte fra le nostre più importanti espressioni, così io bramava moltissimo di sapere fino a qual punto l'opinione di sir C. Bell fosse suscettibile di dimostrazione. Il professore Donders, d'Utrecht (127), conosciuto come una delle più competenti autorità in Europa su tutte le questioni che si riferiscono alla visione ed alla struttura dell'occhio, volle, dietro mia inchiesta, intraprendere questo studio, giovandosi dei processi così ingegnosi della scienza moderna; ed ha recentemente pubblicati i risultati ottenuti (128). egli dimostrò che durante una violenta espirazione, i vasi intra-oculari, extra-oculari e retro-oculari sono tutti impressionati in due modi, prima per l'aumento della pressione sanguigna nelle arterie, e in secondo luogo per la impedita circolazione centripeta nelle vene. Per conseguenza egli è certo che le arterie e le vene dell'occhio, durante ogni energico sforzo di espirazione, vengono più o meno distese. In quanto alle particolarità sulle prove offerte dal professore Donders, mi limito a rimandare alla sua pregevole Memoria. L'iniezione delle vene della testa si riconosce facilmente al loro turgore ed al colore purpureo che assume la faccia, ad esempio, in un uomo che quasi si soffoca perché tosse con violenza. Appoggiandomi alla stessa autorità, posso aggiungere che il globo oculare, nel suo complesso, senza alcun dubbio sporge alquanto ad ogni violenta espirazione. Questo fenomeno è dovuto alla dilatazione dei vasi retro-oculari, e poteva agevolmente prevedersi in seguito alle intime connessioni esistenti tra l'occhio ed il cervello; infatti, levando una porzione della volta cranica, si vide il cervello sollevarsi ed abbassarsi ad ogni movimento respiratorio; movimento che nei bambini può constatarsi alle suture non ancora chiuse. Ed io credo che tale sia pur la ragione per cui gli occhi di un uomo strangolato sembrano sporgenti e lì lì per schizzar dalle orbite.

Riguardo a ciò che concerne l'influenza protettrice della pressione delle palpebre sugli occhi, durante violenti sforzi di espirazione, il professore Donders, in seguito a svariate osservazioni, conclude che codesta pressione certamente limita, anzi inceppa affatto la dilatazione dei vasi (129). In tali circostanze, egli aggiunge, noi vediamo varie volte le mani portarsi involontariamente al volto e poggiarsi sopra le palpebre, quasi per venir loro in aiuto e prestare più efficace protezione agli occhi.

Bisogna però convenire che i fatti sui quali ci è dato di basarci per dimostrare che gli occhi possono infatti soffrire più o meno per il difetto d'un resistente punto d'appoggio nelle violente espirazioni, non sono fino al presente molto numerosi; nondimeno alcuni se ne possono citare. Egli è certo «che energici sforzi espiratorii, durante la tosse od il vomito ed in particolare nello starnuto, producono talvolta delle rotture nei vasellini (esteriori) dell'occhio» (130). Il dottor Gunning ebbe a riferire di recente un caso di tosse canina, seguita da esoftalmia, attribuendo questa complicazione alla rottura dei vasi profondi dell'orbita. E s'osservarono parecchi analoghi fatti. Ma è probabile che una semplice sensazione di tormento abbia dovuto bastare per condurre all'abitudine associata di proteggere i globi oculari con la contrazione dei muscoli circostanti. E senza dubbio dovette bastarvi l'attesa di una lesione e la sua possibilità; gli è così che un oggetto che s'avvicina troppo agli occhi provoca un involontario ammiccar delle palpebre. Per le quali cose, dalle osservazioni di sir C. Bell, e meglio dalle ricerche più precise del professore Donders, noi possiamo con ogni sicurezza concludere che l'energico serrar delle palpebre in un fanciullo che grida, è un atto pieno di senso e di una reale utilità.

Vedemmo di già che la contrazione dei muscoli orbicolari fa pur sollevare il labbro superiore, ed in appresso, se la bocca si tiene spalancata, deprime le commessure per la contrazione dei muscoli abbassatori. La formazione del solco naso-labiale è pure una conseguenza della elevazione del labbro superiore. Così i principali movimenti espressivi del volto, mentre si piange, sembrano tutti risultare dalla contrazione dei muscoli che attorniano gli occhi. E vedremo tra poco che anche lo spargimento delle lacrime dipende dalla contrazione di questi stessi muscoli, od almeno vi ha un certo rapporto.

In alcuno dei precedenti fatti, e particolarmente nella tosse e nello starnuto, può darsi che la contrazione dei muscoli orbicolari serva accessoriamente a proteggere gli occhi contro la scossa o la troppo intensa vibrazione prodotta dallo strepito che accompagna simili atti. Io credo che sia così; perché i cani ed i gatti, quando maciullano ossa dure fra' denti e talvolta anche quando starnutano, chiudono certamente le palpebre; eppure i cani non lo fanno allorché abbaiano fragorosamente. Il signor Sutton, avendo, dietro mia inchiesta, osservato con cura un giovane orang ed un scimpanzé, constatò che l'uno e l'altro serravano sempre gli occhi tossendo o starnutando, giammai all'incontro quando gridavano violentemente. Avendo io stesso amministrata una presa di tabacco ad una scimmia americana, un Cebus, vidi che starnutando serrava le palpebre; mentre in altra occasione, mandando acute grida, teneva gli occhi aperti.

Causa della secrezione delle lacrime. - In ogni teoria riguardante l'influenza esercitata dallo stato dell'animo sulla secrezione delle lacrime, c’è un fatto importante che fa d'uopo tenere a memoria. Ed è questo. Tutte le volte che i muscoli peri-oculari si contraggono involontariamente e con energia onde proteggere gli occhi comprimendo i vasi sanguigni, la secrezione lacrimale è attivata, e spesso diventa tanto abbondante, che le lacrime colano giù giù per le guance. Questo fenomeno si osserva sotto l'influenza delle più varie emozioni, come pure quando non ce n'ha alcuna. L'unica eccezione - ed anche questa solamente parziale - presentata da codesto rapporto tra l'energica ed involontaria contrazione di questi muscoli e la secrezione delle lacrime, esiste nei bambini; allorché, tenendo le palpebre perfettamente chiuse, gridano con violenza: in fatto, si sa che il pianto non appare che all'età di due a tre o quattro mesi. Tuttavia, anche avanti quest'epoca si vedono gli occhi leggermente umettarsi. Sembra, come abbiamo già fatto notare, che nel primo periodo della vita le ghiandole lacrimali non posseggano tutta la loro attività funzionante; in seguito ad un difetto d'abitudine o per qualche altra causa ignota. Quando il fanciullo è giunto ad un'età più avanzata, le grida ed i pianti ch'esprimono il dolore s'accompagnano così regolarmente allo spargimento delle lacrime, che le parole piangere e gridare sono quasi sinonime (131).

Finché il riso, ch'è una manifestazione delle emozioni contrarie alle precedenti, vale a dire della gioia o del piacere, si mantiene moderato, si produce appena una leggera contrazione dei muscoli peri-oculari, sicché le sopracciglia non s'aggrottano; ma allorquando passa allo stato di sghignazzata, con espirazioni rapide, violente, spasmodiche, il viso si asperge di lacrime. Osservai a varie riprese la figura di certe persone, in seguito a violenti accessi di riso, e rimarcai che i muscoli degli occhi e del labbro superiore erano ancora parzialmente contratti; le guance si vedevano umettate di lacrime, e queste due circostanze davano alla metà superiore della faccia una espressione, cui sarebbe riuscito impossibile distinguere da quella che caratterizza la figura d'un fanciullo ancora agitata dai singhiozzi. Come vedremo più tardi, lo spargimento delle lacrime sul volto, sotto l'influenza del riso violento, è un fenomeno comune a tutte le razze umane.

In un violento accesso di tosse, e specialmente in uno stato di semi-soffocazione, la faccia diventa purpurea, le vene si distendono, i muscoli orbicolari si contraggono energicamente e le lacrime grondano sulle gote. Anche dopo un accesso ordinario di tosse, si sente quasi sempre il bisogno di asciugarsi gli occhi. Nei violenti sforzi della nausea o del vomito, i muscoli orbicolari son vivamente contratti, e talora le lacrime scorrono copiose sul volto: ebbi a fare queste osservazioni su me stesso e su altri. Avendo udito avanzar l'opinione che tali fenomeni potevano essere semplicemente dovuti alla introduzione nelle narici di sostanze irritanti, la cui presenza provocherebbe per azione riflessa una sovrattività della secrezione lacrimale, io pregai un medico - uno di quelli che mi furono cortesi d'aiuto in questo lavoro - a rivolgere la propria attenzione sugli effetti degli sforzi di vomito, allorché nulla venisse espulso dallo stomaco. Per una singolare coincidenza, il giorno dopo questo medico fu preso egli stesso da nausee violente, e tre giorni dopo ebbe l'occasione d'osservare una cliente in simili circostanze. In ciascun dei due casi, non v'ebbe un atomo di materia reietta fuor dello stomaco, eppure i muscoli orbicolari si contrassero con forza e sgorgarono lacrime copiose. Posso anche indubitatamente asserire che gli stessi muscoli si contraggono con energia e che questa contrazione è accompagnata dalla secrezione delle lacrime, quando i muscoli addominali agiscono con forza insolita dall'alto in basso sul canale intestinale.

Lo sbadiglio principia con una profonda inspirazione, seguita da una espirazione lunga ed energica; nello stesso tempo quasi tutti i muscoli del corpo, compresi quelli che circondano gli occhi, sono vivamente contratti: spesso si attiva la secrezione delle lacrime e talvolta ancora si vedono colar per le gote.

Osservai spesso che, quando in causa d'insopportabile prurito ci grattiamo, chiudiamo con forza le palpebre; ma non credo che si cominci dal fare una profonda inspirazione per cacciar quindi rigorosamente l'aria; né ebbi mai a notare che in simili circostanze gli occhi si riempissero di lacrime: non posso peraltro dire con certezza che così mai non avvenga. Forse l'energica occlusione delle palpebre si riannoda semplicemente all'azione generale che ritira nello stesso momento tutti i muscoli del corpo. E’ affatto diversa da quel dolce chiuder degli occhi che, secondo un'osservazione di Gratiolet (132), accompagna spesso la percezione d'un soave profumo per mezzo dell'odorato o d'uno squisito sapore per via del gusto, e che senza dubbio è dovuto in origine al desiderio di sbandire ogni estranea impressione.

Il professore Donders mi descrive il fatto seguente: «Ho osservato, egli dice, alcuni casi d'una curiosissima affezione: in seguito ad un leggero tocco, prodotto, per esempio, da un vestito e che non cagiona lesione, né contusione, si manifestano spasimi nei muscoli orbicolari, accompagnati da copiosissimo spargimento di lacrime, che può durare per circa un'ora. Più tardi, e tal fiata dopo un intervallo di molte settimane, si rinnovellano spasimi violenti dei medesimi muscoli, pur accompagnati da lacrime e da antecedente o susseguente arrossamento degli occhi». Casi affatto analoghi vennero talvolta osservati dal signor Bowman; in taluno fra questi non ci aveva arrossamento, né infiammazione agli occhi.

Ero molto curioso di sapere, se in qualche animale esistesse un analogo rapporto tra la contrazione dei muscoli orbicolari durante una espirazione, e la secrezione delle lacrime. Per disavventura non ci ha che assai pochi animali i quali contraggano questi muscoli in modo prolungato, ed assai pochi che piangano. Il Macacus maurus, che altra volta si vedeva piangere, al Giardino zoologico, tanto copiosamente, sarebbe stato un eccellente individuo per tali osservazioni; ma le due scimmie che attualmente vi sono e che si crede appartengano alla medesima specie, non piangono. nondimeno vennero studiate con cura dal signor Bartlett e da me, mentre mandavano acute grida, e ci parve che contraessero questi muscoli; ma esse saltellavano da un lato all'altro della gabbia con tale rapidità, che riusciva difficile istituire osservazioni precise. Per quanto io mi sappia, nessun'altra scimmia, gridando, contrae i muscoli orbicolari.

Si sa che qualche volta l'elefante indiano piange. Sir E. Tennent, descrivendo quei veduti da lui catturati e prigioni a Ceylan, si esprime così: «Alcuni si mantenevano immobili, accosciati sul suolo, senza manifestare il proprio dolore altrimenti che per mezzo di lacrime le quali bagnavano loro gli occhi e sgorgavano incessanti». E parlando d'un altro elefante: «Quando fu vinto e legato, mostrò estremo dolore; la violenza die' luogo ad una completa prostrazione, ed egli piombò a terra, mandando grida soffocate e con la faccia bagnata di lacrime» (133). Al Giardino zoologico, il custode degli elefanti indiani m'ha positivamente asserito d'aver visto molte volte cascar delle lacrime sulla faccia della vecchia femmina, allorché la si separava dal suo piccino. Avevo voglia di constatare un fatto che veniva in appoggio della relazione esistente nell'uomo tra la contrazione dei muscoli orbicolari e lo spargimento delle lacrime, e di verificare se gli elefanti, quando gridavano o soffiavano fragorosamente con la proboscide, mettessero questi muscoli in azione. Alla preghiera del signor Bartlett, il custode ordinò ai due elefanti, giovane e vecchio, di gridare e noi constatammo, a varie riprese, sull'uno e sull'altro, che quand'essi cominciavano a gridare, i muscoli peri-oculari, e soprattutto gl'inferiori, si contraevano assai nettamente. In un'altra occasione, avendo il custode fatto gridar l'elefante molto più fortemente, vedemmo volta per volta i medesimi muscoli contrarsi energicamente, così i superiori che gl'inferiori. Cosa singolare, l'elefante d'Africa - il quale, bisogna dirlo, è tanto diverso da quello delle Indie, che certi naturalisti ne fanno un sotto-genere distinto - non mostrò, in due circostanze in cui si provocarono le sue grida, la menoma traccia di contrazione dei muscoli peri-oculari.

Concludendo dai vari esempi citati relativi alla specie umana, par cosa certa che la contrazione dei muscoli peri-oculari, durante una violenta espirazione od un'energica compressione del torace dilatato, sia in un modo o nell'altro intimamente connessa con la secrezione delle lacrime; d'altra parte questi fenomeni si osservano sotto l'influenza di emozioni affatto diverse, ed anche senza il concorso di emozione alcuna. Ciò non vuol dire di certo che la secrezione delle lacrime non possa prodursi senza la contrazione dei muscoli in discorso; tutti sanno infatti che le lacrime sgorgano spesso copiose senza che le palpebre siano chiuse e le sopracciglia aggrottate. La contrazione può essere talvolta involontaria e prolungata, come durante un accesso di soffocamento, o rapida ed energica, come in uno starnuto. Il solo ammiccar involontario delle palpebre non porta lacrime agli occhi, benché si ripeta frequente; né basta la volontaria e prolungata contrazione dei numerosi muscoli circostanti. Siccome nell'infanzia le ghiandole lacrimali entrano facilmente in azione, io indussi i miei figli e molti altri di età diversa a contrarre questi muscoli più volte di seguito, con tutta la forza e per quanto potevano durarvi: l'effetto riuscì quasi nullo. Talvolta osservai una leggera umidità degli occhi, che poteva perfettamente spiegare la semplice espulsione di lacrime già esistenti nelle ghiandole dopo una secrezione anteriore.

Non si può precisare con esattezza la natura della relazione fra la involontaria ed energica contrazione dei muscoli peri-oculari e la secrezione delle lacrime; nondimeno possiamo emettere una ipotesi probabile. La principale funzione della secrezione lacrimale è quella di rendere lubrica la superficie dell'occhio, insieme a un po' di muco; di più, secondo l'opinione di alcuni fisiologi, essa giova a umettare costantemente le nari, in modo da saturare d'umidità l'aria inspirata (134), e favorire così la funzione dell'odorato. Ma un'altra funzione delle lacrime, almeno tanto importante quanto le precedenti, consiste nel portar via le particelle di polvere, o qualunque altro corpuscolo che può cascar sugli occhi. L'importanza di questa funzione è dimostrata in quei casi nei quali la cornea s'infiamma e diventa opaca, in seguito ad aderenze tra il globo oculare e la palpebra, che rendono quest'ultima immobile ed impediscono il trasporto di queste molecole (135). La secrezione delle lacrime sotto l'influenza dell'irritazione prodotta dalla presenza di un corpo straniero è un atto riflesso: questo corpo irrita un nervo periferico che impressiona alcune cellule nervose sensitive, le quali trasmettono l'impressione ad altre cellule, e queste alla loro volta reagiscono sulla ghiandola lagrimale. L'impressione trasmessa alla ghiandola produce (si hanno almeno buone ragioni per crederlo) il rilassamento della tonaca muscolare delle piccole arterie; il sangue allora passa in maggior quantità traverso il tessuto ghiandolare, e provoca una copiosa secrezione di lacrime. Quando le piccole arterie della faccia, comprese quelle della retina, si dilatano sotto l'influsso di circostanze assai varie, particolarmente durante un intenso rossore, le ghiandole lacrimali sottostanno talvolta ad una simile impressione, e gli occhi si umettano di lacrime.

E’ cosa difficile rendersi conto sul modo d'origine di certe azioni riflesse; tuttavia, in rapporto al caso attuale della impressionabilità delle ghiandole lacrimali prodotta da una irritazione portata sulla superficie dell'occhio, è forse utile cosa notare che, appena alcune forme animali primitive acquistarono una maniera di esistere per metà terrestre, e gli occhi poterono quindi ricevere particelle di polvere, queste, se non fossero state cacciate, avrebbero provocata una intensa irritazione; allora, solo in virtù del principio dell'azione della forza nervosa irradiante verso le cellule vicine, le ghiandole lacrimali dovettero essere costrette ad entrare in azione. Essendosi ripetuto di frequente questo fenomeno, e per la tendenza della forza nervosa a ripassare agevolmente per le vie da lei d'ordinario seguite, una leggera irritazione dovette alla fine bastare per produrre una copiosa secrezione di lacrime.

Una volta che tale azione riflessa, con questo meccanismo o con qualunque altro, fu stabilita e resa facile, irritazioni di varia natura cagionate alla superficie dell'occhio - l'impressione d'un vento freddo, una lenta azione infiammatoria, un colpo sulle palpebre - dovettero provocare un'abbondante secrezione di lacrime. Ed infatti sappiamo che avviene proprio in tal modo. Anche in seguito ad una eccitazione portata sugli organi vicini, le ghiandole lacrimali entrano in azione. Così, allorché le narici vengono irritate da acri vapori, sgorgano le lacrime, anche se le palpebre stanno completamente serrate; e la stessa cosa si nota dopo un colpo ricevuto sul naso, per esempio azzuffandosi. Ho visto che una scudisciata sul viso produce il medesimo effetto. In questi ultimi casi, la secrezione delle lacrime è un fenomeno accessorio e senza utilità diretta. Siccome tutte le parti della faccia, comprese le ghiandole lacrimali ricevono le ramificazioni d'uno stesso tronco nervoso, il trigemino od il quinto paio, ci è dato di comprendere fino ad un certo punto come gli effetti dell'eccitazione d'una delle sue branche possa propagarsi alle cellule nervose che sono le origini delle altre branche.

In certe condizioni, le parti interne del globo oculare agiscono pure, per azione riflessa, sulle ghiandole lacrimali. Le osservazioni seguenti mi vennero gentilmente comunicate dal signor Browman: tali questioni del resto sono molto complesse, per le intime connessioni che legano tutte le parti dell'occhio e per la loro estrema sensibilità ad ogni eccitazione. Se la retina è nel suo stato normale, una intensa luce provoca assai difficilmente le lacrime; ma in alcune malattie, per esempio nei fanciulli che hanno piccole e vecchie ulcere sulla cornea, la retina diventa estremamente impressionabile, e la semplice azione della luce diffusa provoca una energica e prolungata occlusione delle palpebre, accompagnata da un copioso spargimento di lacrime. Quando si comincia a far uso di lenti convesse e si sforza il potere affievolito dell'accomodamento, la secrezione lacrimale si esagera spesso in modo eccessivo e la retina si fa sensibilissima alla luce. In generale, le affezioni morbose della superficie dell'occhio e degli organi ciliari che agiscono nel fenomeno dell'accomodamento, s'accoppiano d'ordinario ad un'anormale secrezione di lacrime. L'indurimento del globo dell'occhio che non giunge all'infiammazione, ma indica semplicemente un difetto d'equilibrio tra il circolo diretto e quello in ritorno nei vasi intra-oculari, non è d'ordinario seguìto da lacrimazione. Questa si produce piuttosto quando il difetto dell'equilibrio s'inverte e l'occhio si rammollisce. Infine, ci ha molteplici stati morbosi ed organiche alterazioni dell'occhio, ed anche gravissime infiammazioni, che possono essere semplicemente accoppiati ad una secrezione lacrimale nulla od insignificante.

Bisogna pur notare, siccome cosa che sta in rapporto indiretto con la questione in discorso, che l'occhio e le parti vicine sottostanno ad un numero considerevole di movimenti, di sensazioni, di atti riflessi ed associati, esclusi quelli che interessano la ghiandola lacrimale. Una vivida luce colpisca la retina d'uno fra gli occhi: l'iride si contrae; ma dopo un notevole intervallo di tempo, l'iride dell'altro occhio entra alla sua volta in azione. L'iride eseguisce dei movimenti anche nell'atto di accomodamento a lontana od a breve distanza, come pure quando si fanno convergere gli occhi (136). Tutti provarono con quanta irresistibile forza le sopracciglia si abbassino sotto l'azione di vivissima luce. Noi ammicchiamo pur involontariamente le palpebre, allorché un oggetto s'agita presso ai nostri occhi, o quando ci perviene un imprevisto rumore. Il caso comune dello starnuto provocato in certe persone da una viva luce, è più curioso; perché qui la forza nervosa irradia da alcune cellule in connessione con la retina alle cellule sensorie destinate alla mucosa nasale, producendovi un pizzicore, e di là alle cellule che presiedono ai vari muscoli respiratorii (compresi gli orbicolari), i quali espellono l'aria così, ch'ella esce per le sole narici.

Ritorniamo al nostro argomento: perché ci ha secrezione di lacrime nel momento di un accesso di grida o durante altri sforzi respiratorii violenti? Poiché un leggero tocco alle palpebre provoca un abbondante spargimento di lacrime, è almeno possibile che la spasmodica contrazione di questi organi premendo vivamente il globo dell'occhio, agisca in simile foggia. È certo però che la volontaria contrazione dei medesimi muscoli non produce effetto alcuno; ma ciò non mi sembra possa creare obiezione al precedente modo di vedere. Sappiamo che un uomo non può volontariamente starnutare, né tossire con quella energia che spiegherebbe ove questi atti fossero automatici: la stessa cosa avviene per la contrazione dei muscoli orbicolari. Sir C. Bell, con parecchie esperienze, constatò che chiudendo bruscamente e vivamente gli occhi all'oscuro, si scorgono delle scintille luminose simili a quelle che si producono battendo lievemente le palpebre coll'estremità delle dita; «ma nello starnuto, egli dice, la compressione talvolta è più rapida ed energica, e le scintille sono più brillanti». D'altra parte egli è certo che queste sono dovute alla contrazione delle palpebre, perché, «se nell'atto dello starnuto si tengono aperte, ogni luminosa sensazione scompare». Nei casi particolari citati dal professore Donders e dal signor Bowman, vedemmo che, alcune settimane dopo una leggera lesione dell'occhio, sopraggiungono spasmodiche contrazioni delle palpebre, accompagnate da una copiosa lacrimazione. Nell'atto dello sbadiglio, le lacrime senza dubbio sono esclusivamente prodotte dalla contrazione spasmodica dei muscoli peri-oculari. Malgrado questi ultimi esempi, è malagevole a credere che la pressione esercitata dalle palpebre sulla superficie dell'occhio, benché spasmodica e quindi più energica che non se fosse volontaria, possa bastare a provocar per azione riflessa la secrezione delle lacrime in molti casi nei quali questa si produce durante violenti sforzi respiratorii.

Un'altra causa può ancora concorrervi. Vedemmo che, in certe condizioni, le parti profonde dell'occhio agiscono, per azione riflessa, sulle ghiandole lacrimali. D'altro canto si sa che negli energici sforzi di espirazione è aumentata la pressione del sangue arterioso nei vasi oculari, mentre si turba la circolazione che torna per le vene. Sembra quindi probabile che la distensione dei vasi oculari, a questo modo prodotta, possa agire per azione riflessa sulle ghiandole lacrimali ed unire fin d'allora i suoi effetti a quelli dovuti alla compressione cagionata dalle palpebre alla superficie dell'occhio.

Per giudicare su codesta probabilità, rammentiamo che gli occhi dei fanciulli per innumerevoli generazioni funzionarono in queste due maniere, tutte le volte in cui mandavano grida; e siccome la forza nervosa tende a passare lungo le vie da lei abitualmente seguite, così una compressione anche poco considerevole dei globi oculari ed una moderata dilatazione dei loro vasi dovettero alla fine bastare per agire sopra le ghiandole lacrimali. Noi troviamo un analogo fenomeno nella leggera contrazione dei muscoli peri-oculari, contrazione che si produce anche in un moderato accesso di grida, allorquando non può esservi dilatazione dei vasi, né sensazione dolorosa agli occhi.

Inoltre, quando atti o movimenti complessi, dopo essere stati compiuti e strettamente associati fra loro, vengono poi per una ragione qualunque impediti, prima dalla volontà e quindi dall'abitudine, ove si presentino convenienti condizioni eccitatrici, la parte dell'atto o del movimento meno sottoposta al controllo della volontà sarà ancora spesso involontariamente compiuta. La secrezione delle lacrime in generale è assai indipendente dall'influenza della volontà; anche allora che, in seguito all'avanzare dell'età nell'individuo, od al progresso della civilizzazione nella razza, venga repressa l'abitudine del pianto o delle grida, e quindi non vi abbia più dilatazione dei vasi sanguigni nell'occhio, anche allora, dico, può avvenire che si secernano lacrime. Come ho fatto notare, possiamo vedere i muscoli peri-oculari d'un individuo che legge una storia commovente, ammiccare e tremolare così leggermente, da renderne quasi impercettibile la contrazione. In tali casi, non v'ebbero grida, né dilatazione dei vasi sanguigni, e pur tuttavia, per effetto dell'abitudine, alcune cellule nervose inviarono una piccola quantità di forza nervosa alle cellule donde dipendono i muscoli peri-oculari, ed esse ne trasmisero al pari quelle dalle quali dipendono le ghiandole lacrimali, perché gli occhi, precisamente nel medesimo istante, s'umettano spesso di lacrime. Se lo stiramento dei muscoli peri-oculari e la secrezione delle lacrime fossero stati completamente repressi, egli è quasi certo che sarebbe nondimeno esistita una tendenza della forza nervosa a trasmettersi in queste stesse direzioni. Ora, siccome le ghiandole lacrimali sono assai indipendenti dal controllo della volontà, esse dovevano essere eminentemente suscettibili di entrare ancora in azione, richiamando così, in difetto di ogni altro segno esteriore, i commoventi pensieri che attraversano lo spirito di colui che legge.

A conferma della su esposta ipotesi, posso fare un'osservazione: se nel primo periodo della vita, quando è facile che si stabiliscano abitudini di qualunque natura - i nostri fanciulli fossero stati accostumati ad esprimere la gioia con fragorosi scoppi di risa (nei quali i vasi oculari vengono distesi), così spesso ed a lungo come furono avvezzi ad esprimere l'affanno col mezzo di grida, è probabile che in progresso di tempo si sarebbe prodotta un'abbondante e regolare secrezione di lacrime nell'uno stato e nell'altro. Un riso moderato, un sorriso, spesso ancora un'idea gaia avrebbe in tal caso potuto provocare un leggero spargimento di lacrime. Ed infatti, esiste un'evidente tendenza in questo senso, come vedremo trattando dei sentimenti affettuosi. Secondo Freycinet (137), presso gl'indigeni delle isole Sandwich, il pianto viene considerato proprio come segno di prospera fortuna; per altro sarebbe buona cosa avere di un tal fatto prova migliore che non sia l'affermazione d'un viaggiatore che vi fu solo di passaggio. Così pure, se i nostri fanciulli, vuoi considerati tutti assieme durante parecchie generazioni, vuoi individualmente per molti anni, avessero sofferto quasi ogni giorno accessi prolungati di soffocamento, nei quali i vasi dell'occhio si dilatano e le lacrime sgorgano abbondanti, è probabile (tanto potente è la forza delle abitudini associate) che in seguito basterebbe la sola idea d'uno di questi accessi per trarre le lacrime agli occhi, senza che l'animo fosse minimamente attristato.

A riassumere questo capitolo, diremo che il pianto, in fine dei conti, risulta probabilmente da una successione di fenomeni più o meno analoga alla seguente: il fanciullo, reclamando il cibo o provando un dolore qualsiasi, cominciò dal mandare acute grida, come fanno i piccoli di molti animali, in parte per chiamare i genitori in aiuto, in parte ancora perché queste grida costituiscono da per se stesse un sollievo. Strilli prolungati cagionarono inevitabilmente l'ingorgo dei vasi sanguigni dell'occhio, ingorgo che dovette provocare, prima scientemente e poi per semplice effetto dell'abitudine, la contrazione dei muscoli che attorniano gli occhi, per proteggere questi organi. Nello stesso tempo, la pressione spasmodica esercitata sulla superficie degli occhi e la dilatazione dei vasi intra-oculari, senza svegliare per ciò alcuna sensazione cosciente, ma solo per effetto di azione riflessa, dovettero impressionare le ghiandole lacrimali. Infine, in virtù dell'azione combinata di tre principii, cioè: - il facile passaggio della forza nervosa traverso le vie da lei abitualmente percorse, - l'associazione, ch'è tanto potente, - la differenza che esiste fra atti diversi relativamente all'impero esercitato su loro dalla volontà; - in virtù di questi tre principii ne venne che il dolore provoca agevolmente la secrezione delle lacrime, senza che queste debbano essere accompagnate da alcun'altra manifestazione.

Secondo questa teoria, il pianto non sarebbe che un fenomeno accessorio, senza utilità alcuna, come lo spargimento di lacrime in seguito ad un colpo alla superficie dell'occhio o lo starnuto prodotto da vivida luce. nondimeno ciò non toglie minimamente valore al fatto che la secrezione delle lacrime allevia il dolore. Quanto più violento e nervoso è l'accesso di pianto, tanto maggiore sarà il sollievo provatone: vediamo infatti che le contorsioni del corpo, il digrignare dei denti e le emissioni di grida strazianti diminuiscono la intensità di una sofferenza fisica.


CAPITOLO VII. ABBATTIMENTO - ANSIETÀ - AFFANNO - SCORAGGIAMENTO - DISPERAZIONE

Effetti generali dell'affanno sulla economia. - Obliquità dei sopraccigli sotto l'influenza del dolore. - Causa di questa obliquità. - Abbassamento degli angoli della bocca.

Dopo una violenta crisi di sofferenze morali e quando la causa di questo dolore persiste, noi cadiamo in uno stato di abbattimento, e talvolta piombiamo accasciati e scoraggiati. In generale, il dolore fisico prolungato, sia pure sofferto per poco, porta il medesimo effetto. Allorché prevediamo di dover soffrire, siamo inquieti; quando non ci sorregge alcuna speranza di venir consolati, piombiamo nella disperazione.

Avviene spesso che certe persone, in preda ad angoscia eccessiva, cercano sollievo in movimenti violenti e quasi frenetici, come indicammo nel precedente capitolo. Tuttavia quando il loro dolore, benché continuo, sminuisce di lena, non tentano più di muoversi, ma stanno immobili e passive, ed è molto se qualche volta si dondolano da un lato a quell'altro. La circolazione illanguidisce, si fa pallido il viso, i muscoli fiacchi; le palpebre s'abbassano; la testa si reclina sul petto oppresso; le labbra, le guance e la mascella inferiore s'accasciano sotto al proprio peso. Ne segue che i lineamenti si allungano; ed è così che, parlando di persona cui pervenga dolorosa notizia, diciamo che ha la faccia lunga. Una banda d'indigeni della Terra del Fuoco, volendo farci comprendere lo scoramento di un loro amico, capitano di un vascello a vele, presero a stirarsi le guance con ambedue le mani, in modo da rendere il proprio viso più lungo che fosse possibile. So dal signor Bunnet, che quando gli aborigeni australiani sono annoiati, si mostrano pallidi in viso. Un prolungato dolore rende lo sguardo offuscato, inespressivo e spesso bagnato di lacrime. E in questo caso non di raro si vede che le sopracciglia prendono una posizione obliqua, prodotta dall'elevarsi della loro estremità interna. E così si determinano sulla fronte certe rughe particolari molto diverse dal semplice aggrottare dei sopraccigli; ci ha peraltro dei casi nei quali si produce soltanto quest'ultimo movimento. Gli angoli della bocca si abbassano, e codesto atto è così universalmente riconosciuto come segno di abbattimento, che è quasi divenuto proverbiale.

La respirazione si fa lenta e debole: spesso interrotta, da profondi sospiri. Come osserva Gratiolet, ogni volta che la nostra attenzione si concentra per lungo tempo su qualche oggetto, noi dimentichiamo di respirare, e viene un momento in cui una profonda inspirazione ci ristora. Comunque sia, i sospiri d'una persona rattristata, in uno al lento respiro ed alla circolazione languente, sono eminentemente caratteristici (138). Un individuo in tale condizione dell'animo è soggetto a nuovi accessi ed a recrudescenze di dolore, che lo assalgono con forza novella; ne seguono contrazioni spasmodiche dei muscoli respiratorii, e qualche cosa di analogo a ciò che si disse il globus hystericus gli sale alla gola. Questi movimenti spasmodici manifestano chiaramente la stessa natura dei singhiozzi dei fanciulli, e sono gli avanzi degli spasimi più seri, i quali fanno dire di una persona che ella soffoca d'angoscia (139).

Obliquità delle sopracciglia. - Nell'antecedente descrizione solo due punti richiamano una più ampia spiegazione, due punti che sono curiosissimi: intendo dire della elevazione dell'estremità interna dei sopraccigli e della depressione degli angoli labiali. Quanto alle sopracciglia, si osserva che talvolta prendono una posizione obliqua nelle persone in preda ad un profondo abbattimento o ad una viva inquietudine; io, ad esempio, ebbi a notare questo movimento in una madre che parlava di suo figlio malato; però può dipendere anche da cause insignificanti o momentanee di affanno reale o supposto. La posizione obliqua dei sopraccigli è dovuta al fatto che la contrazione di certi muscoli (particolarmente dei muscoli orbicolari, sovraccigliari e piramidali del naso, che hanno la funzione comune di abbassare e di aggrottare i sopraccigli) viene in parte neutralizzata dall'azione più potente dei fasci mediani del muscolo frontale. Questi elevano solo le estremità interne dei sopraccigli; nel medesimo tempo i sopraccigliari le ravvicinano, onde ne avviene che codeste estremità si riuniscono increspandosi od ingrossandosi. Le pliche che per tal maniera risultano, costituiscono un tratto assai caratteristico nella espressione, prodotto dall'obliquità dei sopraccigli, come si può vedere nelle figure 2 e 5 della Tavola II.


Tav. II

Contemporaneamente le sopracciglia si mostrano alquanto arruffate, perché i peli sono portati in avanti. Il dott. J. Crichton Browne ha anche spesse volte osservato negli alienati malinconici, i quali tengono costantemente oblique le sopracciglia, «una particolare arcata acuta della palpebra superiore». Una traccia di codesto fatto si può vedere, confrontando fra loro la palpebra destra e la sinistra del giovane rappresentato nella fotografia (fig. 2, Tav. II); infatti questo individuo non poteva agire egualmente sui due sopraccigli. La stessa cosa appare nella differenza delle rughe sui due lati del fronte. Io credo che quando le palpebre sono molto arcuate, ciò dipenda dal fatto che si rialza solo l'estremità interna dei sopraccigli; perché quando il sopracciglio è sollevato ed arcuato completamente, la palpebra superiore segue in debole grado il medesimo moto.

Il più notevole risultato della opposta contrazione dei muscoli anzidetti si manifesta nelle rughe particolari che si formano sulla pelle del fronte. Per maggiore concisione, a questi muscoli che agiscono simultanei ed antagonisti, possiamo dare il nome di muscoli del dolore. Se noi solleviamo le sopracciglia contraendo affatto i frontali, si producono delle righe trasversali su tutta la fronte; nel caso presente, al contrario, si contraggono solamente i fasci situati sulla linea mediana, e per conseguenza le pieghe trasverse appaiono solo sul mezzo del fronte. Nello stesso tempo la pelle che sormonta la parte esterna dei sopraccigli è tratta in basso e resa liscia per la contrazione delle porzioni esterne dei muscoli orbicolari. Di più, contraendo simultaneamente i sopraccigliari (140), le sopracciglia sono ravvicinate; e codesta contrazione determina delle pieghe verticali fra la parte esterna e abbassata della pelle del fronte e la parte centrale, ch'è sollevata. L'unione di queste rughe verticali con quelle mediane e trasversali (vedi fig. 2 e 3) produce sulla fronte una figura che fu paragonata ad un ferro da cavallo; ma è più esatto il dire che le pieghe formano i tre lati d'un quadrilatero. Spesse volte essi si vedono assai distinti sul fronte degl'individui adulti o quasi, allorché le loro sopracciglia prendono una posizione obliqua; ma nei giovanetti, la pelle dei quali non si raggrinza facilmente, si vedono di rado o non se ne scoprono che semplici tracce.

Queste rughe particolari sono rappresentate assai bene (fig. 3, Tav. II) sulla fronte di una ragazza che possiede in grado straordinario la facoltà di mettere in movimento i muscoli in questione. Mentre la si fotografava, ella pensava all'esito dell'operazione, ed il suo volto esprimeva nulla di triste; gli è perciò che ne ho rappresentata solo la fronte. La figura 1 della medesima Tavola, tratta dall'opera del dottor Duchenne (141), rappresenta, in scala ridotta, il viso di un giovane attore di gran bravura, nel suo stato naturale. Alla figura 2, lo si vede simulare il dolore; solo, come abbiamo fatto prima notare, le due sopracciglia non sono egualmente contratte. La verità dell'espressione è meravigliosa; infatti, su quindici persone a cui ho fatto vedere la fotografia originale, senza avvertirle in nessuna maniera di ciò che rappresentava, quattordici riconobbero immediatamente o un affanno disperato, o la sofferenza, o la malinconia, e così di seguito. La storia della fig. 5 è molto curiosa: la vidi nella vetrina d'un magazzino e la portai al signor Rejlander per cercare di scoprirne l'autore, facendogli rimarcare la grande espressione dei lineamenti. «L'ho fatta io - mi rispose - e deve infatti essere espressiva, chè dopo alcuni momenti questo fanciullo scoppiò in lacrime». Egli mi mostrò allora una fotografia dello stesso ragazzino con un'espressione tranquilla, ed io la feci riprodurre (fig. 4). Alla figura 6 si può distinguere una traccia di obliquità nei sopraccigli; ma essa ha lo scopo, come la fig. 7, di mostrare la depressione degli angoli della bocca, sulla quale devo ritornare.

Senza un certo studio, è piuttosto difficile agire volontariamente sui muscoli del dolore; tuttavia molte persone vi riescono dopo ripetuti sforzi; altre però non vi giungono mai. Il grado di obliquità dei sopraccigli, sia poi questa volontaria o no, varia d'assai secondo gl'individui. In taluni, nei quali i muscoli piramidali appaiono d'una forza più che ordinaria, la contrazione dei fasci mediani del muscolo frontale, quantunque energica, come lo provano le rughe quadrangolari del fronte, non solleva le estremità interne dei sopraccigli, ma solo impedisce loro di essere abbassate così come lo sarebbero state senza questa contrazione. In seguito alle mie osservazioni, i muscoli del dolore entrano in azione molto più di frequente nel fanciullo e nella donna che nell'uomo. Almeno nell'adulto, è raro il caso in cui vengano messi in gioco dal dolore fisico; quasi esclusivamente invece dall'angoscia morale. Due individui, i quali, dopo alcuni studi, erano giunti a governare i muscoli del dolore, osservarono, guardandosi in uno specchio, che quando rendevano oblique le sopracciglia, abbassavano contemporaneamente, senza volerlo, gli angoli della bocca; fatto che si avvera di spesso anche nelle espressioni naturali.

Come quasi tutte le facoltà umane, pare che anche quella di agire facilmente sui muscoli del dolore sia ereditaria. Una donna, discendente da una famiglia celebre per il numero considerevole di rinomati autori ed attrici che vennero da essa, e che pur sapeva «con una singolare precisione» assumere l'espressione in discorso, narrò al dottor Crichton Browne, che tutti i suoi antenati avevano posseduto ad un notevole grado questa medesima facoltà. E' sembra anche che l'ultimo discendente della famiglia, la di cui storia inspirò il romanzo di Walter Scott, intitolato Red Gauntlet, abbia pure ereditata codesta stessa tendenza di razza. So questo fatto dal dottor Browne; solamente il romanziere fece che il suo eroe si coprisse la fronte di rughe ogniqualvolta soffriva una violenta emozione. Io pure conobbi una ragazza che teneva quasi sempre la fronte così raggrinzata, indipendentemente da ogni sentimento.

I muscoli del dolore agiscono di rado; e siccome la loro azione il più delle volte è momentanea, è facile che sfugga all'osservazione. Quantunque questa espressione si riconosca subito e sempre per quella dell'affanno o dell'ansietà, pure una persona su mille, senz'avere studiata la questione, non può indicare con esattezza il fenomeno che si opera a questo punto sul viso. Codesta probabilmente è la causa per cui non è fatto cenno di tale espressione in alcuna opera d'immaginazione, per quanto almeno io seppi osservare, toltone il Red Gauntlet ed un altro romanzo, lavoro, mi si disse, d'una signora che appartiene appunto alla famosa famiglia d'attori onde or ora tenni parola; sicché la sua attenzione poté essere particolarmente attirata su questo argomento.

Come risulta dalle statue di Laocoonte e d'Aretino, quest'espressione era familiare agli antichi scultori greci; ma (l'osserva anche Duchenne) essi commettevano un errore anatomico facendo correre tutta la larghezza del fronte dalle rughe trasverse: - ed altrettanto può dirsi di certe statue moderne. Peraltro è cosa più verosimile credere che artisti d'una perspicacia tanto meravigliosa, non abbiano volontariamente fatto sacrificio della verità alla bellezza; perché è certo che rughe rettangolari nel mezzo della fronte non avrebbero fatto grande effetto sul marmo. E probabilmente per la stessa ragione, questa espressione elevata al massimo grado non è rappresentata di spesso, per quanto almeno mi consta, nelle tele degli antichi maestri; tuttavia una donna, che la conosceva perfettamente, mi disse che nella Discesa dalla croce di frà Angelico, a Firenze, la si distingue nettamente sull'una delle figure di destra; - e potrei qui ancora citare alcuni altri esempi.

Dietro mia inchiesta, il dottor Crichton Browne si è premurosamente studiato di cogliere questa espressione nei numerosi alienati affidati alle sue cure, nell'Asilo di West Riding; d'altra parte egli conosceva perfettamente le fotografie del signor Duchenne relative all'azione dei muscoli del dolore. Egli m'informa che si può vedere questi muscoli agire con costante energia in alcuni casi di melanconia e soprattutto di ipocondria, e che le linee o rughe persistenti, dovute alla loro abituale contrazione, sono segni caratteristici della fisionomia degli alienati appartenenti a queste due classi. Anche il dottore Browne si è compiaciuto di osservare con cura, per un tempo notevole, tre casi d'ipocondria, nei quali i muscoli del dolore restavano continuamente contratti. Nell'uno di questi casi, si trattava d'una vedova, di cinquantun anno, che si figurava di aver perdute tutte le proprie viscere e credeva di avere il corpo affatto vuoto: ella mostrava un'espressione di profondo cordoglio e batteva l'una contro l'altra le mani semichiuse con un movimento ritmico che durava ore intere. I muscoli del dolore erano permanentemente contratti, le palpebre superiori arcuate. Questo stato durò molti mesi, dopo di che l'inferma si ristabilì e riprese la naturale espressione. Un secondo malato presentò presso a poco le stesse particolarità, col solo divario, che in questo vi aveva di più una depressione degli angoli della bocca.

Il signor Patrick Nicol ebbe pure la bontà di studiare per me molti casi, nell'Asilo degli alienati di Sussex. egli mi comunicò ampli dettagli su tre fra di loro, ma non è qui il posto per essi. In seguito alle proprie osservazioni sui malati malinconici, il signor Nicol giunge alla conclusione, che le interne estremità dei sopraccigli sono quasi sempre più o meno rialzate, e la fronte più o meno aggrinzata. In una ragazza, si notò che queste rughe del fronte erano continuamente in moto. In certi casi gli angoli della bocca sono depressi, il più delle volte però, in un modo appena sensibile. D'altra parte, c’è quasi sempre divario nella espressione dei diversi melanconici. In generale, le palpebre sono cascanti, e la pelle fa delle pieghe in vicinanza e al di sotto dei loro angoli esterni. Il solco naso-labiale, che dalle ali del naso va ai lati della bocca, e che è tanto visibile nel fanciullo che piange, è spesse volte molto spiccato in questi malati.

Negli alienati i muscoli del dolore si contraggono spesso con persistenza; nei sani si osservano pure fugaci contrazioni di questi muscoli, provocate da cause affatto insignificanti e completamente incoscienti. Un signore fa ad una ragazza un presente d'infimo valore; ella se ne chiama offesa, e, mentre gli rinfaccia la condotta di lui, rende assai oblique le sopracciglia e raggrinza la fronte. Un'altra signorina ed un giovane, ambedue di lietissimo umore, discorrono vivamente fra loro con una straordinaria volubilità; io noto che tutte le volte in cui la ragazza è vinta, né sa trovare abbastanza presto la parola, le si sollevano oblique le sopracciglia e la fronte si raggrinza di rughe rettangolari. Questo segno è un indizio di cordoglio, che nello spazio di alcuni minuti ella mostra una mezza dozzina di volte. Per il momento io non vi faccio alcun rimarco; ma, in un'altra occasione, la prego di mettere in moto i muscoli del dolore, mentre un'altra fanciulla, che è lì presente e che può farlo a volontà, le spiega ciò che voglio da lei. Ella tenta a varie riprese, ma non sa mai riuscirvi; eppure le bastò una leggerissima contrarietà, quella, cioè, di non poter parlare abbastanza presto, per mettere più volte in azione questi muscoli senza intervallo e con energia.

L'espressione dell'affanno, dovuta alla contrazione dei muscoli del dolore, non è esclusiva agli Europei, ma sembra comune a tutte le razze umane. Infatti, ne ho ricevuto prove degne di fede per ciò che concerne gli Hindus, i Dhangar (una delle tribù aborigene dell'India, che abita le montagne, ed appartiene ad una razza affatto distinta dagli Hindus), i Malesi, i Negri e gli Australiani. Quanto a queste ultime, due osservatori mi danno una risposta affermativa, ma senza entrare in dettagli; peraltro, il signor Taplin aggiunge alla succinta descrizione della mia raccolta di quesiti, queste semplici parole: «Ciò è esatto». Per i Negri, la stessa signora che mi descrisse il quadro di fra Angelico, osservò in un Negro che rimorchiava un battello sul Nilo, che ad ogni ostacolo si produceva una energica contrazione dei muscoli del dolore, ed il mezzo del fronte si raggrinzava notevolmente. Il signor Geach osservò a Malacca, sopra un Malese, una spiccata depressione degli angoli della bocca, l'obliquità dei sopraccigli ed un corrugamento del fronte prodotto da grinze corte e profonde. Questa espressione fu di brevissima durata, e Geach aggiunge «ch'essa era strana e somigliava a quella d'una persona che sta per piangere al punto in cui le giunge una grave perdita».

Il signor H. Erskine constatò che questa espressione è familiare agli indigeni dell'India; e J. Scott, del Giardino botanico di Calcutta, mi spedì assai gentilmente una dettagliata descrizione di due casi nei quali l'ebbe a notare. Egli osservò per qualche tempo, senza essere visto, una giovanissima donna Dhangar di Nagpore, sposa ad uno dei giardinieri, mentre porgeva la poppa al figlio presso a morire; egli vide distintamente che le sopracciglia di lei erano sollevate ai capi interni, le palpebre cascanti, la fronte aggrinzata nel mezzo e la bocca aperta cogli angoli fortemente depressi. Dopo un momento, egli uscì da un cespuglio che l'aveva tenuto celato, e parlò alla povera donna, che die' in un sussulto, scoppiò in lacrime e supplicò di guarire il suo bimbo. Nel secondo caso, trattasi di un Indostano, obbligato dall'indigenza e da malattia a vendere la sua capra favorita. Dopo averne ricevuto il prezzo, guardò a più riprese il denaro che teneva nella mano, poi la capra, quasi fosse tentato di stornare il contratto; s'avvicinò alla bestia, già legata e che stava per essere tradotta di là; ben presto l'animale s’impennò e si pose a leccargli le mani. Gli occhi dell'infelice vagarono allora da una parte all'altra: «teneva semichiusa la bocca, cogli angoli fortemente abbassati». Alla fine parve prendesse il partito di separarsi dalla capra, e in quell'istante Scott osservò che le sopracciglia di lui diventavano leggermente oblique, e vide prodursi il corrugamento o rigonfiamento caratteristico delle interne estremità, senza che sulla fronte vi fosse alcuna grinza. Stette così circa un minuto, poi, mandando un profondo sospiro, die' in lacrime, levò ambo le mani, benedisse alla capra, e si allontanò senza volgersi indietro.

Causa dell'obliquità dei sopraccigli sotto l'influenza del dolore. - Per molti anni, alcuna espressione mi parve più difficile a spiegarsi come quella che ora ci occupa. perché l'affanno o l'ansietà provocano la contrazione dei soli fasci mediani del muscolo frontale, in uno a quella dei muscoli che attorniano gli occhi? E' sembra che in ciò noi abbiamo un movimento complesso unicamente destinato ad esprimere l'affanno, e nondimeno questa espressione relativamente è rara e passa sovente inosservata. Io ritengo che la spiegazione non sia tanto difficile, quanto potrebbe a prima vista sembrare. Il dottor Duchenne dà una fotografia del giovane, onde già tenni parola, presa nel punto in cui egli, guardando fisso un oggetto vivamente illuminato, contraeva fortemente e senza volerlo i muscoli del dolore. Io avevo dimenticata del tutto questa fotografia, quando un bel giorno, essendo a cavallo ed avendo il sole a tergo, incontrai una fanciulla che levò gli occhi su me; le sopracciglia di lei divennero subito oblique e la fronte si coprì quindi di rughe. Più tardi ebbi ad osservare di spesso questo movimento in analoghe circostanze. Tornato a casa, senza dir loro il mio scopo, pregai tre dei miei figli a fissare, quanto più a lungo potessero, il sommo di un alto albero che spiccava sopra un cielo fulgidissimo. In tutti tre, i muscoli orbicolari, sovraccigliari e piramidali si contrassero energicamente, in seguito ad un'azione riflessa che susseguiva all'eccitazione della retina ed aveva per scopo di proteggere gli occhi contro il brillare della luce. I fanciulli si studiavano in ogni maniera di guardar alto; mi offrivano così lo spettacolo d'una curiosa lotta, piena di sforzi spasmodici, stabilita fra il muscolo frontale nel suo complesso o solamente nella sua parte mediana, ed i vari muscoli che servono ad abbassare le sopracciglia ed a chiudere le palpebre. La involontaria contrazione dei muscoli piramidali produceva sulla radice del naso delle rughe profonde e trasversali. In uno dei tre fanciulli, le sopracciglia venivano volta a volta sollevate e abbassate per l'alternativa contrazione di tutto il muscolo frontale e dei muscoli peri-oculari; sicché la superficie del fronte ora si mostrava coperta di rughe, ora perfettamente liscia. La fronte degli altri due si raggrinzava solo nel mezzo, il che dava luogo a rughe rettangolari; e le sopracciglia erano oblique, mentre i capi interni di queste si corrugavano e si gonfiavano. Codesto fenomeno si produsse assai leggermente in uno dei fanciulli, nell'altro invece ad uno spiccatissimo grado. Questo divario nell'obliquità dei sopraccigli dipende probabilmente da una correlativa differenza nella loro mobilità generale e nella forza dei muscoli piramidali. Nei casi ora citati, le sopracciglia e la fronte, sotto l'influenza d'una vivida luce, erano messe in movimento assolutamente nella stessa maniera e colle medesime particolarità caratteristiche, che sotto l'azione dell'affanno e dell'ansietà.

Il signor Duchenne constatò che il muscolo piramidale del naso dipende meno immediatamente dal controllo della volontà che gli altri muscoli peri-oculari. egli fa notare che il giovane precitato, il quale esercitava un grande impero tanto sui muscoli dell'affanno quanto sulla maggior parte degli altri muscoli facciali, non poteva contrar tuttavia i muscoli piramidali (142). È certo però che questa facoltà offre vari gradi a seconda degl'individui. Il muscolo piramidale tira in basso la pelle del fronte che sta fra le sopracciglia ed insieme i capi interni di queste. Le fibre mediane del frontale sono antagoniste del piramidale; e per equilibrare la contrazione di quest'ultimo fa d'uopo che queste fibre mediane si raccorcino. Ne risulta che nelle persone dotate di potenti muscoli piramidali, ove, mentre sono esposte ad una viva luce, si produca un desiderio inconsciente d'impedire l'abbassamento dei sopraccigli, le fibre mediane del frontale devono venir messe in gioco, e la loro contrazione, se sufficiente a dominare i piramidali, insieme a quella dei muscoli sopracciliari e orbicolari, agirà precisamente nel modo or ora descritto sui sopraccigli e sul fronte.

Come già vedemmo, quando i fanciulli gridano o piangono, contraggono i muscoli orbicolari, sopracciliari e piramidali, prima di tutto per comprimere gli occhi ed impedir loro di irrorarsi di sangue, poi per abitudine. Io ne aveva concluso che quando i fanciulli si studiano di prevenire un accesso di pianto o di arrestarlo, dovessero impedire la contrazione dei muscoli su nominati come allora che guardano una vivida luce; pensava quindi che i fasci mediani del muscolo frontale avessero ad entrare spesso in azione. Mi posi dunque ad osservare fanciulli messi in tale condizione, e pregai varie persone, specialmente medici, a fare altrettanto. Questo esame richiede una grande attenzione; infatti nel fanciullo la speciale azione antagonista di questi muscoli è definita assai men nettamente che nell'adulto, perché è difficile che la fronte di quello s'increspi. Tuttavia ebbi agio a riconoscere di subito che, in tali occasioni, i muscoli del dolore erano quasi sempre messi in azione nella più evidente maniera. Tornerebbe cosa vana riferir qui tutti i casi osservati: io ne citerò solo alcuni. Una bimba d'un anno e mezzo era molestata da altri ragazzi; le sopracciglia di lei divennero notevolmente oblique prima che scoppiasse in pianto. Una fanciulletta più avanzata in età diede a vedere la stessa obliquità nei sopraccigli; e si notò per giunta che i loro capi interni erano sensibilmente increspati e che nel medesimo tempo gli angoli della bocca si deprimevano. Dopo di che si mise a piangere, le si modificarono affatto i lineamenti e questa speciale espressione svanì. Altro esempio; un ragazzino appena vaccinato gridava e piangeva con violenza; il chirurgo, a calmarlo, gli diede un arancio, portato appunto per ciò e che piacque molto al fanciullo. Quando cessò dal piangere, fu dato di osservare tutti i movimenti caratteristici onde abbiamo parlato, compresa pure la formazione delle rughe rettangolari nel mezzo del fronte. Per ultimo, incontrai un giorno per via una fanciullina di tre o quattro anni, cui un cane aveva sgomenta, e quando le chiesi che avesse, lasciò di piangere e le sue sopracciglia presero tosto una posizione singolarmente obliqua.

Dunque, senza alcun dubbio, noi abbiamo in ciò la chiave del problema che ci presenta l'antagonismo tra la contrazione delle fibre centrali del frontale e quella dei muscoli peri-oculari, sotto l'influenza del dolore, - tanto che questa contrazione sia prolungata, come negli alienati malinconici, quanto ch'ella sia momentanea e suscitata da una contrarietà insignificante. Nella nostra infanzia, tutti contraemmo spesse volte i muscoli orbicolari, sopracciliari e piramidali, onde protegger gli occhi, mandando sempre delle grida; prima di noi, i nostri antenati fecero lo stesso per molte generazioni, e quantunque, progredendo in età, ci riesca facile di trattenere le grida al provare qualche dolore, tuttavia non possiamo vincere ogni volta l'effetto d'una lunga abitudine ed impedire una leggera contrazione dei muscoli anzidetti: che se questa contrazione è molto debole, non la notiamo neanche, né cerchiamo di reprimerla. Ma sembra che i piramidali dipendano dalla. volontà meno degli altri muscoli onde tenemmo parola, e che, quando sono bene sviluppati, la loro contrazione non possa venir arrestata che dalla contrazione antagonista dei fasci mediani del frontale. Per le quali cose, se questi ultimi fasci si contraggono con energia, devono necessariamente risultarne un obliquo innalzamento di sopraccigli, un increspamento dei loro capi interni e la formazione di rughe rettangolari nel mezzo del fronte. Siccome i fanciulli e le donne piangono molto più facilmente degli uomini, e gli adulti dei due sessi non piangono che sotto l'influenza del dolore morale, si può comprendere perché avvenga (com'io ebbi ad osservare) che i muscoli del dolore entrano in azione più spesso nel fanciullo e nella donna, che nell'uomo e, generalmente nell'adulto, non si contraggono che per dolore dell'animo. In alcuni dei casi di già citati, in quelli, ad esempio, della sciagurata Dhangar e dell'Indostano, alla contrazione dei muscoli del dolore susseguì subito il pianto. In ogni contrarietà, grande o piccola, il nostro cervello, causa una lunga abitudine, tende ad inviare a certi muscoli l'ordine di contrarsi, quasi noi fossimo ancora fanciulli, pronti a scioglierci in lacrime. nondimeno, grazie al meraviglioso potere della volontà, e mercè pure agli effetti dell'abitudine, noi possiamo parzialmente resistere a quest'ordine, senza aver tuttavia coscienza di tal resistenza, o per lo meno del meccanismo per cui ella agisce.

Depressione degli angoli della bocca. - Questa depressione è prodotta dai depressores anguli oris (triangolari del mento, fig. 1 e 2, K). Le fibre di questo muscolo divergono verso la parte inferiore; le loro estremità superiori, convergenti, s'attaccano agli angoli della bocca, e per un breve tratto alla parte esterna del labbro inferiore (143). Alcune di queste fibre sembrano essere antagoniste a quelle del gran zigomatico e di vari muscoli che s'appigliano alla parte esterna del labbro superiore. La contrazione del triangolare tira in basso ed in fuori gli angoli della bocca, e così pure la parte esterna del labbro superiore, ed anche, in debole grado, le ali del naso. Quando, essendo chiusa la bocca, questo muscolo entra in azione, la linea di congiunzione dei due labbri forma una curva a concavità inferiore (144), e le labbra stesse, specialmente l'inferiore, sono tratte alquanto in avanti. Codesta disposizione della bocca è ben rappresentata nelle due fotografie del signor Rejlander (Tavola II, fig. 6 e 7). Nella fig. 6 si osserva un giovanetto che patì da un compagno uno schiaffo sul viso e lascia appena di piangere: è precisamente l'istante scelto per fotografarlo.

L'espressione di cattivo umore, di affanno o di abbattimento, dovuta alla contrazione dei triangolari, venne osservata da tutti coloro che si occuparono di tali questioni. In inglese, dire che un individuo ha la bocca abbassata significa che egli è di umore depresso. Come già dissi, in seguito alla testimonianza del dottor Crichton Browne e del sig. Nicol, la depressione degli angoli della bocca si osserva spesso negli alienati malinconici: la si vede spiccatissima in alcune fotografie di certi malati molto inclinati al suicidio, che mi vennero spedite dal signor Browne. D'altro canto la si constatò in uomini appartenenti a razze diverse, negli Hindu, nelle tribù negre delle montagne dell'India, nei Malesi, e finalmente sulla fede del rev. signor Hagenauer, negli aborigeni dell'Australia.

Il bambino che grida contrae energicamente i muscoli peri-oculari, e di conseguenza solleva il labbro superiore. Siccome poi egli deve nello stesso tempo tener la bocca spalancata, i muscoli abbassatori che confinano colle commessure entrano pure vigorosamente in azione. In generale, non sempre però, ne risulta una leggera curvatura angolosa d'ambo i lati del labbro inferiore, in vicinanza di queste commessure. I movimenti combinati delle due labbra danno all'orifizio boccale una forma quadrangolare. La contrazione del muscolo triangolare si vede assai bene nel bambino, allorché strilla senza troppa violenza, e meglio ancora nel punto in cui comincia o finisce di gridare. Il suo visino prende allora una misera espressione, ch'io osservai molte volte sui miei stessi figlioli dall'età di circa sei settimane a due o tre mesi. Talvolta, quando il fanciullo lotta contro un accesso di pianto, l'inflessione della bocca s'esagera tanto, che questa assume la forma d'un semicerchio; l'espressione di profonda desolazione che prende allora il suo viso costituisce veramente una ridicola caricatura.

E’ probabile che la contrazione del triangolare, sotto l'influenza del cattivo umore o dell'abbattimento, si spieghi cogli stessi principii generali onde vedemmo l'applicazione a proposito dell'obliquità dei sopraccigli. Il dott. Duchenne, dalle proprie osservazioni di molti anni, conclude che, fra tutti quei della faccia, questo muscolo è uno dei meno sottomessi al controllo della volontà. In appoggio di codesta credenza, noi possiamo richiamare l'osservazione già fatta riguardo a un fanciullo ch'è presso a piangere, ma ch'esita ancora, o si sforza di trattenere le lacrime: in questi casi, per solito, la sua volontà agisce su tutti i muscoli del viso più efficacemente che sugli abbassatori delle commessure labiali. Due egregi osservatori, medico l'uno, dietro mia inchiesta, furono tanto gentili da studiare, con cura e senz'alcuna idea preconcetta, dei fanciulli vari in età e delle donne, nel punto in cui, malgrado gli sforzi per contenersi, stavano per piangere: questi due osservatori asseriscono che i triangolari entrano in azione prima di tutti gli altri muscoli. Per lo che, siccome nell'infanzia questi muscoli vennero fatti agir spesso, per lungo seguito di generazioni, la forza nervosa, in virtù del principio dell'associazione delle abitudini, dee tendere a portarsi verso questi muscoli, come pure verso gli altri della faccia, tutte le volte in cui si prova un senso, anche leggero, di tristezza. Ma, siccome i triangolari, in confronto di altri muscoli, sono alquanto meno sottomessi al controllo della volontà, noi li vedremo leggermente contrarsi, quando gli altri rimangono inerti. Ed è curioso vedere come una leggerissima depressione degli angoli della bocca basti per dare alla fisionomia un'espressione di cattivo umore o d'abbattimento; sicché una lievissima contrazione dei triangolari manifesta da sola questi stati dell'animo.

Terminerò raccontando una piccola osservazione, che in qualche modo servirà a riassumere ciò che s'è detto. Un giorno mi trovai seduto in uno scompartimento di vagone, di faccia ad una vecchia signora, la quale mostrava nel volto un'espressione serena, benché concentrata. Guardandola, notai che i muscoli triangolari le si contraevano assai leggermente, ma in modo spiccato. Tuttavia, siccome la sua fisionomia si conservava sempre calma, io pensai (quantunque potessi facilmente ingannarmi) che questa contrazione doveva essere affatto incosciente. Avevo appena concepita codesta idea, che gli occhi di quella signora s'ammollirono improvvisamente di lacrime, le quali parevano pronte a scorrer le guance, mentre dalla figura di lei traspariva l'abbattimento. Certamente qualche triste ricordo, forse quello d'un figlio tempo addietro perduto, le aveva in quel punto traversata la mente. Non appena il sensorio era stato in lei così impressionato, alcune cellule nervose, in seguito ad un'inveterata abitudine, avevano istantaneamente trasmesso l'ordine a tutti i muscoli respiratorii ed a quelli del volto, onde disporli ad un accesso di pianto. Ma la volontà, o piuttosto un'abitudine posteriormente acquistata, intervenendo allora, aveva respinto quest'ordine; e tutti i muscoli avevano prestato obbedienza all'ultimo comando, tranne i triangolari, che soli erano entrati leggermente in azione, deprimendo alquanto le commessure dei labbri. Del resto, la bocca era rimasta chiusa, e la respirazione tranquilla, come allo stato normale.

Nell'istante in cui la bocca di questa signora aveva cominciato a prendere, in maniera involontaria e incosciente, la forma che caratterizza un accesso di pianto, un'impressione aveva dovuto trasmettersi, certo per le vie da lungo tempo usate a tutti i muscoli respiratorii, come pure ai muscoli peri-oculari ed al centro vasomotore che regge la circolazione sanguigna nelle ghiandole lacrimali. Quest'ultimo fatto trovava chiara spiegazione nella subita presenza delle lacrime che emettevano gli occhi, presenza facile a comprendersi, giacchè le ghiandole lacrimali, in confronto dei muscoli facciali, sono molto meno sottomesse all'influenza della volontà. Nello stesso tempo, doveva senza dubbio esistere nei muscoli peri-oculari una disposizione a contrarsi, come per proteggere gli occhi contro i pericoli d'un ingorgo sanguigno; ma questa disposizione era stata contrariata e completamente soggiogata dalla volontà, per modo che il sopracciglio non si mosse. Se, come avviene in molte persone, il piramidale, il sopracciliare e gli orbicolari fossero stati meno obbedienti all'azione della volontà, e' sarebbero entrati leggermente in gioco, allora anche le fibre mediane del frontale si sarebbero contratte in senso inverso, le sopracciglia avrebbero presa una direzione obliqua e sul fronte sarebbero apparse delle crespe rettangolari. In allora anche la fisionomia avrebbe rivestita, in modo ancor più spiccato, l'espressione dell'abbattimento o, meglio, dell'affanno.

E così procedendo, possiamo comprendere come, allorché qualche pensiero malinconico ci attraversa la mente, si produca un'impercettibile depressione degli angoli della bocca, od una leggera elevazione delle estremità interne dei sopraccigli, od ancora l'una e l'altra insieme, tosto seguite da lieve spargimento di lacrime. La forza nervosa, trasmessa per le sue vie abituali, riesce efficace dovunque la volontà non ha acquisita, per una lunga abitudine, forza bastante ad opporvisi. I su accennati fenomeni possono dunque tenersi quali vestigia rudimentali degli accessi di grida, tanto frequenti e prolungati nell'infanzia. In questo caso, come in molti altri, i legami che annodano la causa all'effetto, per dar luogo a diverse espressioni dell'umana fisionomia, sono davvero meravigliose, e ne dànno spiegazione di alcuni movimenti che noi compiamo involontariamente e automaticamente tutte le volte in cui certe passeggere emozioni traversano lo spirito nostro.


CAPITOLO VIII. GIOIA - ALLEGREZZA - AMORE - SENTIMENTI AFFETTUOSI - DEVOZIONE

Riso, prima espressione della gioia. - Idee piacevoli. - Moti e lineamenti del volto durante il riso. - Natura del suono prodotto. - Secrezione di lacrime che accompagna lo sghignazzamento. - Gradi intermedi fra lo sghignazzare e il sorridere. - Allegria. - Espressione dell'amore. - Sentimenti affettuosi. - Devozione.

Una vivissima gioia provoca parecchi inutili movimenti: si balla, si battono le mani, si pestano i piedi, ecc.; e nel medesimo tempo si ride fragorosamente. Ciò si vede palese nei fanciulli, i quali, giocando, ridono quasi che di continuo. Nella giovinezza, l'allegria si manifesta pure frequente con scoppi di risa che sono giustificati da nulla. Omero chiama il riso degli Dei «l'esuberanza della loro gioia celeste dopo il quotidiano convito». Si sorride (e vedremo che il sorriso passa grado grado al riso), si sorride quando s'incontra per via un vecchio amico; si sorride anche sotto l'influenza del più leggero piacere, ad esempio, aspirando un soave profumo (145). Laura Bridgman, cieca e sorda, non poteva certo aver imparato da altrui alcuna maniera di esprimersi; or bene, allorché, coll'aiuto di segni, le si comunicava una lettera di qualche amico, «rideva, batteva le mani e le si colorivano le guance». In altre occasioni fu vista a pestare i piedi in segno di gioia (146).

Anche gli idioti e gli imbecilli ci forniscono buone prove in appoggio dell'opinione, che il riso od il sorriso esprimono di prima mano la gioia o la felicità. Il dottor Crichton Browne, che volle gentilmente comunicarmi, su questo argomento come su molti altri, i risultati della sua vasta esperienza, m'apprende che negli idioti il riso è la più generale e la più frequente di tutte le espressioni. Certi idioti sono fastidiosi, irascibili, turbolenti, cattivi, od anche affatto stupidi: codesti non ridono mai. Certi altri ridono spesso del riso più sciocco. Così, nell'Asilo, un giovane idiota, privo dell'uso della parola, si lamentava un giorno a mezzo di segni col dottor Browne, perché un compagno gli aveva fatto male ad un occhio; «queste lamentele erano interrotte da scoppi di risa, e la faccia di lui s'illuminava di larghi sorrisi». Ci ha un'altra classe d'idioti, assai numerosa, i quali sono costantemente allegri e inoffensivi, e questi ridono o sorridono sempre (147). La loro fisionomia s'impronta sovente d'un riso stereotipo; mettendo loro davanti una vivanda qualunque, carezzandoli, mostrando ad essi dei brillanti colori, o facendo loro sentire della musica, si fanno più allegri, si rasserenano, ridono e mandano grida soffocate. Alcuni ridono più del solito, quando camminano od eseguiscono un esercizio muscolare qualunque. Secondo le osservazioni del dottor Browne, l'allegria della maggior parte di questi idioti non è minimamente associata con alcun determinato pensiero; essi provano soltanto un piacere, e l'esprimono ridendo o sorridendo. Negli imbecilli, i quali nella scala degli alienati occupano un gradino più in su, sembra che la vanità personale sia la causa più comune del riso, e, dopo questa, il piacere prodotto dall'approvazione concessa alla loro condotta.

Nell'adulto il riso viene provocato da cause ben differenti, che non nell'infante; peraltro non avviene lo stesso per il sorriso. Sotto questo riguardo, il riso ha analogia colle lacrime, che nell'adulto colano solo sotto l'influenza del dolore morale, mentre nel fanciullo sono eccitate da ogni sofferenza, fisica o no, come pure dal terrore o dalla collera. Molti autori discussero in modo curioso intorno alle cause del riso nell'adulto: è questa una questione molto complessa. Pare che, nella maggior parte dei casi, la causa provocatrice del riso sia una cosa incongrua o bizzarra, la quale produca sorpresa od un sentimento più o meno spiccato di superiorità - ammesso per altro che lo spirito sia bene disposto (148). Le circostanze che lo producono non devono essere di un'importante natura: così un povero diavolo, che apprende improvvisamente di aver fatto una grossa eredità, non avrà voglia di ridere, né di sorridere. Se, mentre l'animo è vivamente eccitato da giocondi sentimenti, accade qualche cosa d'inatteso, se un'idea impreveduta colpisca la mente, allora, a dire del signor Herbert Spencer (149), «la forza nervosa in notevole quantità, che stava per dispensarsi producendo una quantità equivalente di pensieri e di nuove emozioni, si trova improvvisamente sviata.... Bisogna che quest'eccesso si scarichi in qualche altra direzione, onde ne risulta un flusso che si precipita, per i nervi motori, fino alle diverse classi di muscoli, e provoca quel complesso di atti semi-convulsivi a cui si dà il nome di riso». Nell'ultimo assedio di Parigi, un corrispondente fece un'osservazione, la quale, nell'argomento che ci occupa, ha il suo valore: quando i soldati alemanni erano profondamente impressionati da una pericolosissima situazione, cui riuscivano di scampare, erano in modo speciale disposti a dare in fragorosi scoppi di risa per la più futile causa. Così pure, quando i bambini cominciano a piangere, basta talvolta una circostanza brusca e inattesa per farli passare dalle lacrime al riso; sembra che queste due manifestazioni possano in pari grado servire a sperdere l'eccesso prodotto di forza nervosa.

Qualche volta si dice che l'immaginazione è solleticata da una piacevole idea: questo solletico intellettuale presenta curiose analogie col solletico fisico. Tutti conoscono gli smodati scoppi di risa, le generali convulsioni che il solletico provoca nei fanciulli. Vedemmo che anche le scimmie antropomorfe, quando vengono solleticate, specialmente nel cavo dell'ascella, mandano un suono interrotto paragonabile al ridere umano. Un giorno strisciai con un pezzo di carta la pianta del piede d'un mio figlio, nato da soli sette giorni; egli ritirò subito la gamba con un brusco movimento, flettendo le dita, come l'avrebbe potuto fare un fanciullo più avanzato in età. È chiaro che questi movimenti, come pure il riso provocato dal solletico, sono atti riflessi; e ciò dicasi anche della contrazione dei piccoli muscoli lisci che erigono i peli in vicinanza ad un punto della pelle solleticato (150). Ma il riso prodotto da un'idea piacevole, quantunque involontario, non può tuttavia chiamarsi un atto riflesso nello stretto senso della parola. In questo caso, come nell'altro in cui il riso è cagionato dal solletico, onde quello si produca, bisogna che l'animo sia ben disposto. Così un fanciullino, solleticato da una persona sconosciuta, manda grida di spavento. Occorre anche che il contatto sia leggero, e che l'idea od il fatto che deve provocare il riso, non abbia seria importanza. Le parti del corpo più sensibili al solletico sono quelle che non sopportano abitualmente il contatto di superficie straniere, ad esempio le ascelle o le parti interne delle dita; o meglio ancora quelle che soffrono il contatto di una superficie larga e uniforme, come la pianta dei piedi; peraltro la parte su cui ci appoggiamo quando siamo seduti, fa spiccata eccezione alla regola. Secondo Gratiolet (151), certi nervi, in confronto di certi altri, sono molto più sensibili al solletico. Un fanciullo riesce difficilmente a solleticarsi da sé, o per lo meno la sensazione che ne prova è assai meno intensa. di quando è prodotta da un'altra persona. Da questo fatto sembra risulti che, onde la sensazione del solletico esista, bisogna che il contatto giunga inatteso; nella stessa maniera, se trattasi dell'animo, pare che una cosa inaspettata, un'idea repentina o bizzarra, la quale si getti traverso un corso ordinato di pensieri, costituisca un notevole elemento nelle cause del riso.

Lo strepito che accompagna il ridere è prodotto da una profonda inspirazione, seguita da una contrazione breve, interrotta, spasmodica dei muscoli toracici e specialmente del diaframma (152). Gli è da ciò che deriva l'espressione: ridere da tenersi le coste. In seguito alle scosse impresse al corpo, la testa è smossa da una parte all'altra. La mascella inferiore tremola spesso dall'alto al basso; movimento quest'ultimo che notasi pure in alcune specie di babbuini, quando sono sotto l'impero di una viva gioia.

Ridendo, la bocca si apre più o meno; le commessure sono tratte assai indietro e un po' in alto; il labbro superiore si solleva leggermente. Ove meglio si osserva la trazione all'indietro delle commessure, gli è in un riso moderato o in un largo sorriso; d'altra parte l'epiteto applicato alla parola sorriso indica che la bocca si apre di molto.


Tav. III

Nella Tavola III si vedono (fig. 1-3) delle fotografie che rappresentano il sorriso e diversi gradi del riso. La figura della fanciullina con sul capo un cappello, è del dottor Wallich: l'espressione ne è naturalissima. Le due altre sono del signor Rejlander. Il dottore Duchenne fa più volte notare (153) che, sotto l'influenza di un sentimento giocondo, la bocca subisce l'azione di un muscolo solo, il gran zigomatico, il quale ne tira gli angoli in alto e all'indietro; tuttavia, a voler giudicare dal modo con cui i denti superiori si scoprono costantemente nel riso o nel largo sorriso, e riportandomi per giunta alla testimonianza delle mie sensazioni personali, non posso dubitare che alcuni dei muscoli che s'inseriscono sul labbro superiore non entrino pur leggermente in azione. Nello stesso tempo le porzioni superiore ed inferiore dei muscoli orbicolari si contraggono più o meno; e, come vedemmo parlando del pianto, esiste un'intima connessione tra questi muscoli (specie gl'inferiori) ed alcuni di quelli che confinano col labbro superiore. Su questo proposito Henle fa osservare (154) che, quando un uomo chiude perfettamente un occhio, non può a meno di sollevare il labbro superiore dello stesso lato; e viceversa, se, dopo di aver collocato un dito sulla palpebra inferiore, si cerca di scoprire più che sia possibile i denti incisivi superiori, si sente, man mano che il labbro si solleva con energia, che i muscoli della palpebra entrano in contrazione. Nel disegno di Henle, riprodotto alla fig. 2, si può vedere che il muscolo malaris (H), il quale si getta nel labbro superiore, appartiene quasi integralmente alla parte inferiore dell'orbicolare.

Il dottor Duchenne pubblicò due grandi fotografie, che noi presentiamo ridotte alle figure 4 e 5 della Tavola III, e che rappresentano il volto di un vecchio: la prima, allo stato normale, impassibile, - la seconda, naturalmente sorridente. L'espressione di quest'ultima venne riconosciuta a primo aspetto da tutti che la videro. Nello stesso tempo egli diede, come esempio di un sorriso prodotto artificialmente, un'altra fotografia (fig. 6) del medesimo vecchio, cogli angoli della bocca fortemente contratti per la galvanizzazione dei muscoli gran zigomatici. Ora, è cosa evidente che codesta espressione non è naturale, perché, di ventiquattro persone, a cui ne feci vedere la fotografia, tre non seppero trovarvi espressione alcuna, e le altre, pur riconoscendo che si trattava di qualche cosa più o meno analoga ad un sorriso, proposero gli appellativi seguenti: buffonata, riso forzato, ridere smorfioso, ridere mezzo balordo, ecc. Il dottore Duchenne attribuisce la falsità dell'espressione all'insufficiente contrazione degli orbicolari a livello delle palpebre inferiori, ed a buon diritto annette grande importanza alla contrazione di questi muscoli nell'espressione della gioia. In codesta foggia di vedere vi ha senza dubbio qualche cosa di vero, ma tuttavia a' miei occhi non esprime ancora tutta la verità. Come abbiamo già visto, la contrazione della parte inferiore degli orbicolari è sempre accompagnata da un sollevamento del labbro superiore. Così, nella figura 6, se il labbro si fosse leggermente elevato, la curvatura sarebbe riuscita assai meno brusca, il solco naso-labiale avrebbe alquanto cangiato di forme, e l'insieme dell'espressione sarebbe stato, io credo, più naturale, senza calcolare ciò che vi avrebbe giovato una più energica contrazione delle palpebre inferiori. Di più, nella figura 6, il sopracciliare è contratto così da increspare le sopracciglia; ora, a meno che non si tratti di un riso molto accentuato o violento, questo muscolo, sotto l'influenza della gioia, non agisce giammai.

Per la contrazione del gran zigomatico, dunque, le commessure si deprimono e si sollevano, ed il labbro superiore s'innalza; ne viene da ciò che anche le guance sono tratte in su. Sotto gli occhi, e, nei vecchi, alla loro estremità esterna, si formano delle pieghe, e queste pieghe sono eminentemente caratteristiche del riso o del sorriso. Quando un individuo passa da un leggero sorriso ad un sorriso bene distinto o ad un riso spiegato, se egli presta attenzione alle proprie sensazioni e si guardi allo specchio, può constatare che, man mano che il labbro superiore si solleva e si contraggono gli orbicolari inferiori, le rughe che si vedono alla palpebra inferiore e intorno agli occhi si fanno sempre più spiccate. Nello stesso tempo, in base ad un'osservazione da me spesse volte eseguita, le sopracciglia si abbassano leggermente, il che prova che gli orbicolari superiori entrano, come gli inferiori, in contrazione, almeno fino ad un certo grado, benché quest'ultimo fenomeno non ci sia fatto palese dalle nostre sensazioni. Chi voglia confrontare le due fotografie che rappresentano il vecchio in discorso, alla figura 4 nel suo stato ordinario, ed alla figura 5 naturalmente sorridente, si renderà conto che in quest'ultima le sopracciglia sono alquanto abbassate. Io credo che ciò sia un effetto dei muscoli orbicolari superiori, i quali, per l'influenza di un'abitudine lungamente associata, tendono ad entrare più o meno in azione di concerto cogli orbicolari inferiori, che si contraggono quando il labbro superiore s'innalza.

La disposizione dei muscoli zigomatici a contrarsi sotto l'influenza di sentimenti giocondi è dimostrata da un fatto curioso, che mi fu comunicato dal dottore Browne, relativo ai malati colpiti dalla paralisi generale degli alienati (155): «In questi malati, si constata quasi invariabilmente un certo che di ottimismo - illusioni di salute, di posizione, di grandezza - un'allegria insensata, della benevolenza, della prodigalità; d'altra parte, il primo sintomo fisico di quest'affezione consiste nel tremito delle commessure labiali e degli angoli esterni degli occhi. Gli è codesto un fatto ben dimostrato. La continua agitazione della palpebra inferiore, il tremito dei muscoli gran zigomatici sono segni patognomonici del primo periodo della paralisi generale. La fisionomia poi offre un'espressione di soddisfazione e di benevolenza. Man mano che la malattia progredisce, altri muscoli vengono alla loro volta contratti; ma fino al grado della completa imbecillità, l'espressione dominante è sempre quella di una stupida bonarietà».

Nel riso e nello spiccato sorriso, in seguito all'elevazione delle guance e del labbro superiore, il naso sembra accorciarsi; la pelle mediana si copre di sottili rughe trasversali, e quella sui lati di crespe longitudinali od oblique. Per solito si scoprono gl'incisivi superiori; e si forma un profondissimo solco naso-labiale, che, partendo dall'ala del naso, arriva agli angoli della bocca, solco che nei vecchi spesse volte è doppio.

La soddisfazione o il diletto è caratterizzato anche dallo sguardo vivace e brillante, come pure dalla contrazione delle commessure e del labbro superiore e dalle pieghe che vi si accompagnano. Negli idioti microcefali stessi, che sono così digradati da non apprendere mai a parlare, gli occhi, sotto l'influenza del piacere, brillano un poco (156). Nel riso violento, gli occhi sono troppo pieni di lacrime per poter brillare; invece, nel riso moderato o nel sorriso, l'umidità secreta dalle ghiandole lacrimali può giovare a renderli vivaci; tuttavia questa circostanza non deve avere che un'importanza secondaria, perché, sotto l'influenza dell'affanno, l'occhio si scolorisce, quantunque non di rado sia contemporaneamente pieno di lacrime. La vivacità dello sguardo sembra principalmente dipendere dalla sua interna tensione (157), dovuta alla contrazione dei muscoli orbicolari ed alla pressione delle guance rialzate. Tuttavia, secondo il dottore Piderit, che studiò l'argomento più di ogni altro scrittore (158), questa tensione può venire in gran parte attribuita all'ingorgo dei globi oculari prodotto dal sangue e dagli altri fluidi, che risulta dal circolo accelerato dovuto all'eccitazione del piacere. Quest'autore fa notare il contrasto esistente tra l'aspetto degli occhi d'un malato di tisi in cui il circolo è rapido, e quel degli occhi d'un individuo colpito di cholera, e nel quale quasi tutti i fluidi sono consumati. Ogni causa che rallenta la circolazione ammortisce lo sguardo. Mi ricordo d'aver visto un uomo affatto sfinito per lungo e violento esercizio in giornata caldissima; un vicino paragonava gli occhi di lui a quelli d'un merluzzo bollito.

Ma torniamo ai suoni che accompagnano il riso. Noi possiamo quasi comprendere come l'emissione di suoni d'un genere qualunque abbia dovuto naturalmente associarsi ad un giocondo stato dell'animo; infatti, una gran parte del regno animale impiega i suoni vocali o strumentali sia come richiamo, sia come mezzo di seduzione fra i sessi. In certe riunioni tra i genitori e la loro progenie, o fra membri d'una stessa comunità questi suoni vengono usati anche come segni di gioia. Ma per quale ragione i suoni emessi dall'uomo sotto l'influenza della gioia abbiano la specialità di venire ripetuti, specialità che caratterizza il riso, non ci è dato spiegare. Tuttavia si può ammettere che, per quanto era possibile, questi suoni abbiano dovuto naturalmente rivestire una forma diversa da quella delle grida che esprimono il dolore; e giacchè nella produzione di queste, le espirazioni sono lunghe e continue, le inspirazioni brevi e interrotte, i suoni provocati dalla gioia dovevano certamente avere espirazioni corte ed a scosse con ispirazioni prolungate. Infatti accade proprio così.

Ma ecco una questione, la cui soluzione non è meno difficile: perché, nel riso ordinario, gli angoli della bocca si contraggono ed il labbro superiore sollevasi? La bocca non può spalancarsi; perché, quando ciò avviene in un parossismo di sgangherate risa, n'esce un suono appena apprezzabile, od almeno il suono emesso cangia di tuono e sembra venire dal più profondo della gola. I muscoli che presiedono alla respirazione ed anche quelli degli arti vengono contemporaneamente messi in azione ed eseguiscono rapidi movimenti vibratorii. La mascella inferiore partecipa spesso a questi movimenti, il che impedisce alla bocca di spalancarsi. Tuttavia, siccome bisogna emettere un volume considerevole di suono, l'apertura boccale dev'essere sufficiente, ed è forse a tal uopo che si contraggono le commessure e si solleva il labbro superiore. Se ci riesce difficile spiegare la forma che prende la bocca durante il riso e che provoca la formazione di rughe sotto gli occhi, come pure lo speciale suono interrotto che l'accompagna e il tremolìo della mascella, possiamo almeno supporre che tutti questi effetti derivino da una medesima causa. Infatti, tutti caratterizzano l'espressione del piacere in diverse specie di scimmie.

Dal riso sgangherato alla semplice espressione dell'allegria c’è una gradazione non interrotta, passando per il riso moderato, il largo sorriso ed il sorriso leggero. Quando si ride sgangheratamente, il corpo spesse volte si getta indietro e si scuote, o cade quasi in convulsioni; la respirazione è molto disturbata, la testa e la faccia si riempiono di sangue, le vene si dilatano, i muscoli peri-oculari si contraggono spasmodicamente per proteggere gli occhi. Sgorgano abbondanti le lacrime; però, come ho già fatto notare, è appena possibile di riconoscere una differenza qualunque sul viso bagnato di lacrime dopo un accesso di riso e dopo un trasporto di pianto (159). E’ probabilmente per l'esatta rassomiglianza tra i movimenti convulsivi causati da sentimenti così diversi, che i malati isterici passano alternativamente dal pianto al riso violento e che ciò qualche volta si avvera anche nei bambini. Il signor Swinhoe mi dice d'aver osservato di spesso dei Cinesi, tormentati da un profondo affanno, scoppiare in accessi isterici di risa.

Desideravo conoscere se lo sghignazzamento provocasse un'abbondante effusione di lacrime nella maggior parte delle razze umane: le risposte che mi diedero in proposito i miei corrispondenti, permettono di rispondervi affermativamente. Uno degli esempi citati si riferisce a certi Indù, nei quali d'altra parte, per loro propria testimonianza, il fatto non è raro. Avviene lo stesso per i Cinesi. In una tribù selvaggia di Malesi, nei dintorni dell'isola di Malacca, si vede talvolta (benché, a dir vero, assai raramente) che le donne, sganasciandosi dalle risa, versano lacrime. Nei Dyak di Borneo invece, almeno fra le donne, il fatto dev'essere frequente; perché il Rajah C. Brooke mi riferì ch'essi di solito usano la frase: ridere fino alle lacrime. Gli aborigeni Australiani si abbandonano senza ritegno ai loro sentimenti; al dire dei miei corrispondenti, essi saltano e battono le mani in segno di gioia, e ridendo mandano spesso veri ruggiti; secondo la testimonianza di quattro fra questi osservatori, i loro occhi in tali circostanze si umettano, e in uno dei casi citati, le lacrime colavano lungo le guance. Il signor Bulmer, che percorse in qualità di missionario le remote regioni di Victoria, osserva che «i naturali si mostrano sensibilissimi alle buffonate; essi sono mimi eccellenti, e quando uno di loro si mette a contraffare le originalità di qualche membro assente della tribù, il campo tutto ride di spesso fino a divenirne convulso». Ci è noto che anche presso gli Europei l'imitazione è una delle cose che provocano più agevolmente il riso; or è abbastanza curioso riscontrare la stessa particolarità nei selvaggi Australiani, che costituiscono una fra le razze meglio definite del globo.

Nell'Africa meridionale, in due tribù di Cafri, specialmente nelle donne, avviene spesse volte che nel bel mezzo del ridere gli occhi si riempiono di lacrime. Gaika, fratello del capo Sandilli, da me interpellato su questo argomento, mi risponde: «Sì, è generalmente la loro abitudine». Sir Andrew Smith vide il viso tatuato di una donna Ottentotta solcato da lacrime dopo un trasporto di risa. La stessa osservazione fu fatta negli Abissini dell'Africa settentrionale. Infine il fatto fu constatato nell'America del Nord, presso una tribù notevolmente selvaggia ed isolata; in un'altra tribù lo si ebbe a notare una volta soltanto.

Come abbiamo già detto, dallo sghignazzamento, per transazioni insensibili, si passa al riso moderato. In questo, i muscoli peri-oculari si contraggono assai meno e l'increspamento dei sopraccigli è poco distinto o nullo. Fra un riso moderato ed un largo sorriso, quasi non corre differenza alcuna; solamente quest'ultimo non è accompagnato da alcuna emissione di suono. Tuttavia, al cominciare d'un sorriso, si ode sovente una espirazione più forte; un lieve rumore, una specie di rudimento del riso. Sopra una faccia che ride moderatamente, la contrazione dei muscoli orbicolari superiori qualche volta si manifesta anche per un leggero abbassamento dei sopraccigli. Quella dei muscoli orbicolari inferiori e palpebrali è più visibile, ed è palesata dall'increspamento delle palpebre inferiori e dei sottostanti tegumenti, come pure da una debole elevazione del labbro superiore. Dal più largo sorriso si passa al più leggero per una serie di gradini insensibili. Al limite estremo, i lineamenti si alterano pochissimo, molto più lentamente, e la bocca resta chiusa. Anche la curva del solco naso-labiale si modifica leggermente. Per lo che, basati sulle movenze dei lineamenti, riesce impossibile stabilire una linea qualunque di spiccata demarcazione tra il riso più violento e il più lieve sorriso (160).

Si potrebbe credere perciò che il sorridere costituisca la prima fase nello sviluppo del riso. Tuttavia si può considerare la cosa sotto un altro punto di vista, probabilmente più esatto: l'abitudine di tradurre una gioconda sensazione con la emissione di suoni fragorosi e interrotti ha sul principio provocato lo stiramento degli angoli della bocca e del labbro superiore, come pure la contrazione dei muscoli orbicolari; da quel momento, grazie all'associazione e alla prolungata abitudine, gli stessi muscoli devono adesso entrare leggermente in azione, quando una causa qualunque eccita in noi un sentimento che, più intenso, avrebbe cagionato il riso; da ciò risulta il sorriso.

Sia che si voglia considerare il riso come il completo sviluppo del sorriso; sia (ed è più probabile) che un debole sorriso rappresenti l'ultimo vestigio dell'abitudine profondamente inveterata per molte generazioni di manifestare la gioia col riso, noi possiamo seguire nei nostri fanciulli il graduato passaggio dal primo di questi fenomeni all'altro. Chi alleva bambini sa bene quanto è difficile di riconoscere con esattezza se certi movimenti della loro bocca esprimano qualche cosa, di riconoscere cioè, se essi realmente sorridano. Io ho assoggettato i miei propri figli ad un'attenta osservazione. Uno d'essi, trovandosi in una felice disposizione morale, sorrise all'età di quarantacinque giorni, vale a dire che gli angoli della sua bocca si stirarono e nel medesimo tempo lo sguardo di lui si fece brillantissimo. Il giorno dopo notai lo stesso fenomeno; ma il terzo dì, essendo il bambino indisposto, non v'ebbe più traccia di sorriso, fatto che rende probabile la realtà dei precedenti. Nei quindici dì che susseguirono, i suoi occhi splendevano in modo notevole, tutte le volte ch'egli sorrideva, ed il naso gli s'increspava trasversalmente. Questo movimento era accompagnato da una specie di piccolo belato, che forse rappresentava un riso. A cento tredici giorni, questi lievi rumori che si producevano sempre durante l'espirazione, mutarono un po' di carattere; essi divennero più tronchi o interrotti, come nel singhiozzo; senza dubbio era questo il principio del riso. egli mi parve che codesta modificazione del suono fosse collegata all'ingrandimento laterale della bocca, che avveniva man mano che il sorriso si faceva più spiegato.

In un secondo fanciullo osservai un vero sorriso per la prima volta a quarantacinque giorni (ad un'età quindi poco diversa), ed in un terzo un po' prima. A sessantacinque giorni, il sorriso del fanciullo era molto più netto, molto più disteso che quello del primo alla medesima età; a questo tempo egli cominciava anche ad emettere suoni molto analoghi ad un vero riso. In codesto graduato sviluppo del riso noi troviamo, fino a un dato punto, qualche cosa di analogo a quel che avviene per il pianto. egli pare che in entrambi i casi sia necessario un certo esercizio, com'è necessario per acquisire i movimenti ordinari del corpo, valgano quelli del passo. All'incontro l'abitudine di gridare, la cui utilità per il bambino è evidente, raggiunge fin dai primi giorni di vita il suo completo sviluppo.

Buon umore, allegria. - In generale, un uomo di buon umore ha la tendenza di stirare gli angoli della bocca, senza propriamente sorridere. L'eccitazione del piacere accelera il circolo; si fanno più brillanti gli occhi, più vivo il color della faccia. Il cervello, stimolato da un afflusso più copioso di sangue, reagisce sulle facoltà intellettuali; piacevoli idee corrono rapide traverso la mente, ed i sentimenti affettuosi diventano meglio espansivi. Un fanciullo di circa quattro anni, al quale si chiese che cosa significasse essere di buon umore, rispose: «Vuol dire ridere, parlare ed abbracciare». Sarebbe difficile trovare una definizione più vera e più pratica. In questa condizione morale, l'uomo sta ritto, con la testa alta, gli occhi aperti. Non c’è alterazione dei lineamenti, non contrazione dei sopraccigli. Secondo un'osservazione di Moreau (161), invece, il muscolo frontale tende a contrarsi leggermente, e questa contrazione liscia la fronte, inarca alquanto le sopracciglia e solleva le palpebre. Da ciò la frase latina exporrigere frontem, distendere le sopracciglia, che vuol dire esser allegro e contento. L'uomo di buon umore ha una fisionomia precisamente contraria a quella dell'uomo affannato. Secondo sir C. Bell, «in tutti i sentimenti di letizia le sopracciglia, le palpebre, le narici e gli angoli della bocca sono rialzati. Invece nelle sensazioni dolorose avviene tutto l'inverso». Sotto l'influenza di quest'ultima il fronte si deprime; le palpebre, le guance, la bocca e la testa tutta si abbassano; lo sguardo è abbattuto, la fisionomia pallida e la respirazione lenta. Nella gioia il viso si allarga, nell'affanno invece si allunga. Non voglio peraltro asserire che ad acquistare queste opposte espressioni abbia avuto una funzione il principio dell'antitesi, di concerto colle cause dirette di cui ho già parlato, e che sono abbastanza evidenti.

In tutte le razze umane, l'espressione del buon umore sembra esser la stessa, e si riconosce facilmente. Ciò risulta dalle risposte che m'inviarono i miei corrispondenti dalle varie parti dell'antico e del nuovo mondo. Ebbi alcuni dettagli intorno agli Indù, ai Malesi ed agli abitanti della Nuova Zelanda. La vivacità dello sguardo degli Australiani ha colpito quattro osservatori, e lo stesso fatto fu osservato negli lndù, nei Dyak di Borneo e nei Neo-Zelandesi.

Qualche volta i selvaggi esprimono la loro soddisfazione non solamente sorridendo, ma anche con gesti derivati dal piacer di mangiare. Così, a dire di Petherick, il sig. Wedgwood (162) racconta che, avendo esibite le sue collane ai Negri del Nilo superiore, si posero tutti a stropicciarsi il ventre. Leichhardt dice che gli Australiani facevano scoppiettare le labbra alla vista dei suoi cavalli, dei suoi buoi e soprattutto dei suoi cani. I Groenlandesi, «quando annuiscono con piacere a qualche cosa, aspirano l'aria con un particolare rumore» (163), il che può essere un'imitazione del movimento prodotto deglutendo un cibo saporito.

Per reprimere il riso si contrae energicamente il muscolo circolare della bocca, il quale s'oppone all'azione del gran zigomatico e degli altri muscoli che avrebbero per effetto di tirare le labbra in alto e all'indietro. Per giunta, il labbro inferiore è trattenuto qualche volta fra i denti, il che dà alla fisionomia una maliziosa espressione, come venne osservato nella cieca e sorda Laura Bridgman (164). Il gran zigomatico, del resto, va soggetto ad alcune variazioni, ed io ho visto in una ragazza i depressores anguli oris contribuire potentemente alla repressione del sorriso; tuttavia, siccome le brillavano gli occhi, la contrazione di questi muscoli non impartiva alcunché di malinconico alla sua fisionomia.

Tante volte, per dissimulare qualche stato dell'animo, e la collera stessa, si ricorre ad un riso forzato. Alcune persone se ne servono di spesso per celare la vergogna e la timidezza. Quando increspiamo le labbra, come a prevenire un sorriso, allorché non c’è nulla che possa o eccitarlo o impedire che vi ci abbandoniamo liberamente, ne risulta un'espressione affettata, studiata o pedante. Egli è inutile intrattenerci su codeste espressioni ibride. Il riso di motteggio, sia esso reale o forzato, prende parte spesse volte all'espressione particolare del disdegno, che può trasformarsi in collera sprezzante o semplicemente in disprezzo. In tali circostanze, il riso od il sorriso hanno lo scopo di mostrare all'offensore ch'egli non giunge ad altro che a sollazzarci.

Amore, sentimenti affettuosi, ecc. - benché il sentimento dell'amore, quello, ad esempio, d'una madre per il proprio figlio, sia uno dei più grandi che il cuore possa concepire, è pur nondimeno difficile assegnargli un mezzo qualunque, proprio o speciale, di espressione; e ciò dipende perché in generale questo sentimento non provoca atti d'una particolare e determinata natura. Egli è certo però che l'affezione, la quale è un sentimento gradito, si manifesta di solito con un debole sorriso e con una vivacità degli occhi un po' più pronunciata. Si desidera vivamente d'aver accanto la persona amata: ecco la più completa espressione dell'amore (165). Gli è perciò che noi bramiamo di stringere fra le braccia le persone che amiamo teneramente. E probabilmente questo desiderio si deve all'abitudine ereditaria, associandosi agli effetti dell'allattamento e delle cure che prodighiamo ai nostri figlio, come pure all'influenza delle vicendevoli carezze degli amanti.

Anche negli animali si osserva che il piacere derivato dal contatto si associa all'affetto e gli giova di mezzo espressivo. È certo che i cani ed i gatti godono a strofinarsi contro i loro padroni, o a venirne stropicciati o dolcemente picchiati. I custodi del Giardino zoologico mi asserirono che molte specie di scimmie amano carezzarsi fra loro, come pure di venir carezzate dalle persone per cui nutrono affetto. Il sig. Bartlett mi riferì la condotta tenuta da due scimpanzé, che avevano un'età alquanto più avanzata di quelli trasportati di solito nel nostro paese. Messi insieme per la prima volta, essi si sedettero l'uno in faccia dell'altro, misero a contatto le loro labbra molto sporte in fuori, e ciascuno di loro portò la mano sulla spalla del compagno; poi si strinsero in un mutuo abbraccio; finalmente si alzarono, colle braccia sulle spalle, levando la testa, aprendo la bocca ed urlando di piacere.

Noi Europei ci siamo così abituati ad esprimere l'affezione col bacio, che si potrebbe supporre esser questo un segno espressivo innato nella specie umana. Tuttavia non è vero, e Steele s'ingannò quando disse: «La natura il creò, ed egli nacque col primo amore». Un abitante della Terra del Fuoco, Jemmy Button mi disse che il bacio in quel paese non si sa cosa sia. È sconosciuto del pari presso gli indigeni della Nuova Zelanda e di Tahiti, presso i Papuesi, gli Australiesi, i Somalis dell'Africa e gli Esquimesi (166). È tuttavia così naturale, ch'esso probabilmente deriva dal piacere prodotto a mezzo dell'intimo contatto d'una persona amata; e in certe parti del mondo è rimpiazzato da alcuni gesti che sembrano avere la medesima origine. Quei della Nuova Zelanda e della Lapponia si strofinano il naso; altrove si stropicciano o si battono amichevolmente sul braccio, sul petto o sullo epigastrio; ed in altri luoghi ancora si toccano il viso colle mani o coi piedi. Anche l'abitudine di soffiare su varie parti del corpo, in segno di affetto, deriva forse dallo stesso principio (167).

I sentimenti ai quali si dà l'appellativo di affettuosi sono difficili ad analizzarsi; e' pare che siano composti di affezione, di gioia e specialmente di simpatia. In se stessi sono di natura gioconda, tranne però la pietà, quando oltrepassa certi limiti ed è, per esempio, sostituita dall'orrore che si prova al racconto di torture inflitte ad un uomo o ad un bruto. È da notarsi il fatto che questi sentimenti provocano assai facilmente lo spargimento di lacrime. Infatti non è raro il caso nel quale un padre ed un figlio piangano ritrovandosi dopo una lunga separazione, tanto più se l'incontro è inatteso. Fu dimostrato che una vivissima gioia tende per se stessa ad agire sopra le ghiandole lacrimali; ma è anche probabile che, in circostanze simili a quelle da noi or ora accennate, passi per la mente del padre e del figlio come una vaga idea del dolore che avrebbero provato se non si fossero riveduti giammai, e questo triste pensiero attiri naturalmente il pianto. Così, al ritorno di Ulisse è detto:

. . . . . . . «Il figlio (Telemaco) allora

Del genitor s'abbandonò sul collo,

In lacrime scoppiando ed in singhiozzi.

Ambi un vivo desir sentian del pianto:

. . . . . . . . . . . . . . .

E già piangenti e sospirosi ancora

Lasciati avriali, tramontando, il Sole,

Se il figlio al padre non dicea: . . . . .»

Odissea (lib. XVI, traduz. Pindemonte).

E più avanti, allora che Penelope riconosce finalmente lo sposo:

«Poscia corse ver lui dirittamente,

Disciogliendosi in lacrime; ed al collo

Ambe le braccia gli gittava intorno,

E baciavagli il capo e gli dicea»

Libro XXIII (id.).

La rimembranza del luogo ove trascorremmo l'infanzia, o quella dei giorni felici da lungo tempo spariti, presentandosi viva alla nostra mente, c'inumidisce spesse volte gli occhi; qui pure interviene un doloroso pensiero, il pensiero che più non verranno quei dì. In tali circostanze può dirsi che abbiamo compassione di noi stessi, confrontando il presente al passato. La pietà per le disgrazie altrui chiama facilmente le lacrime agli occhi, anche ove si tratti della sfortunata eroina di qualche triste episodio, personaggio fantastico, per il quale non sapremmo nutrire affezione. Ed è pure così della simpatia che proviamo per la felicità degli altri, valga per quella d'un amante messo in scena da romanziere provetto e i voti del quale sono appagati dopo innumerevoli sforzi, dopo una serqua di ostacoli.

Pare che la simpatia costituisca un sentimento separato e distinto, atto specialmente ad agire sulle ghiandole lacrimali, tanto di colui che la prova, quanto di quel che la provoca. Tutti sanno come i fanciulli scoppino facilmente in singhiozzi, allorché si lamentano di qualche futile malanno. In seguito alle informazioni fornitemi dal dott. Crichton Browne, negli alienati malinconici basta solo una dolce parola a provocare indomabili accessi di pianto. Quando noi ci mostriamo pietosi verso un amico affannato, gli occhi ci si bagnano spesso di lacrime. Per solito il sentimento della simpatia si spiega col supporre che, vedendo o sentendo un altro a soffrire, l'idea del dolore s'impadronisce dell'animo nostro così, da far patire noi stessi. Tuttavia questa interpretazione a me non par sufficiente, perché non rende conto dell'intimo legame che annoda la simpatia all'affetto: egli è certo che noi simpatizziamo assai più per una persona diletta, che per un'altra che ci sia indifferente; e le prove di simpatia tributate da un amico ci risultano pure le meglio accette. Non è men vero, però, che si possa aver compassione delle sciagure d'un uomo cui non ci lega affetto alcuno.

Vedemmo nel precedente capitolo la ragione per cui quando si soffre, si piange. Ora l'espressione naturale ed universale della gioia è il riso, e, in tutte le razze umane, lo sghignazzamento eccita la secrezione lacrimale più energicamente di ogni altra causa, eccettuato il dolore. E' mi sembra che, se la gioia inumidisce gli occhi anche quando non c'è ombra di riso, questo fenomeno, in virtù dell'abitudine e dell'associazione, si possa proprio spiegare come abbiamo interpretato lo spargimento di lacrime sotto l'influenza dell'affanno anche allora che non avvengono grida. Tuttavia è cosa molto notevole (ed è un fatto certissimo) che i dolori altrui ci fanno sparger più lacrime che non i nostri medesimi. Chi non ha visto almeno una volta un uomo, il quale non saprebbe versare una stilla di pianto per i propri dolori, piangere a quelli d'un amico diletto? Cosa più notevole ancora: la felicità o la contentezza di coloro che amiamo teneramente provoca le nostre lacrime, mentre, se una simile ventura tocca a noi, ne resta secco il ciglio. Si potrebbe quindi supporre che se ci è dato, grazie ad un'inveterata abitudine, di resistere efficacemente al pianto sotto l'influenza del dolore fisico, codesta potenza repressiva non fu d'altra parte mai messa in gioco per impedire la leggera effusione di lacrime prodotta alla vista delle disgrazie e delle sfortune altrui.

Come altrove ho cercato di dimostrare (168), la musica ha un meraviglioso potere di far rinascere, in modo vago e indefinito, quelle potenti sensazioni che, nelle remote età, provarono i nostri antichi progenitori, probabilmente allorquando impiegavano i suoni vocali quale mezzo di seduzione fra i sessi. Noi sappiamo che molte delle nostre più potenti emozioni, affanno, viva gioia, amore, simpatia, agiscono sulla secrezione lacrimale; or non è a meravigliare se anche la musica può muovere al pianto, specialmente quando siamo già inteneriti da qualche sentimento pietoso. Ma la musica cagiona di spesso un altro singolare fenomeno. Si sa che le emozioni o le violente eccitazioni - estremo dolore, rabbia, terrore, gioia, passione amorosa - hanno tutte una speciale tendenza a produrre un tremito nei muscoli; ora la musica, in quelle persone che ne risentono vivamente l'impressione, induce una specie di brivido o di tremolio nella spina dorsale e nelle membra. egli pare che fra questo fenomeno ed il tremare del corpo a cui ora accennammo corra lo stesso rapporto che si riscontra tra il leggero spargimento di lacrime prodotto dalla musica ed il pianto in seguito ad una reale e violenta sensazione.

Devozione. - Benché la primitiva natura della devozione sia il rispetto, misto spesse volte a timore, pure essa s'avvicina fino a un dato punto all'affezione; avremo, dunque, poco da dire sulla espressione di questo stato dell'animo. Certe sette, sì antiche che moderne, hanno stranamente mescolato la religione e l'amore, sostenendo perfino (gli è un fatto ben compassionevole) che il santo bacio di amore differisce appena da quello che un uomo dà ad una donna o una donna ad un uomo (169). La devozione si esprime sopra tutto sollevando la testa al cielo e volgendo in alto gli occhi. Sir Carlo Bell fa notare che, all'approssimarsi del sonno, o d'uno svenimento, o della morte, le pupille si dirigono in alto e all'indentro; ed egli pensa che, «quando siamo assorti in devozione e non ci curiamo delle impressioni esterne, alziamo lo sguardo per un atto innato o istintivo», ciò che dev'essere attribuito alla medesima causa addotta nei casi su esposti (170). Secondo il prof. Donders, è fuori di dubbio che nel sonno gli occhi si girano in alto. Quando un bambino succhia il latte materno, questo movimento dei globi oculari dà spesse volte una stupida espressione di piacere estatico alla sua fisionomia, e in codesta circostanza si può vedere benissimo come il bimbo lotti contro una posizione che gli è naturale nel sonno. Sir Carlo Bell spiega questo fatto, supponendo che alcuni muscoli, meglio che altri, siano sottoposti al controllo della volontà. Il prof. Donders, però, ritiene tale interpretazione inesatta. Durante le preghiere, si alzano spesse volte gli occhi, senza che l'animo vi sia così assorto, da simulare lo stato di non-coscienza che caratterizza il sonno; or dunque è probabile che le loro movenze siero puramente convenzionali, e risultino dalla volgare credenza che il Cielo, seggio della potenza divina a cui s'indirizza la prece, sia collocato al di sopra di noi.

A veder una persona in atto umile, in ginocchio, colle braccia sollevate e le mani giunte, ci sembra, per effetto di una lunga abitudine, che quella postura si adatti così ad esprimere la devozione, da poter credere un tale atteggiamento innato; eppure io non ne rinvengo alcuna traccia in varie razze umane extraeuropee. né pare che i Romani, durante il classico periodo della loro istoria, avessero l'abitudine di giungere le mani pregando; e qui mi appoggio sopra una autorità competentissima. Hensleigh Wedgwood probabilmente ne diede la vera spiegazione, supponendo essere l'atteggiamento in discorso quello d'una sommissione servile (171): «Quando un uomo, egli dice, s'inginocchia per pregare, solleva le braccia e congiunge le mani, egli rappresenta un prigioniero, che mostra l'assoluta sua sommissione porgendo le mani ai ceppi del vincitore. Si tratta proprio del dare manus latino, che vuol dire sottomettersi». Per lo che egli è probabile che né gli occhi levati al cielo, né le mani giunte sotto l'influenza dei sentimenti devoti, non siano atti innati, né veramente espressivi; del resto doveva essere così, perché è a dubitare d'assai che gli uomini non civilizzati delle antiche età siano stati suscettibili di provare sentimenti analoghi a quelli che noi collochiamo in questa categoria.


CAPITOLO IX. RIFLESSIONE - MEDITAZIONE - CATTIVO UMORE - BORBOTTAMENTO - DETERMINAZIONE

Corrugamento delle sopracciglia. - Riflessione accompagnata da sforzo o dalla percezione di una cosa difficile o disaggradevole. - Meditazione astratta. - Cattivo umore. - Tetraggine. - Ostinazione. - Borbottamento, smorfia. - Decisione o determinazione. - Energica chiusura della bocca.

La contrazione dei sopracciliari abbassa ed avvicina le sopracciglia, producendo sul fronte le strie verticali che si distinguono col nome di corrugamento dei sopraccigli. Sir C. Bell, il quale credeva a torto che il sopracciliare fosse proprio soltanto della specie umana, lo considerava come «il più notevole fra i muscoli facciali dell'uomo. Esso contrae le sopracciglia con un energico sforzo, ch'esprime il pensiero, in maniera inesplicabile sì, ma certa». Ed altrove aggiunge «Quando le sopracciglia sono increspate, l'energia intellettuale è fatta evidente, e si produce in allora una espressione ove lottano insieme il pensiero ed il sentimento dell'uomo e la feroce brutalità della bestia!» (172). In codeste osservazioni ci ha molto di vero, ma non però tutto. Il dottor Duchenne chiamò il sopracciliare il muscolo della riflessione (173); peraltro tale qualifica dev'essere considerata esatta solo con certe restrizioni.

Supponiamo un uomo assorto in profondi pensieri; fino a che nessun ostacolo sorgerà a contrastare il corso dei suoi ragionamenti, fino a che questi non saranno turbati o interrotti, il sopracciglio di lui potrà restarsene immobile; ma se gli avvenisse l'uno o l'altro di tali inconvenienti, vedremmo corrugarglisi tosto la fronte. Un uomo affamato riflette profondamente ai mezzi per procurarsi il cibo; ma, in generale, egli non increspa il sopracciglio che quando gli si pari dinanzi una qualche difficoltà, sia nel progetto, sia nell'esecuzione, o quando trovi cattivo il nutrimento ottenuto. Ho notato una cosa quasi a tutti comune; se, mangiando, avvenga di sentire qualche strano o sgradevole sapore, le sopracciglia si increspano. Un giorno pregai molte persone, senza dir loro a che scopo, di prestare l'orecchio ad un leggerissimo strepito, onde conoscevano perfettamente e natura e sorgente: nessuno corrugò il sopracciglio; ma un tale giunto in quel mentre, e che non poteva concepire ciò che noi facevamo in così profondo silenzio, pregato alla sua volta di porgere ascolto, increspò energicamente le sopracciglia, benché non fosse di cattivo umore, dicendo che non capiva quel che noi cercavamo. Il dott. Piderit (174), che pubblicò delle osservazioni sullo stesso fenomeno, aggiunge che i balbuzienti, parlando, increspano generalmente, le sopracciglia, e che per solito si fa altrettanto, levandosi gli stivali, se sono troppo stretti. Alcune persone sono abituate a ciò da tanto tempo, che il semplice sforzo della parola basta quasi sempre per provocare in essi un tal movimento.

Dalle risposte ricevute ai miei quesiti, gli uomini di tutte le razze increspano il sopracciglio, quand'hanno l'animo perplesso per una causa qualunque; ma devo confessare che tali questioni erano mal redatte, avendo io confuso la semplice meditazione con la perplessità. Tuttavia è certo che gli Australiani, i Malesi, gli Indù ed i Cafri del sud dell'Africa corrugano le sopracciglia quando sono imbarazzati. Dobritzhoffer fa notare che i Guaranesi dell'America del Sud, in simili circostanze, si comportano nella stessa maniera (175).

Dalle precedenti considerazioni possiamo concludere che l'increspamento delle sopracciglia non esprime la semplice riflessione o l'attenzione, siano pur desse profonde od elevate, ma bensì una difficoltà, un ostacolo nel corso dei pensieri o nell'azione. nondimeno, siccome è cosa rara che una profonda meditazione possa seguitare a lungo senza qualche impedimento, così essa è d'ordinario accompagnata dal corrugamento dei sopraccigli. Da ciò viene che per solito questo increspamento dà alla fisionomia, come fu osservato da sir C. Bell, una espressione di energia intellettuale. Ma, perché quest'effetto possa aver luogo, il guardo dev'essere sereno e fisso, o ben diretto in basso, il che avviene appunto di spesso nella profonda riflessione. Per giunta la fisionomia non dev'essere turbata da alcun altro pensiero. Così, ad esempio, in un individuo di cattivo umore o affannato, in un uomo che, all'occhio spento e alla mascella pendente, manifesta gli effetti di un lungo dolore, in un tale che trova sgradevole il cibo, o prova qualche difficoltà a compiere un atto minuzioso, valga ad infilare un ago, in tutti codesti, dico, le sopracciglia si corrugano, sì, di spesso, ma questo corrugamento è accompagnato da qualche altra espressione, che scaccia affatto ogni apparenza di energia intellettuale o di profonda riflessione.

Ed ora possiamo chiederci donde venga che un aggrottamento dei sopraccigli può esprimere l'idea di qualche cosa di difficile o di sgradevole, pensiero od azione. Nello studio dei movimenti della espressione, conviene adottare, per quanto è possibile, il metodo dei naturalisti, i quali stimano necessario di seguire lo sviluppo embrionale di un organo, per comprenderne perfettamente la struttura. La prima espressione, la sola quasi che sia visibile nei primi dì della vita, in cui appare di spesso, è quella manifestata durante le grida. Ora, nella prima età e qualche tempo dopo, le grida vengono eccitate da ogni sensazione, da ogni emozione dolorosa e spiacevole, come la fame, la sofferenza, la collera, l'invidia, la paura, ecc. In quei tempi, i muscoli che stanno attorno agli occhi sono vivamente contratti, e questo fatto spiega, io credo, in gran parte il corrugamento delle sopracciglia, che si mantiene per tutta la vita. Più volte portai l'attenzione sui miei figlio, a partire dall'ottavo dì di loro vita all'età di due o tre mesi, ed osservai che, quando capitava grado grado un accesso di pianto, il primo indizio visibile era la contrazione dei sopracciliari, che produceva un leggero aggrottamento, tosto tosto seguito dalla contrazione degli altri muscoli che stanno attorno agli occhi. Quando un fanciullo è inquieto o sofferente, io constatai che sul volto di lui corrono continui e ratti come ombra, leggeri increspamenti dei sopraccigli. Di solito, peraltro non sempre, essi sono presto o tardi seguiti da un accesso di pianto. Per esempio, osservai spesse volte un bambino di sette ad otto settimane, mentre succhiava del latte freddo, che doveva certo riuscirgli sgradito. Per tutto questo tempo, scorsi sul viso di lui un continuo aggrottamento di sopracciglia, leggero, sì, ma ben caratterizzato; peraltro non lo vidi mai degenerare in pianto, benché si potessero notare le diverse fasi che l'annunziavano vicino.

Codesta abitudine di contrarre le sopracciglia al cominciar di ogni accesso di pianto e di grida, essendosi mantenuta nei bambini per innumerevoli generazioni, finì coll'associarsi strettamente ad ogni sensazione dolorosa o sgradita. Donde consegue che, in circostanze analoghe, questa abitudine può conservarsi nell'età matura, benché allora mai non degeneri in pianto. Fin dai primi anni si comincia a frenare il pianto e le grida, mentre in nessuna età si riesce a reprimere l’aggrottamento dei sopraccigli. Forse è bene notare che in quei fanciulli i quali piangono facilmente, la minima inquietudine provoca subito lo spargimento di lacrime, mentre nella maggior parte dei ragazzini darebbe luogo soltanto ad un increspamento delle sopracciglia. In alcune forme di alienazione mentale avviene lo stesso: il minimo sforzo morale cagiona indomabile pianto, mentre invece in un individuo allo stato ordinario, provocherebbe semplicemente un aggrottamento dei sopraccigli. né ci deve stupire se l'abitudine di contrarre le sopracciglia trovandoci bruscamente di fronte a una impressione penosa qualunque, benché assunta nell'infanzia, si conserva per tutta la vita; non vediamo forse molte altre abitudini associate, acquisite nell'età giovanile, persistere sempre nell'uomo e negli animali? I gatti adulti, ad esempio, provando una sensazione di benessere e di calore, stendono ancora le zampe anteriori, facendone uscire le unghie, abitudine alla quale si abbandonavano con uno scopo determinato allorquando poppavano alle mammelle materne.

Anche un'altra causa di ordine diverso ha probabilmente corroborata l'abitudine di aggrottare le sopracciglia ogni volta in cui l'animo si applica a qualche cosa o trovasi di faccia a qualche difficoltà. Fra tutti i sensi, la vista è la più importante: nelle prime epoche, dev'essersi fatta una grandissima e continua. attenzione agli oggetti lontani, tanto allo scopo di procurarsi una preda, quanto per evitare un pericolo. Nei miei viaggi in alcune parti dell'America del Sud, resi pericolosi dalla presenza degl'Indiani, mi ricordo d'essere stato colpito dalla persistenza con cui i Gauchos semi-selvaggi esaminavano attentamente tutti i punti dell'orizzonte, quasi direi per istinto e senza mostrare d'averne coscienza. Ora quando un individuo a capo scoperto (il che dev'essere stato la prima condizione dell'uomo) si sforza di distinguere di giorno, soprattutto se splende il sole, un oggetto lontano, contrae quasi invariabilmente le sopracciglia, per impedire l'accesso di una luce eccessiva; nello stesso tempo, la palpebra inferiore, le guance ed il labbro superiore si sollevano in modo da diminuire l'apertura delle palpebre. A questo fine (poste le su accennate circostanze) chiesi a molte persone giovani e vecchie di guardare degli oggetti lontani; facendo credere ad essi che avevo il semplice scopo di provare la loro vista; tutti si comportarono come ho detto poc'anzi. Taluno si giovò ancora della mano per difendere l'occhio da un eccesso di luce. Gratiolet, dopo avere riferite alcune osservazioni del medesimo genere (176), aggiunge: «Codesti sono atteggiamenti di difficile visione». egli conclude che i muscoli peri-oculari si contraggono in parte per allontanare l'eccesso di luce (ciò che infatti sembra il punto di maggiore importanza), in parte per permettere di colpire la retina soltanto ai raggi che provengono direttamente dall'oggetto esaminato. Bowman, ch'io consultai in argomento, pensa che la contrazione di questi muscoli «può inoltre giovare più o meno ai movimenti sinergici degli occhi, dando loro un punto d'appoggio più fisso, mentre i muscoli dell'orbita mettono i globi in posizione adatta alla visione binoculare».

Siccome riguardare attentamente un oggetto lontano, anche di giorno, è cosa difficile e penosa; siccome questo sforzo fu accompagnato di solito, per innumerevole corso di generazioni, dalla contrazione dei sopraccigli, così tal contrazione dovette divenire inveterata. nondimeno la sua origine si rinviene in fenomeni di un ordine affatto diverso: noi la dobbiamo cercare nell'infanzia; essa ha dato un primo mezzo di protezione agli occhi durante le grida. Dal lato della condizione morale esiste certamente una grande analogia fra l'attento esame d'un oggetto lontano, una serie complicata di pensieri e l'esecuzione di qualche lavoro meccanico, minuzioso e difficile. L'idea che l'abitudine di contrarre le sopracciglia si continui anche quando non c’è più bisogno di allontanare un eccesso di luce, è confermato dal caso su esposto, nel quale le sopracciglia e le palpebre sono messe in moto senza necessità, e solamente per ciò che codesti organi vennero messi in azione in analoghe circostanze e ad un utile scopo. Ad esempio, quando non vogliamo vedere un oggetto, chiudiamo volontariamente gli occhi, e siam portati a chiuderli anche allora che rigettiamo una proposta, quasi non potessimo, né volessimo vederla, o quando pensiamo a qualche cosa che ci mette orrore. Se vogliamo guardare rapidamente tutt'attorno a noi, alziamo le sopracciglia, ed avviene spesse volte lo stesso sforzandoci di richiamare un pensiero; in allora operiamo come se il nostro sguardo potesse cercarlo e scoprirlo.

Distrazione, Meditazione. - Quando una persona è assorta nei suoi pensieri, con lo spirito distratto, quando noi siamo, come talvolta si dice, «immersi in una tetra meditazione», le sopracciglia non ci si aggrottano, ma il nostro sguardo sembra vuoto; le palpebre inferiori in generale si elevano e si raggrinzano, come avviene in un individuo miope che si sforza di distinguere un oggetto lontano; nello stesso tempo la parte superiore dei muscoli orbicolari si contrae leggermente. L'increspamento delle palpebre inferiori in tali circostanze fu osservato in alcuni selvaggi: Dyson Lacy l'ha constatato negli Australiani di Queensland, e Geach l'osservò spesse volte nei Malesi dell'interno di Malacca. Fino al dì d'oggi è impossibile determinarne la causa ed il significato: notiamo soltanto che si ha in ciò esempio novello d'un movimento dei muscoli peri-oculari avente un determinato rapporto con una speciale condizione dell'animo.

L'espressione vuota degli occhi è assai particolare; essa indica a un tratto che un uomo è assorto nei suoi pensieri. Dietro mia inchiesta il professore Donders, con la consueta sua gentilezza, si compiacque d'instituire studi accurati su tale argomento; egli esaminò questa espressione in un certo numero di persone, e sottomise se stesso alle osservazioni del prof. Engelmann. Sembra che in allora gli occhi, a vece di fissarsi sopra un oggetto lontano, come avevo creduto, non guardano alcun punto preciso. Spesso ancora gli assi visuali dei due globi si fanno un po' divergenti; posta la testa verticalmente ed il piano della visione orizzontale, questa divergenza può raggiungere un angolo massimo di 2°. A ciò si venne osservando la immagine doppia e incrociata di un oggetto lontano. Nasce di spesso che, quando un uomo è assorto in pensieri, la testa gli s'inchina sul petto, causa il generale rilassamento dei muscoli; in questo caso, se il piano visuale resta ancora orizzontale, gli occhi sono necessariamente volti un po' in su, ed allora la divergenza arriva a 3° o 3°,5'; se l'elevazione degli occhi è anche più notevole, la divergenza oscilla da 6° a 7°. Il professore Donders attribuisce questa divergenza al quasi completo rilassamento di alcuni fra i muscoli degli occhi, il quale risulterebbe dall'eccessivo travaglio dell'animo (177). Infatti, quando agiscono i muscoli dell'occhio, i globi sono convergenti. Il professore Donders, a proposito della loro divergenza nel caso presente, fa osservare che un occhio cieco dopo breve tempo devia sempre all'infuori; infatti i muscoli che di solito servono a ricondurre il globo all'indentro per permettere la visione binoculare, non vengono più messi in azione.

Quando riflettiamo e siamo perplessi, compiamo per solito certi movimenti, certi gesti. È così, per esempio, che si porta la mano alla fronte, o alla bocca, o al mento. Per lo incontro, non ho mai osservato niente d'analogo in chi sta semplicemente immerso in una profonda meditazione, senza dar di cozzo a alcuna difficoltà. Plauto, descrivendo in una commedia (178) un uomo imbarazzato, dice: «Guardatelo là, col mento poggiato sopra la mano». E questo medesimo gesto, che in apparenza è sì futile, sì poco espressivo, questo portar la mano al viso, fu riscontrato in certi selvaggi. J. Mansel Weale l'osservò nei Cafri del sud dell'Africa, ed il capo indigeno Gaika narra che «in codeste circostanze si tirano qualche volta la barba». Washington Matthews, che studiò alcune fra le più selvagge tribù indiane delle regioni occidentali degli Stati Uniti, dice d'aver visti questi Indiani, «mentre erano assorti in pensieri, a metter la mano, e più di solito il pollice e l'indice, a contatto con qualche parte del viso, e soprattutto col labbro superiore». Se si riesce a comprendere per quale ragione chi è travagliato da qualche serio pensiero si comprima o si strofini la fronte, egli è assai meno facile spiegare perché si porti la mano alla bocca ed al volto.

Cattivo umore. - Vedemmo che, quando si incontra qualche difficoltà, o quando sopravviene un pensiero, una sensazione sgradevole, si aggrottano le sopracciglia: una persona la quale vada spesso soggetta ad impressioni di questo genere e vi s'abbandoni facilmente, sarà predisposta a mostrarsi di cattivo umore, irritabile e scortese, e manifesterà un tale stato dell'animo con un continuo aggrottare di sopracciglia. Tuttavia la sgradita espressione che consegue da questo increspamento può venir neutralizzata dalla dolce espressione d'una bocca sempre sorridente e da uno sguardo gaio e brillante. Così è ugualmente se l'occhio è risoluto e sereno, la fisionomia seria e meditabonda. L'aggrottamento delle sopracciglia, accompagnato dalla depressione degli angoli della bocca, segno caratteristico di affanno, dà una stravagante apparenza.


Tav. IV

Quando un fanciullo, piangendo (vedi la Tavola IV, fig. 2) (179), corruga energicamente le sopracciglia, senza vivamente contrarre, come di consueto, i muscoli orbicolari, la faccia di lui assume una marcata espressione di collera ed anche di rabbia, mista a dolore.

Allorché il sopracciglio si aggrotta e nello stesso tempo si abbassa di molto, causa la contrazione dei muscoli piramidali del naso, - il che produce alcune rughe o pliche trasversali alla base di quest'organo, - la fisionomia esprime umore tetro. Il dottore Duchenne ritiene che la contrazione di tali muscoli dia una netta espressione di durezza (180), quando non è accompagnata dall'aggrottare dei sopraccigli. Io però dubito assai che la sia codesta una vera o naturale espressione. Mostrai ad alcune persone (fra cui alcuni artisti) una fotografia del sig. Duchenne, che rappresentava un giovanotto nel quale i piramidali erano vivamente contratti per azione dell'elettricità; nessuno seppe rendersi conto di ciò che quella espressione significasse, eccettuata una ragazza che vi scoperse con giustezza una «riserva arcigna». Quando io stesso vidi la prima volta quella fotografia, sapendo ciò ch'esprimeva, credo che la mia fantasia v'abbia aggiunto quel che mancava, le pliche, cioè, della fronte, ed allora l'espressione mi parve vera ed estremamente stizzosa.

Labbra serrate e sopracciglia abbassate e corrugate dànno alla fisionomia un che di risolutezza e possono renderla anche ostinata e stizzosa. perché l'increspamento della bocca impartisce questa espressione di pertinacia? Discuteremo fra poco codesta questione. L'espressione dell'ostinazione affannata fu distintamente riconosciuta dai miei corrispondenti nei naturali delle sei diverse regioni dell'Australia. Secondo il sig. Scott, essa è molto spiccata negli Indù. La si rinvenne nei Malesi, nei Cinesi, nei Cafri, negli Abissini; il dottor Rothrock la constatò ad un grado notevole nei selvaggi dell'America del Nord, il sig. D. Forbes negli Aymaras di Bolivia. Io pure l'osservai negli Araucani del Chilì meridionale. Dyson Lacy ebbe a notare che gl'indigeni Australiani, sotto l'influenza di questa disposizione morale, incrociano tal fiata le braccia sul petto, atteggiamento che qualche volta si vede anche presso di noi. Una ferma risoluzione, la quale giunga alla caponaggine, si esprime pure in certi casi alzando continuamente le spalle, gesto di cui spiegheremo il significato nel seguente capitolo.

I fanciulli manifestano il malumore brontolando o, come si dice, facendo il viso duro (181). Quando gli angoli della bocca sono molto abbassati, il labbro inferiore si rovescia e sporge alquanto: ciò s'appella parimente una smorfia. Ma la varietà di smorfie a cui facciamo qui allusione consiste nello avanzamento di entrambe le labbra a foggia di tubo, avanzamento che talvolta le fa giungere a livello della punta del naso, posto sempre che questo sia corto. Le smorfie sono di solito accompagnate da un increspamento dei sopraccigli, e talvolta dall'emissione di un rumore particolare. Codesta espressione è notevole per ciò che essa, a quant'io so, è quasi la sola che (almeno negli Europei) si manifesta più nettamente nell'infanzia che non nell'età matura. Tuttavia in tutte le razze, gli adulti, in preda a gran collera, hanno qualche tendenza a sporgere le labbra. Alcuni fanciulli fanno il cattivo viso per timidezza, ma allora non si può dire che fanno il broncio.

In base alle informazioni che mi son procurate da varie famiglie assai numerose, non par che le smorfie siano molto comuni nei fanciulli europei; ma esistono in tutti, e probabilmente sono assai diffuse e spiccate nella maggior parte delle razze selvagge, perché molti osservatori ne furono sorpresi. Le si constatarono in otto diversi distretti dell'Australia, e la persona che mi fornì queste informazioni mi diceva d'essere stato colpito dall'allungamento onde in tali occasioni sono suscettibili le labbra dei fanciulli. Due osservatori trovarono le smorfie infantili negli Indù; tre nei Cafri, nei Fingi del sud dell'Africa e negli Ottentotti; due negli Indiani selvaggi dell'America settentrionale. Furono pure osservate nei Cinesi, negli Abissini, nei Malesi di Malacca, nei Dyak di Borneo, e spesse volte negl'indigeni della Nuova Zelanda. Il sig. Mansel Weale mi informa d'aver visto un allungamento pronunziatissimo delle labbra nei Cafri, quand'erano di cattivo umore, non pur sui fanciulli, ma ancor sugli adulti d'entrambi i sessi. Il signor Stack fece qualche volta la medesima osservazione negli uomini, e assai frequente nelle donne della Nuova Zelanda. Per ultimo, anche nell'adulto europeo si riconoscono talvolta tracce di questa stessa espressione.

Da ciò si capisce che l'allungamento delle labbra, particolarmente nel fanciullo, è un segno caratteristico del malumore, presso quasi tutte le razze umane. E' pare che questo movimento risulti dall'essersi conservata un'antica abitudine, specialmente nella gioventù, o da un momentaneo regresso verso la medesima. Come abbiamo già veduto, i giovani orangutan ed i giovani scimpanzé, quando sono scontenti, leggermente irritati o di umore cattivo, allungano oltremodo le labbra; e le allungano pure, quando provino una viva sorpresa, un po' di paura ed una lieve soddisfazione. Allora essi sporgono il labbro, certo allo scopo di emettere i diversi suoni propri a questi diversi stati dell'animo. Come già dissi, la forma della bocca nello scimpanzé varia leggermente, sia che si tratti di grida di piacere, sia di collera. Appena questi animali montano in furore, la forma della bocca cangia del tutto ed i denti vengono messi allo scoperto. Pare che, quando l'orango adulto è ferito, «mandi un grido speciale, che incomincia acuto e finisce in un sordo muggito; mentre emette le note elevate, sporge le labbra a foggia d'imbuto, ma, quando giunge alle gravi, tiene spalancata la bocca» (182). Sembra che il labbro inferiore del gorilla possa allungarsi moltissimo. Se noi ammettiamo che i nostri antenati, uomini a mezzo, quand'erano stizziti o alquanto irritati, sporgessero le labbra, come ora fanno le scimmie antropomorfe, riesce un fatto interessante, ma non anomalo, che i nostri fanciulli, sotto l'influenza di analoghe impressioni, ci presentano tracce della stessa espressione e tendono insieme ad emettere alcuni suoni. Ed invero gli animali nella giovane età mantengono spesso in un modo più o meno perfetto (per perderli poi) certi caratteri, propri in origine ai loro antenati adulti e che si trovano ancora in altre specie distinte, loro vicini parenti.

Ed è pur naturale che i fanciulli selvaggi, a paragone di quelli europei, manifestino, quando sono stizziti, una più viva tendenza a sporger le labbra; perché la caratteristica della condizione selvaggia sembra appunto risiedere in questa conservazione d'uno stato primitivo, conservazione che talora si fa pur palese nelle qualità fisiche (183). nondimeno, a codesta foggia di vedere intorno l'origine delle smorfie, si potrebbe opporre che le scimmie antropomorfe allungano ugualmente le labbra sotto l'influenza dello stupore ed anche d'un leggero contento; in noi, per lo incontro, questa espressione appare soltanto allora che siamo di cattivo umore. Ma in uno dei susseguenti capitoli vedremo che in certe razze umane la sorpresa produce talora un lieve avanzamento delle labbra; peraltro una viva sorpresa, un profondo stupore si palesano più spesso con lo spalancar della bocca. Del resto, siccome, ridendo o sorridendo, tiriamo indietro gli angoli della bocca, così noi dovemmo perdere ogni tendenza a sporger le labbra sotto l'influenza del piacere, pur supponendo che i nostri antichi progenitori abbiano veramente espresso in siffatta maniera il loro contento.

A questo punto dev'esser fatta menzione d'un altro piccolo movimento che s'osserva nei fanciulli stizziti, e cioè l'alzare una delle spalle. Questo gesto ha un significato diverso da quello che consiste nell'alzare ambedue le spalle. Un fanciullo, di cattivo umore, seduto sulle ginocchia del padre o della mamma, alza la spalla ch'è più vicina a chi lo porta, poi con atto brusco la ritira, quasi a sottrarsi da una carezza, e dà quindi una scossa all'indietro, come per respingere qualcuno. Io vidi un fanciullo, il quale, sebbene alquanto lontano da ogni persona, espresse nettamente i suoi sentimenti alzando una spalla, imprimendole poi un leggero movimento all'indietro, ed infine tutta scuotendo la sua personcina.

Risolutezza o determinatezza. - L'energico serrar della bocca tende a dare alla fisionomia un'espressione di risoluzione o di determinazione. Probabilmente non s'è mai visto un uomo di carattere risoluto tener la bocca aperta. In generale si considera pur come indizio di fiacchezza morale una mascella inferiore piccola e debole, onde sembra che la bocca non sia d'ordinario ben chiusa. Uno sforzo prolungato, di qualsivoglia natura, fisico od intellettuale, implica una precedente determinazione; ora, essendo dimostrato che prima e durante un violento e continuato esercizio del sistema muscolare si chiude forte la bocca, il principio dell'associazione fa prevedere quasi certo ch'esso si chiuderà parimente quando si prende un'energica risoluzione. Molti osservatori notarono infatti che quando un uomo imprende qualche esercizio muscolare violento, comincia sempre col gonfiar d'aria i polmoni, che poi comprime contraendo vigorosamente i muscoli toracici e tenendo perfettamente chiusa la bocca. Inoltre, anche quando quest'uomo è costretto a riprendere fiato, tien dilatato il petto, più ch'è possibile.

A codesto modo d'agire si attribuirono parecchie interpretazioni. Sir C. Bell sostiene (184) che, in tali circostanze, gonfiasi il petto e lo si mantiene disteso, per fornire uno stabile punto d'appoggio ai muscoli che vi s'inseriscono. Donde, egli aggiunge, consegue che, quando due uomini sono impegnati in disperata lotta, regna fra loro un terribile silenzio, solo interrotto dal respiro soffocato e penoso. Questo silenzio dipende da ciò che l'espulsione dell'aria per emetter dei suoni indebolirebbe il punto d'appoggio dei muscoli delle braccia. Che se la lotta avviene fra le tenebre, e si ode un grido, quel grido ne avverte che l'uno dei rivali non ha più speranza di vincere.

Secondo Gratiolet (185), un uomo che voglia lottare all'ultimo sangue contro un altr'uomo, o che dee sostenere un pesante fardello, od anche mantenere per lungo tratto di tempo un atteggiamento penoso, deve bensì far dapprima una forte ispirazione, e poi lasciar di respirare; ma nondimeno quest'autore ritiene come erronea la spiegazione di Bell. Egli sostiene (cosa alla quale, a mio credere, è impossibile mettere dubbio) che arrestare il respiro è ritardare la circolazione del sangue, e qui chiama in aiuto curiosissime prove, tratte dalla struttura degli animali inferiori, per dimostrare, in primo luogo, che, onde prolungare lo sforzo muscolare, è necessario ritardare la circolazione, in secondo luogo, che senza un rapido circolo non avvengono rapidi movimenti. Quindi, quando noi ci disponiamo ad eseguire un grande sforzo, chiudiamo la bocca e cessiamo dal respirare, per ritardare la circolazione del sangue. Gratiolet riassume la questione dicendo: «Ecco la vera teoria dello sforzo prolungato»; peraltro non so sino a qual punto venga ammessa questa teoria dagli altri fisiologi.

Il dott. Piderit (186), per spiegare onde avvenga che durante un energico sforzo muscolare si chiude perfettamente la bocca, ricorse alla seguente teoria: l'influenza della volontà non si estende soltanto a quei' muscoli che sono necessariamente messi in azione da un particolare sforzo qualunque; è dunque naturale che i muscoli i quali servono alla respirazione, e quei della bocca, che vengono usati tanto di spesso, siano più specialmente soggetti a questa influenza. Mi sembra che in ciò vi sia pur qualche cosa di vero, perché, compiendo un violento esercizio, ci sentiamo inclinati a chiudere i denti con forza, il che non serve ad impedire la circolazione, mentre i muscoli del petto sono vivamente contratti.

Per ultimo, un uomo chiude generalmente la bocca e cessa un istante di respirare, anche quando si accinge a un lavoro, delicato e difficile sì, ma che non richiede alcuno sforzo. In questo caso peraltro egli agisce così, solamente perché i movimenti del petto non gl'inceppino quei delle braccia. Per questa ragione, ad esempio, una persona che infili un ago stringe le labbra, ed anche sospende il respiro o respira lievissimamente. Come abbiamo già detto, la stessa osservazione fu fatta sopra un giovane scimpanzé malato, mentre si dilettava ad uccidere le mosche che ronzavano sui vetri della finestra. Un atto, quando è difficile, sia pure insignificante, richiede sempre fino a un certo punto un'antecedente determinazione.

Egli è probabile che le diverse cause su accennate abbiano potuto venir messe in gioco in differente grado, sia complessivamente, sia separatamente, in diverse occasioni. Ne dovette seguire un'inveterata abitudine, oggi definitivamente ereditaria, di chiudere strettamente la bocca prima e durante ogni sforzo prolungato e violento, prima e durante ogni delicato lavoro. In virtù del principio di associazione, non appena lo spirito abbia preso una risoluzione relativa a qualche atto speciale, a qualche via da tenere, deve esistere una spiccata tendenza a riprodurre quell'abitudine, tendenza che può manifestarsi prima che sia necessario ogni sforzo fisico, e pur allorquando non ve ne sarebbe bisogno alcuno. Così l'abituale ed energico serrar della bocca giunse sino ad esprimere la risolutezza del carattere, ed è noto quanto facilmente la risolutezza degeneri in ostinazione.


CAPITOLO X. ODIO E COLLERA

Odio. - Furore, suoi effetti sul fisico. - Atto di scoprire i denti. - Furore degli alienati. - Collera e sdegno. - Loro espressione nelle varie razze umane. - Derisione e disfida. - Atto di scoprire il dente canino da una parte sola.

Se un individuo ci ha fatto volontariamente un torto, se ci ha offesi in qualsivoglia maniera, o se crediamo ch'egli abbia ostili intenzioni a nostro riguardo, nutriamo per lui avversione, che facilmente degenera in odio. Questi sentimenti, provati in debole grado, non hanno alcun particolare movimento che li esprima nettamente, eccezion fatta forse per una certa rigidezza nell'atteggiamento od un poco di malumore. Ciò nondimeno pochissimi sanno fermare a lungo il pensiero sopra una persona odiata, senza provare e lasciarsi sfuggire segni d'indignazione o di rabbia. Però se l'offensore ci sta molto al di sotto, null'altro sentiamo che sdegno e disprezzo. Se l'offensore, viceversa, è molto potente, il nostro odio si trasforma in terrore; prova terrore uno schiavo pensando a un padrone crudele, o un selvaggio rammentando una divinità malefica e sanguinaria (187). La maggior parte delle nostre sensazioni è così strettamente legata alla loro espressione, che nessuna di esse può esistere fin che il corpo sta inerte, poiché la natura della espressione dipende principalmente dalla natura degli atti che di solito si producono in questo o in quello stato speciale dell'animo. Per esempio, un uomo può sapere benissimo che la sua vita è esposta al maggiore dei pericoli e desiderare ardentemente di salvarla, eppure può dire, come Luigi XVI attorniato da una massa furiosa: «Credete ch'io abbia paura? Tastate il mio polso». Così ancora, un uomo può odiare con tutta la forza un altro uomo, senza che si abbia a supporre il furore che l'accende, sino a che questo non viene palesato dal corpo.

Furore. - Ebbi già occasione di parlare intorno a questo sentimento nel capitolo III, quando mostrai la diretta influenza del sensorio sulla economia, combinata con gli effetti di atti ordinariamente associati. Il furore si palesa nelle più varie maniere. Il cuore e la circolazione sono sempre impressionati; il volto viene rosso o purpureo, e le vene della fronte e del con lo si gonfiano. Il rossore della pelle fu osservato negli Indiani rossi dell'America del Sud (188), ed anche, pare, sulle cicatrici bianche lasciate nella pelle dei negri da antiche ferite (189). Anche le scimmie arrossiscono di collera. Ho più volte osservato in un mio figlio, a meno di quattro mesi, che l'afflusso del sangue che faceva rossa la sua calva testina, era il primo indizio di un accesso di collera. Talvolta invece il furore inceppa le funzioni del cuore così, da rendere il volto pallido o livido (190), e bene spesso si videro malati di cuore cascar morti sotto il peso di questa potente emozione.

La stessa respirazione ne è presa di mezzo: il petto si solleva e le narici si dilatano e fremono (191). Tennyson disse: «Il soffio violento della collera gonfiava le sue narici di fata». Da ciò le espressioni: respirare la vendetta, e fumare di collera (192).

L'eccitazione del cervello invigorisce i muscoli e nello stesso tempo rafferma la volontà. D'ordinario il corpo sta ritto, pronto a reagire; qualche volta peraltro si piega verso l'aggressore e le membra sono più o meno tese. Di solito la bocca, perfettamente chiusa, esprime una determinazione già presa, ed i denti o stanno stretti o battono gli uni contro gli altri. Spesse volte si alzano le braccia e si stringono i pugni, quasi a colpire l'aggressore. Al colmo dell'irritazione, ed intimando a qualcuno di uscire, è assai raro il caso che non si faccia il moto di batterlo o di cacciarlo fuori a violenza. Ben più; questo drsiderio di colpire è spesso potente così, che si percuotono o si gettano a terra corpi inanimati; del resto, le movenze diventano il più delle volte disordinate e frenetiche. Quando i fanciulli sono infuriati, si rotolano per terra, gridando, pestando i piedi, graffiando e percuotendo tutto quello che viene loro alle mani. Dalle informazioni di Scott risulta che i fanciulli Indù fanno lo stesso, e noi abbiamo visto che le scimmie antropomorfe non si regolano in modo diverso.

Tuttavia il sistema muscolare può venire impressionato in maniera del tutto contraria; infatti, la conseguenza di un eccessivo furore è spesse volte il fremito. Allora le labbra, paralizzate, non rispondono più agli ordini della volontà, «e la voce s'arresta alla strozza» (193); altre volte essa si fa più vigorosa e rauca e stonata; e se si parla molto e con animosità, la bocca si riempie di schiuma. Talora i capelli si rizzano; ma su questo punto tornerò in un altro capitolo, parlando del sentimento misto, composto di collera e di terrore. Nella maggior parte dei casi, si determina un pronunciatissimo increspamento dei sopraccigli, segno caratteristico della preoccupazione della mente, in faccia a qualche fastidio o a qualche ostacolo. Talvolta, all'incontro, la pelle del fronte, in luogo di venire contratta ed abbassata, si mantiene liscia, e gli occhi, scintillanti, stanno spalancati. Gli occhi brillano sempre, e, seguendo l'espressione di Omero, sono pieni di fiamme. In certi casi si vedono iniettati di sangue, e schizzano, come si dice, dalle orbite: conseguenza evidente dell'assoluta congestione cerebrale, congestione, del resto, manifestata dalla dilatazione delle vene. Secondo Gratiolet (194), nei furiosi le pupille sono sempre contratte; il dottor Crichton Browne mi ha detto che altrettanto si avvera nel delirio violento della meningite: bisogna confessare peraltro, che i moti dell'iride sotto l'influenza dei vari sentimenti sono ancora assai poco conosciuti.

Shakespeare riassume così i caratteri principali del furore:

Nulla più l'uomo nella pace adorna

Dell'umiltà, della modesta calma.

Ma se di guerra vi sorprende l'ora,

Diventate del tigre imitatori.

Dure le membra, il sangue suscitato,

All'occhio date il più feroce aspetto,

Stringete i denti ed ampie fian le nari,

Raffrenate il respiro, ed all'estremo

Sian gli spirti vital sospinti, o Inglesi.

Sotto l'influenza del furore, talvolta si protendono le labbra; né io so spiegarmi lo scopo di questo movimento, a meno che non si debba la nostra origine ad una qualche forma scimmiesca. Se ne osservarono degli esempi non solo presso gli Europei, ma anche negli Australiani e negli Indù. Più di spesso, peraltro, le labbra sono ritirate e lasciano allo scoperto i denti, stretti. È questa l'osservazione generale di tutti gli autori che scrissero sulla espressione (195). Pare che i denti vengano messi a nudo per essere pronti ad assalire ed a stracciare l'avversario, anche se non c’è alcuna intenzione di questo genere. Dyson Lacy osservò questa minacciosa espressione negli Australiani, quando sono in alterco, e Gaika nei Cafri del Sud dell'Africa. Carlo Dickens (196), narrando l'arresto di un bandito, descrive il popolo furioso che l'attorniava, «precipitandosi, digrignando i denti e mandando urli da bestie feroci». Tutti coloro che avvicinano dei bambini, sanno quanta disposizione abbiano a mordere, allorché sono in collera. In essi, quest'atto è naturalissimo, e pare istintivo, quasi come nei giovani coccodrilli, che fanno crocchiare le loro piccole mascelle, appena usciti dall'uovo.

Qualche volta si vede che l'avanzamento delle labbra è accompagnato da un riso di minaccia. Un buon osservatore narra di aver potuto studiare l'odio (che quasi si confonde col furore più o meno dissimulato) sugli Orientali, ed una volta, sopra una donna inglese, alquanto avanzata in età. In tutti questi casi, si riscontrava «non un aggrottamento di sopracciglia, ma un riso minaccioso; le labbra sporgevano, le guance erano rilassate, semichiusi gli occhi; la fronte perfettamente calma ed immobile» (197).

Questo movimento che ritira le labbra e discopre i denti, negli accessi di furore, come per mordere un avversario, è molto notevole, avuto riguardo alla rarità dei casi nei quali, presso la specie umana, i denti sono impiegati alla lotta. Mi sono anche indirizzato al dottor G. Crichton Browne, per sapere se questa abitudine fosse comune agli alienati, che s'abbandonano senza ritegno alla foga della collera. egli mi scrive d'averla realmente osservata a varie riprese negli alienati e negli idioti, e me ne cita i seguenti esempi

Pochi momenti prima di ricevere la mia lettera, egli era stato testimonio di un accesso di collera sfrenata e di mal fondata gelosia, in una donna pazza. Questa, con la schiuma alla bocca, cominciò dall'aggravare di rimbrotti il marito; poi gli si avvicinò, colle labbra strette e le sopracciglia energicamente contratte. Infine ritrasse le labbra, soprattutto le estremità laterali del superiore, e mostrò i denti, scagliando un vigoroso pugno. Secondo esempio: un vecchio soldato, invitato a sottomettersi alle regole dello stabilimento, si disgusta e ne viene furioso. Per solito, egli comincia col domandare al dottor Browne se non sia cosa vergognosa trattarlo così. Allora si mette a giurare ed a bestemmiare, cammina a lunghi passi, si sbraccia a destra ed a manca, e scaglia invettive a tutti quelli che l'attorniano. Infine, giunto al colmo della esasperazione, si precipita sul dottor Browne con un movimento obliquo particolare, facendo crocchiare le mascelle e proferendo minacce di morte. A questo punto può vedersi che il suo labbro superiore è sollevato, specialmente verso alle estremità, onde vengono messi a nudo i suoi enormi canini. Egli grida maledizioni coi denti stretti, e tutto l'assieme della sua espressione riveste un'estrema ferocia. La stessa descrizione può servire anche per un terzo individuo, eccettuato, peraltro, che questi quasi sempre schiuma e sputacchia, tutto abbandonandosi agli movimenti ed ai salti più strani, ed imprecando con una voce di falsetto acutissima.

Il dottor Browne mi comunica ancora l'osservazione di un idiota epilettico, incapace di ragionati movimenti, e che passa di solito tutto intero il giorno trastullandosi con dei balocchi; nondimeno è di umore fastidioso e diventa facilmente intrattabile. Se qualcuno gli tocca un giocattolo, leva adagio adagio la testa, che d'ordinario tiene abbassata, e fissa gli occhi sull'importuno con sguardo arcigno ed irritato. Se poi lo si contraria ripetutamente, ritira le sue grosse labbra, e denuda una fila sporgente di ributtanti dentacci, fra i quali si distinguono soprattutto i canini; poi con la mano aperta colpisce con rapidità e violenza colui che l'annoia. La rapidità di questo gesto, dice il dottore Browne, contrasta meravigliosamente col torpore ordinario di lui, tale ch'egli mette di solito quindici secondi a volgere la testa da una parte all'altra, quando la sua attenzione è risvegliata da qualche rumore. Allorché trovasi in questo stato di esasperazione, se un oggetto qualunque, un fazzoletto, un libro, gli cade fra mano, lo porta alla bocca e lo morde. Nicol mi fece un'analoga descrizione, riguardante due alienati, le labbra dei quali si ritraevano anche negli accessi di furore.

Il dottor Maudsley, dopo aver riferiti parecchi atti che ravvicinano l'idiota al bruto, si domanda se non sia necessario vedervi il ritorno di primitivi istinti, «un'eco affievolita di un remoto passato, che manifesta una parentela onde l'uomo si è quasi liberato del tutto». egli rammenta che il cervello umano, nel corso del suo sviluppo, passa traverso vari stati, identici a quelli offerti dagli altri vertebrati; e siccome la condizione del cervello dell'idiota rappresenta uno sviluppo arrestato, è lecito supporre «che debba compiere la stessa funzione che aveva in origine, in luogo dell'ufficio più elevato del cervello dell'uomo sano». Secondo il dottore Maudsley, può dirsi altrettanto circa lo stato in cui sono ridotte le funzioni cerebrali di certi alienati. «Donde vengono in essi, egli si domanda, il grugnito selvaggio, la brama di distruggere, gli osceni discorsi, gli urli feroci, le abitudini di violenza? Come mai un essere umano, per ciò solo che manca della ragione, assumerebbe un carattere tanto brutale, se in lui non esistesse realmente una natura di bruto?» (198). E gli pare che tale questione debba risolversi affermativamente.

Collera e sdegno. - Queste condizioni dell'animo differiscono dal furore solo per il grado, né vi è distinzione spiccata fra i gesti che li caratterizzano. Sotto l'impero di una collera moderata, l'azione del cuore si sovreccita leggermente; si colora la faccia e brillano gli occhi. Anche la respirazione è alquanto più celere, e siccome tutti i muscoli che servono a quest'ufficio agiscono assieme, le ali del naso si sollevano un poco, in modo da lasciare libero accesso all'aria, segno assai caratteristico della indignazione. Il più delle volte la bocca è chiusa, e le sopracciglia sempre contratte. Nessun gesto frenetico come nell'estremo furore; soltanto, l'uomo in preda allo sdegno si colloca, senz'averne coscienza, in un atteggiamento adatto per assalire o battere il nemico, che squadra talvolta, dal capo alle piante con aria di sfida. Alta la testa, il petto sollevato, ed i piedi premono fortemente il suolo. Le braccia assumono posizioni diverse: ora stanno tese lungo il corpo ed immobili, ora l'uno dei gomiti o entrambi sono piegati. Negli Europei spesse volte si vede che si stringono i pugni (199). Le figure 1 e 2 della Tavola VI rappresentano assai bene uomini che fingono lo sdegno. Ciascuno può fare la seguente esperienza: si collochi davanti uno specchio, immagini di venir insultato, e, risentito, ne chieda soddisfazione; ben presto egli assumerà, senza pur rendersene conto, un atteggiamento simile a quello or ora descritto.

Il furore, la collera e lo sdegno si esprimono dovunque quasi nella stessa maniera; le descrizioni che seguono gioveranno a dimostrarlo e ad appoggiar con esempi le precedenti osservazioni. Ci ha peraltro una eccezione, relativa all'atto di stringere i pugni, e che sembra speciale a coloro che lottano usando di questi. Negli Australiani, ad esempio, uno solo dei miei corrispondenti lo poté osservare. Tutti, del resto, concordano a dire che il corpo è mantenuto diritto, e tutti ancora, due soli eccettuati, constatano il pronunciato aggrottamento dei sopraccigli. Alcuni fanno menzione delle labbra totalmente chiuse, delle narici dilatate, dello sguardo lampeggiante. Secondo il rev. sig. Taplin, gli Australiani esprimono il furore sporgendo le labbra e tenendo spalancati gli occhi; le donne corrono per tutte le bande e gettano polvere in aria. Un altro osservatore dice che gl'indigeni, quando sono infuriati, scagliano le braccia a destra ed a manca.

Quanto ai Malesi della penisola di Malacca, agli Abissini ed ai naturali del Sud dell'Africa, io raccolsi identici fatti, salvo per quello che si riferisce ai pugni. Posso citare anche gl'Indiani Dakota dell'America del Nord; secondo il signor Matthews, essi tengono la testa diritta, le sopracciglia aggrottate, e camminano sovente a gran passi. Il sig. Bridges notò che gli abitanti della Terra del Fuoco, sotto l'influenza del furore, spesse volte pestano la terra coi piedi, girano qua e là, e talora piangono e impallidiscono. Il rev. sig. Stack osservò un uomo e una donna della Nuova Zelanda, mentre altercavano, e raccolse nel suo portafoglio le note seguenti: «Occhio spalancato, corpo violentemente portato indietro ed innanzi, testa inclinata in avanti, pugni stretti, ora spinti dietro le spalle, ora messi a vicenda sotto il naso». Il sig. Swinhoe dice che la mia descrizione concorda colle sue osservazioni sopra i Cinesi; bisogna peraltro aggiungere la circostanza che un uomo in collera d'ordinario si piega verso l'avversario e lo tempesta d'ingiurie.

Ultimamente il sig J. Scott m'inviò una particolareggiata descrizione degli atti e delle espressioni degl'indigeni Indiani, quando sono infuriati. Due Bengalesi di bassa sfera altercavano per un prestito. In sulle prime, calma; ma ben tosto divennero furiosi e si scambiarono le più grossolane ingiurie, a carico degli amici e dei loro parenti, anche molto lontani. Gestivano assai diversamente dagli Europei: in fatti, benché avessero il petto dilatato e rialzate le spalle, tenevano rigidamente piegate le braccia ed i gomiti in dentro, aprivano e chiudevano successivamente le mani ed alzavano e abbassavano a varie riprese le spalle. I loro sguardi erano sguardi di belva e adombravano le sopracciglia abbassate e vivamente aggrottate; le loro labbra sporgevano e fortemente si stringevaoi. Si fecero l'un l'altro vicini, la testa ed il collo in avanti, e cominciarono a dimenarsi, a graffiarsi, a scuotersi. Questo atteggiamento della testa e del corpo sembra esser comune alle persone furibonde: io lo notai in Inghilterra nelle femmine dell'infima classe, quando altercavano in mezzo alla via. In tal caso possiamo supporre che nessuno dei due avversari aspetta di venir assalito dall'altro.

Un Bengalese, impiegato al Giardino botanico, era accusato dal sorvegliante indigeno, in presenza di Scott, d'aver involata una pianta rara. Egli ascoltò l'accusa senza proferire parola e con disprezzo, tenendo il corpo eretto, il petto dilatato, la bocca chiusa, sporte le labbra, il guardo fisso e penetrante. Poi, colle braccia rialzate e chiuse le mani, la testa sporta in avanti, gli occhi spalancati e le sopracciglia elevate, protestò arditamente la propria innocenza. Il signor Scott osservò pure due Mechis a Sikhim, mentre contendevano per la ripartizione del soldo. Montarono ben presto in violento furore, e a questo punto curvarono alquanto il corpo e piegarono la testa in avanti. Si facevano visacci, avevano rialzate le spalle, le braccia rigidamente piegate coi gomiti in dentro, le mani strette convulsivamente, senza peraltro stringere proprio i pugni. Avanzavano e retrocedevano di continuo, e spesso levavano le braccia come per scagliare dei colpi, ma in allora tenevano aperta la mano e non colpivano. Scott fece analoghe osservazioni sopra i Lepchas, ch'egli vide spesse volte in disputa, e notò che tenevano le braccia rigide e stese lungo il corpo, quasi parallelamente, mentre le mani erano portate alquanto indietro del dorso e chiuse a metà, ma senza che i pugni fossero stretti.

Sogghigno, aria di sfida, azione di scoprire il dente canino d'un lato. - L'espressione che ora passiamo a trattare differisce pochissimo dalle descritte, nelle quali le labbra sono ritratte, ed i denti, stretti, vengono messi a nudo. L'unica differenza sta nel modo d'elevare il labbro superiore, che lascia vedere solamente il canino d'un lato, mentre di solito la faccia è rivolta un po' in su e per metà allontanata dall'offensore. Gli altri sintomi caratteristici del furore possono mancare. Qualche volta questa espressione si nota in un individuo che si fa beffa di un altro o lo sfida, anche quando egli non è proprio in collera; la si osserva, a mo' d'esempio, sul volto d'una persona che viene per scherzo accusata di qualche cosa e che risponde: «Tali imputazioni non giungono a me: io le disprezzo». Codesta espressione non avviene di spesso: l'ho peraltro osservata assai nettamente in una signora che era derisa. Parsons ne fece una descrizione che risale al 1746; ell'è accompagnata da una figura sulla quale si vede scoperto il dente canino sol d'una parte (200). Il signor Rejlander, prima ancora ch'io gliene tenessi parola, mi chiese se avevo mai osservata questa espressione, dalla quale egli stesso era stato molto colpito. egli fotografò per mio conto (Tav. IV, fig. 1) una donna, la quale talvolta scopre inavvedutamente il canino d'un lato, e può riprodurre a volontà, con una eccezionale precisione, questo espressivo movimento.

L'aria quasi festevole d'una persona che sogghigna può degenerare per via di successive trasformazioni in una espressione di estrema ferocia, se, mentre le sopracciglia si contraggono vivamente e brillano gli occhi, anche il dente canino vien messo a nudo. Un fanciullo bengalese era accusato d'un misfatto, in presenza del sig. Scott; il piccolo colpevole non osava esprimere il suo corruccio a parole, ma questo gli traspariva dai gesti e si faceva palese ora per mezzo di un superbo aggrottamento di sopracciglia, ora per «uno speciale movimento che scopriva il canino della parte rivolta all'accusatore; in quell'istante egli sollevava il lato del labbro corrispondente a questo canino, che in lui era largo e sporgentissimo». Sir C. Bell riferisce (201) che il grand'attore Cooke sapeva esprimere l'odio più violento, «guardando obliquamente e sollevando la parte esterna del labbro superiore, in modo da mettere a nudo un canino tagliente ed aguzzo».

Questo scoprirsi del dente canino, sotto l'influenza di certi stati dell'animo, risulta da due movimenti. L'angolo o la commessura della bocca è alquanto tratta all'indietro, e nello stesso tempo un muscolo vicino e parallelo al naso tira in su la parte esterna del labbro superiore, e mette a nudo il canino del lato corrispondente. La contrazione di questo muscolo produce un distintissimo solco sopra la guancia e delle marcatissime rughe al di sotto, e specialmente all'angolo interno dell'occhio. Questo fenomeno è identico a quello che si nota in un cane che brontola; un cane che desidera di azzuffarsi alza spesse volte il labbro dalla parte dell'avversario. Il motto inglese sneer (sogghigno) in fondo in fondo è identico alla parola snarl (brontolìo), che tempo addietro era snar: la lettera l, aggiuntavi, «indica semplicemente la continuità di un'azione» (202).

Io ritengo che quel che si chiama sorriso sardonico o beffa sia un vestigio di questa stessa espressione. Qui la bocca resta chiusa o quasi, ma uno dei suoi angoli è ritirato dalla parte della persona derisa; ora, questa contrazione all'indietro dell'angolo della bocca costituisce uno degli elementi del sogghigno propriamente detto. A dir vero, ci ha taluni i quali sorridono da un lato del viso più che dall'altro; tuttavia non è facile comprender perché, nella espressione del motteggio, il sorriso, se pur ve n'ha uno, spesse volte si limiti ad una parte soltanto. Per giunta, io osservai un leggero sussulto del muscolo che alza il labbro superiore; ora questo movimento, se si fosse più dichiarato, avrebbe scoperto il canino e determinata la vera espressione del sogghigno.

Il sig. Bulmer, missionario in un remoto distretto di Gipp's Land (Australia), risponde a quella fra le mie questioni relativa al movimento di scoprire il canino da una parte sola: «Ho notato che, quando gl'indigeni brontolano assieme, parlano coi denti stretti, col labbro superiore teso da un lato e nel complesso dei lineamenti esprimendo la collera; ma essi guardano in faccia il loro interlocutore». Tre altre persone che istituirono delle osservazioni in Australia, una quarta in Abissinia ed una quinta in Cina, rispondono affermativamente alla mia domanda; ma siccome questa espressione è rara ed essi non entrano in alcun dettaglio, così non oso prestare una completa fiducia alle loro parole. Tuttavia niente di più probabile che questa espressione semi-bestiale sia più frequente presso i selvaggi che nelle razze civilizzate. Il sig. Geach, il quale merita assoluta credenza, la constatò una volta sopra un Malese, nell'interno di Malacca. Il rev. S. O. Glenie mi risponde: «Abbiamo osservata questa espressione negli indigeni di Ceylan, ma molto di rado». Recentemente, nell'America del Nord, il dottor Rothrock la riscontrò in alcuni Indiani selvaggi, e spesse volte in una tribù vicina agli Atnà.

Se avviene talora che sgridando o sfidando qualcuno, si sollevi il labbro superiore da una parte sola, ciò non vuol dire che questo fatto sia costante; perché il viso di solito è mezzo rivolto, e l'espressione è di spesso fugace. Può essere che il movimento limitato ad una parte sola del volto non sia un'essenziale particolarità dell'espressione; ma dipenda dal fatto che i muscoli destinati a tal uopo sono incapaci di contrarsi simultaneamente da entrambi i lati. A rendermene ragione, pregai quattro persone onde cercassero di eseguire volontariamente il movimento in discorso; due di loro non seppero scoprire il dente canino che dal lato sinistro, una solo dal destro, e la quarta non riuscì a farlo né dall'una né dall'altra parte. Nessuno ci assicura però che, se queste stesse persone avessero sfidato qualcuno sul serio, non avrebbero scoperto, senza saperlo, il dente canino da quel lato, qualunque si fosse, che stava più vicino all'avversario. In fatti vedemmo che certe persone, le quali non possono rendere volontariamente oblique le sopracciglia, ci sanno dare peraltro questa posizione, quando sono realmente irritate, ne sia pure insignificante il motivo. Se dunque la facoltà di scoprire il dente canino da una parte sola è qualche volta perduta, ciò dipende dal fatto ch'ella è raramente messa a profitto e costituisce un gesto abortito. Con tutto ciò fa meraviglia che l'uomo possegga tal facoltà o mostri qualche tendenza ad usarne. In fatti, il signor Sutton, al Giardino zoologico, non ebbe mai ad osservare niente d'analogo sui nostri più vicini parenti, cioè sulle scimmie; ed è certo che i babbuini, quando sono intrattabili e lì lì per assalire, benché muniti di forti canini, non discoprono uno solo di questi, ma mettono a nudo tutti i denti nello stesso tempo. Ignoro se i maschi delle scimmie antropomorfe adulti, che a paragone delle femmine hanno i canini molto più grandi, li discoprano al momento della lotta.

La presente espressione, sia che si tratti d'una lepida burla o d'un feroce grugnito, è una delle più curiose fra quelle offerte dall'uomo. Essa rivela la nostra origine animale; perché nessuno, dibattendosi per terra in una stretta mortale, pensò mai di servirsi dei suoi canini, piuttosto che degli altri denti. In questo caso, in base alla nostra rassomiglianza colle scimmie antropomorfe, possiamo supporre con molta probabilità che fra i nostri antenati, uomini a mezzo, i maschi possedessero forti canini: anche al dì d'oggi nascono talvolta uomini forniti di canini di straordinaria dimensione, con appositi diastemi nella mascella opposta per dar loro ricetto (203). Possiamo ammettere ancora, quantunque ci manchi l'analogia, che i nostri antichi progenitori semibruti, preparandosi alla lotta, scoprissero i canini, come noi lo facciamo tuttora, quando siamo inferociti, o semplicemente quando sgridiamo o sfidiamo qualcuno, senza aver pure la menoma intenzione di assalire a colpi di denti.


CAPITOLO XI. DISISTIMA - DISPREZZO - DISGUSTO - ORGOGLIO, ECC. - IMPOTENZA - PAZIENZA - AFFERMAZIONE E NEGAZIONE

Disprezzo, alterigia e disistima; diversità nella loro espressione. - Sorriso sarcastico. - Gesti che esprimono il disprezzo. - Disgusto. - Colpevolezza, astuzia, orgoglio, ecc. - Rassegnazione, debolezza o impotenza. - Pazienza. - Ostinazione. - Stringimento delle spalle, gesto comune a quasi tutte le razze umane. - Segni di affermazione e di negazione.

L'alterigia e la disistima non differenziano dal disprezzo che per una maggiore irritazione. né si possono perfettamente distinguere dai sentimenti studiati nel precedente capitolo sotto il nome di sogghigno e d'aria di sfida. Il disgusto è una impressione di natura un po' meglio definita, provocata prima da una impressione che ripugna al senso del gusto, e poi da tutto quello che può dar luogo ad una simile impressione, col mezzo dell'odorato, del tatto e perfino della vista. Checchè ne sia, corre poca differenza tra il disgusto e il disprezzo spinto al massimo grado, che talvolta prende il nome di ripulsione. Queste diverse condizioni dell'animo sono dunque molto affini, ed ognuna di esse può manifestarsi nelle più varie maniere. Gli autori si sono principalmente dilungati su questo e su quel mezzo espressivo che loro si conviene, ed il signor Lemoine se ne fece sgabello (204) per sostenere che le loro descrizioni avevano nulla di fondato. Ma noi vedremo come sia naturale che i sentimenti in discorso possano esprimersi in molte maniere diverse, perché, in virtù del principio dell'associazione, atti consuetudinari diversi sono egualmente adatti a manifestarli.

L'alterigia e la disistima, al pari del sogghigno e dell'aria di sfida, possono esprimersi scoprendo leggermente il dente canino da una parte sola, e questo movimento par che degeneri in una specie di sorriso. Altre volte il motteggio si palesa con un sorriso o con un vero riso, ed è quando l'offensore è tanto meschino da risvegliare in noi solamente allegria, la quale per altro non è mai propriamente gioia. Gaika, rispondendo alle mie domande, nota che d'ordinario i Cafri, suoi compatrioti, esprimono il disprezzo sorridendo; il principe indiano Brooke fa la medesima osservazione riguardo ai Dyak di Borneo. Siccome la primitiva espressione della gioia propriamente detta è il riso; così io non credo che i bambini giovanissimi ridano mai in segno di burla.

Il parziale abbassamento delle palpebre, come l'afferma il signor Duchenne (205), od anche l'azione di distogliere gli occhi ed il corpo tutto, esprimono pure con molta esattezza lo sdegno. Sembra che questi atti dicano che la persona sprezzata è indegna d'un guardo o che la sua vista ci spiace.


Tav. V

La qui annessa fotografia (Tavola V, fig. 1), fatta dal signor Rejlander, mostra questa specie di sdegno. Essa rappresenta una ragazza mentre sta lacerando la fotografia di un amante da lei disprezzato.

La più comune maniera di manifestare il disprezzo consiste in certi movimenti delle regioni nasale e boccale; questi ultimi, peraltro, quando sono molto pronunciati, esprimono il disgusto. Qualche volta il naso si rialza alquanto, il che certamente proviene dal sollevarsi del labbro superiore; tal altra il movimento si riduce ad un semplice increspamento della pelle del naso. Spesso le narici vengono debolmente contratte, come per restringere il loro orificio (206), e contemporaneamente si determina una breve espirazione nasale. E questi medesimi atti avvengono pure quando si percepisce uno sgradevole odore, che desideriamo evitare o di cui vogliamo sbarazzarci. Secondo il dottore Piderit (207), in quei casi nei quali questi fenomeni raggiungono il massimo grado, si sporgono e si sollevano entrambe le labbra, o il superiore soltanto, in modo da chiudere le narici con una specie di valvola, e contemporaneamente si rialza il naso. egli pare che noi vogliamo così far intendere all'individuo sprezzato che la sua vicinanza ci appesta (208), quasi nella stessa maniera con cui gli significhiamo ch'egli è indegno di attirare il nostro sguardo, quando chiudiamo a mezzo gli occhi o distogliamo il capo. Non è a credere però che tali ragionamenti ci traversino la mente proprio nel punto in cui manifestiamo il nostro disprezzo. Tutte le volte in cui fummo esposti a sentire o a vedere un oggetto sgradevole, si compirono atti di questo genere, i quali perciò divennero abituali, si resero fissi, ed ora si rinnovano sotto l'impero di ogni analogo stato dell'animo.

Anche altri piccoli gesti singolari esprimono il disprezzo: citerò quello che consiste nel far schioccare le dita. Secondo l'osservazione del signor Tylor (209): «non è molto facile comprendere questo atto, tal quale abitualmente si osserva; ma bisogna riflettere che questo stesso movimento, eseguito con ogni delicatezza, come se si trattasse di rotolare fra l'indice e il pollice qualche oggetto minuto, o di lanciarlo lontano colle medesime dita, costituisce per i sordo-muti un gesto comunissimo e perfettamente compreso, che vuol indicare qualche cosa di piccolo, di insignificante, di spregevole; sembra quindi che noi abbiamo semplicemente esagerato e reso convenzionale un atto del tutto naturale, al punto da perdere affatto di vista il suo primitivo significato. Una curiosa menzione di questo gesto si rinviene in Strabone». Il signor Washington Matthews m'apprende che gl'Indiani Dakota, dell'America settentrionale, esprimono il disprezzo non solo con movimenti della faccia, ma anche «avvicinando dapprima al petto la mano chiusa, poi stendendo bruscamente l'avambraccio, aprendo la mano e scostando l'uno dall'altro le dita. Che se l'individuo che provoca questo disprezzo è presente, la mano si porta verso di lui, mentre qualche volta se ne distoglie il capo». Questa maniera di lanciare vivamente le braccia aprendo la mano indica forse l'idea di lasciar cadere o di respingere qualche oggetto senza valore.

La parola disgusto, nel più stretto significato, si applica ad ogni sensazione che offende il senso del gusto. È curioso vedere come questo sentimento venga provocato facilmente da tutto quello che si scosta dalle nostre abitudini, sia nell'aspetto, nell'odore o nella natura del cibo. Alla Terra del Fuoco, un indigeno, avendo toccato col dito un pezzo di carne fredda conservata ch'io stavo per mangiare al bivacco, manifestò il massimo disgusto sentendone la pastosità; mentre io dal mio canto provai un vivo disgusto al vedere che un selvaggio portava le mani sul mio nutrimento, quantunque non mi sembrassero sporche. Una barba imbrattata di broda ci riesce stomachevole, sebbene la broda in se stessa abbia nulla di disgustoso. Io credo che questo fenomeno risulti dalla potente associazione ch'esiste nell'animo nostro tra la vista del cibo in qualunque circostanza e l'idea di mangiare questo cibo.

Giacchè la sensazione di disgusto deriva primitivamente dall'atto di mangiare o di gustare, è naturale che la sua espressione sarà principalmente determinata da movimenti della bocca. Ma siccome il disgusto provoca anche della contrarietà, così questi movimenti sono di solito accompagnati dall'aggrottamento dei sopraccigli, e spesso da gesti destinati a respingere l'oggetto che lo determina od a schermirsi dal suo contatto. Nelle due fotografie rappresentate alla Tavola V (fig. 2 e 3), il signor Rejlander ha tentato, con qualche successo, di riprodurre questa espressione. Sul volto, il disgusto, quando è moderato, si manifesta in diverse maniere: si spalanca la bocca, come per gettar fuori il boccone che ha offeso il senso del gusto, si sputa, si soffia sporgendo le labbra; e si produce una specie di raschiamento della gola. Questo suono gutturale può esprimersi con ah o euh. La sua emissione è talvolta accompagnata da un brivido, mentre le braccia si stringono al petto e le spalle si sollevano, come nell'espressione dell'orrore (210). Un sommo disgusto vien espresso con movimenti boccali simili a quelli che precedono il vomito. La bocca si spalanca affatto, il labbro superiore si contrae energicamente, le porzioni laterali del naso s'increspano, il labbro inferiore s'abbassa e s'arrovescia quanto è possibile. Quest'ultimo movimento esige la contrazione dei muscoli che tirano in basso gli angoli della bocca (211).

È notevole la facilità con cui certe persone, solo all'idea di prendere un cibo inusato, di mangiare, per esempio, la carne d'un animale che non si adopera per consueto alimento, soffrono immediatamente nausee o vomiti, anche quando questo cibo nulla contiene che possa produrre alterazione allo stomaco. Quando il vomito risulta, come atto riflesso, da qualche causa materiale, un disordine, l'ingestione d'una vivanda guasta, d'un emetico, non si produce sul punto, ma di solito avviene dopo un notevole intervallo di tempo. E per spiegare come la nausea od anche il vomito possano immediatamente succedere alla semplice percezione d'una idea, è lecito supporre che i nostri antichi progenitori abbiano dovuto possedere, al pari dei ruminanti e di parecchi altri animali, la facoltà di rigurgitare volontariamente il nutrimento che tornava loro d'incomodo. Al dì d'oggi questa facoltà non è più sottomessa all'azione della volontà, ma, per effetto d'una inveterata abitudine, si riproduce involontariamente tutte le volte in cui lo spirito si ribella all'idea di prendere questo o quel cibo, o più in generale tutte le volte ch'esso si trova dinanzi a qualche oggetto che inspira disgusto. Tale opinione è confermata da un fatto attestatomi dal signor Sutton: le scimmie del Giardino zoologico, benché affatto sane, vomitano spesso, proprio come se questo atto dipendesse dalla loro volontà. Si comprende d'altra parte che, potendo l'uomo insegnare, per mezzo del linguaggio, ai suoi figli ed ai propri simili da quali cibi si debba astenersi, poche sarebbero le occasioni da mettere a profitto questa facoltà di volontaria espulsione; quindi ne viene ch'essa dovette disparire man mano per non-uso.

Il senso dell'odorato sta in intimo nesso con quello del gusto. Non di rado si vede che in certe persone un odore molto cattivo, al pari dell'idea d'un cibo ributtante, provoca nausea e vomito, e che per conseguenza un odore moderatamente sgradevole suscita le diverse manifestazioni che esprimono il disgusto. In sul principio la disposizione alla nausea provocata da un fetido odore si aumenta in modo curioso; ma poi scompare, perché se n'è presa l'abitudine, ed anche perché la volontà vi esercita un'influenza repressiva. Io mi ricordo, per esempio, d'aver voluto un giorno apparecchiare uno scheletro d'uccello, non ancora macerato a sufficienza; l'odore ch'esso spandeva provocò al mio assistente ed a me stesso, molto poco abituati a tali operazioni, una nausea tanto violenta, che fummo obbligati a lasciar lì. Nei giorni avanti avevo esaminato alcuni altri scheletri, né il loro leggero odore m'aveva punto impressionato; ma da quel momento, per parecchi dì non mi fu possibile maneggiare quei medesimi scheletri senza sentirmi subito sconvolto lo stomaco.

Dalle informazioni avute dai miei corrispondenti, sembra che i diversi movimenti descritti come espressivi del disprezzo e del disgusto siano identici in una gran parte del mondo. Il dottor Rothrock, ad esempio, risponde proprio affermativamente alle mie domande su questo argomento, per quanto riguarda alcune tribù indiane selvagge dell'America del Nord. Crantz racconta che, quando un Groenlandese rifiuta qualche cosa con disprezzo o con orrore, alza il naso e ne fa uscire un debole suono. Il signor Scott m'inviò una pittoresca descrizione della fisionomia d'un giovane Indù, al vedere dell'olio di castoro che gli si voleva far trangugiare (212). Il sig. Scott ha pure osservata la stessa espressione sul volto di indigeni d'una classe elevata, quando si avvicinavano a qualche sudicio oggetto. Il Bridges dice che i naturali della Terra del Fuoco «esprimono il disprezzo sporgendo la labbra, fischiando e rialzando il naso». Molti fra i miei corrispondenti notano la tendenza a soffiar per il naso, o ad emettere un suono più o meno analogo ad euh od ah.

Sembra che il disprezzo o il disgusto si esprimano quasi dovunque coll'atto di sputare, il quale rappresenta evidentemente l'espulsione dalla bocca di qualche oggetto ributtante. Shakespeare fa dire al duca di Norfolk: «Io gli sputo addosso: egli non è che un infame e miserabile calunniatore». In altro luogo, Falstaff dice: «Hal, se in quel che ti dico c'è l'ombra d'una menzogna, sputami in faccia». Leichhardt fa osservare che gli Australiani «probabilmente per esprimere il loro disgusto, interrompevano i discorsi, sputando ed emettendo un suono somigliante a puh! puh!» Il capitano Burton parla di certi negri che «sputavano in terra con disgusto» (213). Il capitano Speedy mi notifica che lo stesso fatto si osserva negli Abissini. Secondo il signor Geach, nei Malesi di Malacca, il disgusto «si esprime sputando»; e, a dire del sig. Bridges, presso gl'indigeni della Terra del Fuoco, «il segno più caratteristico del disprezzo per un individuo consiste nello sputargli addosso».

Non ho mai osservato l'espressione del disgusto tanto significante come in un mio figlio di cinque mesi, quando per la prima volta gli si pose in bocca un po' d'acqua fredda, e un mese dopo, un pezzetto di ciliegia matura. Le labbra e la bocca tutta assunsero una forma che doveva far colare il contenuto o lasciarlo immediatamente cascare; nello stesso tempo la lingua si portava in avanti. Codesti movimenti erano accompagnati da un leggero fremito. Ed ella era cosa tanto più comica, in quanto che io dubito che il bambino provasse in fatto del disgusto, perché gli occhi esprimevano ad un alto grado sorpresa e riflessione. Lo sporger della lingua per lasciar cadere dalla bocca un oggetto ripugnante può spiegare perché dappertutto si avanzi la lingua in segno di sprezzo e di odio (214).

Così, per quanto vedemmo, lo sdegno, il disprezzo e il disgusto sono espressi in molte maniere, da speciali movenze dei lineamenti e da parecchi gesti; gesti e movenze comuni a tutte le parti del mondo. Consistono tutti in atti che rappresentano l'espulsione o il rigetto di qualche oggetto materiale che ci ripugna, senza però eccitare in noi alcun'altra energica emozione, come la rabbia o il terrore; in virtù della forza dell'abitudine e dell'associazione, codesti atti sono eseguiti tutte le volte in cui nell'animo nostro avvengono sensazioni di tale genere.

Gelosia, Invidia, Avarizia, Rancore, Sospetto, Perfidia, Astuzia, Colpevolezza, Vanità, Ambizione, Orgoglio, Umiltà, ecc. - La maggior parte dei sentimenti ora citati non hanno, a dir vero, una determinata espressione, abbastanza distinta da poter essere descritta o delineata. Quando Shakspeare disse: l'Invidia dallo scarno volto, la nera o la pallida Invidia, - la Gelosia, mostro dagli occhi verdi; - quando Spencer applicò al Sospetto gli epiteti di sporco, deforme, arcigno, l'uno e l'altro degli autori dovettero certo conoscere questa difficoltà. Tuttavia codesti sentimenti, almeno la maggior parte, possono dedursi dallo sguardo; ma in molti casi noi ci lasciamo guidare anzitutto, e ben più di quello che non lo pensiamo, dall'anteriore conoscenza delle persone o delle circostanze.

Possiamo noi riconoscere nelle diverse razze umane l'espressione della colpevolezza e dell'astuzia? Quasi tutti i miei corrispondenti rispondono affermativamente a questa domanda; ed io ritengo tanto più degne di fede le loro asserzioni, poiché in generale concordano nel dire che la gelosia, per converso, non si manifesta con alcun segno visibile. Allorché le osservazioni sono date con qualche dettaglio, si tratta quasi sempre degli occhi. L'uomo colpevole evita lo sguardo del proprio accusatore, ed egli stesso lancia occhiate furtive. Gli occhi sono diretti «obliquamente», o meglio, «vagano da una parte all'altra», o, per dir meglio ancora, «le palpebre sono abbassate e semichiuse». Quest'ultima osservazione fu fatta dal signor Hagenauer su certi Australiani, e da Gaika su Cafri. Come vedremo trattando della vergogna, il muoversi incessante degli occhi risulta probabilmente dal fatto che l'uomo colpevole non può sopportare lo sguardo del suo accusatore. Io posso aggiungere d'aver osservata l'espressione della colpevolezza, senza ombra di paura, in alcuni dei miei figlio di un'età assai precoce. Una volta, per esempio, ho visto questa espressione spiccatissima in un fanciullo di due anni e sette mesi, e fu per essa che riuscii a scoprire il piccolo fallo di lui. Esaminando le mie note di quell'epoca, trovo che la si manifestava con un insolito risplendere degli occhi e con uno strano ed affettato atteggiamento che torna vano descrivere.

Quanto all'astuzia, ritengo che essa pure sia espressa principalmente da movenze degli occhi o dei tegumenti che vi stanno vicini; infatti questi movimenti, a paragone di quelli del corpo, sono meno sottomessi al controllo della volontà, grazie all'influenza della lunga abitudine. «Quando noi desideriamo, dice il signor Herbert Spencer (215), di guadagnare qualche cosa in una data parte del campo visuale, senza darlo a vedere, cerchiamo di impedire l'inclinazione della testa che potrebbe tradirci, e di eseguire il necessario movimento solo cogli occhi, i quali devono quindi assumere una direzione laterale molto spiccata. Anche, quando giriamo a destra e a sinistra gli occhi, senza che la faccia ne accompagni le movenze, la nostra fisionomia assume l'espressione dell'astuzia».

Fra tutti i complessi sentimenti su accennati, l'orgoglio è forse quello che si esprime nella più decisa maniera. Un orgoglioso palesa il proprio sentimento di superiorità sugli altri raddrizzando la testa ed il corpo tutto. Egli è borioso, e vuol apparire più grande che sia possibile; metaforicamente anche si dice ch'è pieno o gonfio d'orgoglio. Un pavone od un tacchino, che colle piume spiegate incede pomposo, è considerato talvolta come l'emblema dell'orgoglio (216). L'uomo arrogante squadra gli altri dall'alto, e, colle palpebre abbassate, gli degna appena d'uno sguardo; oppure palesa il suo disprezzo con leggeri movimenti delle narici o delle labbra, analoghi a quelli descritti più in su. Anche il muscolo che arrovescia il labbro inferiore. ricevette il nome di musculus superbus. Su alcune fotografie di uomini affetti della monomania della superbia e che io devo al dottor Crichton Browne, si vedono la testa ed il corpo irrigiditi e strettamente chiusa la bocca. Io credo che quest'ultimo gesto, ch'esprime la decisione, risulti dall'assoluta fiducia in se stesso che l'orgoglio possiede. Il complesso della espressione dell'orgoglio è perfettamente in antitesi con quella dell'umiltà; e qui non è necessario di intrattenerci più oltre su quest'ultimo stato dell'animo.

Rassegnazione, Impotenza, Stringimento di spalle. - Spesse volte, allorché un uomo vuol esprimere che non può far una cosa, o impedirne un'altra, rialza, con un rapido movimento, le spalle. Nello stesso tempo, per compiere la posa, tenendo le braccia piegate, porta i gomiti in dentro; alza le mani aperte e le gira all'infuori, staccando l'un dall'altro le dita. Di spesso la testa si reclina alquanto da un lato; le sopracciglia si sollevano, onde ne vengono alcune rughe trasversali sul fronte, e per solito s'apre anche la bocca. Queste varie movenze sono affatto incoscienti; egli m'accadde non di rado di rialzare volontariamente le spalle per osservare la posizione delle braccia, senza pure pensare che le mie sopracciglia si alzassero ed aprissi nello stesso tempo la bocca. Sol me n'avvidi quando ricorsi allo specchio, e da quel punto osservai questi movimenti medesimi sul volto altrui. Nella Tavola VI, fig. 3 e 4, il signor Rejlander ha felicemente riprodotto il gesto del sollevare le spalle.


Tav. VI

Gli Inglesi sono meno espressivi di molte altre nazioni europee, ed essi rialzano le spalle molto più di raro e con meno energia, che no 'l facciano i Francesi o gl'Italiani. D'altra parte, questo gesto varia dal complesso movimento su esposto fino ad una elevazione rapida e quasi impercettibile delle due spalle, oppure (come ebbi agio di osservare in una signora seduta sur una poltroncina) sino ad un semplice e leggerissimo moto all'infuori delle mani aperte colle dita disgiunte. Non vidi mai i fanciulli inglesi assai giovani alzar le spalle. Tuttavia il caso che segue fu accuratamente notato da un professore di medicina, abile osservatore, che me lo volle comunicare. Il padre del gentiluomo in questione era parigino; scozzese la madre. Sua moglie discendeva da genitori inglesi; ed il mio corrispondente ritiene ch'ella in tutta la vita non abbia mai alzate le spalle. I suoi figli furono allevati in Inghilterra, e la nutrice è un'Inglese puro sangue, cui nessuno vide giammai a sollevare le spalle. Ora, si osservò questo gesto nella sua figlia primogenita, tra sedici e diciotto mesi; onde la madre ebbe a esclamare: «Guardate mo' questa piccola Francese, che solleva le spalle!» In sul principio l'atto si ripeté di frequente; nello stesso tempo la fanciulla rovesciava talvolta la testa alquanto all'indietro e da un lato; ma non s'ebbe mai a vedere ch'ella muovesse i gomiti e le mani nel modo ordinario. Grado grado quest'abitudine disparve; e la ragazzina, che oggi conta più di quattr'anni, l'ha completamente perduta. Il padre alzava qualche volta le spalle, in specie quando discuteva con taluno; ma è molto improbabile che la sua figlioletta, ad un'età sì precoce, operasse per imitazione, poiché ella ben di rado aveva potuto vederlo a fare quel gesto. Per giunta, se fosse stata veramente l'imitazione a farle acquistare quell'abitudine, ben difficilmente la fanciulla l'avrebbe spontaneamente perduta, mentre il padre continuava a vivere in famiglia. Dal canto mio, posso aggiungere che codesta bambina riproduce in maniera molto strana i lineamenti del nonno. Presenta pure con lui un'altra curiosa rassomiglianza, che consiste in un ticchio comune: quando desidera qualche cosa con impazienza, gira in fuori la sua manina e batte rapidamente il pollice contro l'indice e il medio. In analoghe circostanze suo nonno eseguiva spesse volte il medesimo gesto.

Anche la seconda figlia dello stesso gentiluomo, fino all'età di otto mesi, alzava le spalle, ma poi ne lasciò l'abitudine. Può essere che questa abbia imitata la sorella primogenita; per altro ella continuò anche dopo che l'altra aveva cessato. Rassomigliava meno all'avo parigino che non la sorella alla medesima età; ma presentemente gli si assomiglia molto. A manifestare la propria impazienza, usa pur essa di battere il pollice contro due delle altre dita.

In questo fatto noi troviamo un buon esempio della trasmissione ereditaria d'un ghiribizzo o d'un gesto, simile a quelli offerti in uno dei precedenti capitoli; perché nessuno, io credo, vorrà attribuire ad una semplice coincidenza la comunanza di un'abitudine così particolare ad un nonno e a due nipoti di lui, che non l'avevano mai visto.

Se si considerano tutte le circostanze della precedente osservazione, bisogna assolutamente ammettere che queste fanciulle abbiano ereditata l'abitudine di rialzare le spalle dai loro parenti francesi, quantunque avessero nelle vene solo un quarto di sangue francese, ed il gesto non fosse molto frequente nel nonno. Certamente codesto fatto è interessante; non però molto straordinario, chè in molte specie di animali, i piccoli conservano per un tempo più o meno lungo certi caratteri, i quali più tardi spariscono.

Mi pareva assai poco probabile che un gesto tanto complesso com'è quello del sollevare le spalle cogli svariati movimenti che l'accompagnano, potesse essere innato. Onde mi pungeva vaghezza di conoscere se lo eseguisse Laura Bridgman, che, cieca e sorda, non poteva certo averlo appreso per via d'imitazione. E, col mezzo del dottor Innes, seppi da una donna, la quale aveva recentemente prestate le sue cure a questa infelice, ch'essa alzava le spalle, girava i gomiti in dentro, e sollevava le sopracciglia, come tutti lo fanno, e nelle circostanze medesime. Bramavo anche d'imparare se quest'atto esistesse nelle diverse razze umane, e particolarmente in quelle che non ebbero mai relazione cogli Europei. E vedremo che è proprio così; solamente, egli pare che si riduca talvolta ad una semplice elevazione delle spalle, senza essere accompagnata dagli altri movimenti su esposti.

A Calcutta, il signor Scott constatò di frequente l'atto di alzare le spalle nei Bengalesi e nei Dangar (questi ultimi appartengono ad una razza distinta), che sono impiegati al Giardino botanico; quando, per esempio, dichiaravano che era loro impossibile di eseguire qualche lavoro, di sollevare qualche peso troppo grave. Un giorno diede l'ordine ad un Bengalese di arrampicarsi sopra un alto albero; questi, alzando le spalle e piegando bruscamente la testa da un lato, rispose che non n'era capace; e siccome il signor Scott, persuaso che codesta era una menzogna inspirata dalla pigrizia, insisteva affinché si provasse, il viso del Bengalese impallidì, le braccia gli caddero penzoloni, la bocca e gli occhi si spalancarono, misurando tutta l'altezza dell'albero, gettò una torva occhiata al signor Scott, alzò le spalle, rovesciò i gomiti, stese aperte le mani, fece alcuni piccoli movimenti laterali della testa, e dichiarò che non poteva obbedire. Il signor H. Erskine osservò che anche gli indigeni Indiani alzavano le spalle, ma non li vide giammai a girare in dentro i gomiti in una maniera così spiccata come avviene da noi; essi, quando eseguiscono quest'atto, applicano qualche volta le mani sul petto, senza incrociarle.

Il signor Geach notò spesso il gesto in questione presso i Malesi selvaggi dell'interno di Malacca e presso i Bugi, che sono veri Malesi, benché parlino una lingua diversa. Io credo poi che lo eseguiscano completamente, perché nella sua risposta alle mie domande ed alle mie descrizioni sui movimenti delle spalle, delle braccia, delle mani e del viso, il signor Geach constata che tali movenze «si compiono in maniera notevole». Ho smarrito un estratto di un viaggio scientifico, nel quale il sollevamento delle spalle era perfettamente descritto in relazione a certi indigeni (Micronesiani) dell'Arcipelago della Carolina, nell'Oceano Pacifico. Il capitano Speedy mi apprende che gli Abissini alzano le spalle, ma non entra in altri dettagli. La signora Asa Gray vide in Alessandria un dragomanno arabo comportarsi proprio secondo la descrizione da me fatta nelle mie inchieste, nel momento in cui un vecchio gentiluomo ricusò di camminare nella precisa direzione che gli era stata indicata.

Il signor Washington Matthews, parlando delle tribù indiane selvagge delle regioni occidentali degli Stati Uniti, mi scrive: «In alcune rare occasioni ho riscontrato degli uomini che in segno d'impotenza mostravano un leggero sollevamento delle spalle, ma nulla ho giammai constatato che risponda al resto della vostra descrizione». Fritz Müller mi riferisce di aver visto nel Brasile i negri ad alzare le spalle; ma può essere che abbiano appreso questo gesto imitando i Portoghesi. La signora Barber osservò nulla di simile nei Cafri del Sud dell'Africa; Gaika, a giudicare dalla sua risposta, non ha pure compreso ciò che esprimesse la mia descrizione. Il signor Swinhoe è incerto riguardo ai Cinesi; peraltro, in quelle circostanze per le quali noi avremmo alzate le spalle, egli li vide premere al fianco il gomito destro, sollevare le sopracciglia, portare in alto le mani girando la palma verso l'interlocutore, e scuoterla da destra a sinistra. Infine, relativamente agli Australiani, quattro dei miei corrispondenti mi rispondono con una semplice negazione, ed un solo affermando, senz'altro. Il signor Bunnett, al quale si offersero occasioni molto propizie di osservazioni sui confini della colonia di Victoria, risponde così: «Sì», aggiungendo peraltro che l'atto in questione si eseguisce «in una maniera più indecisa e meno espressiva che non nelle nazioni civilizzate». Circostanza codesta, la quale forse spiega perché quattro dei miei corrispondenti non l'abbiano saputo trovare.

I precedenti documenti, relativi agli Europei, agli Indù, alle tribù selvagge dell'India, ai Malesi, ai Micronesiani, agli Abissini, agli Arabi, ai Negri, agli Indiani dell'America settentrionale, e probabilmente agli Australiani - razze di cui la maggior parte non ebbe quasi relazione alcuna cogli Europei, - questi documenti, dico, bastano a dimostrare che il sollevamento delle spalle, accompagnato in certi casi da altre speciali movenze, è un gesto naturale alla specie umana.

Questo gesto esprime la constatazione di un fatto che noi non abbiamo voluto, che non abbiamo potuto evitare, od anche della nostra impotenza a compiere una data azione o ad impedire un'altra persona di eseguirla. E contemporaneamente si dice quel che segue o qualche cosa di simile: «Non ce n'ho colpa; - mi è impossibile di accordare questo favore; - ch'egli segua pure la sua via: io non lo posso arrestare». Il sollevamento delle spalle esprime pure la pazienza, o la nessuna idea di resistere. Gli è perciò che i muscoli che sollevano le spalle si chiamano talvolta, come mi ha detto un artista, «muscoli della pazienza». L'ebreo Shylock dice:

«O mio signor Antonio, molto e spesso

Voi m'avete in Rialto vilipeso,

Pel mio danar, per l'interessi miei,

Paziente fui, mi strinsi nelle spalle».

Il mercante di Venezia (atto I, scena terza).

Sir Carlo Bell pubblicò (217) una figura di stupenda naturalezza, ove si vede un uomo che rincula davanti a qualche terribile pericolo e sta per gridar di terrore. Le spalle si sollevano fin quasi alle orecchie, il che denota senz'altro la nessuna idea di resistere.

Se in generale l'alzare delle spalle vuol dire: «Non posso far questo o quello», con una leggera modificazione significa: «Io non voglio farlo». Il movimento indica allora una ferma determinazione di non operare. Olmsted (218) racconta che un indiano del Texas alzò vigorosamente le spalle sentendo che una truppa d'uomini era composta di Tedeschi e non d'Americani, volendo dire così ch'egli nulla avrebbe a fare con essi. In un fanciullo maleducato e caparbio possiamo vedere entrambe le spalle vivamente rialzate; ma questo gesto non è associato alle altre movenze che di solito accompagnano il vero sollevamento. Un romanziere, abilissimo osservatore (219), descrivendo un giovane deciso a non cedere ai desiderii del padre, dice: «Jack cacciò con forza le mani nelle saccocce, ed alzò le spalle fino alle orecchie, modo bellissimo per indicare che, a torto od a ragione, egli sarebbe inflessibile al pari di una rupe, e che tornerebbe vana ogni rimostranza in proposito». Appena il figlio ottenne il voler suo, «ritornò colle spalle alla posizione naturale».

Qualche volta la rassegnazione si esprime collocando sulla parte inferiore del corpo le mani aperte, una sopra l'altra. Io non avrei creduto necessario di notare questo gesto poco importante, se il dottor W. Ogle non mi avesse detto di averlo osservato due o tre volte su certi malati ch'egli si accingeva ad anestetizzare col cloroformio prima di operare su loro. Mostravano poca paura; e con quella posizione delle mani, pareva dicessero che avevano tranquillo lo spirito e che erano rassegnati a subire ciò che non potevano evitare.

Ora chiediamoci perché, in tutte le parti del mondo, l'uomo che sente di non potere o di non voler fare una cosa, o di non opporsi ad una cosa fatta da un altro - sia ch'egli voglia manifestare questo sentimento o no - alza le spalle, piega i gomiti in dentro, presenta il palmo della mano, disgiunge le dita, inclina sovente la testa alquanto da un lato, solleva le sopracciglia ed apre la bocca. Fra questi stati dell'animo, gli uni sono semplicemente passivi, gli altri al contrario esprimono una determinazione di non operare. Nessuno dei movimenti su esposti porta il ben che minimo giovamento. Non c’è dubbio: la spiegazione si deve cercare nel principio dell'antitesi incosciente. egli sembra che qui tale principio entri in gioco in una maniera tanto evidente come nel caso di un cane, il quale, ringhioso, assume la posa conveniente ad attaccare e a darsi l'aspetto più formidabile, e, sottomesso ed affettuoso, imprime a tutto il suo corpo un atteggiamento affatto diverso, benché questo non gli riesca di alcuna utilità. Osservate come un uomo adirato, cui punge vivamente un'offesa e la rigetta, erge la testa, quadra le spalle e solleva il petto. Spesse volte stringe i pugni, e contraendo i muscoli tutti, prende con un braccio o con ambedue la posizione richiesta per assalire o difendersi. Aggrotta le sopracciglia, cioè le contrae e le abbassa, e, preso un partito, stringe le labbra. I gesti e l'atteggiamento di un uomo impotente e rassegnato sono, sotto ogni punto di vista, rigorosamente inversi. Nella Tavola VI, una delle figure del lato sinistro par che dica: «Che pretendete voi insultandomi?» - mentre una di quelle che stanno a man destra sembra dire: «Io proprio non poteva impedirlo». L'uomo impotente contrae, senza averne coscienza, i muscoli del fronte, antagonisti a quelli che determinano l'aggrottamento dei sopraccigli, e così li rialza; nel medesimo tempo si rilasciano i muscoli attorno alla bocca, onde la mascella inferiore s'abbassa. L'antitesi è completa sotto ogni riguardo, non solo nelle movenze dei lineamenti, ma anche nella posizione delle braccia e nell'atteggiamento di tutto il corpo: lo si può osservare nella Tavola qui annessa. Siccome l'uomo che non ha più speranza od è impotente desidera spesse volte di palesare lo stato dell'animo suo, così in tali casi egli si comporta in maniera manifesta od espressiva.

Vedemmo che lo sdegno o l'aggressione non si esprimono in tutti gl'individui di tutte le razze coll'allontanamento dei gomiti e con lo stringere dei pugni; così pure, in varie parti del mondo, si osserva che l'uomo sconfortato o impotente palesa questi suoi sentimenti alzando semplicemente le spalle, senza aprire le mani e senza girare i gomiti in dentro. L'uomo, o il fanciullo ostinato o rassegnato a qualche grave sciagura, non pensa giammai di opporre viva resistenza; egli mostra lo stato dell'animo suo solamente tenendo sollevate le spalle e incrociando talora le braccia sul petto.

Segni di affermazione o di approvazione, di negazione o di biasimo; atti di piegare e di scuotere la testa. - Ero curioso di sapere fino a qual punto i segni, che noi usiamo di solito per indicare l'affermazione e la negazione, si riscontrassero nelle varie parti del mondo. Fino ad un certo grado, questi segni esprimono i nostri sentimenti: dinanzi ai nostri figlio, quando vogliamo approvare la loro condotta, pieghiamo, sorridendo, il capo dall'alto al basso; biasimandola, invece, lo crolliamo da un lato a quell'altro. Nel bambino, il primo atto di rifiuto consiste nel ricusare il nutrimento che gli viene offerto; ora, io osservai ben molte volte sui miei propri figlio, ch'essi lo eseguivano allontanando lateralmente la testa dalla mammella o da qualunque cibo che fosse loro presentato in un cucchiaio. Quando all'incontro gradiscono il nutrimento e lo ricevono in bocca, piegano il capo in avanti. Dopo aver fatte codeste osservazioni, seppi che Charma aveva avuto la medesima idea (220). È notevole il fatto che, accettando o prendendo il cibo, si determina unicamente un movimento in avanti, e che l'affermazione si esprime pur essa con una semplice inclinazione del capo. Per converso, il fanciullo che rifiuta l'alimento offertogli, specialmente quando s'insiste, spesso rimuove la testa da una parte all'altra: il gesto preciso che facciamo anche noi quando neghiamo. né avviene di raro che si esprima il rifiuto ripiegando la testa all'indietro, o, ancora, chiudendo ermeticamente la bocca; per lo che questi movimenti possono servire come segni di negazione. Su tale argomento, il signor Wedgwood fa osservare che «l'azione degli organi vocali, quando i denti o le labbra sono stretti, produce il suono delle lettere n od m. Questo fatto può spiegare l'uso della particella non per indicare il diniego, e forse anche quello del μή greco, adoperato al medesimo scopo» (221).

Questi segni, almeno negli Anglo-Sassoni, sono innati o istintivi; se non altro, ciò pare quasi dimostrato dall'esempio della cieca e sorda Laura Bridgman, «la quale accompagna costantemente il suo sì con la ordinaria inclinazione affermativa del capo, ed il no con quel ripetuto movimento della testa, che in noi caratterizza la negazione». Se il signor Lieber non avesse dimostrato il contrario (222), io, considerando la prodigiosa esattezza con cui ella apprezzava col tatto le movenze altrui, avrei creduto che avesse potuto acquistare questi gesti od apprenderli. Come si sa, gli idioti microcefali sono così degradati, che non imparano mai a parlare; ora, Vogt racconta (223) che uno di loro, interrogato se volesse ancora mangiare o bere, rispondeva inchinando la testa o crollandola. Nella sua dotta dissertazione sulla educazione dei sordo-muti e dei fanciulli quasi idioti, Schmalz asserisce che gli uni e gli altri possono sempre comprendere ed eseguire i segni ordinari di affermazione e di negazione (224).

Se ora passiamo a considerare le varie razze umane, riconosciamo che questi modi non sono così universalmente impiegati, come avremmo potuto credere; nondimeno essi hanno un'estensione troppo generale, perché sia lecito di considerarli come affatto convenzionali o artificiali. I miei corrispondenti asseriscono che i due gesti in questione sono in uso presso i Malesi, gl'indigeni di Ceylan, i Cinesi e i Negri della costa di Guinea; Gaika li ebbe ad osservare nei Cafri del sud dell'Africa; peraltro la signora Barber non riuscì mai a vedere che quest'ultimo popolo adoperasse, per negare, il ripetuto movimento laterale del capo. Quanto agli Australiani, sette osservatori concordano a dire ch'essi usano della inclinazione per affermare; cinque di loro sono pure d'accordo in riguardo al movimento di negazione, sia questo accompagnato o no dalla parola; ma il sig. Dyson Lacy non ha mai notato quest'ultimo segno a Queensland, e il signor Bulmer dice che a Gipp's Land, la negazione si esprime rovesciando leggermente la testa all'indietro e traendo la lingua. All'estremità settentrionale del continente, vicino allo stretto di Torres, gl'indigeni, «articolando una negazione, non crollano mai la testa, ma levano la mano destra e l'agitano facendola girare due o tre volte in circolo» (225). Sembra che i Greci moderni e i Turchi esprimano la negazione rovesciando il capo all'indietro e facendo schioccare la lingua; e che i Turchi, affermando, eseguiscano un movimento simile a quello che noi facciamo quando crolliamo la testa (226). Il capitano Speedy m'informa che gli Abissini manifestano la negazione piegando il capo sulla spalla destra, e facendo, a bocca chiusa, lievemente scoppiettare la lingua; ed esprimono l'affermazione rovesciando indietro la testa e sollevando rapidamente le sopracciglia. I Tagali di Luzon, nell'Arcipelago delle Filippine, secondo quello che ho inteso dire al dottore Alfonso Meyer, rovesciano parimenti il capo, allorquando affermano. Sulla testimonianza del principe indiano Brooke, i Dyak di Borneo esprimono l'affermazione rialzando le sopracciglia, e la negazione contraendole lievemente, guardando in una maniera particolare. Il professore Asa Gray e sua moglie dicono che gli Arabi del Nilo impiegano di rado l'inclinazione affermativa, e mai il movimento laterale di negazione, del quale non comprendono neppure il significato. Negli Eschimesi (227), il sì viene espresso da un'inclinazione del capo, ed il no con un ammiccamento. Gl'indigeni della Nuova Zelanda «in segno di assenso, levano, in luogo di abbassarli, la testa ed il mento» (228).

In base agli studi fatti da parecchi Europei e da alcuni osservatori indigeni sopra gli Indù, il sig. H. Erskine conclude che in questi i segni affermativi e negativi vanno soggetti a variazioni. Talvolta sono identici ai nostri; ma più d'ordinario la negazione si esprime rovesciando bruscamente la testa all'indietro e alquanto di fianco, e facendo schioccare la lingua; né io so proprio indovinare il significato di tale scoppiettio, che del resto fu osservato in diverse nazioni. Un osservatore indigeno pretende che l'affermazione spesse volte si esprima portando a sinistra la testa. Il sig. Scott, che io avevo pregato di rivolgere la sua speciale attenzione su questo argomento, dopo numerose osservazioni, crede che gl'indigeni, per affermare, non impieghino ordinariamente una inclinazione verticale, ma dapprima rovescino il capo a destra o a sinistra, e poi lo pieghino obliquamente in avanti una sola volta. Un osservatore meno preciso avrebbe forse descritta questa movenza come una semplice scossa laterale. Il sig. Scott stabilisce anche che nell'atto negativo il capo di solito è mantenuto quasi ritto e scosso più volte di seguito.

Il sig. Bridges m'informa che i naturali della Terra del Fuoco, affermando, piegano al pari di noi il capo dall'alto al basso, e negando, lo crollano da destra a sinistra. Secondo il sig. Washington Matthews, gl'Indiani selvaggi dell'America settentrionale appresero questi due movimenti dagli Europei; perché allo stato naturale non li possiedono. Essi esprimono l'affermazione «tenendo, toltone l'indice, tutte le dita piegate, e descrivendo con la mano una linea curva in basso ed in fuori a partire dal corpo; e la negazione portando all'infuori la mano aperta, col palmo rivolto in dentro». A dire di altri osservatori, il segno dell'affermazione presso gl'Indiani consiste nell'alzare il dito indice, per poi abbassarlo verso il suolo, od anche nel dondolare davanti al viso la mano, tenendola verticale; i segno della negazione, invece, consiste nello scuotere il dito o tutta la mano da destra a sinistra (229). Quest'ultimo moto supplisce e rappresenta probabilmente il nostro movimento laterale del capo. Si dice che anche gl'Italiani, per indicare il diniego, alzino il dito e lo crollino; moto, del resto, che qualche volta si osserva pur negli Inglesi.

Somma fatta, noi constatiamo una notevole diversità nei segni dell'affermazione e della negazione, secondo le differenti razze umane. Tuttavia, per quanto concerne all'atto negativo, se noi supponiamo che le scosse impresse da destra a sinistra al dito o alla mano simboleggino il movimento laterale del capo, e se ammettiamo che questa brusca movenza della testa rappresenti pur ella uno degli atti spesso compiti dal bambino che rifiuta di mangiare, dobbiamo ammettere una grande uniformità in tutto il mondo nella espressione del diniego, e nello stesso tempo possiamo comprendere quale sia l'origine di questa espressione. Gli Arabi, gli Eschimesi, alcune tribù dell'Australia ed i Dyak ci presentano le più spiccate eccezioni. Questi ultimi, negando, corrugano le sopracciglia: atto che in noi si associa di spesso al movimento laterale del capo.

Quanto all'inclinazione della testa come segno affermativo, le eccezioni un po' più numerose si riscontrano in certi Indù, nei Turchi, negli Abissini, nei Dyak, nei Tagal e negli abitanti della Nuova Zelanda. Qualche volta l'affermazione si esprime sollevando le sopracciglia; quando un uomo guarda l'individuo a cui s'indirizza, sporge la testa in avanti ed in basso, ed è quindi costretto a rialzare le sopracciglia, il che può avere determinato questo novello segno espressivo. Così pure, presso i naturali della Nuova Zelanda, l'alzare del mento e del capo in segno affermativo, rappresenta forse, sotto una forma abbreviata, il movimento regressivo della testa, dopo che venne inclinata in basso ed in avanti.


CAPITOLO XII. SORPRESA - STUPORE - PAURA - ORRORE

Sorpresa, stupore. - Sopracciglia rialzate. - Bocca aperta. - Labbra sporte. - Gesti che accompagnano la sorpresa. - Ammirazione. - Paura. - Terrore. - Erezione dei capelli. - Contrazione del muscolo pellicciaio. - Dilatazione delle pupille. - Orrore. - Conclusione.

Allorché l'attenzione viene provocata improvvisamente e vivamente, essa si trasforma in sorpresa; questa conduce allo stupore, donde poi si passa allo sbalordimento ed allo spavento. Quest'ultimo stato d'animo è molto analogo al terrore. L'attenzione, come vedemmo, è palesata da una leggera elevazione di sopracciglia; mentre nella sorpresa, queste si rialzano assai più energicamente, e gli occhi e la bocca si spalancano. E tale sollevamento delle sopracciglia, necessario perché gli occhi possano aprirsi largamente e rapidamente, determina la formazione di strie trasversali sul fronte. Il grado a cui s'aprono gli occhi e la bocca corrisponde all'intensità della sorpresa provata; d'altra parte questi due movimenti si devono eseguire con atto simultaneo: di fatti, come l'ha dimostrato il dottore Duchenne in una sua fotografia, tenendo la bocca spalancata e le sopracciglia leggermente rialzate, si esprime proprio niente (230). Spesse volte, invece, si finge la sorpresa semplicemente sollevando le sopracciglia.

Una delle fotografie del dottor Duchenne rappresenta un vecchio, nel quale, per la galvanizzazione del muscolo frontale, le sopracciglia sono rialzate e ad arco, mentre la bocca è mantenuta volontariamente aperta. La sorpresa vi è espressa con toccante verità. Io la mostrai a ventiquattro persone, senza dir loro una parola in proposito: una sola non seppe dirne il significato. Un'altra la chiamò terrore, parola non molto lontana dal vero; alcune, ai motti: sorpresa o stupore, aggiunsero gli appellativi seguenti: orribile, desolato, triste o disgustoso.

Gli occhi e la bocca spalancati costituiscono una espressione universalmente riconosciuta come quella della sorpresa o dello stupore. Shakespeare dice: «Vidi un fabbro, ritto, con la bocca aperta, che divorava avidamente le storie d'un sarto» (Re Giovanni, atto IV, scena II). Ed altrove: «Si guardavano reciprocamente, e i loro occhi parevano lì lì per ischizzar dalle orbite; il loro silenzio parlava, i loro gesti traboccavano di eloquenza: si avrebbe detto che ascoltavano la fine del mondo» (Novelle d'inverno, atto V, scena II).

I miei corrispondenti rispondono con una notevole uniformità alle mie inchieste sulla espressione della sorpresa nelle diverse razze umane; le movenze dei lineamenti qui sopra accennate s'associano talvolta a certi gesti od alla emissione di suoni che descriverò tra breve. Su questo punto, dodici osservatori, in diverse parti dell'Australia, sono d'accordo. Il sig. Winwood Reade ebbe a constatare questa espressione nei Negri della costa di Guinea. Il capo Gaika ed altri con lui rispondono affermativamente alle mie domande sui Cafri del Sud dell'Africa; parecchi altri osservatori sono altrettanto espliciti riguardo agli Abissini, a quei di Ceylan, ai Cinesi, agl'indigeni della Terra del Fuoco, a certe tribù dell'America settentrionale ed ai naturali della Nuova Zelanda. Fra questi ultimi, a dire del sig. Stack, in taluni individui l'espressione è più spiccata che in altri, benché tutti si studino di dissimulare, quant'è possibile, i loro sentimenti. Secondo il principe indiano Brooke, i Dyak di Borneo, allorché sono stupiti, spalancano la bocca; nello stesso tempo dondolano a destra ed a manca la testa e si battono il petto. Il signor Scott mi narra che a Calcutta è severamente proibito di fumare agli operai del Giardino botanico; ma essi trasgrediscono spesse volte l'ordine, ed ove siano sorpresi in flagrante delitto, spalancano immediatamente gli occhi e la bocca. Poi, quando vedono che non c'è proprio scampo, alzano sovente le spalle, oppure aggrottano le sopracciglia, pestando dispettosamente in terra. Ma dalla sorpresa si rimettono ben presto, e la paura servile che li assale si palesa all'assoluto rilassamento dei muscoli; par che la loro testa si sprofondi entro le spalle; girano smarrito lo sguardo e balbettano scuse.

Il sig. Stuart, quel celebre esploratore dell'Australia, ha dato (231) una magnifica relazione dello stupido spavento, mischiato a terrore, che scorgendolo provò un indigeno il quale non aveva mai visto un uomo a cavallo. Essendosi il sig. Stuart avvicinato a lui senz'essere scorto ed avendolo chiamato ad una breve distanza: «egli si rivolse, dice, e mi vide. Non so ciò ch'egli pensasse ch'io mi fossi; so peraltro che fu quella per me la più toccante espressione della paura e dello stupore. egli si fermò, incapace di movere un dito, inchiodato al suolo, con la bocca aperta, cogli occhi fissi.... Si mantenne immobile fino a che io giunsi a qualche metro da lui; allora, gettando il suo fardello, saltò oltre una siepe con tutto lo slancio che gli permettevano le proprie forze. Non poteva parlare, non rispondeva un accento alle inchieste che il negro gli indirizzava; ma, tutto tutto tremando, agitava le palme per tenerci lontani».

L'elevazione dei sopraccigli, sotto l'influenza della sorpresa, dev'essere un movimento innato o istintivo: possiamo concluderlo dal fatto che Laura Bridgman, quando è in preda allo stupore, agisce invariabilmente così. Ciò mi venne affermato dalla donna ultimamente incaricata di assisterla. Siccome la sorpresa è provocata da qualche cosa d'inatteso o d'ignoto, è naturale che noi desideriamo di riconoscere al più presto la causa che l'ha fatta nascere; gli è perciò che spalanchiamo gli occhi, in modo da aumentare il campo della visione e da poter facilmente diriger lo sguardo verso una direzione qualunque. Tuttavia codesta interpretazione non spiega affatto il sollevamento così pronunciato dei sopraccigli, né il selvaggio fissar degli occhi spalancati. Io ritengo che la spiegazione di questi fenomeni si debba cercare nella impossibilità di aprire rapidissimamente gli occhi con un semplice movimento delle palpebre superiori; per riuscirvi, bisogna sollevare energicamente le sopracciglia. Provatevi, dinanzi a uno specchio, ad aprire, più che potete, gli occhi, e vedrete che eseguirete realmente quest'atto; tale energica elevazione delle sopracciglia spalanca gli occhi così, ch'essi prendono un'espressione di particolare immobilità, dovuta alla comparsa della bianca sclerotica, che si mostra tutt'intorno dell'iride. Per giunta, codesta posizione delle sopracciglia offre un vantaggio per guardare in alto, perché, sino a che restano basse, intercettano la vista in su. Sir C. Bell dà (232) una curiosa prova della funzione che adempiono le sopracciglia nell'apertura delle palpebre. In un uomo abbrutito dalla ubriachezza, tutti i muscoli sono rilassati, e di conseguente le palpebre ricadono proprio come in un uomo che non può più resistere al sonno. Per lottare contro questa attitudine, il beone rialza le sopracciglia, onde gli si vede quel guardo imbarazzato e stupido ch'è perfettamente riprodotto in un disegno di Hogarth. Una volta acquisita l'abitudine di sollevare le sopracciglia allo scopo di vedere più presto che sia possibile tutto quanto ci attornia, questo movimento dovette subire, al pari di tanti altri, l'influenza della forza di associazione, ed al presente deve prodursi tutte le volte in cui proviamo stupore per una causa qualunque, anche per l'effetto d'un suono improvviso o d'un inatteso pensiero.

Nell'uomo adulto, quando si sollevano le sopracciglia, tutta la fronte è solcata da rughe trasversali; nel fanciullo, questo fenomeno si produce solo in debole grado. Le strie si dispongono in linee concentriche, parallele a ciascun sopracciglio, e si confondono in parte sulla linea mediana. Esse esprimono per eccellenza la sorpresa o lo stupore. Come nota il sig. Duchenne (233), ogni sopracciglio, elevandosi, si fa alquanto curvo.

Perché, sotto l'influenza dello stupore, s'apre la bocca? Questa è fra le più complesse questioni. Pare che svariate cause concorrano a produrre un tal movimento. Fu a più riprese accampata l'opinione (234) che questo atteggiamento giovi all'esercizio del senso dell'udito; io peraltro osservai delle persone che prestavano attento l'orecchio ad un leggero rumore, di cui conoscevano a perfezione la sorgente e la natura, né ebbi mai a vederle ad aprire la bocca. Per la qual cosa io avevo supposto che l'aprir della bocca potesse servire a riconoscere la provenienza d'un suono, permettendo alle vibrazioni di penetrare per la tromba d'Eustachio fino all'orecchio. Ma il dottor W. Ogle (235), ch'ebbe la gentilezza di consultare per mio conto le migliori autorità contemporanee intorno alle funzioni della tromba d'Eustachio, m'apprende che oramai è quasi dimostrato aprirsi essa solo nell'atto della deglutizione; e che in quelle persone ove resta anormalmente spalancata, l'audizione dei suoni esteriori non riesce affatto perfezionata, mentre invece è affievolita dal rumore della respirazione, che si fa più distinto. Mettetevi in bocca un orologio, senza che ne tocchi le pareti, e voi sentirete il tic-tac assai men nettamente, che non se l'aveste fuori. In quegli individui che, per una costipazione o per qualunque altra affezione morbosa, hanno permanentemente o momentaneamente ostruita la tromba d'Eustachio, il senso dell'udito è fatto più debole; ma di questo si può trovar la ragione nella presenza del muco accumulato entro la tromba e che impedisce il passaggio dell'aria. Onde possiamo concludere che, se sotto l'influenza dello stupore s'apre la bocca, ciò non è allo scopo di sentire più distintamente; è certo però che molti sordi tengono la bocca abitualmente aperta.

Ogni sentimento improvviso, e lo stupore per primo, accelera i battiti del cuore ed insieme i movimenti della respirazione. Ora, come osserva Gratiolet (236) e come ritengo pur io, noi possiamo respirare assai più liberamente per la bocca aperta che per le narici. Anche quando vogliamo prestare attento l'orecchio ad un suono, arrestiamo il respiro o, aprendo la bocca, respiriamo più tranquillamente che sia possibile, tenendo tutto il corpo immobile. Una volta un dei miei figli fu risvegliato nel fitto della notte da un suono particolare, in circostanze che stimolavano vivamente la sua attenzione: dopo alcuni minuti s'accorse d'aver la bocca spalancata, ed allora si risovvenne d'averla aperta allo scopo di respirare più silenziosamente che fosse possibile. Questo modo di vedere è confermato dal fatto inverso che si produce nei cani; quando, in seguito ad un esercizio violento, oppure in una giornata caldissima, un cane è anelante, esso respira fragorosamente; ma se la sua attenzione è d'improvviso richiamata, drizza ben tosto le orecchie per ascoltare, chiude la bocca e respira in silenzio per le narici, ciò che la sua organizzazione gli permette di eseguire senza difficoltà.

Allorché l'attenzione resta lungo tempo concentrata su qualche oggetto o su qualche argomento, tutti gli organi del corpo sono dimenticati e negletti (237); e, siccome la quantità della forza nervosa, in un dato individuo, è limitata, così se ne trasmette solo una piccola proporzione a tutte le parti del sistema, salvo a quella che in quel punto vien messa energicamente in azione; onde la maggior parte dei muscoli tendono a rilasciarsi, e la mascella ricade per il suo proprio peso. Così trovano spiegazione la mascella abbassata e la bocca aperta dell'uomo stupefatto e sgomento, lo sia pure in debole grado. Dalle indicazioni che trovo nelle mie note, io ho realmente osservato questo fenomeno in fanciulli giovanissimi, sotto l'influenza d'una moderata sorpresa.

Si dà ancora una causa, assai importante, che provoca l'aprirsi della bocca, sotto l'influenza dello stupore e più specialmente d'una subitanea sorpresa. Ci riesce molto più facile eseguire una vigorosa e profonda inspirazione traverso la bocca aperta che traverso le narici. Ora, quando noi, all'udire qualche brusco suono, al vedere qualche oggetto inatteso, sussultiamo, quasi tutti i muscoli entrano momentaneamente e involontariamente in azione con energia, per metterci in condizione di difenderci o di fuggirlo, associando per abitudine appunto l'idea del pericolo a tutto ciò che viene inatteso. Ma, come dicemmo già, tutte le volte in cui ci prepariamo ad un atto energico qualunque, eseguiamo anzi tutto, senza pure averne coscienza, una profonda inspirazione, per lo che cominciamo con lo spalancare la bocca. Se non si produce alcun atto e se il nostro stupore continua, lasciamo un istante di respirare, o per lo meno la nostra respirazione si fa leggera leggera, allo scopo di udire nettamente ogni suono che potesse colpirci all'orecchio. Infine, se la nostra attenzione si prolunga d'assai e l'animo nostro vi sia completamente assorto, ne viene un generale rilasciamento dei muscoli, e la mascella, dapprima bruscamente abbassata, mantiene codesta posizione. Molte cause concorrono pure a produrre questo stesso movimento, tutte le volte in cui proviamo sorpresa, meraviglia o stupore.

Benché le precedenti emozioni per solito si manifestino aprendo la bocca, pur esse s'esprimono spesso anche sporgendo un pochettino le labbra; questo fatto ci ricorda il movimento, peraltro assai meglio spiccato, che indica lo stupore nel scimpanzé e nell'orango. I vari suoni che di consueto completano l'espressione della sorpresa possono probabilmente trovare spiegazione nell'energica espirazione che precede spontanea alla profonda inspirazione compiuta in sul principiare dell'atto, e nella posizione delle labbra ora indicata. Talvolta si sente solo una viva espirazione: così Laura Bridgman, sorpresa, rotonda e sporge le labbra, le apre e respira con energia (238). Uno dei più comuni suoni consiste in un profondo oh, che naturalmente risulta, come Helmholtz spiegò, dalla forma che prendono la bocca moderatamente aperta e le labbra avanzate. Nel fitto d'una quieta notte, a bordo del Beagle, ancorato in un piccolo seno di Tahiti, si mandarono in aria alcuni razzi per dilettare gl'indigeni; ad ogni razzo che partiva, il silenzio, dapprima assoluto, era ben tosto interrotto da una specie di grugnito, un oh! che risuonava tutt'attorno alla baja. Il signor Washington Matthews dice che gl'indiani dell'America settentrionale esprimono lo stupore con un grugnito; secondo il signor Winwood Reade, i Negri della costa occidentale dell'Africa sporgono le labbra e fanno sentire un suono simile a questo: aie, aie. Se, mentre le labbra sono notevolmente avanzate, la bocca non s'apre molto, si determina un rumore come di soffio o di sibilo. Il signor R. Brough Smith mi narrò che un Australiano dell'interno, condotto al teatro per assistere alle rapide capriole d'un acrobata «ne fu profondamente stupito: egli sporgeva le labbra, mandando con la bocca un suono simile a quello che si produce quando si smorza uno zolfanello». A dire del signor Bulmer, allorché gli Australiani sono meravigliati, fanno sentire l'esclamazione korki, «la quale è prodotta allungando la bocca come a fischiare». Gli Europei, del resto, fischiano spesso in segno di sorpresa; così, in un romanzo pubblicato da poco (239), si legge: «Qui l'uomo espresse il proprio stupore e la sua disapprovazione con un prolungato sibilo». Il signor J. Mansel Weale mi narrò che una fanciullina cafra «udendo il prezzo elevato d'una merce, alzò le sopracciglia e fischiò propriamente come avrebbe fatto un Europeo». Wedgwood fa notare che, in inglese, i suoni di questo genere si scrivono whew, e che sono impiegati come interiezioni per esprimere la sorpresa.

Secondo tre altri osservatori, gli Australiani palesano spesse volte lo stupore con una specie di scoppiettio. Anche gli Europei esprimono talora una dolce sorpresa con un leggero rumore metallico quasi eguale. Il vedemmo di già: sussultando di sorpresa, la nostra bocca improvvisamente si apre; ora, se in tal momento la lingua è perfettamente applicata contro la volta palatina, nel repentino staccarsene, produrrà un suono di questo genere, il quale, per tal modo, può essere considerato come un segno espressivo dello stupore.

E siamo all'atteggiamento del corpo. Una persona sorpresa leva spesso le mani, aprendole al di sopra della testa; oppure, ripiegando le braccia, le porta all'altezza del viso. Il palmo della mano è rivolto verso l'individuo che provoca lo stupore; le dita son distese e disgiunte. Questo gesto fu rappresentato dal signor Rejlander, nella Tavola VII, fig. 1.


Tav. VII

Nella Cena, di Leonardo da Vinci, si vedono due degli apostoli, i quali, colle braccia levate, mostrano a chiare note il loro stupore. Un osservatore degno di fede, narrandomi d'essersi ultimamente trovato in presenza di sua moglie nelle più inattese circostanze, aggiunge: «Ella sussultò, spalancò la bocca e gli occhi, e portò entrambe le braccia sopra la testa». Alcuni anni or sono, fui sorpreso di vedere alcuni dei miei figlio, che, accosciati sul suolo, parevano profondamente intenti a qualche lavoro: essendo troppo grande la distanza che mi disgiungeva da essi per permettermi di chiedere di che mai si trattasse, portai sopra la testa ambo le mani, aperte e colle dita distese. Appena eseguito questo gesto, io aveva già compreso qual era l'oggetto della loro attenzione; ma attesi in silenzio, per vedere se avevano capito il mio movimento. Ed infatti li vidi corrermi incontro gridando: «Ci siamo accorti della vostra sorpresa!» - Non so se quest'atto sia comune alle diverse razze umane, siccome trascurai di fare ricerche su tale argomento. Si può concludere ch'esso è innato o naturale per ciò, che Laura Bridgman, quand'è stupefatta «stende le braccia e solleva le mani staccando le dita» (240); infatti, siccome la sorpresa è un sentimento, quasi direi istantaneo, non è probabile che la povera donna abbia potuto apprendere questa movenza col senso del tatto, sia pure in essa perfetto.

Huschke descrive (241) un gesto alquanto diverso, ma peraltro di simil natura, che, egli dice, accompagna in certi individui l'espressione dello stupore. Gl'individui in questione si mantengono ritti; coi lineamenti del viso quali furono or ora descritti da me, ma stendendo le braccia all'indietro e separando le dita uno dall'altro. Io, per parte mia, non ho mai osservato quest'atto; tuttavia Huschke ha probabilmente ragione, però che, avendo un amico chiesto ad un altro come esprimerebbe un grande stupore, questi prese senza tempo di mezzo codesta postura.

I diversi gesti anzidetti possono spiegarsi, io credo, col principio dell'antitesi. Vedemmo che l'uomo sdegnato solleva la testa, quadra le spalle, gira i gomiti in fuori, spesso stringe i pugni, aggrotta le sopracciglia e serra la bocca; mentre l'atteggiamento dell'uomo impotente e rassegnato è perfettamente l'inverso. Qui noi riscontriamo una novella applicazione dello stesso principio. Un uomo che sia nello stato ordinario, che faccia nulla e a nulla pensi di particolare, tiene per solito le braccia penzoloni, colle mani semichiuse e le dita vicine fra loro. Sollevare bruscamente le braccia e gli avambracci, aprire le mani, separare le dita, od ancora raddrizzare le braccia stendendole indietro colle dita disgiunte, costituiscono altrettanti movimenti in completa antitesi con quelli che caratterizzano codesto stato indifferente dell'animo, e devono per conseguenza essere inconsciamente eseguiti da un uomo stupito. Spesse volte alla sorpresa si accompagna il desiderio di esprimerla in modo palese; ora, gli atteggiamenti su esposti si prestano mirabilmente allo scopo. Qui si potrebbe domandare, perché soltanto la sorpresa e alcuni altri sentimenti, in piccolo numero, siano espressi da gesti in antitesi. Risponderò che questo principio non ebbe evidentemente ad avere una funzione importante riguardo a quei sentimenti i quali, come il terrore, la gioia, la sofferenza, la rabbia, conducono per via naturale a certi atti tipici e producono certi effetti determinati sul corpo; siccome il nostro fisico tutto ne è anticipatamente impressionato in modo speciale, codesti sentimenti sono già espressi così con la maggiore chiarezza.

C’è un altro piccolo gesto espressivo dello stupore, sul quale io non posso proporre spiegazione alcuna; intendo parlare di quello per cui le mani corrono alla bocca o sopra una parte qualunque del corpo. Eppure fu riscontrato in un numero sì grande di razze umane, da aver certamente un'origine naturale. Un selvaggio Australiano, introdotto in una grande stanza ripiena di fogli ufficiali, provò molto stupore, e prese a gridare: cluck, cluck, cluck, portando il dorso della mano davanti alle labbra. La signora Barber dice che i Cafri ed i Fingi esprimono lo stupore con una seria occhiata e mettendo la mano destra sopra la bocca: nello stesso tempo pronunciano la parola mawo, che vuol dire meraviglioso. Sembra (242) che i Boscimani portino la mano destra al con lo, rovesciando il capo all'indietro. Il sig. Winwood Reade osservò dei Negri della costa occidentale dell'Africa i quali esprimevano la sorpresa battendosi con la mano la bocca, ed ebbe ad udire essere codesto un atto abituale con cui essi palesano il proprio stupore. Il capitano Speedy mi narra che gli Abissini collocano la mano destra sul fronte, col palmo all'infuori. Per ultimo, il signor Washington Matthews riferisce che il segno convenzionale dello stupore, presso le tribù selvagge delle regioni occidentali degli Stati Uniti, «consiste in portare la mano semichiusa sopra la bocca, mentre la testa spesse volte si piega in avanti, e talora escono dalle loro labbra parole o sordi grugniti». Catlin (243) nota questo medesimo gesto anche presso i Mandani e diverse altre tribù indiane.

Ammirazione. - Su quest'argomento ben poco ho a dire. L'ammirazione sembra consistere in una miscela di sorpresa, di piacere e di approvazione. Quand'è viva, le sopracciglia si sollevano; gli occhi si aprono e brillano, mentre nel semplice stupore essi restano smorti; infine la bocca, invece di spalancarsi, si apre lievemente e modella un sorriso.

Paura, Terrore. - egli pare che la voce paura derivi etimologicamente dai vocaboli che rispondono alle nozioni di improvviso e di pericoloso (244); quella di terrore ebbe pure ad origine il tremito delle corde vocali e delle membra. Io adopero la parola terrore per estremo spavento; tuttavia alcuni scrittori ritengono doversi ella usare allorquando viene più specialmente impiegata la immaginazione. Spesse volte la paura è preceduta da stupore, ed è tanto affine a quest'ultimo sentimento, che istantaneamente risvegliano, sì l'uno che l'altra, i sensi della vista e dell'udito. L'uomo spaventato resta in sul principio immobile al par d'una statua, soffocando il respiro, oppure istintivamente si rannicchia per togliere di venire scoperto.

Il cuore martella rapidi colpi e violenti e solleva il petto. Pur nondimeno egli è molto incerto se quest'organo compia un lavorio maggiore o migliore che non allo stato normale, cioè se mandi una più grande quantità di sangue in tutte le parti dell'organismo: in fatto la pelle si fa bianca bianca d'un tratto, come presso a deliquio. Tuttavia codesto pallore della superficie cutanea è probabilmente dovuto, se non del tutto, in gran parte alla impressione ricevuta dal centro vaso-motore, che provoca la contrazione delle piccole arterie dei tegumenti. L'impressionabilità della pelle in causa d'un intenso spavento si manifesta anche nella prodigiosa e inesplicabile foggia onde questo provoca immediatamente la traspirazione. E tanto più è notevole tale fenomeno, che, in questo momento, la superficie cutanea è fredda; d'onde il termine di sudor freddo; di solito, infatti, le ghiandole sudoripare funzionano specialmente quando questa superficie è calda. I peli si rizzano, e fremono i muscoli superficiali. Si turba la circolazione, e la respirazione precipita. Le ghiandole salivali agiscono imperfettamente; la bocca inaridisce (245); essa si apre e si chiude con frequenza. Io ho anche osservato che una leggera paura determina una forte disposizione allo sbadiglio. Uno dei sintomi più spiccati dello spavento è il tremito che signoreggia i muscoli tutti del corpo e che spesso compare, prima che altrove, sui labbri. Codesto tremore, al par dell'aridità della bocca, altera la voce, che si fa rauca, o indistinta, o scompare affatto: «obstupui, steteruntque comae, et vox faucibus haesit».

Nel libro di Giobbe si legge una notevole e ben conosciuta descrizione della paura vaga: - «In mezzo ai pensieri suscitati dalle visioni notturne, mentre un sonno profondo avvolgeva gli uomini, m'incolse la paura, ed un tremito che mi faceva scricchiolare tutte le ossa. Uno spirito mi vagolò dinanzi: e il pelo della mia carne si arricciò. I' m'arrestai, ma non seppi distinguerne la forma; mi stava davanti un'immagine, e in quel funebre silenzio, mi giunse una voce che diceva: L'uomo mortale sarà forse più giusto di Dio? un uomo sarà egli più puro del suo Creatore?» (Job., IV,13).

Quando la paura grado grado s'accresce e giunge al terrore angoscioso, noi riscontriamo, come avviene per tutte le emozioni violente, molteplici fenomeni. Il cuore batte tumultuoso; altre volte cessa di contrarsi, e ne segue il deliquio; il pallore è cadaverico e la respirazione affannosa; le ali del naso sono largamente dilatate: «le labbra si muovono convulsivamente, le guance tremano e si fanno infossate, la gola geme sotto la pressione di un incubo» (246); gli occhi spalancati e sporgenti fissano l'oggetto, causa del terrore, oppure corrono incessanti da una parte a quell'altra: huc illuc volvens oculos totumque pererrat (247). Le pupille appaiono straordinariamente dilatate. Tutti i muscoli del corpo irrigidiscono o sono presi da convulsioni. Le mani, spesso anche con bruschi movimenti, alternano fra lo star chiuse e l'aprirsi. Le braccia si portano qualche volta in avanti, come a schermirsi da un orrendo pericolo, oppure si sollevano in tumulto sopra la testa. Il reverendo signor Hagenauer ebbe ad osservare quest'ultimo atto in un Australiano atterrito. In altri casi si prova una subita tendenza invincibile di fuggire a rompicollo; ed è essa tanto potente, che vi cedono i più valorosi soldati, improvvisamente assaliti da panico.


Fig. 19 - Stato della capigliatura in una pazza (da una fotografia).

Allorché lo spavento giunge al massimo grado, ne sorge l' orribile grido del terrore. Grossi goccioloni di sudore solcano la pelle. Si rilasciano tutti i muscoli del corpo. Prostrazione rapida e completa: le facoltà mentali sospese. Le intestina ne sono impressionate; gli sfinteri non sanno più agire e lasciano sfuggire le escrezioni.

Il dott. J. Crichton Browne mi fece una relazione così toccante d'un intenso spavento provato da un'alienata di trentacinque anni, che non posso lasciare di riferirla. Quando le viene un assalto, ella grida: «Ecco l'inferno! V'è una donna nera! Impossibile fuggirne!» ed altre esclamazioni dello stesso genere. Nel frattempo, passa alternativamente da un tremito generale al convulso. Un istante chiude le mani, tende rigidamente avanti a sé le braccia flesse a metà; poi si curva con brusco atto verso avanti, si ripiega rapidamente a destra ed a manca, caccia le dita in mezzo ai capelli, porta al con lo le mani e tenta di lacerarsi le vesti. I muscoli sterno-cleido-mastodei (che fanno inclinare la testa sul petto) divengono sporgenti, come se tumefatti, e la pelle della regione anteriore del con lo si copre di profonde grinze. I capelli, che dietro la testa sono rasi e che allo stato normale si mantengono lisci, si rizzano; mentre le mani arruffano quelli che coprono la regione anteriore. Dalla fisionomia traluce una straziante angoscia dell'animo. La pelle vien rossa sul viso e sul collo fin alle clavicole, e le vene del fronte e del collo sporgono, come fossero cordoni. Il labbro inferiore si abbassa e talvolta si rovescia. La bocca è semichiusa; la mascella inferiore si protrae in avanti. Le guance s'infossano e sono profondamente solcate da linee ad arco che corrono dalle ali del naso agli angoli della bocca. Anche le narici si sollevano e si dilatano. Si spalancano gli occhi, e al di sotto la pelle par gonfia; le pupille si mostrano dilatate. La fronte è coperta da numerose strie trasversali; verso l'estremità interna dei sopraccigli, essa presenta dei solchi profondi e divergenti, dovuti all'energica e persistente contrazione dei muscoli sopracciliari.

Anche il sig. Bell descrisse (248) una scena d'angoscia, di terrore e di disperazione, di cui egli stesso fu testimonio, a Torino, in un omicida che si menava al supplizio. «Ai lati della carretta stavano seduti i preti officianti; in mezzo il condannato. Era impossibile contemplare lo stato di quel miserabile senz'essere compresi di terrore, e pur tuttavia gli occhi erano inchiodati sull'orrendo spettacolo, quasi obbedissero ad una strana malia. Pareva che avesse trentacinqu'anni all'incirca, era alto e muscoloso della persona; i lineamenti del viso accentuati e feroci; mezzo nudo, pallido come la morte, straziato dal terrore, le membra stravolte per angoscia, le mani convulsamente serrate, il viso inondato di sudore, il sopracciglio ricurvo e aggrottato, egli stringeva di continuo l'immagine di Cristo, dipinta sulla bandiera che gli pendeva davanti, ma con un'angoscia così selvaggia e disperata, da digradarne ogni cenno che volesse offrirne la ben che minima idea».

Non citerò più che un caso relativo ad un uomo completamente abbattuto dal terrore. Uno sciagurato, assassino di due persone, fu condotto in un ospitale, perché si credette, a torto, ch'egli si fosse avvelenato. Il dottor W. Ogle l'esaminò attentamente la mattina dopo, nel momento in cui la polizia veniva ad arrestarlo e a impadronirsi di lui. Era estremo il suo pallore, e tanta la prostrazione, che durava fatica a vestirsi. Aveva la pelle in traspirazione; le palpebre tanto abbassate e la testa reclinata così, che riusciva impossibile gettare un solo sguardo sugli occhi di lui. Gli penzolava la mascella inferiore. Nessun muscolo della faccia era contratto, il dottor Ogle è quasi sicuro che i capelli non erano eretti; però che, osservandolo da presso, li riconobbe tinti, probabilmente ad arte, per sfuggire alle mani della giustizia.

Diciamo sulla espressione della paura nelle diverse razze umane. I miei corrispondenti s'accordano nello asserire essere dovunque i segni di codesto sentimento i medesimi che negli Europei. Negli Indù e negl'indigeni di Ceylan si manifestano in eccessiva maniera. Il sig. Geach vide dei Malesi atterriti impallidire e tremare; il sig. Brough Smyth narra che un naturale australiano «colto un giorno da estremo spavento, mutò cera e prese una tinta simile al pallore, quale possiamo immaginare in un uomo nero». Il sig. Dyson Lacy assistette al terrore di un Australiano, manifestato da un tremito nervoso delle mani, dei piedi e delle labbra, e dalla comparsa di gocce di sudore sulla pelle. Molti popoli selvaggi non reprimono i segni della paura, come fanno gli Europei, e sovente si vedono tremar con violenza. «Nei Cafri, dice Gaika, il tremito del corpo è spiccatissimo, e gli occhi si spalancano». Nei selvaggi i muscoli sfinteri spesse volte si rilasciao. Questo medesimo sintomo si osserva nei cani, quando sono assai spaventati, ed io l'ebbi pur a notare in scimmie atterrite cui si dava la caccia.

Capelli irti. - Ci ha qualche segno dello spavento che merita uno studio un po' più profondo. I poeti parlano continuamente di capelli rizzati sulla testa; Bruto dice all'ombra di Cesare: «Tu mi fai gelare il sangue e rizzare i capelli». Dopo l'assassinio di Gloucester, il cardinale Beaufort sì grida: «Ma riordina dunque i suoi capelli; o non vedi che gli si rizzano sul capo?» Siccome io non ero sicuro che i poeti non avessero applicato all'uomo ciò che di spesso avevano osservato negli animali, chiesi al dottor Crichton Browne alcune informazioni sugli alienati. egli mi rispose d'aver visto spessissimo rizzarsi in questi i capelli sotto l'influenza di un improvviso ed estremo terrore. Una pazza, ad esempio, cui s'è talvolta obbligati di praticare delle iniezioni sotto-cutanee di morfina, teme oltremodo questa operazione, benché pochissimo dolorosa, perché s'è fissa in mente che le s'introduca un veleno atto a rammollirle le ossa e a ridurre le sue carni in polvere. Ella vien pallida come la morte; soggiace ad una specie di spasmo tetanico, e parte dei capelli le si rizzano sul davanti del capo.

Il dottor Browne fa notare anche che l'erezione dei capelli, tanto comune negli alienati, non è sempre associata al terrore. Questo fenomeno soprattutto si vede nei malati di mania cronica, che delirano ed hanno idee di suicidio; ed è specialmente nel parossismo dei loro eccessi che questa erezione si rende notevole. Il fatto del rizzarsi dei capelli sotto la duplice influenza della rabbia e dello spavento s'accorda appuntino con quel che vedemmo a proposito degli animali. Il dottor Browne cita in appoggio molti esempi: così, in un individuo, che attualmente è all'Asilo, avanti ogni assalto di mania, «si rizzano i capelli sul fronte come la criniera di un poney delle Shetland». egli m'inviò le fotografie di due femmine, tratte negl'intervalli dei loro accessi; e, quanto all'una di queste due donne, m'aggiunge che «lo stato della capigliatura di lei è una dimostrazione convincente e bastante della condizione dell'animo». Io ho fatto copiare una di queste fotografie; e ad una breve distanza, l'incisione dà l'esatta sensazione dell'originale, toltone forse che i capelli paiono un po' troppo ruvidi e crespi. Lo straordinario stato della capigliatura, negli alienati, è dovuta, non solo alla erezione di essa, ma anche alla sua aridità e durezza, fenomeni questi che stanno in nesso con la inazione delle ghiandole sottocutanee. Il dottor Bucknill disse (249) che un lunatico «è lunatico fino alla punta delle dita»; egli avrebbe potuto aggiungere che spesse volte lo è fin alla estremità dei capelli.

Il dottor Browne cita il fatto seguente, a empirica conferma del rapporto ch'esiste negli alienati tra lo stato della capigliatura e quello dell'animo. Un medico curava una donna malata di acuta malattia e compresa da una paura terribile della morte per sé, per il marito e per i figli. Ora, la vigilia stessa del giorno in cui gli giunse la mia lettera, la moglie di questo medico gli aveva detto: «Io ritengo che la signora *** guarirà presto, perché i suoi capelli cominciano a farsi morbidi: ho sempre osservato che i nostri malati migliorano allorché i loro capelli lasciano d'essere ruvidi e ribelli al pettine».

Il dottor Browne attribuisce la ruvidità persistente dei capelli in molti alienati, parte all'alterazione ond'è sempre più o meno avvolto l'animo loro, parte all'influenza dell'abitudine, vale a dire alla erezione che si produce spesso e con forza nei loro frequenti attacchi. In quegli infelici nei quali questo sintomo è molto spiccato, la malattia in generale è incurabile e mena alla morte; in quegli altri, invece, in cui è moderato, la capigliatura ritorna alla morbidezza ordinaria, non appena l'affezione mentale è guarita.

In uno dei precedenti capitoli vedemmo che negli animali il pelo è rizzato dalla contrazione dei piccoli muscoli lisci, involontari, che s'appendono a ciascun dei follicoli. Nell'uomo, indipendentemente da quest'azione, in base alle convincentissime esperienze che il sig. Wood mi comunica, i capelli della testa che s'inseriscono verso il davanti e quelli della nuca che s'impiantano all'indietro, sono tratti in direzione opposta dalla contrazione dell'occipito-frontale o muscolo del cuoio capelluto. Così questo muscolo sembra contribuisca a produrre l'erezione dei capelli nell'uomo, come il muscolo analogo - panniculus carnosus - giova, od anche esercita la principale funzione, nella erezione delle spine sul dorso di certi animali.

Contrazione del muscolo pellicciaio. - Questo muscolo si stende sulle parti laterali del con lo; discende un po' al di sotto delle clavicole, e rimonta fino alla parte inferiore delle guance. Nella fig. 2, se ne vede una porzione (M); conosciuta col nome di risorius; la contrazione di questo muscolo tira gli angoli della bocca e la parte inferiore delle guance in basso e all'indietro. Contemporaneamente, negli individui giovani, appaiono sui lati del con lo dei rilievi divergenti, longitudinali e ben distinti; nei vecchi smagriti, vi si vedono, invece, fine strie trasversali. Talvolta si disse che il pellicciaio non è sottomesso all'impero della volontà; eppure, chiedete al primo venuto di stirare con gran forza gli angoli della bocca in basso e all'indietro, e quasi sempre egli farà agir questo muscolo. Io ho sentito parlare d'un uomo che poteva a volontà metterlo in azione da una parte sola.

Sir C. Bell (250) ed altri autori stabilirono che il pellicciaio si contrae vivamente sotto l'influenza dello spavento; il dottore Duchenne gli attribuisce tanta importanza nella espressione di questo sentimento, da chiamarlo il muscolo della paura (251). Ammette peraltro che la contrazione di lui riesca affatto inespressiva, se non è associata a quella dei muscoli che spalancano gli occhi e la bocca. egli pubblicò una fotografia (che diamo ridotta nella fig. 20) di quel medesimo vecchio che già più volte ci comparve dinanzi, colle sopracciglia vivamente rialzate, la bocca aperta e il pellicciaio contratto, il tutto a mezzo della elettricità. Mostrai la fotografia originale a ventiquattro persone, e, senza dare alcuno schiarimento, chiesi loro che cosa esprimesse; venti risposero subito: intensa paura od orrore; tre dissero: affanno, ed una: estrema indisposizione. Il dottor Duchenne diede un'altra fotografia dello stesso vecchio, col pellicciaio contratto, la bocca e gli occhi aperti e le sopracciglia fatte oblique a mezzo del galvanismo. L'espressione ottenutane è naturalissima (V. Tavola VII, fig. 2); l'obliquità dei sopraccigli vi aggiunge l'apparenza d'un gran dolore intellettuale. Mostrato l'originale a quindici persone, dodici risposero: terrore od orrore, e tre angoscia o grande dolore. In base a questi esempi ed allo studio delle altre fotografie pubblicate dal dott. Duchenne, colle note annessevi, io credo doversi ammettere per cosa sicura che la contrazione del pellicciaio giova potentemente alla espressione dello spavento. nondimeno è impossibile accettare per esso la denominazione di muscolo della paura, perché la sua contrazione non è certo necessariamente legata a questo stato dell'animo.


Fig. 20 - Terrore (da una fotografia del dott. Duchenne)

Un estremo terrore può benissimo manifestarsi con una pallidezza mortale, con la traspirazione della pelle e con un'assoluta prostrazione, essendo tutti i muscoli del corpo, compresovi il pellicciaio, affatto rilasciati. Il dottor Browne, che spesso negli alienati vide questo muscolo tremare e contrarsi, non seppe però riferirne l'azione a alcun sentimento da loro provato; eppure studiò con cura particolare i malati assaliti da una grande paura. Il sig. Nicol, al contrario, ebbe ad osservare tre casi nei quali questo muscolo appariva più o meno permanentemente contratto, sotto la duplice influenza della malinconia e della paura; peraltro in uno di tali casi anche parecchi altri muscoli del con lo e della testa erano soggetti a contrazioni spasmodiche.

Il dottor W. Ogle osservò, dietro mia richiesta, in uno degli ospitali di Londra, una ventina di malati, nell'istante in cui si sommettevano all'anestesia col cloroformio per operarli. Tremavano un po', ma non avevano un grande terrore. Solo in quattro casi il pellicciaio si contrasse visibilmente; né prendeva a contrarsi che quando i malati cominciavano a gridare. E pareva che codesta contrazione avvenisse ad ogni profonda inspirazione; per cui è assai dubbio a dirsi s'essa avesse qualche dipendenza da un senso di paura. In un quinto caso, il paziente, cui non s'aveva praticata l'anestesia, era molto sgomento; il pellicciaio di lui si contraeva più vivamente e con maggior persistenza che non negli altri. Ma pur qui ci ha luogo a dubitare; perché il sig. Ogle vide questo muscolo, che d'altra parte appariva sviluppato fuor del consueto, contrarsi nel punto in cui l'infelice, terminata l'operazione, levò la testa dal guanciale.

Non sapendo giustificarmi come mai la paura potesse in molti casi esercitare un'azione sopra un muscolo superficiale del con lo, feci ricorso ai miei numerosi e gentili corrispondenti, per averne notizie sulla contrazione di questo muscolo manifestata in altre circostanze. Tornerebbe superfluo riprodurre tutte le risposte ottenute. Esse dimostrano che il pellicciaio spesse volte agisce in differente maniera e a gradi diversi, in circostanze numerose e svariate. Nell'idrofobia si contrae con violenza, e un po' meno energicamente nel trismo; talora codesta contrazione è pure spiccata, durante l'insensibilità prodotta dal cloroformio. Il dottor W. Ogle osservò due malati di sesso mascolino, che soffrivano così a respirare, da dover loro aprir la trachea; in ambedue, il pellicciaio era vivamente contratto. L'un d'essi intese la conversazione dei chirurgi che gli stavano attorno, e quando poté parlare, dichiarò di non aver avuto paura. In altri casi di affannosissima respirazione, nei quali non s'ebbe ricorso alla tracheotomia - casi osservati dai dottori Ogle e Langstaff - il pellicciaio non si contrasse.

Il signor J. Wood, che studiò con tanta cura, come risulta dalle varie sue pubblicazioni, i muscoli del corpo umano, ebbe spesse volte a vedere il pelliccaio a contrarsi nel vomito, nella nausea e nella svogliatezza; lo notoò, per giunta, in fanciulli e in adulti, sotto l'influenza del furore, ad esempio in certe femmine irlandesi che altercavano e si provocavano con gesti di collera. In questo caso, forse, il fenomeno dipendeva dal tuono acuto e stridente della loro voce irritata; infatti io conosco una signora, distinta cantante, la quale, emettendo certe note elevate, contrae sempre il muscolo pellicciaio. E il medesimo fatto constatai in un giovane, allorché cava talune note dal flauto. Il signor J. Wood m'apprende d'aver visto più sviluppato il pellicciaio in quelle persone che hanno il con lo sottile e larghe le spalle; e m'aggiunge che nelle famiglie ove questi caratteri sono ereditari, il suo sviluppo d'ordinario si lega con una maggiore potenza della volontà sopra il suo analogo, l'occipito-frontale, che fa muovere il cuoio capelluto.

Pare che nessuno dei precedenti fatti fornisca un po' di luce intorno all'azione dello spavento sul pellicciaio; ma avviene altrimenti, mi sembra, di quelli che seguono. L'individuo del quale ho già tenuto parola, e che può agire a volontà su questo muscolo - da una parte sola - lo contrae senza dubbio da entrambi i lati tutte le volte in cui sussulta per sorpresa. Ho già dimostrato con varie prove che tal fiata questo muscolo agisce, forse allo scopo di spalancare la bocca, quando il respiro è reso difficile da qualche malattia, od ancora durante la profonda inspirazione degli accessi di grida, avanti un'operazione. Ora, allorché una persona sussulta a qualche oggetto imprevisto o ad un improvviso rumore, dà immediatamente in un profondo respiro; gli è perciò che la contrazione del pellicciaio ha potuto associarsi al sentimento del terrore. nondimeno io ritengo che tra i due fenomeni ci abbia un più possente legame. Una sensazione di paura o il pensiero d'una cosa spaventevole provoca di solito un fremito. Io stesso mi sono sorpreso provando un leggero raccapriccio a qualche penosa idea, ed in allora m'accorgevo benissimo che mi si contraeva il pellicciaio; che se io simulo un brivido, e' si contrae del pari. Pregai parecchie persone di fare altrettanto, e vidi questo muscolo agir negli uni e non negli altri. Uno dei miei figli, balzando un giorno dal letto, rabbrividì di freddo, ed avendo portata a caso la mano sul con lo, sentii perfettamente la viva contrazione del suo pellicciaio. In progresso, egli fremette involontariamente, come aveva fatto altre volte, ma il pellicciaio fu muto. Anche il signor J. Wood ebbe ad osservare di spesso la contrazione di questo muscolo in certi malati, cui si toglievano le vesti per esaminarli, e non perché avessero paura, ma solo perché tremavano di freddo. Malauguratamente non mi venne dato verificare se esso entri in azione quando tutto il corpo trema, come nel periodo di freddo in un accesso di febbre. Così, giacchè il pellicciaio si contrae sovente nel raccapriccio, e poiché spesse volte il principio d'una sensazione di paura è accompagnata da un raccapriccio o da un tremito, egli mi sembra che in ciò v'abbia una concatenazione di fenomeni, la quale può spiegarci la contrazione del muscolo sotto l'influenza di quest'ultimo sentimento (252). nondimeno codesta contrazione non accompagna sempre la paura; perché è probabile ch'essa non si produca mai sotto l'influenza dell'eccessivo terrore che provoca la prostrazione.

Dilatazione delle pupille. - Gratiolet insiste a più riprese (253) sul fatto, che le pupille, nel terrore, si dilatano vivamente. Io non ho alcun motivo di dubitare sull'esattezza di tale asserzione; peraltro non seppi trovarne prove affermative, toltane quella già detta, d'una donna pazza, presa da sommo spavento. Quando i romanzieri parlano di occhi straordinariamente dilatati, io ritengo che intendano dir delle palpebre. Secondo Munro (254), nei pappagalli l'iride è impressionata dai sentimenti, indipendentemente dall'influenza della luce; ma il professore Donders m'informa d'aver constatato di spesso nella pupilla di questi uccelli certi movimenti ch'egli crede si debbano rapportare agli effetti dell'accomodamento a diverse distanze; gli è così che, in noi, si contraggono le pupille quando gli occhi convergono per veder davvicino. Gratiolet fa osservare che le pupille dilatate dànno all'occhio la stessa apparenza offerta in una profonda oscurità; or è certo che l'uomo deve avere provato spesse volte lo spavento nell'oscurità; non tanto spesso però, né così esclusivamente, da poterne provare l'origine e la persistenza di un'abitudine associata di questo genere; ci sembra più probabile - supponendo esatta l'asserzione di Gratiolet - che il cervello sia direttamente impressionato dal vivo sentimento della paura, e ch'esso reagisca sulla pupilla; peraltro il professore Donders mi dice essere codesta una questione estremamente complessa. E qui posso aggiungere (cosa che forse potrà spargere un po' di luce sull'argomento) che il dottor Fyffe, dell'ospitale Netley, osservò, in due malati, che le pupille erano nettamente dilatate durante il periodo di freddo in un accesso di febbre. Anche il prof. Donders ha constatato di spesso la dilatazione della pupilla sul principiar del deliquio.

Orrore. - Lo stato morale espresso da questa parola presuppone del terrore, e, in certi casi, questi due termini sono quasi sinonimi. Ben molti infelici, avanti la meravigliosa scoperta del cloroformio, ebbero a provare orrore pensando a un'operazione chirurgica cui dovevano sottoporsi. Quando si teme un individuo, quando lo si aborre, si prova, secondo l'espressione di Milton, dell'orrore per lui. La vista di qualcheduno, per esempio d'un fanciullo esposto ad un grave pericolo, ne ispira orrore. Ben pochi, al dì d'oggi, non proverebbero questo sentimento con la più grande intensità, se vedessero un uomo alla tortura o sul punto di subirla. In quei casi, noi non corriamo pericolo alcuno, ma, per la potenza dell'immaginazione e della simpatia, ci mettiamo al posto del paziente, e soffriamo qualche cosa che s'assomiglia a paura.


Fig. 21 - Orrore ed angoscia (da una fotografia del dott. Duchenne).

Sir C. Bell (255) osserva che «l'orrore è un sentimento assai energico; il corpo è in uno stato di estrema tensione, quando pure non sia snervato dalla paura». Dietro a ciò, egli parrebbe che l'orrore dovesse accompagnarsi ad uno spiccatissimo corrugamento di sopracciglia; ma siccome in codesta emozione entra in parte la paura, gli occhi e la bocca devono aprirsi e sollevarsi le sopracciglia, per quanto almeno il consente l'azione antagonistica dei sopracciliari. Una fotografia del dottor Duchenne (256) (fig. 21) ci mostra il solito vecchio, cogli occhi fissi, le soppraciglia un po' sollevate, ma nello stesso tempo increspatissime, la bocca aperta e il pellicciaio contratto, tutto per effetto della elettricità. L'espressione così ottenuta esprime, secondo il signor Duchenne, un estremo terrore, accompagnato da un orribile dolore, da una vera tortura. È a ritenersi che un uomo messo alla tortura presenterebbe l'espressione d'un orrore assoluto, finché le sue sofferenze gli permettono di concepire timori per avvenire. Io ho mostrato il saggio della fotografia in questione a ventitre persone d'entrambi i sessi e di diverse età; tredici di loro pronunciarono immediatamente le parole di orrore, grave sofferenza, tortura o agonia; tre corsero col pensiero a un grande spavento; in complesso sedici giudizi, presso a poco concordi con la maniera di vedere del signor Duchenne. Per altro ve n'ebbero sei, le quali credettero riconoscervi un'espressione di collera, senza dubbio colpite dalla viva contrazione dei sopraccigli e trascurando la particolare apertura della bocca. Un'altra volle vedervi il disgusto. Somma fatta, gli è chiaro che in quella fotografia noi abbiamo un'eccellente rappresentazione dell'orrore e dell'angoscia. La fotografia più addietro citata (Tav. VII, fig. 2) esprime del pari l'orrore; ma la posizione obliqua dei sopraccigli che ivi si rimarca, in luogo di energia, indica un profondo cordoglio.

L'orrore di solito è accompagnato da diversi gesti che variano secondo gl'individui. A giudicare da certe descrizioni, tutto il corpo è spesso impressionato o tremante, oppure le braccia sono violentemente tese in avanti, come a respingere uno spaventevole oggetto.

L'atto che più di consueto si produce, per quanto almeno si può giudicarne dal modo di agire in quelli che cercano di rappresentare al naturale una scena d'orrore, consiste nel sollevare le spalle, mentre le braccia sono strettamente serrate in sui fianchi o sul dinanzi del petto. In generale, questi movimenti sono quasi gli stessi che si eseguiscono quando si soffre assai freddo, e s'accompagnano d'ordinario da un fremito, come pure da una profonda espirazione o inspirazione, a seconda che il petto in questo istante si trova dilatato o contratto. I suoni prodotti in tali circostanze possono esprimersi più o meno esattamente colle parole uh o uhg (257). Checchè ne sia, è sempre difficile il dire perché, quando sentiamo freddo o palesiamo un sentimento d'orrore, serriamo contro il corpo le braccia piegate, solleviamo le spalle e rabbrividiamo.

Conclusione. - Ho tentato di descrivere le varie espressioni della paura nei diversi gradi, dalla semplice attenzione e dal sussulto della sorpresa fino all'estremo terrore ed all'orrore. Alcune fra le espressioni che la rivelano si possono spiegare col mezzo dei principii dell'abitudine, dell'associazione e della eredità; avviene così, per esempio, dell'atto che consiste nello spalancare gli occhi e la bocca, rialzando le sopracciglia in modo da gettare più rapidamente che sia possibile lo sguardo attorno a noi e da intendere distintamente il minimo suono che possa colpirci l'orecchio; in fatto è proprio così che ci siam abituati a riconoscere o ad affrontare un pericolo qualunque. E coll'aiuto degli stessi principii si può ancora rendersi conto, almeno in parte, di alcuni altri segni dello spavento. Da innumerevoli generazioni, ad esempio, gli uomini cercarono di sottrarsi ai nemici o al pericolo, sia con una fuga precipitosa, sia con una lotta accanita; ora simili sforzi dovettero produrre in effetto il rapido battito del cuore, l'accelerazione del respiro, il sollevamento del petto e la dilatazione delle narici. E siccome questi sforzi si prolungarono spesso fino all'estremo, il risultato finale dovette essere un'assoluta prostrazione, pallore, traspirazione, il tremito di tutti i muscoli o il loro completo rilasso. Pur adesso, ogni volta in cui si prova un vivo senso di spavento, anche allora che questo non dovrebbe produrre alcuno sforzo, gli stessi fenomeni tendono a ricomparire, in virtù del potere dell'eredità e dell'associazione.

Ciò nondimeno è probabile che, se non tutti, almeno un grande numero dei su citati sintomi del terrore, come il battito del cuore, il tremito dei muscoli, il sudore freddo, ecc., siano in molta parte direttamente dovuti a perturbazioni avvenute nella trasmissione della forza nervosa che il sistema cerebro-spinale distribuisce alle varie parti del corpo, od anche alla sua completa interruzione, causa la profonda impressione fatta sull'animo dell'individuo. Noi possiamo indubbiamente riferire a questa causa affatto indipendente dall'abitudine e dall'associazione, gli esempi nei quali sono modificate le secrezioni del canale intestinale, e quegli altri in cui sono abolite le funzioni di certe ghiandole. Quanto all'involontaria erezione dei peli negli animali, ci ha di buone ragioni per credere che questo fenomeno, ne sia qualsivoglia l'origine, concorra con certi movimenti volontari a dar loro un aspetto formidabile in faccia al nemico; ora, siccome le stesse movenze, involontarie e volontarie, sono compiute da animali assai prossimi all'uomo, siamo indotti ad ammettere che questi ne abbia conservate, per via ereditaria, talune vestigia, presentemente inutili. La permanenza fino al dì d'oggi dei piccoli muscoli che fanno rizzare i peli sì scarsi sul corpo quasi glabro dell'uomo, è senza dubbio un fatto molto notevole: né offre meno interesse osservare che questi muscoli si contraggono ancora sotto l'influenza delle stesse emozioni (valgano il terrore e la rabbia) che determinano l'erezione del pelo negli animali collocati sugli ultimi gradini dell'ordine cui l'uomo appartiene.


CAPITOLO XIII. ATTENZIONE RIVOLTA SU SE STESSI - VERGOGNA - TIMIDEZZA - MODESTIA - ROSSORE

Natura del rossore. - Eredità. - Parti del corpo che vi sono più soggette. - Il rossore nelle diverse razze umane. - Gesti concomitanti. - Confusione. - Cause del rossore.- L'attenzione rivolta su se stessi ne è l'elemento fondamentale. - Timidezza. - Vergogna, determinata dalla violazione delle leggi morali e delle regole di convenienza. - Modestia. - Teoria del rossore. - Ricapitolazione.

Fra tutte le forme dell'espressione la più speciale all'uomo è il rossore. Le scimmie diventano rosse di collera; ma sarebbe necessaria una enorme quantità di prove per persuaderci, che un animale possa arrossire. Il color rosso del volto, quale conseguenza del rossore, dipende dal rilassamento delle pareti muscolose delle piccole arterie che trasmettono il sangue ai capillari e questo rilassamento è determinato da un'affezione delle parti centrali dell'apparato vasomotore. È fuori di dubbio che un forte eccitamento dello spirito ha per conseguenza una modificazione della circolazione generale; ma non è da attribuirsi all'attività del cuore, se la rete dei capillari del volto si riempie di sangue, quando domina un sentimento di vergogna. Noi possiamo produrre il riso col mezzo di un solletico esercitato sulla pelle, possiamo produrre il pianto o il corrugamento del fronte con un urto, il tremito infondendo paura o cagionando dolore, ecc.; ma non possiamo mai, come osserva il dott. Burgess (258), produrre il rossore con nessun mezzo fisico, vale a dire con nessuna azione esercitata sul corpo. È lo spirito che deve essere impressionato. Il rossore non solo è involontario, ma il desiderio di soffocarlo ne aumenta in realtà la tendenza, rendendoci attenti su noi stessi.

Gli individui giovani arrossiscono molto più facilmente e più frequentemente che i vecchi, non però durante la prima infanzia (259); ciò che è meraviglioso, perché sappiamo, che i bambini diventano rossi in età assai tenera per collera. Io ho notizie autentiche di due bambine che all'età di due a tre anni arrossivano, e d'un fanciullo assai sensibile e più vecchio d'un anno, il quale arrossiva allorché veniva biasimato per un qualche fallo. Molti fanciulli arrossiscono ad età un poco più avanzata in un modo assai evidente. Sembra che le forze mentali dei piccoli fanciulli non siano ancora abbastanza bene sviluppate, per permetterne il rossore. Per la stessa ragione avviene pure che gli idioti solo di rado arrossiscono. Il dottor Crichton Browne osservò per mio conto gli idioti affidati alle sue cure, ma non vide mai un vero rossore, sebbene vide diventar rosso il loro volto probabilmente per la gioia, quando veniva loro apprestato il nutrimento, oppure per collera. Tuttavia ve ne sono di quelli che, non degradati in estremo grado, sono capaci di arrossire. Il dott. Behn (260), per es., ha descritto un idiota microcefalo di tredici anni, i di cui occhi splendevano un poco, quando provava gioia od era di umore allegro, e che arrossiva e si volgeva da un lato, quando veniva svestito per la visita medica.

Le donne arrossiscono assai più degli uomini. È raro il caso di veder arrossire un uomo avanzato in età, ma non è altrettanto raro il veder arrossire una donna attempata. I ciechi non si sottraggono al rossore. Laura Bridgman, nata in questo stato e per di più completamente sorda, arrossisce (261). Il sig. R. H. Blair, ispettore del collegio di Worcester, afferma, che tre fanciulli nati ciechi dell'età fra i sette e gli otto anni, i quali al presente si trovano in quell'Istituto, arrossiscono spesso ed assai fortemente. Dapprincipio i ciechi non hanno la coscienza di essere osservati ed è, come mi fa sapere il sig. Blair, uno dei momenti più importanti nella loro educazione, lo sviluppare in essi questa coscienza; l'impressione in tal modo ricevuta potrebbe aumentare la tendenza al rossore per il rafforzamento dell'abitudine di rivolgere l'attenzione su se stessi.

La tendenza ad arrossire è ereditaria. Il dott. Burgess racconta il caso d'una famiglia (262), composta del padre, della madre e di dieci figli, i quali tutti senza eccezione avevano una tendenza ad arrossire in un grado oltremodo penoso. I figli crebbero in età, «ed alcuni furono mandati in viaggio, per vincere questa patologica sensibilità; ma nulla giovò». Anche certe particolarità nel rossore sembrano essere ereditarie. Sir James Paget, nell'esaminare la spina dorsale d'una giovinetta, fu sorpreso dal modo particolare in cui essa arrossiva; una grande macchia rossa appariva dapprima su di una guancia, poi sopravvenivano altre macchie sparse in modo vario sul viso e sul con lo. Egli interrogò poi la madre, se sua figlia avesse sempre arrossito in questo modo particolare ed ebbe in risposta: «Sì, essa segue le mie orme». E qui sir J. Paget osservò che la sua domanda aveva provocato il rossore nella madre; essa presentava le stesse particolarità della figlia.

Nella maggior parte dei casi sono la faccia, le orecchie e il con lo le sole parti che divengono rosse; ma molte persone sentono, quando il loro rossore è intenso, per tutto il corpo un calore ed un prurito particolare; ciò dimostra, che l'intera superficie del corpo dev'essere in qualche modo modificata. Si dice talora che il rossore comincia sulla fronte, più spesso però comincia sulle guance e di là si diffonde poi fino alle orecchie e al con lo (263). Nei due albini esaminati dal dottor Burgess il rossore cominciava con una piccola macchia definita sulle guance sopra la rete nervosa della parotide e si diffondeva poi circolarmente. Fra il rossore di questa regione e quello del con lo si osservava una evidente linea di demarcazione, quantunque avvenissero contemporaneamente. La retina, che negli albini è naturalmente rossa, aumentava nello stesso tempo invariabilmente il suo colore rosso (264). Ognuno deve aver osservato, come avvenga sovente che uno il quale abbia cominciato ad arrossire, si senta nuove correnti di rossore salire alla faccia. Il rossore è preceduto da una sensazione particolare della cute. Secondo il dottor Burgess, al rossore segue generalmente un debole pallore, il quale dimostra che i capillari dopo la dilatazione si contraggono. In alcuni rari casi avvenne che quelle cause le quali per loro natura dovrebbero produrre rossore, produssero invece pallore. Così mi raccontò una giovane signora, che essa in una numerosa e nobile società restò attaccata coi suoi capelli così fortemente ad un bottone d'un servo che passava che fu d'uopo di qualche tempo per liberarsene. Essa s'immaginò, dietro le sue sensazioni, di esser diventata di color rosso acceso in volto, e tuttavia un'amica la assicurò che era diventata invece estremamente pallida.

Io era curioso di sapere quanto si diffondesse il rossore verso le parti inferiori del corpo. Sir James Paget, il quale necessariamente ha frequente occasione di poter fare simili osservazioni, fu tanto cortese di osservare questo punto, dietro mio invito per due o tre anni. Egli trova che nelle donne, le quali divengono d'un color rosso intenso sul volto, sulle orecchie e sulla parte posteriore del con lo, il rossore non si estende ordinariamente più sotto di queste parti. Si osserva di rado il rossore diffondersi fino alle clavicole e alla scapola; egli non ha mai osservato alcun caso, in cui il rossore si sia esteso più in là della parte superiore del petto. Lo stesso ha pure osservato, che il rossore talvolta non va a cessare dall'alto del corpo verso il basso successivamente, e gradatamente, ma con macchie rosso-pallide irregolari. Il dott. Langstaff ha pure osservato per mio conto parecchie donne, e vide il loro corpo non diventare rosso menomamente, mentre il viso era rosso-purpureo, per rossore. Negli alienati, alcuni dei quali sembrano avere una gran tendenza ad arrossire, il dott. Crichton Browne ha osservato più volte il rossore estendersi fino alle clavicole e in due casi persino fino al petto. Lo stesso mi narra il caso d'una donna maritata di ventisette anni sofferente d'epilessia. Il mattino susseguente al giorno del suo arrivo nell'Istituto il dott. Browne la esaminò in compagnia dei suoi assistenti, mentre essa giaceva a letto. Nel momento in cui egli le si avvicinava, un intenso rossore si diffuse sulle di lei guance e sulle tempia e ben presto si estese fino alle orecchie. Essa era molto eccitata e tremava leggermente. Il dott. Browne sciolse il bavero della di lei camicia, per esaminare lo stato dei polmoni, e qui vide diffondersi un intenso rossore sul di lei petto, estendersi in una linea circolare sul terzo superiore delle mammelle e fra di esse giungere fino al processo ensiforme dello sterno. Questo fatto è interessante per ciò, che il rossore non si estese tanto in basso se non quando divenne molto intenso, per essersi fissata la di lei attenzione a questa parte del corpo. Nell'ulteriore processo dell'esame, essa divenne tranquilla e il rossore sparì; ma in ulteriori osservazioni il fenomeno si rinnovò nello stesso modo.

I casi fin qui ricordati dimostrano, che nelle donne inglesi di solito il rossore non si estende più in là del con lo e della parte superiore del petto. Tuttavia sir James Paget mi fa sapere, aver egli avuto recentemente da fonte attendibile, notizia d'un caso d'una giovane fanciulla, la quale ritenendosi offesa per un atto che era secondo le sue idee poco riguardoso, arrossì su tutto l'addome, e le parti superiori delle gambe. Anche Moreau (265) racconta, sull'autorità d'un rinomato pittore, che il petto, le spalle, le braccia e l'intero corpo d'una ragazza che si aveva persuasa non senza opposizione a servire di modello, divennero rossi, quando per la prima volta fu spogliata del vestito.

È una questione abbastanza meravigliosa, perché nella maggior parte dei casi solo il volto, le orecchie ed il con lo diventino rossi, mentre tuttavia si diffonda sovente per tutta la superficie del corpo un calore e un prurito particolare. Questo fatto sembra dipendere principalmente da ciò che la faccia e le parti ad essa adiacenti, sono esposte generalmente all'azione dell'aria, della luce e dei cambiamenti di temperatura, e in causa di ciò le piccole arterie hanno presa l'abitudine di dilatarsi e di contrarsi facilmente non solo, ma sembrano anche essersi sviluppate in modo straordinario di fronte a quelle di altre parti della superficie del corpo (266). Come Moreau e il dott. Burgess hanno osservato, è probabilmente questa la causa per cui la faccia anche per altre ragioni diventa facilmente rossa (come per un assalto di febbre, per uno straordinario calore, per fatica violenta, per collera, per un leggero urto, ecc.), e d'altro lato diventa facilmente pallida per freddo o per paura, e di color sbiadito durante la gravidanza. La faccia è soggetta anche ad essere attaccata in modo particolare nelle malattie della pelle, come nel vaiolo, risipola, ecc. Questa idea è anche appoggiata dal fatto, che uomini di certe razze, le quali vanno quasi sempre ignude, arrossiscono spesso sulle braccia, sul petto e sul resto inferiore del loro corpo. Una signora, soggetta ad arrossire facilmente e intensamente, come mi fa sapere il dott. Browne, allorché si vergogna od è agitata, le si copre di rossore la faccia, il con lo, le articolazioni delle mani e le mani stesse, in una parola tutte le parti del corpo scoperte. Si può dubitare tuttavia, se l'abituale esposizione della pelle della faccia e del con lo e la proprietà da essa determinata di reagire per ogni eccitamento, sia sufficiente a spiegare la tendenza delle inglesi ad arrossire in queste parti più che in altre. Poiché le mani sono sufficientemente provviste di nervi e di piccoli vasi e sono esposte all'aria nello stesso modo che la faccia od il con lo, e tuttavia si coprono raramente di rossore. Noi vedremo ben presto come si possa trovare una spiegazione probabilmente bastante, nel fatto che l'attenzione dello spirito è più frequentemente e più intensamente rivolta alla faccia che ad altre parti del corpo.

Il rossore nelle diverse razze umane. - I piccoli vasi della faccia si riempiono di sangue in quasi tutte le razze umane in conseguenza della vergogna, quantunque nelle razze molto oscure non si possa osservare nessun evidente cambiamento di colore. Il rossore è spiccato in tutte le nazioni varie dell'Europa e in un certo grado anche in quelle delle Indie orientali. Ma il signor Erskine non ha mai osservato coprirsi di rossore il collo degli Indù. Nei Lepchas dello Sikkim il sig. Scott ha osservato spesso un leggero rossore sulle guance, ed alla base delle orecchie e ai lati del con lo, accompagnato dallo sguardo abbassato e dal capo piegato all'ingiù. Ciò è successo ogniqualvolta egli scopriva in essi qualche falsità o si erano resi colpevoli d'ingratitudine. Il colore smorto d'un pallore particolare della faccia di questa gente fa risaltare in essi il rossore molto più, che nella maggior parte degli indigeni dell'India. Secondo le notizie del sig. Scott, la vergogna in questi ultimi, potrebbe essere in parte anche paura, si manifesta più chiaramente al volgere e all'abbassarsi del capo e allo sguardo che gira incerto di qua e di là od è rivolto da un lato, come pure per un qualche cambiamento di colore della pelle.

Le razze semitiche arrossiscono facilmente ed intensamente, come è da aspettarsi per la somiglianza generale cogli Ariani. Dei Giudei sta scritto in Geremia (cap. VI, vs. 15): «Essi vogliono essere senza macchia e non vogliono vergognarsi (arrossire)». La signora Asa Gray vide un Arabo, il quale maneggiava poco abilmente sul Nilo il suo battello; e, poiché i suoi compagni lo deridevano «arrossì perfettamente fino alla nuca». Lady Duff Gordon osserva, che un giovane Arabo arrossiva quando le veniva vicino (267).

Il signor Swinhoe vide i Cinesi arrossire, ma crede, che ciò avvenga di rado. Tuttavia hanno l'espressione «divenir rossi per vergogna». Il signor Geach mi fa sapere, che i Cinesi emigrati in Malacca e gli indigeni malesi dell'interno, arrossiscono. Alcune di queste genti vanno pressoché nude e il signor Geach poté quindi osservare benissimo l'estensione del rossore nelle parti basse del corpo. Lasciando da parte i casi, in cui fu visto coprirsi di rossore la sola faccia, il signor Geach osservò diventar rossi per vergogna la faccia, le braccia e il petto di un Cinese di ventiquattro anni, e un altro Cinese lo vide coprirsi di rossore per tutto il corpo, essendo interrogato, perché non avesse fatto meglio il proprio lavoro. Il signor Geach vide due Malesi coprirsi di rossore sulla faccia, sul con lo, sul petto e sulle braccia, e in un terzo Malese fu visto il rossore estendersi fino all'ombelico (268).

I Polinesiani arrossiscono assai. Il signor Stack ha osservato centinaia di casi fra gli abitanti della Nuova Zelanda. Il seguente caso è degno d'essere ricordato, poiché si riferisce ad un uomo attempato di colore straordinariamente oscuro e parzialmente tatuato. Esso, dopo aver affittato la sua campagna ad un Inglese per una piccola rendita annuale, fu preso da una forte passione di comperarsi una carrozza che era recentemente venuta in moda presso i Maori. A tal fine desiderava d'avere tutto l'affitto anticipato per quattro anni dal suo affittuario e consultò il signor Stack, se ciò si potesse fare. Quell'uomo era vecchio, cadente, povero e cencioso, e l'idea che egli possa girare attorno facendosi ammirare nella propria carrozza, destò nel signor Stack tanta ilarità, che non poté far a meno di scoppiare in una risata, la qual cosa «fece arrossire il pover'uomo fino alla radice dei capelli». Forster (269) dice, che sulle guance delle più belle donne di Tahiti «si può osservare facilmente un rossore che va diffondendosi». Anche gli indigeni di parecchi altri arcipelaghi dell'Oceano Pacifico furono visti arrossire.

Il signor Washington Matthews ha osservato spesso il rossore sulla faccia delle giovani fanciulle, appartenenti a diverse razze selvagge d'Indiani dell'America settentrionale. All'estremità opposta del continente, nella Terra del Fuoco, arrossiscono gl'indigeni, secondo le notizie del signor Bridges, «assai, ma specialmente le donne; ma esse arrossiscono di certo anche per causa del loro esteriore». Quest'ultima notizia s'accorda con quello che io mi ricordo di Jemmy Button della Terra del Fuoco, il quale arrossiva, quando veniva beffeggiato per la cura che metteva nel lustrare le sue scarpe, e nell'adornarsi in qualunque altro modo. Rispetto agli Indiani di Aymara, abitanti sull'elevato altipiano della Bolivia, il Forbes (270) dice, essere impossibile vedere chiaramente il loro rossore, come nelle razze bianche. «Si può però osservare, in quelle circostanze che in noi produrrebbero rossore, sempre la stessa espressione di modestia e d'imbarazzo, e anche all'oscuro si può constatare l'elevazione della temperatura della pelle della faccia, come succede agli Europei». Negli Indiani che abitano le parti uniformemente calde ed umide dell'America meridionale, sembra che la pelle non risponda all'eccitamento morale così bene come negli indigeni delle regioni nordiche e meridionali del continente, che sono state soggette a grandi cambiamenti di temperatura; poiché Humboldt cita, senza protestare, l'osservazione beffarda degli Spagnuoli: «Come si può fidarsi di coloro che non possono arrossire?» (271). Spix e Martius, parlando degli aborigeni del Brasile, affermano, non potersi propriamente dire, che essi arrossiscano; «soltanto dopo lungo commercio coi bianchi, e dopo che hanno ricevuto una certa educazione, abbiamo potuto osservare negli Indiani un certo cambiamento di colore, molto espressivo per le emozioni del loro spirito» (272). Egli è peraltro incredibile, che la facoltà di arrossire possa esser nata in questo modo: l'abitudine a rivolgere l'attenzione su se stessi, conseguenza della loro educazione e del nuovo loro modo di vita, potrebbe aver sensibilmente aumentata la tendenza innata ad arrossire.

Parecchi osservatori degni di fede mi hanno assicurato, d'aver osservato sul volto dei Negri un fenomeno simile al rossore, ad onta della colorazione nera della loro pelle, e precisamente verificandosi circostanze che ecciterebbero in noi il rossore. Alcuni lo descrivono come un bruno rossore; ma la maggior parte dicono che in questi casi il color nero della pelle diventa più intenso. Un afflusso maggiore di sangue nella pelle sembra accrescerne in un certo modo la nerezza del colore; così certe malattie esantematiche fanno apparire più neri nei Negri i punti infetti della pelle, invece di farli divenire più rossi, come avverrebbe a noi (273). Forse potrebbe anche la pelle, resa più tesa per il riempimento dei capillari, riflettere un colore un po' diverso da quello che rifletteva prima. Che i capillari della faccia dei Negri si iniettino di sangue per vergogna, possiamo ammetterlo con sicurezza, poiché una Negra perfettamente albina, descritta da Buffon (274), presentava una leggera tinta purpurea sulle sue guance, quando era costretta a farsi vedere ignuda. Cicatrici della pelle si presentano per lungo tempo bianche nei Negri, e il dott. Burgess, il quale ebbe occasione di osservare una tale cicatrice sul volto d'una Negra, ha potuto distintamente vedere come la cicatrice «diventasse invariabilmente rossa, ogniqualvolta le veniva rivolta la parola d'improvviso o era incolpata di qualche insignificante mancanza» (275). Si poteva osservare il rossore che cominciava dalla periferia della cicatrice estendersi fino quasi al centro di essa, senza raggiungerlo però mai. I mulatti arrossiscono spesso e fortemente, e nel far ciò si sentono scorrere sulla faccia una corrente dopo l'altra di rossore. Questi fatti dimostrano indubbiamente che i Negri arrossiscono, sebbene il rossore non si renda visibile sulla pelle.

I signori Gaika e Barber mi hanno entrambi assicurato che i Cafri dell'Africa meridionale non arrossiscono mai. Ciò potrebbe solo significare, che non si può distinguere in essi alcun cambiamento di colore. Gaika aggiunge, che i suoi connazionali posti in circostanze che farebbero arrossire un Europeo, «si vergognano di tener alto il capo».

Quattro dei miei corrispondenti mi hanno notificato, che gli Australiani, i quali sono d'un colore quasi così nero che quello dei Negri, non arrossiscono mai. Un quinto di essi risponde alla mia domanda con un dubbio ed osserva che per la luridezza della loro pelle non si potrebbe rendere visibile in essi, se non un rossore assai intenso. Tre osservatori affermano, che gli Australiani realmente arrossiscono (276); il signor S. Wilson aggiunge, che il rossore si rende visibile solo in causa d'una forte emozione, e solo nel caso che la pelle non sia troppo oscura in conseguenza d'una esposizione troppo continua, o per mancanza di nettezza. Il signor Lang risponde così: «Io ho osservato che la vergogna è causa quasi sempre di rossore, il quale spesso si estende fino a tutto il con lo». Egli aggiunge inoltre, che la vergogna si manifesta ancora «col volgere dello sguardo ora da una parte ora dall'altra». Essendo il signor Lang maestro in una scuola d'indigeni, egli hai fatto probabilmente le sue osservazioni in special modo su ragazzi, e noi sappiamo che essi arrossiscono più degli adulti. Il signor G. Taplin ha visto arrossire dei meticci mezzo sangue, e dice, che gli indigeni hanno una parola che significa vergogna. Il signor Hagenauer, uno di quelli che non hanno mai visto gli Australiani arrossire, dice, che «li ha veduti abbassare a terra lo sguardo per vergogna»; e il missionario signor Bulmer osserva: «Quantunque io non abbia potuto scoprire niente di simile al rossore negli indigeni adulti, tuttavia ho osservato, che gli occhi dei fanciulli vergognosi, presentano un aspetto simile a quello d'una superficie di acqua agitata, e pare non sappiano dove rivolgere lo sguardo».

I fatti fin qui esposti bastano a dimostrare, che il rossore, abbia luogo o no un cambiamento di colore, è una facoltà comune alla maggior parte e forse a tutte le razze umane.

Movimenti e gesti, che accompagnano il rossore. - Un intenso sentimento di vergogna fa nascere in noi un forte desiderio di nasconderci (277). Noi rivolgiamo da un lato l'intero corpo e specialmente la faccia, cui cerchiamo in un qualche modo di nascondere. Una persona vergognosa può difficilmente sopportare l'incontro dello sguardo delle persone presenti, per cui quasi invariabilmente abbassa lo sguardo o si volge da un lato guardando in alto. Poiché comunemente esiste nello stesso tempo un forte desiderio di evitare la espressione della vergogna, così si fa un vano tentativo di guardare direttamente in faccia la persona che fa nascere questo sentimento; e il contrasto fra queste due opposte tendenze dà origine a vari movimenti d'inquietudine dell'occhio. Io ho osservato due signore, le quali nell'arrossire, cosa che avveniva assai sovente, si erano abituate ad un movimento che sembra oltremodo singolare, vale a dire a muovere continuamente le palpebre con grande velocità. Un rossore intenso è talvolta accompagnato da un leggero spargimento di lacrime (278), ed io suppongo dipendere questo fatto dà ciò, che le ghiandole lacrimali partecipano all'aumentato afflusso del sangue, che, come sappiamo, si precipita nei capillari delle parti vicine, compresa la retina.

Molti scrittori, tanto antichi che recenti, hanno osservato i movimenti sopraccennati ed è già dimostrato che gli aborigeni di parecchie regioni della terra esprimono la loro vergogna coll'abbassare o col volger da un lato lo sguardo, oppure con movimenti agitati dei loro occhi. Esdra esclama (cap. IX, vers. 6): «Mio Dio, io mi vergogno e tremo ad innalzare lo sguardo a te, mio Dio!» In Isaia (cap. L, vers. 6) troviamo le parole: «Non nascosi il mio volto per vergogna». Seneca osserva (Epistolæ, XI, 5) «che gli attori romani volendo esprimere vergogna piegano il capo, abbassano gli occhi al suolo, ma non sono capaci di arrossire». Secondo Macrobio, che visse nel quinto secolo (Saturnalia, l. VII, c. 11), «affermano i filosofi naturali, che la natura agitata per la vergogna distende il sangue avanti di sé come un velo, poiché chi arrossisce lo vediamo spesso portare le mani davanti al volto». Shakespeare fa dire da Marco alla nipote (Titus Andronicus, atto II, sc. 5a): «Ah, tu rivolgi ora il capo per vergogna?» Una signora mi fa sapere che essa ha trovato nell'ospitale di Lock una fanciulla, da lei già prima conosciuta, e che era diventata una perduta. Quando essa si avvicinò a quella povera creatura, questa nascose il suo viso sotto le coltri e non si poté convincerla a lasciarsi vedere. Noi vediamo spesso dei giovanetti i quali, essendo timidi e vergognosi, si voltano in là e nascondono la loro faccia fra le vesti della madre o si gettano nel di lei seno con la faccia rivolta all'ingiù.

Confusione della mente. - La maggior parte delle persone si confondono, quando arrossiscono intensamente. Ciò è riconosciuto da espressioni molto comuni del linguaggio, come: «essa cadde in grande imbarazzo». Le persone che si trovano in tale condizione d'animo perdono la loro presenza di spirito e fanno delle osservazioni a sproposito. Sovente sono assai distratte, balbettano ed eseguiscono dei movimenti stravolti o dei gesti strani. In certi casi si possono osservare contrazioni involontarie d'alcuni muscoli della faccia. Mi ha detto una giovane signora, che va soggetta ad intenso rossore, che essa in tali casi non sa neppure quello che si dica. Essendole stata espressa l'opinione, che ciò sia una conseguenza del di lei dispiacere proveniente dalla coscienza che altri osservano il di lei rossore, rispose, non poter questo essere il caso, «poiché si è sentita talvolta tanto sciocca da arrossire, mentre era sola nella sua stanza, per un suo pensiero».

Io voglio portare un esempio d'un turbamento straordinario dello spirito, a cui vanno soggetti certi uomini molto sensibili. Un signore, di cui posso fidarmi, mi assicura essere egli stato testimonio oculare della seguente scena: - Fu dato un piccolo pranzo in onore d'un uomo oltremodo timido. Quando egli si alzò per ringraziare, recitò un discorso che evidentemente aveva imparato a memoria, restando in assoluto silenzio e senza poter pronunciare una sola parola, mentre frattanto egli gesticolava, come se parlasse, con grande enfasi. Accorgendosi gli amici di lui come stesse la cosa, applaudivano alla immaginaria eloquenza dell'animo, ogniqualvolta i suoi gesti indicavano una pausa e il pover'uomo non si accorse nemmeno che aveva taciuto per tutto quel tempo. Al contrario, disse più tardi al mio amico con molta soddisfazione, che credeva d'aversela cavata con onore.

Quando uno è preso da forte vergogna od è molto timido ed arrossisce istintivamente, il cuore gli batte violentemente e la respirazione gli si turba. Questo fatto non si può altrimenti spiegare che ammettendo un'alterazione della circolazione del sangue nel cervello e fors'anche un'alterazione delle facoltà intellettuali. Ma è dubbioso, giudicando dall'influenza ancora maggiore della collera e della paura sulla circolazione, se con ciò noi possiamo spiegare la confusione che nasce nelle persone, mentre arrossiscono intensamente.

La spiegazione retta sta, a quanto sembra, nell'intima relazione esistente fra la circolazione dei capillari della superficie del capo e della faccia con quella del cervello. Io mi rivolsi per la spiegazione al dott. Crichton Browne, ed egli mi ha comunicato vari fatti riguardanti questo punto. Se si taglia il nervo gran simpatico in un lato del capo, i capillari si rilassano da quella parte e si riempiono di sangue, d'onde ne nasce un arrossamento, un riscaldamento della pelle e un contemporaneo aumento di temperatura nell'interno di quella parte del cranio. La meningite ha per conseguenza una grande iniezione di sangue nei vasi della faccia, delle orecchie e degli occhi. Il primo stadio di un assalto epilettico sembra essere una contrazione dei vasi del cervello e la prima esterna manifestazione di esso è uno straordinario pallore della faccia. La risipola del capo cagiona ordinariamente delirio. Anche il sollievo che si ottiene nei grandi dolori di capo col mezzo d'un forte strofinamento che aumenta il calore della pelle, suppongo abbia a dipendere dallo stesso principio.

Il dottor Browne ha impiegato spesso coi suoi pazienti i vapori di nitrato d'etere amilico (279), il quale ha la proprietà speciale di provocare una intensa colorazione rossa della faccia nello spazio di trenta a sessanta secondi. Questa colorazione rossa è simile in quasi tutti i dettagli col rossore prodotto dalla vergogna: essa comincia in parecchi punti diversi della faccia e si distende sopra tutta la superficie del capo, del con lo e della porzione anteriore del petto. In un solo caso fu vista estendersi fino all'addome. Le arterie della retina si allargano, gli occhi splendono e in un caso avvenne un leggero spargimento di lacrime. I pazienti hanno dapprima delle sensazioni soavi, ma coll'aumentare dell'intensità della colorazione nasce in essi confusione e turbamento. Una donna, che fu sottoposta spesso al trattamento con questi vapori, afferma, che appena era riscaldata, le sembrava d'essere avvolta come in una nebbia. Nelle persone che cominciano ad arrossire, sembra, se si giudica dai loro occhi splendenti e dal loro contegno irrequieto, che le loro facoltà intellettuali siano alquanto eccitate. Solo quando il rossore è eccessivo, lo spirito si confonde. Da ciò sembrerebbe potersi concludere, che i capillari della faccia, tanto nella inspirazione dei vapori di etere amilico, come nel rossore, vengano impressionati prima della porzione del cervello che presiede alle facoltà intellettuali.

Se all'opposto ha luogo dapprima una impressione nel cervello, la circolazione della pelle se ne risente per azione secondaria. Il dott. Browne ha osservato, come mi disse, sovente macchie rosse ed altre segnature sparse sul petto degli ammalati d'epilessia. Se in questi casi la pelle del petto o dell'addome viene leggermente strofinata con un pennello o in casi molto evidenti anche solo toccata con un dito, i punti toccati si coprono in meno di mezzo minuto di macchie rosso-pallide, le quali si estendono per un piccolo tratto ai lati del punto toccato e persistono per parecchi minuti. Sono queste le «macchie cerebrali» di Trousseau. Esse significano, come osserva il dott. Browne, uno stato in alto grado modificato del sistema vascolare cutaneo. Se dunque, come non può essere messo in dubbio, esiste un'intima simpatia fra la circolazione capillare delle parti del cervello da cui dipendono le nostre facoltà intellettuali e quella della pelle della faccia, non dobbiamo meravigliarci, se cause morali che provocano un intenso rossore, cagionino contemporaneamente ed indipendentemente della loro propria influenza perturbatrice, una forte confusione dello spirito.

Cause del rossore. - Le cause del rossore sono timidezza, vergogna e modestia; l'elemento fondamentale ne è l'attenzione rivolta su se stessi. Molte ragioni si possono addurre in sostegno dell'idea, che originariamente questa attenzione rivolta sull'esteriore della nostra persona e relativamente al giudizio degli altri, sia stata la causa eccitante del rossore. Lo stesso effetto s'ebbe più tardi, in conseguenza della forza d'associazione, anche in causa dell'attenzione rivolta su se stessi relativamente al contegno morale. Non è il semplice atto di rivolgere l'attenzione sul nostro esteriore, che ha potere di provocare il rossore, sebbene il pensiero del giudizio che faranno gli altri di noi. La persona più sensibile, trovandosi in solitudine assoluta, è completamente indifferente riguardo al suo esterno. Noi siamo più sensibili al biasimo e alla disapprovazione che all'approvazione; in conseguenza di ciò le osservazioni sprezzanti o che ci rendono ridicoli, siano esse relative alla nostra persona o al nostro contegno, provocano molto più facilmente il rossore di quello che non faccia la lode. Una bella ragazza arrossisce, se un uomo la guarda fisso, sebbene sia perfettamente persuasa che egli non la sprezza. Molti fanciulli ed anche persone attempate arrossiscono se vengono lodate. Più tardi si tratterà la questione, qual sia la causa per cui la coscienza che altri presta attenzione alla nostra persona, determina istantaneamente un riempimento di sangue dei vasi capillari, specialmente della faccia.

Io esporrò ora le ragioni le quali mi inducono a credere, che l'attenzione rivolta al nostro esteriore e non al nostro contegno morale, sia stata l'elemento fondamentale dell'abitudine acquisita di arrossire. Sono motivi insignificanti, presi isolatamente, ma considerati nell'insieme mi sembrano d'un valore notevole. È notorio che niente fa arrossire tanto una persona timida, quanto la più insignificante osservazione riguardante il di lei esteriore. Non si può neanche osservare il vestito d'una donna molto inclinata ad arrossire, senza che perciò il suo viso si colori prontamente di porpora. Basta guardare fisso certe persone, come osserva Coleridge, per farle arrossire: «Chi può, spieghi questo fatto» (280).

I due albini osservati dal dott. Burgess (281) arrossivano invariabilmente in un grado assai intenso, al menomo tentativo che si faceva per esaminare le loro particolarità. «Le donne sono molto più sensibili rispetto al loro esterno di quello che lo siano gli uomini, e specialmente le donne attempate più degli uomini vecchi. Esse arrossiscono anche più facilmente. I giovani d'ambo i sessi sono sotto questo rapporto molto più sensibili degli adulti ed essi arrossiscono anche molto più facilmente dei vecchi. I ragazzi nella prima età non arrossiscono e non manifestano neppure gli altri segni di consapevolezza, che accompagnano generalmente il rossore ed è una delle loro attrattive principali quella che essi non pensano al giudizio che altri si fanno di loro. In questa prima età essi possono fissare uno sconosciuto con sguardo sicuro e con occhio tranquillo come se fosse un oggetto inanimato, in un modo che noi adulti non siamo in stato di imitare.

È chiaro ad ognuno, che i giovani dei due sessi sono in alto grado sensibili al reciproco giudizio sul loro esterno, ed essi arrossiscono senza confronto più in presenza d'individui di sesso diverso, che alla presenza di quelli dello stesso sesso (282). Un giovane non facile ad arrossire, arrossirà intensamente per una qualche insignificante e ridicola osservazione d'una ragazza riguardante il suo esteriore, mentre non farebbe il minimo conto del giudizio della stessa sopra un oggetto importante. Nessuna coppia felice di giovani amanti, i quali pregiano la stima e l'amore dell'altro più di qualunque altra cosa al mondo, si è mai probabilmente dichiarato il proprio amore senza un qualche rossore. Gli stessi barbari della Terra del Fuoco, a quanto dice il signor Bridges, arrossiscono «principalmente di fronte alle donne, ma certamente ancora sopra il loro esteriore».

Fra tutte le parti del corpo la faccia è quella che più viene osservata e considerata, come è naturale, essendo essa la sede principale dell'espressione e la sorgente della voce. Essa è anche la sede principale della bellezza e della bruttezza e su tutta la terra è la parte che più s'adorna e s'abbellisce (283). Per questa ragione la faccia sarà stata soggetta per una lunga serie di generazioni ad un'attenzione speciale e più profonda di quello che non lo sia stata qualunque altra parte del corpo; e concordemente alla legge sopra accennata, possiamo comprendere perché più di ogni altra sia soggetta ad arrossire. Quantunque la circostanza dell'esposizione alle alternative della temperatura, ecc. abbia, secondo ogni probabilità, aumentata considerevolmente le facoltà di dilatazione e di contrazione dei capillari della faccia e delle parti vicine, tuttavia ciò non basta a spiegare la tendenza maggiore ad arrossire di queste parti di fronte al resto del corpo; poiché non spiega il fatto che le mani arrossiscono solo assai di rado. Negli Europei, quando la faccia è coperta d'intenso rossore, si fa sentire un leggero prurito per tutta la superficie del corpo, e in quelle razze umane che vanno abitualmente quasi nude, il rossore si diffonde su una parte molto maggiore del corpo, che presso di noi. Questi fatti si spiegano fino ad un certo punto, poiché l'attenzione degli uomini primitivi come di quelle razze umane ora esistenti le quali vanno ancora ignude, non sarà stata tanto esclusivamente limitata alla faccia, come accade ora dei popoli che usano vestirsi.

Noi abbiano veduto, che in tutte le parti della terra le persone, che sentono vergogna per una qualche colpa morale, hanno la tendenza a volgere da una parte la loro faccia, ad abbassarla od a nasconderla, indipendentemente da qualunque pensiero relativo al loro esterno. Lo scopo di queste persone nel far ciò non può essere quello di nascondere il loro rossore, poiché esse voltano la loro faccia da una parte o la nascondono in tali circostanze, che escludono ogni desiderio di nascondere la propria vergogna, come quando confessano interamente la loro colpa e se ne pentono. Egli è peraltro probabile, che l'uomo primitivo ancor prima di raggiungere una grande sensibilità morale, sia stato in alto grado sensibile per riguardo al suo esterno, almeno di fronte all'altro sesso, e in conseguenza di ciò avrà provato dispiacere per ogni osservazione sprezzante riguardante la sua persona. Questa è una forma della vergogna; e poiché il viso è quella parte del corpo che più è soggetta ad essere osservata, si comprende, perché ognuno il quale provi vergogna in causa del suo esteriore, abbia ad avere il desiderio di nascondere questa parte del suo corpo. L'abitudine, una volta raggiunta, si sarà conservata anche nel caso d'una sensazione di vergogna per cause unicamente morali. Non si può facilmente comprendere in altro modo, perché in tali circostanze debba verificarsi ancora questo desiderio di nascondere la faccia, piuttosto che qualunque altra parte del corpo.

L'abitudine così generale che ha ognuno, il quale provi vergogna, a voltarsi da una parte o ad abbassare gli occhi o a muoverli irrequieto da un punto ad un altro, è probabilmente una conseguenza di ciò, che ogni sguardo diretto alle persone presenti gli procura continuamente la convinzione che è attentamente osservato. Ed egli tenta, col non guardare le persone presenti e specialmente coll'evitare d'incontrarsi nel loro sguardo, di sfuggire momentaneamente a questa penosa convinzione.

Timidezza. - Questo meraviglioso stato dell'animo, detto anche titubanza o falsa vergogna e chiamata dai Francesi mauvaise honte, sembra essere una delle cause più attive del rossore. La timidezza si fa conoscere principalmente per il rossore della faccia, il volgere o l'abbassare degli occhi e per particolari movimenti nervosi e non coordinati del corpo. Certe donne arrossiscono per questa causa forse centinaia o migliaia di volte su una sola, in cui arrossiscono in causa d'una loro azione vergognosa e di cui sentono realmente vergogna. La timidezza sembra dipendere dalla nostra sensibilità di fronte al giudizio altrui, sia esso buono o cattivo, riguardante specialmente il nostro esteriore. La consapevolezza di avere qualche cosa di particolare o solo di nuovo nel vestito, oppure qualche insignificante punto difettoso nella persona e specialmente nella faccia - punti che richiamano facilmente l'attenzione degli stranieri - rende il timido d'una titubanza insopportabile. D'altro lato, noi siamo molto più inclinati alla timidezza in presenza di persone conosciute, il cui giudizio noi stimiamo in un certo grado, piuttosto che alla presenza di estranei, in quei casi in cui si tratti del nostro contegno e non del nostro esteriore. Un medico mi raccontò il caso d'un giovane e ricco duca, in cui compagnia aveva viaggiato come medico, il quale arrossiva come una ragazza, ogni volta che gli pagava il suo onorario. Tuttavia, questo giovane non avrebbe probabilmente arrossito e non sarebbe divenuto vergognoso, pagando il conto ad un negoziante. Alcune persone sono tanto sensibili, che il solo atto del parlare quasi con qualunque persona è bastante, per destare la loro consapevolezza, e un leggero rossore ne è il risultato.

Il biasimo o il ridicolo desta, per la nostra sensibilità in questo punto, vergogna e rossore molto più facilmente della lode, quantunque anche quest'ultima sia molto attiva in certe persone. Il presuntuoso è di raro timido, poiché si stima troppo, per potersi aspettare disprezzo. perché un orgoglioso sia spesso timido, come sembra esserne il caso, non è egualmente chiaro, se non fosse perché con tutta la sua fiducia di sé, ci tiene però molto in realtà all'opinione degli altri, sebbene in un senso di disprezzo. Le persone straordinariamente timide lo sono assai di rado in presenza di coloro con cui hanno perfetta confidenza e della cui buona opinione e simpatia sono perfettamente sicure, per es. una ragazza alla presenza della di lei madre. Io ho dimenticato nei miei quesiti stampati d'indagare, se la timidezza si possa scoprire nelle diverse razze umane. Però un Indù educato assicurò il signor Erskine che essa è evidente nei suoi connazionali.

Come lo dimostra la derivazione della parola in parecchie lingue (284), la timidezza è molto affine alla paura. Però essa è diversa dalla paura nel senso ordinario di questa parola. Un uomo timido teme senza dubbio l'osservazione di estranei, ma non si può dire che abbia di essi paura. Può essere coraggioso, come un eroe, nella battaglia e tuttavia nelle piccole cose non ha alcuna confidenza in sé alla presenza d'estranei. Quasi ognuno è straordinariamente nervoso quando parla per la prima volta in pubblico e la maggior parte degli uomini restano tali per tutta la vita. Ciò sembra però dipendere dalla consapevolezza di una grande tensione dello spirito che hanno ancora a sostenere e dagli associati influssi sul corpo, piuttosto che da timidezza (285), quantunque un uomo pauroso o timido soffra senza dubbio in tali circostanze molto più d'un altro. Nei fanciulli di tenera età è molto difficile distinguere fra paura e timidezza. Quest'ultimo sentimento mi è parso però sovente assumere in essi almeno parzialmente il carattere di selvatichezza simile ad un animale non addomesticato. La timidezza si manifesta in età assai tenera. In un mio figlio dell'età di due anni e tre mesi, ebbi ad osservare una traccia di ciò che parve sicuramente timidezza, e precisamente di fronte a me stesso, che era stato assente da casa una sola settimana. Ciò si manifestò non solo per il rossore che gli salì al viso, ma anche per ciò che egli volse per alcuni minuti gli occhi da me. Io ho osservato in altre circostanze la timidezza e la vera vergogna manifestarsi negli occhi di piccoli ragazzi, che non avevano ancora conseguita la facoltà di arrossire.

Poiché la timidezza sembra dipendere dall'attenzione rivolta su se stessi, noi possiamo comprendere, quanto abbiano ragione coloro i quali asseriscono che lo sgridare i fanciulli per la loro timidezza, invece di giovare in qualche modo ad essi, apporta loro danno, poiché fa sì che essi rivolgano la propria attenzione su se stessi ancora più intensamente. Si è notato molto a proposito, che «niente più nuoce ai giovani quanto l'essere costantemente osservati nei loro sentimenti, e il sapere esaminato il loro volto e misurato il grado della loro sensibilità dal vigile ed inesorabile occhio dell'osservatore. Sotto l'incubo di tali esami essi non possono pensare ad altro se non che sono osservati, e non avere altro sentimento se non di vergogna e di inquietudine» (286).

Cause morali: Colpa. - Nel rossore dipendente da cause strettamente morali riscontriamo lo stesso principio fondamentale di prima, vale a dire il riguardo al giudizio altrui. Non è la coscienza che provoca il rossore; poiché un uomo può provare vero rincrescimento d'un fallo insignificante commesso nella solitudine, oppure può sentire i più acuti rimorsi di coscienza in causa d'un delitto non scoperto, e tuttavia non arrossirà. «Io arrossisco, dice il dott. Burgess (287), in presenza del mio accusatore». Non è la coscienza della colpa, ma il pensiero che altri ci tengono per colpevoli o sanno che noi lo siamo, che ci fa salire il rossore alla faccia. Una persona può provare profonda vergogna d'aver detto una piccola bugia, senza arrossire; ma se egli anche solo suppone d'essere scoperto, arrossirà all'istante, specialmente se è scoperto da persona da lui stimata.

D'altro lato, una persona può essere persuasa che Dio sia testimonio di tutte le sue azioni, e può avere la coscienza profonda del suo fallo e domandarne perdono; ma ciò non provocherà mai rossore, come pensa una signora, che arrossisce spesso ed intensamente. La differenza fra l'effetto della coscienza che Dio conosce le nostre azioni e quella che le conoscono gli uomini sta, come io credo, in ciò, che la disapprovazione degli uomini per un'azione immorale è per sua natura alquanto affine al disprezzo del nostro esteriore, così che ambedue per associazione conducono agli stessi risultati, mentre la disapprovazione di Dio non richiama una simile associazione.

Più d'una persona arrossì intensamente essendo stata accusata d'un delitto, di cui era perfettamente innocente. Fino il pensiero (come ha osservato contro di me la su nominata signora), che altri possano ritenere, che noi abbiamo fatto una osservazione poco cortese o sciocca, è sufficiente per produrre il rossore, quantunque noi siamo persuasi d'essere stati assolutamente fraintesi. Un'azione, sia essa meritevole o di natura indifferente, può essere causa di rossore in una persona sensibile, se essa suppone soltanto che altri la pensino diversamente. Per esempio, una signora quando è sola può donare del denaro ad un mendico, senza traccia di rossore; ma se altri sono presenti ed essa dubita della loro approvazione, ovvero s'immagina che essi possano credere ch'ella sia determinata a ciò fare dal desiderio di farsi vedere, essa arrossirà. Sarebbe lo stesso caso, quando essa si offrisse di alleviare la miseria d'una donna decaduta di buona famiglia, specialmente d'una conosciuta in migliori circostanze, poiché non è sicura del come verrebbe interpretata la sua azione. Ma tali casi s'avvicinano alla timidezza.

Violazione delle leggi di convenzione. - Le leggi di convenzione sono sempre relative al nostro contegno nei rapporti con altre persone. Esse non hanno alcun nesso col senso morale e sono spesso insignificanti. Ma poiché esse dipendono dall'uso stabilito dai nostri eguali e superiori, la di cui stima noi teniamo in alto pregio, così si considerano quasi altrettanto obbligatorie, quanto lo sono le leggi dell'onore per un uomo civile. In conseguenza di ciò una lesione delle leggi di convenzione, vale a dire un atto scortese, un'azione impropria o un'osservazione sconveniente, anche se accidentale, provoca il rossore più intenso, di cui un uomo sia capace. Perfino la ricordanza d'un tale atto dopo molti anni determina un calore e un prurito su tutto il corpo. E la forza della simpatia è così forte, che una persona sensibile, come mi assicura una signora, talvolta arrossisce per una evidente lesione delle leggi di convenienza commessa da una persona perfettamente estranea, sebbene l'azione non la riguardi in alcun modo.

Modestia. - La modestia è un'altra causa potente del rossore. Però la parola modestia racchiude in sé condizioni dell'animo assai diverse. Essa comprende l'umiltà, che noi deduciamo spesso da ciò, che una persona prova grande piacere ed arrossisce per una lode insignificante, oppure da ciò che una lode esercita su di essa una impressione penosa, poiché le sembra troppo superiore al merito dietro l'umile stregua del proprio giudizio. Il rossore ha in questo caso il significato solito della stima dell'opinione altrui. La modestia è pure spesso relativa ad atti d'indelicatezza, e la delicatezza è una legge di convenzione, come lo vediamo evidentemente nei popoli che vanno completamente o quasi nudi. Chi è costumato ed arrossisce facilmente per azioni di tal natura, lo fa, perché esse sono lesioni d'una stabile e savia legge di convenienza. Ciò è provato in fatto dalla derivazione della parola modestus da modus, regola del nostro contegno. Un rossore in conseguenza di questa forma di modestia diventa spesso assai intenso, poiché si riferisce ordinariamente all'altro sesso, e abbiamo visto, come in tutti i casi questa circostanza aumenti la nostra inclinazione al rossore. Noi chiamiamo modeste quelle persone che hanno una bassa opinione di sé, oppure sono estremamente impressionabili per una parola o un atto indelicato o scostumato, e ciò, a quanto sembra, per la semplice ragione che in ambo i casi esse si coprono facilmente di rossore; poiché del resto questi due stati dell'animo non hanno nulla di comune fra loro. Per la stessa ragione si scambia spesso erroneamente la timidezza con la modestia nel senso di umiltà.

Alcune persone arrossiscono spesso subitaneamente, per un'ingrata ricordanza che si desta all'improvviso nella loro mente, come ho osservato io stesso e come mi fu assicurato anche da altri. La causa più frequente sembra essere il ricordarsi all'improvviso di non aver fatta una cosa che si aveva promesso di fare per un'altra persona. In questo caso sarebbe forse il pensiero «che cosa penserà essa di me», che passa quasi inconsciamente per la mente? Se così fosse, il rossore che ne nasce sarebbe della stessa natura di quello cagionato dalla vergogna. È però molto dubbio, se simili fenomeni di rossore siano nella maggior parte dei casi effetto d'una modificazione della circolazione capillare; poiché dobbiamo ricordare, che quasi ogni forte sentimento, per es. collera o gioia intensa, esercita un'influenza sul cuore e produce rossore della faccia.

Il fatto, che si può arrossire in solitudine assoluta, sembra essere contrario all'opinione da noi espressa che l'abitudine dell'arrossire ripeta la sua primitiva origine dal pensiero del giudizio che gli altri si fanno di noi. Parecchie signore, che vanno soggette ad arrossire di frequente ed intensamente, sono d'opinione unanime rispetto alla solitudine, ed alcune di esse credono di aver arrossito all'oscuro. In seguito a quello che ha narrato il sig. Forbes riguardo agli Aymara, e per le mie stesse sensazioni, non ho alcun dubbio che quest'ultima affermazione non sia giusta. Shakespeare s'inganna dunque, quando fa dire da Giulia, che non è neanche sola, a Romeo (atto II, sc. 2a): «Tu lo sai, la notte vela il mio volto, se ciò non fosse il rossore di vergine colorirebbe le mie guance per ciò che ti dissi or ora». Ma il rossore prodotto nella solitudine ripete la sua causa quasi sempre dal pensiero d'altri a nostro riguardo per atti che abbiamo eseguiti alla loro presenza o da loro immaginati; oppure arrossiamo, quando riflettiamo a ciò che altri avrebbe pensato di noi, se avesse avuto notizia d'una qualche nostra azione. Ciò nondimeno uno o due dei miei corrispondenti credono d'avere arrossito per azioni che in nessun modo possono riguardare gli altri. Se così è, noi dobbiamo attribuire un tale risultato alla potenza di un'abitudine radicata e all'associazione di uno stato d'animo analogo a quello che comunemente provoca rossore. né per questo dobbiamo meravigliarci, se pensiamo che la sola simpatia per un'altra persona che ha commesso un'evidente lesione delle leggi di convenienza è sufficiente, come abbiamo veduto poco fa, a provocare talvolta, come molti ritengono, il rossore.

lo vengo finalmente alla conclusione che il rossore, dipenda esso da timidezza o da vergogna per una vera colpa, oppure da vergogna per una mancanza alle leggi della convenienza, ovvero da modestia dipendente da umiltà o da morigeratezza offesa per un atto indelicato o scostumato, è in tutti i casi determinato dallo stesso principio, e questo principio è una viva suscettibilità per l'opinione e specialmente per la disapprovazione o disprezzo d'altri, riguardante, almeno in origine, il nostro esteriore, ed in specie la nostra faccia, e in seconda linea per forza dell'associazione e dell'abitudine per riguardo all'opinione altrui sul nostro contegno.

Teoria del rossore. - Noi passiamo ora ad esaminare, perché l'idea che gli altri pensano qualche cosa di noi, debba modificare la circolazione dei nostri capillari. Il sig. C. Bell osserva (288) che il rossore «è un mezzo particolare per l'espressione dei nostri interni sentimenti, come si può dedurre dal fatto che la colorazione si estende solo alla superficie della faccia, del con lo e del petto, in una parola, alle parti più esposte. Non è una facoltà acquisita ma originaria». Il dottor Burgess crede che il rossore sia stato dato dal Creatore «perché l'anima possa avere la sovrana potenza di rappresentare sulle guance le varie interne emozioni di senso morale», e affinché ciò serva a noi d'ostacolo e agli altri d'avviso, se noi portiamo lesione a quelle leggi, che dovrebbero essere scrupolosamente osservate. Gratiolet osserva: «Or, comme il est dans l'ordre de la nature que l'être social le plus intelligent soit aussi le plus intelligible, cette faculté de rougeur et de pâleur qui distingue l'homme, est un signe naturel de sa haute perfection».

All'opinione, che il rossore sia stato dato dal Creatore ad uno scopo speciale, si oppone la teoria generale dell'evoluzione, al presente tanto generalmente accettata. Ma non sta qui nel mio intendimento di trattenermi in argomentazioni sulla questione generale. Coloro che credono ad uno scopo, potranno assai difficilmente spiegarsi perché la timidezza sia la causa più frequente e più attiva del rossore, poiché fa soffrire la persona che arrossisce, come mette in imbarazzo lo spettatore, senza che ciò apporti la menoma utilità ad alcuno dei due. Essi troveranno ancora assai difficile la spiegazione del fatto che i Negri e le altre razze umane di colore oscuro arrossiscono, quantunque sia poco o nulla evidente il cambiamento di colore della loro pelle.

Senza dubbio il viso d'una fanciulla soffuso d'un leggero rossore appare più bello, e le donne circasse che hanno la facoltà di arrossire sono senza eccezione più pregiate nel serraglio del sultano, di quelle meno sensibili (289). Tuttavia anche colui che crede fermamente all'azione dell'elezione sessuale, difficilmente ammetterà che il rossore sia stato acquisito come un ornamento sessuale. Questa opinione sarebbe in opposizione a quanto fu detto poco fa del rossore delle razze umane con la pelle di colore oscuro, in cui un cambiamento di colore non è manifesto.

L'ipotesi che a me sembra più probabile, sebbene possa parere precipitata, si è che l'attenzione diretta fissamente su una parte qualunque del corpo tenda a turbare l'ordinaria e tonica contrazione delle piccole arterie di quella parte. In conseguenza di ciò, in tali circostanze quei vasi si rilassano più o meno e si riempiono istantaneamente di sangue arterioso. Questa tendenza sarà stata rafforzata in alto grado, se l'attenzione sia stata diretta spesso e per molte generazioni sulla stessa parte del corpo, e precisamente perché la forza nervosa scorre più facilmente per canali spesso usati e per il principio d'eredità. Ogniqualvolta noi crediamo che altri sprezzi il nostro esteriore o anche soltanto lo osservi, la nostra attenzione si dirigerà vivamente sulle parti esterne e visibili del nostro corpo, e di tutte queste parti la più sensibile è senza dubbio la faccia, come lo deve essere stata per molte delle trascorse generazioni. Se noi dunque ammettiamo per il momento che i capillari possano sentire l'influenza d'una viva attenzione, quelli della faccia sarebbero diventati nel più alto grado sensibili. Per la forza d'associazione tenderanno a prodursi gli stessi effetti tutte le volte che noi pensiamo essere le nostre azioni o il nostro carattere dagli altri osservato e giudicato.

Poiché il fondamento della nostra teoria sta in ciò che l'attenzione del nostro spirito possa avere una certa influenza sulla circolazione dei capillari, sarà necessario che noi esponiamo una gran copia di dettagli, che più o meno direttamente si riferiscono a questo punto. Parecchi osservatori (290), i quali per la loro lunga esperienza e per le varie cognizioni sono in grado eminente capaci di formarsi un giudizio giusto, sono persuasi che l'attenzione o la consapevolezza (come si esprime il sig. Henry Holland, che crede quest'ultima espressione più propria), quando venga concentrata l'attenzione su quasi ogni parte del corpo, eserciti una certa diretta influenza tanto sui muscoli involontari come sui volontari, se questi involontariamente entrano in azione; lo stesso vale per la secrezione delle ghiandole, per l'attività dei sensi e delle sensazioni, e perfino per la nutrizione delle parti.

È noto che i movimenti involontari del cuore sono modificati, se ad essi si rivolge attivamente l'attenzione. Gratiolet (291) racconta il caso d'un uomo, il quale, coll'osservare costantemente e col numerare i battiti del suo polso, fece sì che alla fine un battito su sei era sempre eliminato. D'altro canto, mi raccontò mio padre il caso d'un accurato osservatore affetto senza dubbio da una malattia di cuore, per cui anche morì, il quale affermava in modo positivo che il suo polso era di solito straordinariamente irregolare, e tuttavia con suo grande dispiacere diventava sempre e senza eccezione regolare, ogni volta che mio padre entrava nella sua stanza. Sir Henry Holland osserva (292) che «l'influenza subita dalla circolazione d'una determinata parte del corpo, in conseguenza dell'attenzione rivolta istantaneamente e concentrata su di essa, si manifesta spesso ed immediatamente». Il prof. Laycock, che ha rivolto in modo speciale la sua attenzione a fenomeni di questo genere (293), fa notare che, «se l'attenzione viene rivolta ad una determinata parte del corpo, la innervazione e la circolazione vengono localmente eccitate e sviluppata la funzionale attività di quella parte».

È universalmente ammesso che i movimenti peristaltici degli intestini possono essere influenzati dall'attenzione rivolta periodicamente su di essi, e questi movimenti sono determinati dalla contrazione dei muscoli lisci ed involontari. L'azione anormale dei muscoli volontari nell'epilessia, nel ballo di san Vito e nell'isterismo è, come si sa, influenzata dalla aspettazione di un accesso, come pure dalla vista d'altri pazienti analoghi (294). Lo stesso vale anche per gli atti involontari dello sbadiglio e del riso.

Certe ghiandole vengono intensamente influenzate dal pensiero che si rivolge ad esse, oppure dalle condizioni sotto le quali esse vengono abitualmente eccitate. Questo fenomeno è notissimo riguardo alla saliva, di cui s'aumenta la secrezione, quando per es. si presenta in modo vivace alla mente l'idea d'un frutto intensamente acido (295). Nel sesto capitolo di quest'Opera fu dimostrato che un desiderio serio e continuo di diminuire l'attività delle ghiandole lacrimali, oppure di aumentarla, non è senza effetto. Furono comunicati alcuni casi meravigliosi riguardanti donne, della influenza dello spirito sopra le ghiandole mammarie e, ciò che è ancor più meraviglioso, sulle funzioni uterine (296).

Se noi rivolgiamo tutta la nostra attenzione sopra un senso determinato, aumenta la sua acutezza (297), e l'abitudine continua dei ciechi di concentrare la loro attenzione sull'udito, o dei ciechi e sordi di concentrarla sul tatto, sembra sviluppare la finezza del senso in questione in modo permanente. Giudicando dalle facoltà delle diverse razze umane; sembra essere fondata l'opinione che queste influenze siano ereditarie. Se ci rivolgiamo alle sensazioni comuni, è un fatto noto che il dolore diventa più acuto, quando si rivolge ad esso l'attenzione; e il signor Benj. Brodie va ancora più oltre, ammettendo che si possa sentire dolore in ogni parte del corpo, purché si concentri su esso tutta l'attenzione (298). Sir Henry Holland osserva pure che noi non solo acquistiamo la coscienza dell'esistenza d'una data parte del corpo, sottoposta ad una concentrata attenzione, ma che percepiamo nella stessa anche diverse e meravigliose sensazioni; come di peso, di caldo, di freddo, di punture e di prurito (299).

Infine alcuni fisiologi affermano che lo spirito possa influenzare la nutrizione delle parti. Sir J. Paget ha comunicato un caso meraviglioso della potenza non dello spirito, ma del sistema nervoso, sui capelli. Una signora che soffre di mali di capo, del così detto nervoso, trova sempre nella mattina susseguente ad uno di tali accessi, che alcuni punti della sua capigliatura sono diventati bianchi, quasi fossero cospersi di polvere d'amido. Il cambiamento nasce in una notte, e pochi giorni dopo i capelli riprendono gradatamente il loro colore bruno-scuro (300).

Da quanto abbiamo esposto appare chiaramente che un'attenzione intensa modifica certe parti ed organi del corpo, che non sono propriamente soggetti al controllo della volontà. Con quali mezzi si produca l'attenzione - forse la più meravigliosa delle facoltà dello spirito - è un punto assai oscuro. A credere a Giovanni Müller (301), il processo per cui le cellule sensitive del cervello sono rese suscettibili per forza della volontà a ricevere e conservare le impressioni intensamente e distintamente, è molto analogo a quello per cui le cellule motrici sono eccitate ad inviare la corrente nervosa ai muscoli volontari. Si hanno molti punti analoghi nell'attività delle cellule sensitive e motrici del sistema nervoso, per es. il fatto, universalmente conosciuto, che la continuata attenzione concentrata in un dato senso produce stanchezza, come la tensione lungamente protratta di un qualche muscolo (302). Se quindi noi concentriamo volontariamente la nostra attenzione su una parte qualunque del nostro corpo, le cellule del cervello, che ricevono impressioni e sensazioni da questa parte, verranno probabilmente eccitate ad agire in modo non peraltro conosciuto. Ciò potrebbe spiegare come senza una manifesta alterazione nella parte su cui è rivolta intensamente la nostra attenzione, possano manifestarsi o rafforzarsi un dolore od altre particolari sensazioni.

Se poi questa parte del corpo è provveduta di muscoli, non possiamo essere sicuri, come me l'ha fatto osservare il signor Michael Foster, che non venga trasmesso inconsciamente un qualche piccolo impulso a quei muscoli, ciò che cagionerebbe probabilmente un'oscura sensazione nella parte.

In un grande numero di casi, come nelle ghiandole salivali e lacrimali, nell'intestino, ecc., la influenza dell'attenzione sembra consistere principalmente, oppure, come alcuni fisiologi credono, esclusivamente in ciò, che il sistema vaso-motore è in tal modo modificato da permettere l'afflusso d'una più grande quantità di sangue nei capillari della parte in questione. Questa aumentata attività dei capillari può essere combinata in certi casi coll'aumentata attività, che contemporaneamente si verifica, del sensorio.

Il modo con cui lo spirito influisce sul sistema vaso-motore può concepirsi nella maniera seguente. Se noi gustiamo un frutto acido, un'impressione sarà trasmessa dai nervi del gusto ad una parte determinata del sensorio. Questo trasmette forza nervosa al centro vaso-motore, il quale in conseguenza di ciò permetterà alle parti muscolose delle piccole arterie che si ramificano nelle ghiandole salivali, di rilassarsi. In causa di questo rilassamento, maggior copia di sangue affluirà in queste ghiandole, ed esse secerneranno una maggior quantità di saliva. Ora sembra non essere improbabile, che quando noi riflettiamo intensamente sopra una sensazione, quella stessa parte del sensorio o una parte con essa intimamente legata venga posta in uno stato di attività, nello stesso modo come se noi provassimo di fatto la sensazione. Se è così, le stesse cellule del cervello verranno eccitate, forse in un grado minore, quando noi pensiamo intensamente ad un sapore acido come se in realtà ne avessimo la sensazione, ed esse in un caso come nell'altro trasmetteranno forza nervosa alle parti centrali del sistema vaso-motore e cogli identici risultati.

Darò un altro esempio sotto un certo riguardo ancora più evidente: se un uomo sta presso un ardente fuoco, il suo viso si arrossa. Ciò sembra essere, come mi fa sapere il signor Michael Foster, in parte una conseguenza dell'azione locale del calore, e in parte di un fenomeno riflesso dipendente dai centri vaso-motori (303). In questo ultimo caso il calore agisce sui nervi della faccia; questi trasmettono un'impressione alle cellule sensitive del cervello, le quali agiscono sulla parte centrale del sistema vaso-motore, e questo reagisce sulle piccole arterie della faccia, ne produce il rilassamento, in causa del quale esse si riempiono di sangue. Anche qui sembra non improbabile che, se noi concentriamo vivamente e ripetutamente la nostra attenzione sulla ricordanza del calore della nostra faccia, la stessa parte del sensorio che ci procura la coscienza del vero calore, venga eccitata in un certo grado, e in conseguenza di ciò possa essere trasmessa una certa quantità di forza nervosa alle parti centrali del sistema vaso-motore, per cui i capillari della faccia si dilatano. Avendo gli uomini concentrata per una lunghissima serie di generazioni, spesso ed intensamente la loro attenzione sul loro esteriore e specialmente sulla faccia, la incipiente tendenza dei vasi capillari della faccia ad essere in tal modo modificati sarà stata col tempo rafforzata in un modo significante, in forza dei principii poco prima accennati: vale a dire la facilità con cui la forza nervosa percorre i canali messi spesso in azione, e l'abitudine ereditaria. Mi sembra essere questa una spiegazione plausibile dei fatti caratteristici concomitanti l'atto del rossore.

Ricapitolazione. - Uomini e donne, e specialmente i giovani, hanno sempre tenuto in alto pregio l'esteriore della propria persona ed hanno nello stesso modo osservato l'esteriore degli altri. La faccia è stata soggetta ad essere osservata. La nostra attenzione su noi stessi è determinata quasi esclusivamente dall'opinione degli altri; poiché nessun uomo vivente in solitudine assoluta vorrebbe prendersi cura del suo esterno. Ogni persona è molto più sensibile al biasimo che alla lode. Posto che noi sappiamo o immaginiamo che altri abbia in disprezzo il nostro aspettoe, la nostra attenzione si dirige assai intensamente su noi stessi e più specialmente sulla nostra faccia. Il probabile effetto di ciò sarà, come poc'anzi fu spiegato, che la parte del sensorio a cui mettono capo i nervi sensitivi della faccia, sia posta in azione; e quella parte reagirà col mezzo del sistema vaso-motore sui capillari della faccia. Per effetto della ripetizione durante innumerevoli generazioni, questo processo sarà entrato in associazione con la credenza, che altri si occupino di noi, in un modo tanto abituale, che basterà la semplice supposizione del loro disprezzo, perché i capillari si rilassino, senza che siamo consapevoli di alcun pensiero relativo alla nostra faccia. Per alcune persone assai suscettibili basta che altri diriga la propria attenzione sul loro vestito, perché si ottenga lo stesso effetto. Per la forza d'associazione e dell'eredità, i nostri capillari si dilatano ancora, quando veniamo a conoscenza o c'immaginiamo che qualcheduno anche in silenzio biasimi le nostre azioni, i nostri pensieri o il nostro carattere, oppure quando veniamo altamente lodati.

Col mezzo di questa ipotesi noi veniamo a comprendere perché la faccia si copra di rossore molto più che qualunque altra parte del corpo, sebbene l'intera superficie di esso venga in un certo grado modificata, in special modo in quelle razze che vanno ancora quasi nude. Non è niente affatto strano ed incomprensibile che le razze con la pelle di colore oscuro arrossiscano, quantunque sulla pelle di esse non si renda evidente alcun cambiamento di colore. Per la forza del principio d'eredità si comprende ancora perché le persone nate cieche arrossiscano. Noi possiamo spiegarci perché i giovani siano molto più soggetti al rossore che i vecchi, e le donne più degli uomini, e perché la presenza d'individui di sesso opposto provochi in modo speciale un rossore reciproco. Diventa chiaro perché gli appunti personali determinino con speciale facilità il rossore, e perché la più prepotente causa di esso sia la timidezza. La timidezza, infatti, ha riguardo alla presenza o all'opinione di altri, e i timidi sono sempre più o meno consapevoli di sé. Riguardo alla vera vergogna quale conseguenza di colpe morali, possiamo comprendere perché non sia la colpa, ma il pensiero che altri ci tengono per colpevoli, quello che ci fa arrossire. Un uomo che mediti sopra un fallo commesso nella solitudine, anche se molestato dai rimorsi della propria coscienza, non arrossisce. Tuttavia egli arrossirà per la viva ricordanza d'un fallo scoperto oppure commesso in presenza d'altri, e il grado di rossore sta in stretto rapporto col grado di stima ch'egli nutre per coloro che hanno scoperto il suo fallo o l'hanno supposto, o alla presenza dei quali fu commesso. Lesioni delle regole di convenienza nel contegno determinano spesso rossore più intenso che un delitto scoperto, se esse sono rigorosamente osservate da persone a noi eguali o superiori, e un atto veramente delittuoso determina appena un aumento del colore della faccia, se non vien biasimato da persone a noi eguali. La modestia dipendente da umiltà oppure l'eccitamento del senso morale in causa d'un atto indelicato o scostumato provoca un vivo rossore, poiché ambedue si riferiscono al giudizio o agli usi stabiliti da altri.

In conseguenza dell'intima correlazione esistente fra la circolazione capillare della superficie del capo e quella del cervello, un rossore assai intenso sarà anche accompagnato da una certa, spesso grave confusione dello spirito, la quale alla sua volta sarà accompagnata sovente da movimenti stravolti e talora da involontarie contrazioni di certi muscoli.

Essendo il rossore, secondo questa ipotesi, un risultato indiretto dell'attenzione rivolta originariamente al nostro esteriore, vale a dire alla superficie del nostro corpo e in modo speciale alla faccia, possiamo comprendere il significato dei gesti che accompagnano in ogni parte della terra il rossore. Questi consistono nel nascondere, nell'abbassare il capo verso il suolo, o nel volgerlo da una parte. Gli occhi vengono ordinariamente volti da un lato, oppure sono irrequieti; poiché la vista dell'uomo che fu cagione del nostro rossore o della nostra vergogna risveglia in un modo insopportabile nel nostro spirito la consapevolezza che il di lui sguardo è fissato su di noi. In forza del principio dell'associazione delle abitudini, si eseguiscono gli stessi movimenti del capo e degli occhi, e possono di fatto difficilmente evitarsi, ogniqualvolta noi sappiamo o crediamo che altri biasimi il nostro contegno morale o lo lodi troppo.


CAPITOLO XIV. CONSIDERAZIONI FINALI E RICAPITOLAZIONE

I tre principii fondamentali che hanno determinato i principali movimenti dell'espressione. - Loro ereditabilità. - Sulla parte che hanno avuto la volontà e l'intenzione nel conseguimento dei modi dell'espressione. - Della conoscenza istintiva dell'espressione. - Rapporti del soggetto con la questione dell'unità specifica delle razze umane. - Sul graduale conseguimento delle diverse forme dell'espressione nella serie dei progenitori dell'uomo. - Importanza dell'espressione. - Conclusione.

Ho fatto del mio meglio per descrivere, nelle pagine precedenti, le azioni principali dell'uomo e di alcuni pochi animali inferiori, che costituiscono l'espressione. Ho anche tentato di spiegare l'origine e lo sviluppo di dette azioni in base ai tre principii di cui è parola nel primo capitolo. Il primo di questi principii sta in ciò, che i movimenti utili a soddisfare un qualche bisogno o ad alleviare una qualche sensazione, ripetuti spesso, diventano abituali così, che vengono eseguiti, siano essi utili o no, ogni volta che proviamo lo stesso bisogno o la stessa sensazione anche in un grado assai leggero.

Il nostro secondo principio è quello dell'antitesi. L'abitudine di eseguire volontariamente dei movimenti contrari in seguito a contrari eccitamenti si è fortemente sviluppata per l'esercizio pratico durante tutta la nostra vita. Se quindi sono state eseguite regolarmente certe azioni in un determinato stato dell'animo conforme al nostro primo principio, si verificherà involontariamente una forte tendenza all'esecuzione di azioni direttamente opposte, siano esse o non siano di qualche utilità, sotto l'eccitamento d'uno stato opposto dell'animo.

Il nostro terzo principio è quello dell'azione diretta del sistema nervoso irritato sul corpo, indipendentemente dalla volontà e in gran parte anche dall'abitudine. L'esperienza insegna che si produce forza nervosa e si fa libera ogni volta che il sistema nervoso cerebro-spinale viene irritato. La direzione percorsa da questa forza nervosa viene necessariamente determinata dal modo di unione delle cellule nervose fra loro e colle diverse parti del corpo. Questa direzione viene pure considerevolmente influenzata dall'abitudine, in quanto che la forza nervosa si propaga facilmente in canali messi spesso e da lungo tempo in azione.

I movimenti pazzi e dissennati d'un uomo furioso possono ascriversi in parte alla diffusione di forza nervosa che è priva di particolari condotti, ed in parte all'abitudine; poiché essi rappresentano spesso in un modo indeterminato l'atto del battere. Essi si connettono per ciò sotto questo riguardo coi gesti dipendenti dal nostro primo principio; nel caso per es. d'un uomo arrabbiato od indignato che assume inconsciamente una posizione adatta all'offesa del suo avversario, e senza nessuna intenzione di recargli di fatto un'offesa. Noi vediamo ancora l'influenza dell'abitudine in tutti i sentimenti e le sensazioni che vengono chiamati eccitanti; essi hanno assunto questo carattere per ciò, che ordinariamente hanno provocato delle azioni energiche; ma un'attività modifica in modo indiretto il sistema respiratorio e circolatorio, e quest'ultimo reagisce alla sua volta sul cervello. Ogni volta che noi proviamo questi eccitamenti o sensazioni in grado anche insignificante, quantunque essi in questo caso non producano nessuno sforzo, tuttavia tutto il nostro corpo si turba per la forza dell'abitudine e dell'associazione. Altri sentimenti e sensazioni vengono detti deprimenti, poiché essi comunemente non hanno provocato azioni energiche, eccezione fatta del primo momento, come un estremo dolore, la paura e l'affanno; infine essi hanno cagionato stanchezza o sfinitezza; la loro espressione è per conseguenza formata da segni negativi e da prostrazione generale. Si dànno inoltre altri sentimenti ancora, come quelli dell'affetto, i quali ordinariamente non determinano alcuna attività di nessuna specie e conseguentemente non vengono espressi da segni esteriori distinti. È però vero che l'affetto, in quanto che sia un sentimento gradevole, provoca i segni ordinari del piacere.

D'altro canto, molti degli effetti, che si manifestano, in conseguenza di un'irritazione del sistema nervoso, sembrano essere affatto indipendenti dalla corrente di forza nervosa che percorre i canali diventati abituali in seguito ad antecedenti sforzi della volontà. Simili effetti, i quali tradiscono spesso lo stato dell'animo delle persone affette in tal maniera, non possono spiegarsi per ora; come è per esempio il cambiamento di colore dei capelli in seguito a terrore o cordoglio - il sudore freddo e il tremito dei muscoli per paura - le alterazioni delle secrezioni del tubo digerente - e il cessare dell'attività in certe ghiandole.

Quantunque molti fatti relativi al soggetto di cui qui trattiamo siano incomprensibili, si possono però spiegare fino ad un certo punto tanti movimenti ed attività costituenti una determinata espressione col mezzo dei tre principii o leggi sopraccennate, che possiamo nutrire fondata speranza di vederli più tardi tutti spiegati col mezzo di essi o di principii assai analoghi.

Le azioni di qualunque specie che accompagnano regolarmente e costantemente una determinata modificazione dello spirito si denominano espressioni. Queste possono essere formate da movimenti di una qualunque parte del corpo; per es. il dimenare della coda del cane, lo stringersi nelle spalle dell'uomo, l'erigersi dei peli, la secrezione di sudore, la modificazione dei capillari, il respirare affannoso, e l'attività degli organi della voce e d'altri apparati producenti suono. Perfino gli insetti esprimono collera, terrore, gelosia ed amore col mezzo dei loro striduli suoni. Nell'uomo gli organi della respirazione hanno un'importanza speciale nell'espressione, in modo diretto non solo, ma anche e molto più in modo indiretto.

Pochi punti relativi al presente soggetto sono più interessanti della catena estremamente complicata di fenomeni che costituiscono certi movimenti molto espressivi. Si consideri per es. la posizione obliqua delle sopracciglia d'un uomo affetto di dolore o di affanno. Quando piccoli fanciulli strillano per la fame o per dolore, la circolazione ne vien modificata e gli occhi si riempiono facilmente di sangue: in conseguenza di ciò i muscoli protettori che circondano l'occhio si contraggono fortemente. Questo modo d'agire è stato sicuramente reso fisso ed ereditario nel corso di molte generazioni. E se anche col progredire degli anni e della coltura sia in parte venuta meno l'abitudine di strillare, i muscoli che circondano l'occhio tendono tuttavia a contrarsi, ogni qualvolta una sensazione di angustia anche insignificante si manifesti. Di questi muscoli, i piramidali del naso sono meno soggetti al controllo della volontà che gli altri, e la contrazione può essere solo impedita da quelle dei fasci mediani del muscolo frontale; questi ultimi fasci sollevano le estremità interne delle sopracciglia e solcano la fronte in un modo tutto particolare, che noi immediatamente riconosciamo come espressione del dolore o dell'affanno. Movimenti insignificanti, come quelli qui accennati, o l'abbassamento appena sensibile dell'angolo orale sono gli ultimi avanzi o i rudimenti di movimenti ben distinti e comprensibili. Essi hanno per noi, riguardo all'espressione, la stessa grande importanza che hanno per il naturalista i comuni organi rudimentali nella classificazione e genealogia degli esseri organici.

Ognuno vorrà concedere che i principali movimenti espressivi presentati dall'uomo e dagli animali inferiori siano al presente congeniti o ereditati, vale a dire non appresi dall'individuo. Impararli od imitarli è affatto impossibile per molti di essi, poiché fino dai primi giorni dell'infanzia e per tutta la vita sono perfettamente esclusi dal controllo della volontà; come per es. il rilassamento delle arterie della pelle, e l'aumento dell'attività del cuore nella collera. Noi possiamo veder arrossire per vergogna bambini di due o tre anni anche ciechi nati, e la pelle nuda del capo di piccoli fanciulli diventar rossa quand'essi sono agitati da qualche passione. I bambini strillano per dolore immediatamente dopo la nascita, e in allora i lineamenti della loro faccia presentano la stessa forma, come negli anni posteriori. Questi soli fatti bastano a dimostrare che molti dei nostri più significanti movimenti espressivi non sono stati appresi; è peraltro meraviglioso che alcuni di essi, senza dubbio congeniti, abbisognino d'un certo esercizio nell'individuo prima che possano essere eseguiti completamente e in modo perfetto: per esempio il pianto ed il riso. L'ereditabilità del maggior numero dei nostri movimenti espressivi spiega il fatto che i fanciulli nati ciechi, come mi dice il rev. R. H. Blair, eseguono gli stessi movimenti e nello stesso modo, come quelli dotati della vista. Per l'ereditabilità noi possiamo comprendere anche il fatto, che gl'individui, tanto giovani quanto vecchi, di razze assai distinte, nell'uomo come negli animali, esprimano eguali modificazioni dell'animo con movimenti eguali.

Il fatto che giovani e vecchi animali esprimono i loro sentimenti nello stesso modo ci è tanto familiare, che noi osserviamo appena quanto sia meraviglioso che un giovane cagnolino appena nato dimeni la coda se è di buon umore, abbassi le orecchie e scopra i denti canini quando vuol mostrare collera, esattamente come un cane vecchio, oppure che un piccolo micio curvi il suo dorso ed eriga i suoi peli per paura o per collera, precisamente come un vecchio individuo della sua specie. Se noi rivolgiamo ora la nostra attenzione a quei gesti, i quali in noi stessi di rado avvengono e che siamo avvezzi a ritenere artificiali o convenzionali, come lo stringer delle spalle per esprimere impotenza o il sollevare delle braccia colle mani aperte e le dita allargate per esprimere meraviglia, ci sorprenderà forse assai di trovare che essi sono congeniti. Noi possiamo concludere che questi ed alcuni altri gesti sono ereditari, considerando che essi vengono eseguiti da fanciulli molto giovani, dai ciechi nati e da razze umane le più diverse. Noi dobbiamo ancora ricordare che nuove e molto singolari abitudini, associate con certe modificazioni dello spirito, sviluppatesi in determinati individui furono in alcuni casi trasmesse alla prole per più d'una generazione.

Certi altri gesti i quali a noi sembrano tanto naturali, così che ci potremmo facilmente immaginare che siano congeniti, furono assai probabilmente appresi come i vocaboli d'una lingua. Il sollevare le mani giunte e il volgere degli occhi in alto durante la preghiera sembrano essere di questo numero. Lo stesso vale per il bacio quale dimostrazione d'affetto; questo è però innato, in quanto dipende dal piacere che il contatto con una persona amata ci procura. Le prove relative all'ereditabilità del piegare e dello scuotere del capo in segno d'affermazione e di negazione, sono dubbie; questi segni non sono affatto comuni a tutti, ma sembrano però troppo diffusi per essere stati appresi da tutti gli individui di razze tanto numerose in un modo indipendente.

Passiamo ora ad indagare quanta parte abbiano avuto la volontà e la consapevolezza nello sviluppo dei diversi movimenti dell'espressione. Per quanto noi possiamo giudicare, solo alcuni pochi movimenti espressivi, come quelli or ora accennati, furono imparati da ciascun individuo, vale a dire furono consciamente e volontariamente eseguiti nei primi anni della vita ad uno scopo determinato o ad imitazione di altri, e diventati quindi abituali.

Il massimo numero dei movimenti dell'espressione e fra questi i più significanti sono, come abbiamo veduto, innati o ereditari, e di questi non si può dire che dipendano dalla volontà dell'individuo. Tuttavia tutti i movimenti compresi dalla nostra prima legge erano originariamente eseguiti ad uno scopo determinato, vale a dire per preservare da un qualche pericolo, per alleviare una sensazione molesta, o per soddisfare un qualche bisogno. Si può, per es., difficilmente dubitare che gli animali, i quali combattono coi loro denti, non abbiano conseguita l'abitudine di rivolgere le loro orecchie all'indietro e di premerle contro il capo, per ciò che i loro progenitori hanno volontariamente agito in tal modo, per difendere le loro orecchie dalle lacerazioni dei loro nemici; poiché quegli animali che non combattono coi denti non esprimono il loro furore in questo modo. Noi possiamo ritenere come assai probabile, che noi stessi abbiamo conseguito l'abitudine di contrarre i muscoli che circondano l'occhio, quando piangiamo quietamente, cioè senza produrre alcun suono, per ciò che i nostri progenitori specialmente nell'infanzia abbiano provato nell'atto dello strillare una sensazione molesta al loro globo oculare. Inoltre si danno alcuni movimenti altamente espressivi, i quali sono il risultato del tentativo di trattenere o di impedire altri movimenti espressivi; così la posizione obliqua delle sopracciglia e l'abbassamento dell'angolo orale sono conseguenze del tentativo di evitare o di interrompere, se già è avvenuto, uno scoppio di grida. In questo caso, è chiaro che la coscienza e la volontà debbono essere da principio in gioco; il che però non vuol dire che noi in questi o in altri casi simili sappiamo quali muscoli vengano posti in attività, ciò che qui non avviene, come non avviene nell'esecuzione dei movimenti volontari i più comuni.

Quanto ai movimenti espressivi determinati dal principio dell'antitesi, è chiaro che la volontà è venuta in gioco, sebbene in un modo lontano ed indiretto. Lo stesso vale ancora per quei movimenti che cadono sotto il nostro terzo principio. Siccome questi sono influenzati da ciò che la forza nervosa facilmente si propaga entro canali usati, essi furono determinati da antecedenti ripetute manifestazioni della volontà. Gli effetti indirettamente determinati da questo ultimo influsso sono spesso complicati, per la forza dell'abitudine e dell'associazione, con quelli che risultano direttamente dalla irritazione del sistema nervoso cerebro-spinale. Di questo numero sembra essere l'aumento dell'attività cardiaca sotto l'influsso d'un forte eccitamento dello spirito. Quando un animale erige il pelo, assume una posa minacciosa ed emette dei suoni furiosi per incutere paura o terrore ad un nemico, noi vediamo un'ammirabile combinazione di movimenti, i quali originariamente erano volontari, con degli altri involontari. È però possibile che anche atti strettamente involontari, come l'erezione dei peli, possano essere stati influenzati dalla misteriosa potenza della volontà.

Alcuni movimenti espressivi potrebbero esser nati spontaneamente in associazione con certe modificazioni dell'animo, come quei piccoli tratti particolari di cui fu parlato anche poco prima. Ma io non conosco nessuna prova di fatto che renda verosimile questa opinione.

La facoltà di comunicazione fra i membri d'uno stesso stipite col mezzo della parola è stata della più alta importanza rispetto allo sviluppo dell'uomo; e la potenza della parola è rafforzata in modo significante dei movimenti espressivi della faccia e del corpo. Noi ci accorgiamo di ciò, quando c'intratteniamo a discorrere sopra un soggetto importante con una persona di cui non vediamo il volto. Ciò non ostante, per quanto mi fu dato indagare, non vi sono ragioni per ritenere che un muscolo qualunque sia stato sviluppato o anche solo modificato allo scopo esclusivo dell'espressione. Gli organi vocali e gli altri apparati che producono suoni assai espressivi sembrano formare una parziale eccezione; io ho tuttavia in altro luogo tentato di dimostrare che questi organi dapprima furono sviluppati per scopi sessuali, affinché col loro mezzo uno dei sessi possa chiamare e solleticare l'altro. Io non sono neppure in stato di trovare ragioni per ammettere che un movimento ereditario qualsiasi, il quale serve ora come mezzo della espressione, sia stato eseguito in origine volontariamente e consciamente per ottenere questo scopo particolare, - come alcuni gesti e il linguaggio della dita dei sordo-muti. All'opposto sembra che ogni movimento proprio o ereditario della espressione abbia avuto un'origine naturale e indipendente. Ma una volta raggiunti questi particolari movimenti, essi possono essere impiegati volontariamente e consciamente quali ausiliari della reciproca comunicazione. Perfino i bambini s'accorgono in età ancora tenera, se sono accuratamente allevati, che il loro strillare arreca loro sollievo, e presto imparano a strillare volontariamente. Noi possiamo osservare spesso come taluno aggrotti involontariamente le sopracciglia per esprimere stupore, o sorrida per esprimere contentezza e soddisfazione. Spesso avviene che taluno desideri rendere evidenti e dimostrativi certi gesti; e allora innalza le sue braccia distese e colle dita allargate sopra il suo capo, per esprimere meraviglia, oppure solleva le spalle fino alle orecchie per indicare che egli non può o non vuole fare qualche cosa. La tendenza ad eseguire tali movimenti verrà rafforzata o aumentata, se essi vengono eseguiti nel modo anzidetto volontariamente e ripetutamente; e simili attitudini possono essere trasmesse.

Vale forse la pena d'esaminare se certi movimenti, i quali dapprincipio furono usati solo da uno o da pochi individui per esprimere un determinato stato dell'animo, si siano talvolta estesi ad altri individui e infine si siano resi comuni per virtù dell'imitazione conscia od inconscia. È certo che vi è nell'uomo una forte tendenza all'imitazione indipendentemente dalla volontà cosciente. Ciò si manifesta nel modo più straordinario in certe malattie cerebrali, e specialmente in principio del rammollimento infiammatorio del cervello. Gl'individui affetti da questa malattia imitano, senza nulla comprendere, ogni gesto, per quanto assurdo, che venga fatto in loro presenza, e ripetono ogni parola che venga pronunciata vicino a loro, anche se in una lingua forestiera (304). Per quanto riguarda gli animali, lo sciacallo e il lupo in stato di prigionia hanno imparato ad imitare il latrato del cane. In qual modo sia stato originariamente imparato il latrato del cane, il quale serve ad esprimere sentimenti e desiderii diversi, e che è così meraviglioso perché acquisito dopo che il cane fu ridotto allo stato domestico e perché ereditato in diverso grado dalle diverse razze, ci è ignoto; ma non si potrebbe forse supporre che l'imitazione abbia avuto la sua parte nell'origine di esso, vale a dire nel senso che i cani sono vissuti per lungo tempo in società con un animale tanto ciarliero come è l'uomo?

Nel corso delle presenti osservazioni e dell'intero libro io ho spesso provato una difficoltà significante relativa all'uso appropriato delle espressioni: volontà, coscienza e intenzione. Azioni, le quali dapprincipio sono volontarie, diventano presto abituali e infine ereditarie, e allora possono essere eseguite anche in opposizione alla volontà. Sebbene esse manifestino spesso lo stato dell'animo, tuttavia questo risultato dapprincipio non era previsto né aspettato. Anche espressioni simili, come, per es., la seguente: «Certi movimenti servono quali mezzi dell'espressione», possono facilmente condurre in errore, poiché racchiudono l'idea, che questo sia stato il loro scopo primitivo. Ciò sembra essere avvenuto solo di rado o quasi mai; i movimenti, o sono stati originariamente di qualche vantaggio diretto, oppure sono effetti indiretti dell'irritazione del sensorio. Un bambino può strillare a bella posta oppure istintivamente, per dimostrare che ha bisogno di nutrimento; ma non ha desiderio alcuno né alcuno scopo di contorcere i suoi lineamenti in un modo particolare, che indica tanto chiaramente la pena. E tuttavia alcune forme assai caratteristiche dell'espressione nell'uomo sono da derivarsi dall'atto dello strillare, come prima fu spiegato.

Sebbene la massima parte delle nostre azioni espressive siano innate o istintive, come ognuno vorrà concedere, è tuttavia un'altra questione, se noi abbiamo una qualche facoltà istintiva di riconoscerle. Si è creduto universalmente che questo sia il caso; ma tale opinione fu violentemente combattuta dal sig. Lemoine (305). Le scimmie imparano presto a distinguere il suono della voce dei loro padroni non solo, ma anche l'espressione del loro volto, come un accurato osservatore ha indicato (306). I cani conoscono assai bene la differenza fra i gesti e i suoni carezzevoli e i minacciosi; e sembra pure che essi riconoscano il suono compassionevole. Ma per quanto io potei dedurre da ripetuti esperimenti, essi non comprendono nessun movimento limitato alla faccia, ad eccezione del sorriso e del riso; questi sembrano essere compresi da loro almeno in alcuni casi. Codesto limitato grado di conoscenza fu conseguito da essi, dalle scimmie come dai cani, probabilmente per ciò che hanno associato coi nostri movimenti un trattamento aspro o benevolo; di certo questa conoscenza non è istintiva. È fuor di dubbio che i bambini imparano a comprendere i movimenti espressivi di persone più avanzate in età, nello stesso modo come gli animali quelli dei loro padroni. Inoltre, se un bambino piange, o ride, sa in un modo generale che cosa egli faccia o senta, così che con un piccolo dispendio d'intelligenza capirà che cosa significhi in altri il pianto o il riso. La questione si riduce dunque in questi termini: i nostri bambini conseguono essi la conoscenza dell'espressione soltanto col mezzo dell'esperienza ed in virtù della forza di associazione e dell'intelligenza?

Poiché la massima parte dei movimenti espressivi si sono sviluppati gradatamente e devono più tardi essere diventati istintivi, sembra a priori esservi un certo grado di probabilità, che anche la facoltà di riconoscerli sia divenuta istintiva. Almeno questa opinione non incontra difficoltà più serie di quella, che la femmina d'un mammifero che abbia figliato per la prima volta comprenda il pianto di dolore ed angustia dei suoi figli, oppure che molti animali conoscano e temano istintivamente i propri nemici; e di questi due fatti non si può ragionevolmente dubitare. Ma è d'altronde assai difficile dimostrare che i nostri bambini riconoscano istintivamente il significato d'una qualsiasi espressione. Io feci delle osservazioni intorno a questo punto sul mio figlio primogenito, il quale nulla poteva aver imparato per il contatto con altri bambini, e mi convinsi che egli comprendeva un sorriso, provava piacere nel vederlo e rispondeva con uno simile, mentre era in un'età troppo tenera per poter aver imparato qualche cosa dall'esperienza. Essendo questo bambino nell'età di quattro mesi, feci in sua presenza diversi, e strani rumori e gesti stravolti e tentai anche di fare la brutta cera; ma se i rumori non erano troppo forti, venivano presi, come i gesti, per celie; io l'attribuii al tempo e alle circostanze, poiché tutto ciò era preceduto od accompagnato da un sorriso. A cinque mesi parve intendesse un'espressione e un suono della voce compassionevole. Quando aveva oltrepassato di pochi giorni i sei mesi, la sua allevatrice finse di piangere, ed io potei osservare il suo viso assumere all'istante un'espressione malinconica cogli angoli orali fortemente abbassati. Ora questo bambino poteva aver veduto solo di rado un altro bambino a piangere e mai una persona adulta; io dubito pure che potesse riflettere su ciò in età tanto tenera. Mi sembra quindi che un sentimento innato gli debba aver detto che il finto pianto dell'allevatrice esprime dolore: e ciò provocò in lui dolore per l'istinto di simpatia.

Il signor Lemoine opina che, se l'uomo possedesse una conoscenza innata dell'espressione, scrittori ed artisti non avrebbero trovato tanta difficoltà, come è notoriamente il caso, nel descrivere e nell'imitare i segni caratteristici di ogni speciale stato dell'animo. Questo mi sembra non essere un argomento valevole. Noi possiamo di fatti osservare come l'espressione in un uomo o in un animale cambi in modo da non ammettere confusione, e tuttavia siamo assolutamente incapaci, come io so per esperienza, di analizzare la natura del cambiamento. In due fotografie d'uno stesso uomo attempato prodotte da Duchenne (Tav. III, fig. 5 e 6) quasi ognuno riconobbe, che l'una rappresentava un vero, l'altra un falso sorriso; e tuttavia io trovai grave difficoltà nel decifrare in che consista tutta la differenza.

Io ebbi spesso a restar sorpreso come di cosa meravigliosa, che tante gradazioni dell'espressione siano da noi immediatamente riconosciute senza alcun processo di analisi. Io credo che nessuno possa descrivere esattamente un'espressione di dispiacere e di astuzia; e tuttavia molti osservatori sono concordi nello asserire che queste forme dell'espressione sono riconoscibili nelle diverse razze umane. Quasi ognuno a cui ho mostrato la fotografia di Duchenne relativa al giovane colle sopracciglia obliquamente disposte (Tav. II, fig. 2), dichiarò tosto come essa esprimesse dolore o qualche sentimento analogo; e tuttavia probabilmente nessuna di queste persone oppure una fra mille, avrebbe potuto citare qualche particolare della posizione obliqua delle sopracciglia colle estremità interne ingrossate o dei solchi rettangolari della fronte. Lo stesso accade anche di altre forme dell'espressione; io lo ho praticamente sperimentato alla pena che si prova nell'insegnare ad altri quali punti si debbano osservare. Se dunque una grande ignoranza relativamente ai dettagli non impedisce che noi riconosciamo prontamente e con sicurezza le diverse forme dell'espressione, non comprendo come si possa addurre tale ignoranza per prova che la nostra conoscenza, quantunque indeterminata e assai generale, non sia innata.

Io ho avuto cura di dimostrare con una buona copia di dettagli, che le principali forme dell'espressione presentate dall'uomo sono identiche su tutta la superficie della terra. Questo fatto è interessante, in quanto che costituisce un nuovo argomento in favore dell'idea che le diverse razze derivino da un'unica e stessa forma primitiva, la quale deve essere stata quasi perfettamente umana nella sua struttura e assai avanzata nel suo mentale sviluppo, prima che la divergenza delle razze sia avvenuta. È bensì vero che apparati analoghi di struttura, adatti allo stesso scopo, furono spesso conseguiti indipendentemente, per virtù della variabilità e della elezione naturale, da specie diverse; ma questa idea non spiega la grande somiglianza di specie diverse in un gran numero di insignificanti particolarità. Se consideriamo le numerose particolarità di struttura, estranee all'espressione, in cui concordano esattamente tutte le razze umane, e aggiungiamo ad esse quelle ancor numerose - alcune della più grande importanza e molte di valore assai subordinato, - da cui dipendono i movimenti dell'espressione in un modo diretto od indiretto, mi sembra assai improbabile, che una sì grande somiglianza o, per meglio dire, identità di struttura sia stata determinata da mezzi indipendenti. E tuttavia questo dovrebbe essere stato il caso, se le diverse razze umane fossero derivate da parecchie specie originariamente diverse. Egli è assai più probabile che i molti punti di grande somiglianza nelle diverse razze siano conseguenza dell'eredità da un'unica forma primitiva, la quale abbia già raggiunto il carattere umano.

Sarebbe interessante, sebbene forse penosa, la ricerca dell'epoca in cui, nella lunga serie dei nostri progenitori, sono successivamente apparsi i diversi movimenti espressivi che l'uomo presenta. Le seguenti osservazioni possono almeno bastare a richiamare alla memoria alcuni dei punti più importanti discussi in questo volume. Noi possiamo ritenere con certezza che il riso sia apparso come segno di gioia o di piacere nei nostri progenitori molto prima ch'essi meritassero il nome di esseri umani; poiché moltissime specie di scimmie emettono, quando provano piacere, un suono spesso ripetuto, evidentemente analogo al nostro riso, accompagnato da movimenti tremoli delle loro mascelle e delle labbra, durante il quale gli angoli orali vengono ritratti all'insù ed all'indietro, le guance diventano solcate e perfino gli occhi splendenti.

Nello stesso modo noi possiamo concludere che la paura già in un tempo estremamente lontano venisse espressa in un modo quasi identico a quello che ora avviene nell'uomo; vale a dire col mezzo di tremiti, dell'erezione dei peli, del sudore freddo, del pallore, dello spalancar degli occhi, del rilassamento della maggior parte dei muscoli, e col rannicchiarsi o coll'immobilità del corpo.

Il dolore avrà prodotto, se intenso, fin da principio il gridare o il ringhiare accompagnato da contorcimenti del corpo e dal digrignare dei denti. I nostri progenitori però non avranno presentato quei tratti della faccia tanto espressivi che accompagnano il gridare ed il piangere, prima che i loro organi della respirazione e della circolazione e i muscoli che attorniano gli occhi abbiano raggiunto la presente loro struttura. Il lacrimare sembra aver avuto origine da azioni riflesse, risultanti dalla contrazione convulsiva delle palpebre, in unione forse allo iniettarsi degli occhi di sangue durante l'atto del gridare. Il pianto apparve quindi probabilmente più tardo nella serie dei nostri progenitori; questa conclusione concorda col fatto, che i nostri parenti più vicini, le scimmie antropomorfe, non piangono. Tuttavia noi dobbiamo qui procedere con qualche prudenza; poiché, se certe scimmie, che non sono più affini coll'uomo, piangono, quest'abitudine può essersi sviluppata in un tempo molto lontano, in un ramo secondario del gruppo da cui ha avuto la sua origine l'uomo. Se i nostri antichi progenitori soffrirono cordoglio od inquietudine, non avranno però disposte obliquamente le sopracciglia o abbassato l'angolo orale, prima di avere conseguito l'abitudine di tentare di soffocare i loro gridi. La espressione del cordoglio e della inquietudine è quindi eminentemente umana.

Il furore sarà stato espresso in epoca assai antica da gesti minacciosi o frenetici, dall'arrossarsi della pelle e dallo sguardo fisso, ma non dal corrugarsi della fronte. L'abitudine di corrugare la fronte sembra essersi sviluppata per ciò, che i corrugatori delle sopracciglia furono i primi muscoli a contrarsi, ogni volta che durante la prima infanzia si producevano le sensazioni di dolore o d'ira - circostanze codeste in cui il pianto è imminente - e in parte anche per ciò che il corrugare della fronte serviva di riparo, quando la vista era difficile ed intensa. Quest'azione, di farsi riparo agli occhi colle palpebre, sembra non esser divenuta probabilmente abituale, finché l'uomo non conseguì una stazione perfettamente eretta; poiché le scimmie non corrugano le loro sopracciglia, quando sono esposte ad una luce troppo viva. I nostri antichi progenitori avranno probabilmente denudato i loro denti quando venivano in ira, più di quello che non faccia l'uomo al presente anche quando lascia libero corso al suo furore, come nel caso di alienazione. Noi possiamo anche ritenere per certo che essi avranno allungato le loro labbra in caso di malumore o di disinganno, molto più che non lo facciano al presente i nostri bambini od anche i bambini di razze umane attualmente selvagge.

I nostri antichi progenitori, sentendosi di malumore o moderatamente sdegnati, non avranno drizzato il capo, allargato il torace, contratte le spalle e stretti i pugni prima d'aver conseguito il contegno ordinario e la stazione eretta dell'uomo, e prima di aver imparato a combattere coi loro pugni o colle mazze. Fino a questa epoca il gesto dell'antitesi, di stringere le spalle in segno d'impotenza o di pazienza, non sarà stato sviluppato. Per la stessa ragione, la sorpresa in quell'epoca non si sarà espressa coll'innalzare le braccia colle mani aperte e le dita allargate. né lo stupore, a giudicare dal modo d'agire delle scimmie, sarà stato manifestato con lo spalancar della bocca; saranno stati invece spalancati gli occhi e curvate le palpebre. L'orrore o l'avversione si sarà manifestata in epoca molto antica con movimenti della bocca simili a quelli del vomito, - ciò però solo nel caso che l'idea, da me espressa in via d'ipotesi (che cioè i nostri progenitori abbiano avuto ed usato delle facoltà di rigettare dal loro stomaco volontariamente e rapidamente un nutrimento che loro non convenisse) sia giusta. Il modo più raffinato di esprimere disprezzo o disistima coll'abbassare le palpebre o col volgere degli occhi e del capo, come se la persona disprezzata non fosse degna d'un nostro sguardo, non si sarà probabilmente conseguito che in epoca di molto posteriore.

Fra tutte le forme dell'espressione sembra essere il rossore la più umana nello stretto senso della parola; e tuttavia essa è propria a tutte o a quasi tutte le razze umane, sia essa accompagnata da un cambiamento visibile del colore della pelle o no. Il rilassamento delle piccole arterie della superficie della pelle, da cui il rossore è determinato, sembra essere in prima linea un effetto della seria attenzione rivolta all'aspetto esteriore della nostra persona e in specie della nostra faccia, a cui s'aggiunse poi l'effetto dell'abitudine, dell'eredità e della facilità con cui la forza nervosa percorre vie usate; più tardi sembra essersi aggiunta per virtù dell'associazione l'attenzione rivolta al contegno morale. Si può difficilmente dubitare che molti animali siano in stato di pregiare i bei colori e persino le forme, come si può dedurre dalla cura che impiegano gli individui d'un sesso per far risaltare la loro bellezza davanti al sesso opposto. Ma non sembra però possibile che un animale qualsiasi abbia rivolto una seria attenzione sul proprio esteriore e sia divenuto suscettibile riguardo ad esso, fino a che le sue facoltà intellettuali non siano state sviluppate in grado eguale o quasi eguale a quelle dell'uomo. Noi possiamo quindi concludere che il rossore è apparso in un'epoca assai tarda nella nostra lunga serie di discendenza.

Dai diversi fatti accennati e discussi nel corso del presente libro segue che, se la struttura dei nostri organi della respirazione e della circolazione avessero variato in un grado anche insignificante dallo stato in cui presentemente si trovano, la massima parte dei nostri modi dell'espressione sarebbero stati molto diversi. Una variazione, anche assai piccola, nella distribuzione delle arterie e delle vene del capo avrebbe probabilmente impedito che il sangue possa accumularsi nel nostro globo oculare in seguito a violente espirazioni; poiché questo fatto si verifica solo in assai pochi mammiferi. In questo caso noi non avremmo manifestato alcune delle nostre forme dell'espressione più caratteristiche. Se l'uomo avesse respirato nell'acqua col mezzo di branchie esterne (benché quest'idea si possa appena immaginare), invece di inspirare aria col mezzo della bocca e delle narici, i lineamenti del suo volto non avrebbero espresso meglio i suoi sentimenti, di quello che ora lo facciano le mani o gli arti. Il furore e l'avversione li avrebbe però sempre potuti esprimere col mezzo di movimenti delle labbra e della bocca, e gli occhi sarebbero diventati splendenti o languidi secondo lo stato della circolazione. Se le nostre orecchie fossero restate mobili, i loro movimenti sarebbero stati in alto grado espressivi; come avviene in tutti quegli animali che combattono coi denti; e noi possiamo ammettere che i nostri antichi progenitori abbiano combattuto in questo modo, poiché noi denudiamo ancora invariabilmente il dente canino di un lato quando esprimiamo scherno o teniamo fronte ad un nemico, e mostriamo tutti i nostri denti se siamo in preda ad un frenetico furore.

I movimenti dell'espressione della faccia e del corpo, qualunque possa essere la loro origine, sono in se stessi di grande importanza per il nostro benessere. Essi servono quali primi mezzi di comunicazione fra la madre ed il figlio; essa gli dimostra con un sorriso la sua approvazione e lo sprona con ciò a continuare per la retta via, oppure essa manifesta col corrugar della fonte la sua disapprovazione. Noi ci accorgiamo spesso della simpatia di altri dalla forma della loro espressione; i nostri dolori vengono con ciò sollevati e aumentate le nostre gioie; e con ciò viene rafforzato il sentimento reciproco dell'affetto. I movimenti dell'espressione dànno alla nostra parola vivacità ed energia. Essi mettono in chiaro i pensieri e le intenzioni degli altri meglio che non lo facciano le parole, che possono essere simulate. Per quanto di vero possa esservi nella così detta scienza della fisionomia, essa sembra dipendere, come già da lungo tempo ha osservato Haller (307), da ciò che persone diverse, a seconda dei loro sentimenti, mettono in frequente azione diversi muscoli della faccia; così si aumenta forse lo sviluppo di questi muscoli, e le linee o solchi che si formano sulla faccia in conseguenza dell'abituale loro contrazione diventano più profondi e più evidenti. La libera espressione d'un sentimento col mezzo di segni esterni lo rende più intenso. D'altro lato, la eliminazione di ogni segno esterno, per quanto è possibile, rende i nostri sentimenti più miti (308). Chi lascia libero sfogo al proprio furore con gesti violenti, non farà che rafforzarlo; chi non sottopone i segni esterni della paura al controllo della volontà, sentirà paura in grado più elevato; e chi resta inattivo, quando vien sopraffatto dal dolore, perde la miglior occasione per riconquistare l'elasticità dello spirito. Questi risultati scaturiscono in parte dal rapporto intimo che passa fra i sentimenti e la loro esterna manifestazione, in parte dall'influsso diretto d'una tensione sul cuore e conseguentemente anche sul cervello. Anche la finzione d'un sentimento è causa ch'esso si risvegli leggermente nel nostro spirito. Shakespeare, il quale per la sua meravigliosa conoscenza dell'animo umano dovrebbe essere giudice competente, dice: «Non è egli mostruoso che, per una sventura immaginaria, per un vano sogno di passioni, quel commediante esalti l'anima sua al livello della parte ch'egli recita e ne dipinga tutti i moti sull'infiammato suo volto? Occhi umidi di pianto, dolore scolpito sopra ogni lineamento, voce interrotta da singhiozzi, gesto patetico e conforme allo stato in cui finge di essere; e tutto ciò per nulla!» (Amleto, atto II, scena 2).

Noi abbiamo veduto che lo studio della teoria dell'espressione conferma fino ad un certo punto l'idea, che l'uomo abbia avuto la sua origine da una bassa forma animale, e appoggia l'opinione della specifica o subspecifica identità delle diverse razze umane; ma a mio giudizio, ciò abbisogna appena di una tale conferma. Noi abbiamo anche visto che l'espressione in sé o il linguaggio del sentimento, come fu anche talvolta denominata, è certamente importante per il benessere dell'umanità. L'imparar a conoscere, per quanto è possibile, la fonte e l'origine delle diverse espressioni, che ad ogni momento ci è dato osservare sulla faccia degli uomini (per non parlare affatto degli animali domestici), dovrebbe avere un grande interesse per noi. Per questi motivi noi possiamo concludere che la filosofia del nostro soggetto è degna di tutta l'attenzione che le fu già concessa da parecchi distinti osservatori e che essa merita uno studio sempre maggiore da parte di tutti i distinti fisiologi.



NOTE

1) J. PARSONS, nell'Appendix to the Philosophical Transactions, 1746, pag. 41, dà una lista di quarantun autori antichi che scrissero sulla Espressione.

2) Conférences sur l'expression des différents caractères des passions, Parigi, in-4°, 1667. - In seguito io cito sempre la riedizione delle Conférences nell'edizione di Lavater, per cura di MOREAU, apparsa nel 1820 tal quale è data nel vol. IX, p. 257.

3) Discours par PIERRE CAMPER sur le moyen de représenter les diverses passions, etc., 1792.

4) In seguito io cito sempre la terza edizione del 1844, che fu pubblicata dopo la morte di sir C. Bell e contiene le sue ultime correzioni; la prima edizione del 1806 è di un valore molto inferiore e non offre alcuna delle sue più importanti vedute.

5) De la Physionomie et de la Parole, di ALBERTO LEMOINE, 1865, pag. 101.

6) L'art de connaître les hommes, etc., di. G. LAVATER. La prima edizione di quest'opera, nella quale si contengono le osservazioni di M. Moreau, da quel che si legge nel proemio dell'edizione del 1820 in dieci volumi, fu pubblicata, dicesi, nel 1807; né io dubito che ciò sia esatto, perché il ragguaglio su Lavater, al principio del primo volume, porta la data del 13 aprile 1806. - Frattanto, in alcuni lavori bibliografici, si dà la data del 1805-1809; ma pare impossibile che il 1805 sia una data esatta. Il dottor DUCHENNE osserva (Mécanisme de physionomie humaine, in-8°, ediz. 1862, pag 5, ed Archives générales de médecine, genn. e febbr. 1862), che M. Moreau «ha composto per la sua opera un importante articolo», ecc., nell'anno 1805; ed io trovo nel volume I dell'edizione del l820, dei passi che portano le date del 12 dicembre 1805 e del 5 gennaio 1806, oltre a quella già menzionata del 13 aprile. Basandosi sul fatto che certi brani furono così composti nel 1805, il dottor Duchenne dà a M. Moreau la priorità su sir C. Bell, l'opera del quale, come vedemmo, venne pubblicata nel 1806. Ecco una maniera ben strana di determinare la priorità delle opere scientifiche, ma simili questioni sono assai poco importanti a paragone del merito relativo di questi lavori. I passi citati più in su da M. Moreau e da Le Brun sono tratti qui e in tutto il resto dell'opera dall'edizione del 1820 di LAVATER, tom. IV, pag 228 e tom. IX, pag. 279.

7) Handbuch der systematischen Anatomie des Menschen. - Band 1, Dritte Abtheilung, 1858.

8) The Sense and the Intellect, 2° ediz.; 1864, p. 96 e 288. La prefazione della prima edizione di quest'opera porta la data del giugno 1855. - Si veda anche la seconda edizione del libro del sig. BAIN intorno alle Emotions and Will.

9) The Anatomy of Expression, 3a ediz., pag. 121.

10) Essays Scientific, Political, and Speculative, seconda serie, 1863, pag. 111. V'ha una dissertazione sul riso nella prima serie dei saggi, che mi sembra di un valore molto mediocre.

11) Dopo la pubblicazione dell'opera alla quale facemmo or ora allusione, SPENCER ne scrisse un'altra (Morals and Moral Sentiments) nella Fortnightly Review, l° aprile 1871, pagina 426. Egli ha anche appena pubblicate le sue ultime conclusioni nel volume II della seconda edizione dei Principles of Psychology, 1872, pag. 539. Onde non esser accusato di usurpatore nei dominii di M. Spencer, devo far constatare che io ho annunciato nella mia Origine dell'Uomo d'aver allora scritta una parte del presente volume; le mie prime note manoscritte sulla Espressione datano dall'anno 1838.

12) Anatomy of Expression, 3a ediz., pag. 98, 121, 131.

13) Il prof. OWEN constata espressamente questo fatto nell'orango (Proc. Zoolog. Soc., 1830, pag. 28), e passa in rivista tutti i più importanti muscoli. Si vegga anche una descrizione dei diversi muscoli facciali del scimpanzé, del prof. MACALISTER, negli Annals and Magazine of Natural History, vol. VII, maggio 1871, p. 342.

14) Anatomy of Expression, 3a ediz., p. 121, 131.

15) De la Physionomie, p. 12, 73.

16) Mécanisme de la Physionomie humaine, ediz. in-8°, pag, 31.

17) Elements of Physiology, traduzione inglese, vol. II, pag. 934.

18) Anatomy of Expression, 3a ediz., p. 198.

19) Si veggano delle osservazioni su questo soggetto nel Laocoon di LESSING, tradotto da W. ROSS, 1836, p. 19.

20) PARTRIDGE, Cyclopaedia of Anatomy and Physiology di TODD, vol. II, pag. 227.

21) La Physionomie, di G. LAVATER, tom. IV, 1820, p. 274. Per il numero dei muscoli della faccia, vedi vol. IV, p. 209, 211.

22) Mimik and Physiognomik, 1867, pag. 91.

23) HERBERT SPENCER (Essays, seconda serie, 1863, p. 138) stabilì una netta distinzione fra le emozioni e le sensazioni, essendo queste ultime «prodotte nel nostro meccanismo corporeo». Egli colloca tra i sentimenti e le une e le altre.

24) MÜLLER, Elements of Physiology. Traduzione inglese, vol. II. Pag. 939. Si veggano anche le interessanti vedute di H. SPENCER sullo stesso argomento e sulla formazione dei nervi nei suoi Principles of Biology, vol. II, pag. 346; e nei suoi Principles of Psycology, 2a ediz., p. 511-557.

25) Un'osservazione di una portata molto analoga fu fatta da lungo tempo da Ippocrate e dall'illustre Harvey; chè l'uno e l'altro assicurano che un giovine animale dimentica dopo pochi giorni l'arte di poppare e non la può riacquistare che assai difficilmente. Traggo queste asserzioni dal dottor DARWIN, Zoonomia, 1794. vol. I. pag. 140.

26) Vedi per i cenni bibliografici e per diversi analoghi fatti: Variazione degli animali e delle piante allo stato domestico (Traduzione italiana di G. Canestrini).

27) The Senses and the Intellect, 2a ediz., 1864, p. 332. Il prof. HUXLEY fa questa osservazione (Elementary Lessons in Physiology, 5a ediz., 1872, p. 306): si può stabilir come regola che se due stati di spirito son risvegliati assieme o successivamente con sufficiente frequenza e vivacità, la susseguente comparsa dell'uno basterà a richiamare quella dell'altro.

28) GRATIOLET (De la Physionomie, p. 324.), discutendo questo argomento, cita molli analoghi esempi. Vedi a pag. 42 sull'aprire e chiudere gli occhi. Engel è citato (p. 323) a proposito dei cangiamenti dell'andatura sotto l'influenza dei fenomeni del pensiero.

29) Mécanisme de la Physionomie humaine, 1862, p. 17.

30) Variazione degli animali e delle piante allo stato domestico, pag. 379 (Traduzione italiana di G. Canestrini). L'eredità degli atti abituali è per noi un fatto tanto importante, ch'io mi sollecito di riportare, col permesso del signor F. Galton, e servendomi dei suoi medesimi termini, questa rimarchevole osservazione: - «La narrazione seguente, relativa ad un'abitudine riscontrata in tre generazioni consecutive, ha un interesse particolare per questa circostanza che il movimento è prodotto solo nel sonno profondo, onde non può riferirsi all'imitazione, ma dev'essere considerato assolutamente naturale. Queste particolarità sono affatto degne di fede, perché ne presi informazioni precise e narro in seguito ad una testimonianza dettagliata ed indipendente. Un signore di alto rango, era soggetto, come l'assicurò la moglie di lui, a questa strana abitudine: quando giaceva supino sul letto ed era profondamente addormentato, levava lentamente il braccio destro sopra il viso a livello della fronte, indi con una scossa l'abbassava, a modo che il pugno cadeva pesante sul dorso del naso. Questo gesto non si rinnovava ogni notte, ma solo di tempo in tempo ed era indipendente da qualunque causa apprezzabile. Talora si ripeteva per un'ora continua od anche di più. Il naso di questo signore era prominente e il suo dorso fu spesso ammaccato dai colpi che riceveva; ed ogni volta che si produceva un'ammaccatura, era tarda a guarire, perché i colpi che l'avevano causata si rinnovellavano tutte le notti. La sua signora dovette togliere il bottone della di lui camicia da notte col quale si lacerava crudelmente e si cercò il mezzo di legargli il braccio.

«Molti anni dopo la morte di lui, suo figlio sposò una fanciulla che non aveva giammai udito parlare di questa particolarità di famiglia. Ciò nondimeno ella fece precisamente la stessa osservazione sopra il proprio marito; ma il naso di questo, non essendo molto lungo, non ebbe mai a soffrire percosse. Né il ghiribizzo gli capita fra la veglia ed il sonno, ad esempio quand'è assopito nel suo seggiolone, ma compare dopo ch'è profondamente addormentato. Come presso a suo padre, esso è intermittente, talvolta cessa per parecchie notti, talvolta è quasi continuo durante una parte di queste. Si compie pure con la mano destra.

«Una sua figlia ha ereditato il medesimo atto. Anch'ella si serve della mano diritta, ma in modo alquanto diverso; perché, dopo aver levato il braccio, non lascia cascare il pugno sull'orlo del naso, ma, col palmo della mano chiuso a metà, vi batte dall'alto in basso e rapidamente dei piccoli colpi. Anche in questa fanciulla l'atto è assai intermittente, cessando talora per molti mesi, talora riapparendo quasi continuo».

31) Il professore HUXLEY osserva (Elementary Physiology, 5a edizione, p. 305) che le azioni riflesse proprie del midollo spinale son naturali; ma coll'aiuto del cervello, cioè col mezzo dell'abitudine, una infinità di azioni riflesse artificiali possono esser acquisite. VIRKOW ammette (Sammlung wissenschaft Vortäge, ecc., Ueber das Rückenmark, 1871, pp. 24, 31), che certe azioni riflesse non possono venir distinte dagl'istinti, e possiamo aggiungere che fra questi ultimi, ve n'ha di quelli i quali non si possono distinguere dalle abitudini ereditarie.

32) Dottor MAUDSLEY, Body and Mind, 1870, p. 8.

33) Vedi l'interessantissima discussione di tutto questo argomento di Claudio BERNARD (Tissus vivants, 1866, p. 353-356).

34) Chapters on Mental Physiology, 1858, p. 85.

35) MÜLLER osserva (Elements of Physiology, trad. inglese, vol. II, p. 1311) che il sussulto è sempre accompagnato dal serrar delle palpebre.

36) Il dott. MAUDSLEY fa notare (Body and Mind, p. 10) che i movimenti riflessi ordinariamente diretti ad un utile fine possono, in cambiate condizioni di malattia, riescir dannosissimi ed anche dar luogo a vive sofferenze e ad una morte assai dolorosa.

37) V. la storia di uno sciacallo addomesticato, data dal signor F. H. SALVIN in Land and Water, ottobre 1869.

38) D. DARWIN, Zoonomia, vol. I, 1794, p. 160. In quest'opera (p. 151) trovo anche citato il fatto che i gatti protendono i piedi quando sono di buon umore.

39) CARPENTER (Principles of comparative Physiology, 1854, p. 690), e MÜLLER (Elements of Physiology, trad. inglese, vol. II, p 936).

40) MOWBRAY (Poultry, sesta ediz., 1830, p. 54).

41) Vedi ciò che riporta questo eccellente osservatore in Wild Sports of the Highlands, 1816, p.142.

42) Philosophical Transactions, 1893, p. 182.

43) Naturgeschichte der Saügethiere von Paraguay, 1830, p. 55.

44) M. TYLOR parla del linguaggio mimico dei monaci di Citeaux nel suo Early History of Mankind, seconda ediz. (1870, p. 40) e fa alcune osservazioni intorno al principio dell'opposizione nei gesti.

45) Su questo argomento si veda l'interessante lavoro del dott. W. R. SCOTT, The Deaf and Dumb, seconda edizione, 1870, p. 72. «Questa maniera, egli dice, di abbreviare i gesti naturali e di farne dei movimenti più concisi di quello cui reclami l'espressione naturale, è comunissima fra i sordo-muti. Questo gesto abbreviato è talora così mozzo, da perder quasi ogni rassomiglianza col gesto naturale; ma per il sordo-muto che l'impiega, esso ha pur tutta l'energia e l'espressione originali.

46) Vedi i casi interessanti che raccolse G. POUCHET nella Revue des Deux Mondes, 1° gennaio 1872, p. 79. Pochi anni sono fu comunicato un caso anche alla British Association di Belfast.

47) MÜLLER fa osservare (Elements of Physiology, traduzione inglese, vol. II p. 934) che sotto l'influenza di vivissime sensazioni «tutti i nervi spinali ricevono una impressione che può giungere fino a produrre una imperfetta paralisi o a determinare un tremito generale».

48) Leçon sur les propriétés des tissus vivants, 1866, p. 457-466.

49) M. BARTLETT, Note sur la naissance d'un hippopotame; Proc. Zoolog. Soc., 1871, p. 225.

50) Veggasi su questo Claudio BERNARD Tissus vivants, 1866, p. 316, 337, 358. VIRCHOW si esprime in un modo quasi identico nella sua Memoria Ueber das Rückenmarck (Sammlung wissenschaft. Vorträge, 1871, p. 28).

51) MÜLLER (Elements of Physiology, trad. ingl., vol. II pag. 932) dice, parlando dei nervi, che «ogni brusco cambiamento di stato, di qualunque ordine, mette in gioco il principio nervoso». V. sullo stesso argomento VIRCHOW e BERNARD, ai passi citati nella nota precedente.

52) H. SPENCER, Essays Scientific Political, ecc., seconda serie, 1863, p. 109-111.

53) Sir H. HOLLAND, Medical Notes and Reflexions, 1839, p. 328) fa notare, a proposito di questo stato curioso dell'economia chiamato agitazione, ch'esso sembra prodotto da «un'accumulazione di qualche causa irritante che cerca di sollevarsi coll'esercizio dell'azione muscolare».

54) Devo i miei ringraziamenti al signor A. H. Garrod, che m'ha fatto conoscere un'opera di Lorain sui polsi, nella quale si trova il tracciato sfigmografico d'una donna in un accesso di furore; questo tracciato differisce molto, per la frequenza e per altri caratteri, da quello della stessa femmina nello stato ordinario.

55) La potenza con cui la gioia eccita il cervello e questo reagisce sulla economia, si manifesta in modo notevole nei rari casi di intossicazione psichica. Il dottore J. CRICHTON BROWNE (Medical Mirror, 1865) ricorda il fatto di un temperamento molto nervoso, il quale, apprendendo per un telegramma d'avere ereditata una grande fortuna, impallidì sul principio, poi si mise a ridere e divenne di una gaiezza irrequieta ed esaltata. Per tranquillizzarsi andò al passeggio con un amico, ma i suoi passi erano vacillanti. Sghignazzava, manifestando una grande irritabilità di carattere; parlava incessantemente e cantava ad alta voce in mezzo alla via. E si sapeva in modo positivo e sicuro che non aveva toccato alcun liquore spiritoso, benché sembrasse ubriaco; dopo un certo tempo vomitò; esaminato il contenuto a metà digerito del suo stomaco, non s'ebbe a riconoscere il menomo odore alcolico. Infine s'addormentò d'un sonno grave, e svegliatosi, era quasi rimesso, ma soffriva ancora mal di testa, nausee e gran debolezza.

56) Dottor DARWIN, Zoonomia, 1794, vol. I, p. 148.

57) Madama OLIPHANT, nel romanzo intitolalo Miss Majoribanks, p. 362.

58) V. la dimostrazione di questo fatto nella Variazione degli animali e delle piante allo stato domestico, trad. ital. di G. CANESTRINI, p. 24. Sul tubare dei colombi, p. 135, 136, 141, 157.

59) Essays Scientific, Polilical, and Speculative, 1858. The origine and Function of Music, p. 359.

60) L'Origine dell'Uomo, trad. italiana di M. LESSONA, pag. 533. Le parole citate sono del professore Owen. Fu recentemente dimostrato che certi quadrupedi, fra i rosicanti, i quali nella scala zoologica occupano un posto inferiore alle scimmie, sono capaci di produrre suoni musicali definitivi. Si veda la storia di un Hesperomy cantore, del rev. S. LOCKWOOD, nell'American naturalist, vol. V, dicembre 1874, pag. 761.

61) Nel suo studio sopra questa questione, M. TYLOR accenna a questo lamento del cane (Primitive culture, 1871, vol. I, p. 166).

62) Naturgeschichte der Saügethiere von Paraguay, 1830, p. 46.

63) Citato da GRATIOLET, De la Physionomie, 1865, p. 115.

64) Théorie physiologique de la musique, Paris 1868, p. 146. In questo erudito lavoro Helmholtz ha anche completamente studiate le relazioni esistenti tra la forma della cavità boccale e la produzione delle diverse vocali.

65) Ho dato alcuni dettagli intorno a questo argomento nella mia Origine dell'Uomo, traduzione italiana di LESSONA, pag. 298, 529.

66) Citato da HUXLEY, nel suo lavoro intitolato Evidence as to Man's Place in Nature, 1863, p. 52.

67) Illust. Thierleben, 1864, vol. I, p. 130.

68) J. CATON, Accademia delle scienze naturali di Ottawa, maggio 1868, p. 36-40. - Sulla Capra aegagrus veggasi Land and Water, 1867, p. 37.

69) Land and Water, 20 luglio 1867, p. 659.

70) Phaeton rubricauda: Ibis, vol. III, 1861, p. 180.

71) Sulla Strix flammea vedi AUDUBON, Ornithological Biography, 1864, vol. II, p. 407. Al Giardino zoologico ebbi ad osservare altri simili casi.

72) Melopsittacus undulatus. Si veda la descrizione dei suoi costumi, data da GOULD, Handbook of Birds of Australia, 1865, vol. II, p. 82.

73) Veggasi ad esempio la relazione ch'io diedi (Origine dell'Uomo, trad. ital di M. LESSONA, p. 325) in argomento di un Anolis e d'un Draco.

74) Questi muscoli sono descritti nelle celebri opere di Kölliker. Devo rendere grazie a questo distinto osservatore per le spiegazioni che a mezzo di lettera volle fornirmi sull'argomento.

75) Lehrbuch der Histologie des Menschen, 1857, p. 82. Devo alla cortesia del prof. W. Turner un riassunto di questo lavoro.

76) Quarterly Journal of Microscopical Science, 1853, vol. I, p. 262.

77) Lehrbuch der Histologie, 1857, p. 82.

78) Dictionary of English Etymology, p. 403.

79) Veggasi la relazione sulle abitudini di questo animale del dott. COOPER, citata in Nature, 27 aprile 1871. p. 512.

80) Dottor GÜNTHER, Reptiles of British India, p. 262.

81) M. J. MANSEL WEALE, Nature, 27 aprile 1871, p. 508.

82) Journal of Researches during the Voyage of the «Beagle», 1845, p. 96. Ho paragonato lo strepito così prodotto con quello del serpente a sonagli.

83) Veggasi la relazione del dott. ANDERSON, Proc. Zool. Soc., 1871, p. 196.

84) American Naturalist. gennaio 1872, p. 32. - Duolmi di non poter condividere l'opinione del professore Shaler, e credere con lui che il sonaglio del Crotalo si sia sviluppato, per effetto della elezione naturale, allo scopo di produrre suoni destinati ad ingannare gli uccelli, ad attirarli ed a farne la preda di questo rettile. Senza negare che codesti suoni possano talvolta servire a quest'uso, credo più probabile la conclusione alla quale io sono arrivato, e che mi fa considerar questo strepito come un avvertimento all'indirizzo dei nemici i quali potrebbero esser tentati di attaccarlo; tale conclusione collega effettivamente fatti di ordini diversi. Se il serpente avesse acquistato il sonaglio dall'abitudine di far del rumore allo scopo di attirare una preda, non sarebbe probabile che egli facesse agire invariabilmente quest'apparecchio tutte le volte ch'è molestato o incollerito. Quanto al modo di sviluppo del sonaglio, il professore Shaler è quasi d'accordo con me; d'altra parte io ho costantemente sostenuta la stessa opinione dal momento in cui ebbi ad osservare il Trigonocefalo nell'America del Sud.

85) Secondo le narrazioni recentemente raccolte da Madama BARBER, e pubblicate nel Journal of the Linnean Society, sui costumi dei serpenti dell'Africa meridionale, e in seguito alle relazioni dovute a diversi autori, fra i quali a Lawson, sul serpente a sonaglio dell'America del Nord, non sembra improbabile che il terribile aspetto che assumono certi serpenti ed i suoni ch'emettono possano servire a procurar loro una preda, paralizzando, o, come talora suol dirsi, affascinando animali di piccola statura.

86) Veggasi la narrazione del dott. R. BROWN (Proc. Zool. Soc., 1871, p. 39). Appena, egli dice, un porco scorge un serpente, si slancia su lui; il serpente all'incontro, si schiva immediatamente alla vista d'un porco.

87) Il dott. GÜNTER segnala (Reptiles of British India, p. 340) la distruzione dei Cobra per mezzo dell'Icneumone o dell'Herpestes, e dei Cobra giovani per via dei polli Jungle. È noto che anche il pavone fa un'attiva caccia ai serpenti.

88) Il professore Cope citò un numero assai considerevole di specie, nel suo lavoro Method of Creation of organic Types, letto davanti the American Phil. Soc. il 15 dicembre 1871, p. 20. - Il prof. Cope è della mia opinione sull'impiego dei movimenti e dei suoni prodotti dai serpenti. Ho leggermente toccata questa questione nell'ultima edizione della mia Origine delle specie. Dopo l'impressione delle pagine qui sopra, ebbi la soddisfazione di vedere che Henderson attribuiva anche al sonaglio il medesimo uso, che è «di prevenire un attacco» (The American Naturalist, maggio 1872, p. 260).

89) M. des VOEUX, Proc. Zool. Soc., 1871, p. 3.

90) The Sportsman and Naturalist in Canada, 1866, p. 53.

91) The Nile Tributaries of Abyssinia, 1867, p. 443.

92) The Anatomy of Expression, 1844, p. 190.

93) De la Physionomie, 1865, p. 187, 218.

94) The Anatomy of Expression, 1844, p. 140.

95) GUELDENSTAEDT dà alcuni dettagli su questo argomento nel suo lavoro sullo sciacallo (Nov. Comm. Acad. Sc. Imp. Pétrop., 1775, t. XX, p. 449). Si veda ancora un bellissimo articolo sulle andature ed i giochi di questo animale nel Land and Water, ottobre 1869. Il luogotenente Annesley, dell'armata inglese, m'ha anche comunicate alcune particolarità relative allo sciacallo. Ho riunito un gran numero di informazioni sui lupi e gli sciacalli nel Giardino zoologico, ed io stesso osservai gli uni e gli altri.

96) Land and Water, 6 nov. 1869.

97) AZARA, Quadrupèdes du Paraguay, 1801, t. I, p. 136.

98) Land and Water, 1867, p. 657. Veggasi anche intorno al Puma, AZARA (loc. cit.).

99) Sir C. BELL, Anatomy of Expression, 3a ediz., p. 123. Veggasi anche a p. 126, sulla dilatazione delle narici nel cavallo, e suoi rapporti con la mancanza della respirazione per la bocca.

100) Land and Water, 1869, p. 152.

101) Natural History of Mammalia, 1841, vol. I, p. 383, 410.

102) RENGGER (Säugethiere von Paraguay, 1830, p. 46) ha conservato scimmie di questa specie per molti anni in gabbia, al Paraguay, loro patria.

103) RENGGER, ivi, p. 46. - HUMBOLDT, Personal Narrative, trad. ingl., vol. IV, p. 527.

104) Nat. Hist. of Mammalia, 1841, p. 351.

105) BREHM, Thierleben, vol. I, p. 84. - Quanto al gesto dei babbuini, vedi p. 61.

106) BREHM fa osservare (Thierleben, p. 68) che l'Inuus ecaudatus, quand'è irritato, muove di spesso le sopracciglia dall'alto in basso.

107) G. BENNETT, Wanderings in New South Wales, ecc., vol. II, 1834, p. 153.

108) W. C. MARTIN, Nat. Hist. of Mamm. Animals, 1841, p. 405.

109) Vedi sull'orang. il prof. OWEN, Proc. Zool. Soc., 1830, p. 28. Sul scimpanzé vedi il professore MACALISTER, Annals and Mag. of Nat. Hist., vol. VII, 1871, p. 342: questo osservatore constatò che il sopraccigliare non può venir separato dall'orbicolare delle palpebre.

110) Boston Journal of Nat. Hist., 1845-47, vol. V, p. 423. - Sul scimpanzé, vedi lo stesso, ivi 1843-44, vol. IV, p. 365.

111) Veggasi su questo argomento l'Origine dell'Uomo, trad. ital., pag. 21.

112) Origine dell'Uomo, trad. ital., pag. 37.

113) Anatomy of Expression, terza edizione, 1844, p. 138, 121.

114) Le migliori fotografie della mia collezione sono dovute al signor Rejlander, di Londra (Victoria Street), ed al signor Kindermann, di Amburgo. Le figure 1, 3, 4 e 6 sono del primo; le figure 2 e 5 del secondo. La figura 6 rappresenta un fanciullo di età più avanzata che piange moderatamente.

115) HENLE (Handbuch d. Syst. Anat., 1858, vol. I, p. 139) concorda col sig. Duchenne nell'attribuir questo effetto alla contrazione del m. pyramidalis nasi.

116) Questi muscoli sono: l'elevatore comune del labbro superiore e della pinna, l'elevatore proprio del labbro superiore, il malare ed il piccolo zigomatico. Quest'ultimo muscolo è collocato parallelamente e al disotto del grande zigomatico e s'attacca alla parte esterna del labbro superiore. Esso è rappresentato nella fig. 2 ma non nelle figure 1 e 3. Il dott. DUCHENNE dimostrò per il primo l'importanza della contrazione di questo muscolo in rapporto al grido (Mécanisme de la Physionomie Humaine. Album, 1862, p. 39). Henle considera i muscoli su nominati (eccettuato il malaris) come suddivisioni di un solo e medesimo muscolo, il quadratus labii superioris.

117) Il dott. DUCHENNE studiò con minuziosa cura la contrazione dei diversi muscoli e le pieghe che si producono sul viso nel pianto; mi sembra tuttavia che nelle sue risultanze v'abbia ancora qualche imperfezione, qualche lacuna, che d'altra parte mi è impossibile precisare. Infatti nel suo album (fig. 48) si trova una Tavola, in cui, galvanizzando i muscoli opportuni, s'è fatta sorridere una metà della faccia, mentre l'altra metà comincia a piangere. Ora, su ventuno persone a cui ho mostrata questa figura, quasi tutti (diciannove) riconobbero subito l'espressione del lato sorridente. Per l'altro lato, al contrario, sei persone soltanto giudicarono giusto o quasi, trovandovi effettivamente la espressione della tristezza, della sofferenza, della contrarietà; le altre quindici commisero i più singolari errori e credettero scorgervi le espressioni di una folle allegria, della soddisfazione, dell'astuzia, del disgusto, ecc. si può concludere che nella espressione c’è qualche cosa di inesatto. Ciò che può aver tratto in errore gli è, che non s'immagina di veder piangere un vecchio, e che non c’è traccia alcuna di lacrime. In un'altra figura del dottore DUCHENNE (fig. 49), nella quale i muscoli d'una metà della faccia sono galvanizzati allo scopo di rappresentare un uomo che comincia a piangere, col sopracciglio del medesimo lato obliquo, - ciò ch'è un segno caratteristico dell'affanno, - l'espressione venne riconosciuta da un numero di persone proporzionalmente più grande. Su ventitre, quattordici risposero con esattezza: angoscia, afflizione, dolore, pianto imminente, sofferenza, ecc.; le altre nove non seppero formarsi un giudizio o colpirono assolutamente in fallo, e risposero astuzia, allegria, abbagliamento, sforzo per rilevare un oggetto lontano, ecc.

118) Madama GASKELL, Mary Barton, nuova edizione, pag. 84.

119) Mimik und Physiognomik, 1867, pag. 102. DUCHENNE, Mécanisme de la Physionomie humaine. Album, p. 34.

120) Questa osservazione fu fatta dal dottor DUCHENNE, Mécanisme de la Physionomie humaine, Album, p. 39.

121) The Origin of Civilization, 1870, p. 355.

122) Vedi ad esempio le osservazioni del signor MARSHALL sopra un idiota in Philosoph. Transact., p. 526. Sui cretini, vedi dott. PIDERIT, Mimik und Physiognomik, 1867, p. 61.

123) New Zealand and its Inhabitants, 1855, p. 175.

124) De la Physionomie, 1865, p. 126.

125) The Anatomy of Expression, 1844 p. 106. Veggasi anche una Memoria dello stesso autore in Philosophical Transactions, 1822. p. 284; ibid., 1823, p. 166 e 289. Veggasi ancora The Nervous System of the Human Body, terza ediz., 1836, p. 175.

126) Veggasi la descrizione del dottor BRINTON sul vomito in Todd's Cyclop. of Anatomy and Physiology, 1859, vol. V, supplemento, p. 318.

127) Devo ringraziare il sig. Bowman, che m'ha messo in relazione col prof. Donders, e che m'ha aiutato a decidere questo grande fisiologo ad intraprendere studi su tale soggetto. Sono pur debitore al signor Bowman per le varie informazioni fornitemi con la maggior compiacenza su molti punti.

128) La Memoria del sig. DONDERS apparve dapprima nel Nederlandsch Archief voor Genees en Natuurkunde, Deel, 5, 1870. Fu tradotta dal dottor W. D. MOORE, sotto il titolo: On the Action of the Eyelids in determination of Blood from expiratory effort, negli Archives of Medicine, pubblicati dal dottor L. S. BEALE, 1870, vol. V, p. 20.

129) Il prof. DONDERS fa osservare (Archives of Medicine, pubblicati dal dott. L. S. BEALE, 1870, vol. V, p. 28) che «in seguito ad una lesione dell'occhio, in seguito ad operazioni, ed in alcune forme d'infiammazione interna, noi annettiamo un'estrema importanza alla uniforme compressione esercitata dalla chiusura delle palpebre, e l'aumentiamo talvolta applicandovi una benda. In ogni caso, cerchiamo di evitare grandi sforzi espiratorii, gl'inconvenienti dei quali sono ben conosciuti». Il signor Bowman mi informa che, in casi di eccessiva fotofobia, la quale accompagna ciò che nei fanciulli prende nome di oftalmia scrofolosa - allorché la luce riesce così penosa a sopportarsi da far chiudere energicamente le palpebre per settimane e mesi interi, - egli fu spesso meravigliato al pallore del globo oculare, o per dir meglio, alla mancanza di quell'arrossamento ch'egli poteva aspettarsi sopra una superficie alquanto infiammata. Egli inclina ad attribuire codesto pallore all'energico serrar delle palpebre.

130) DONDERS, ibid., p. 36.

131) ll signor HENSLEIGH WEDGW00D (Dict. of English Etymology, 1859, vol. I, p. 410) dice: «Il verbo to weep deriva dall'anglo-sassone wop, il di cui senso originale è semplicemente gridare (outcry)».

132) De la Physionomie, 1865, p. 217.

133) Ceylon, terza ediz., 1859, vol. II, p. 364, 376. Mi sono indirizzato al signor Thwaites, a Ceylan, per avere altre informazioni relative al pianto dell'elefante; ebbi in risposta una lettera dal reverendo signor Glenie, che volle gentilmente osservare per conto mio, insieme ad alcune altre persone, una truppa di elefanti catturati da poco. Allorché si recava loro molestia, mandavano grida violente, ma senza mai contrarre i muscoli peri-oculari e senza mai versar lacrime. D'altra parte i cacciatori indigeni assicurano di non aver mai veduto un elefante a piangere. nondimeno mi pare che non si possa mettere in dubbio i dettagli circostanziati offerti da sir E. Tennent, confermati per giunta dalle positive affermazioni dei custodi del Giardino zoologico. È certo che i due elefanti del Giardino, nel punto in cui cominciavano a gridare, contraevano invariabilmente i muscoli orbicolari. V'ha un solo mezzo per conciliare queste diverse asserzioni: supporre cioè che gli elefanti recentemente catturati di Ceylan, furiosi o sgomenti, desiderassero osservare i loro persecutori, né contraessero quindi i muscoli orbicolari, per non disturbar la visione. Quelli che il signor Tennent vide spargere lacrime erano abbattuti, e disperati, avevano rinunciato alla lotta. Gli elefanti che, al Giardino zoologico, gridavano obbedendo a un comando, non erano evidentemente atterriti, né furibondi.

134) BERGEON, citato nel Journal of Anatomy and Physiology, nov. 1871, p. 235.

135) Veggasi, ad esempio, un caso riferito da sir C. Bell: Phylosophical Transactions,1823, p. 177.

136) Vedi su questi argomenti: On the Anomalies of Accommodation and Refraction of the Eye, del prof. DONDERS, 1864, p. 573.

137) Citato da sir J. LUBBOCK, Prehistoric Times, 1865, p. 458.

138) Le precedenti descrizioni sono in parte frutto delle mie osservazioni, ma specialmente sono tratte da GRATIOLET (De la Physionomie, p, 53, 337; sui sospiri, 232). Questo autore ha pertrattato l'argomento sotto ogni punto di vista. - Veggasi anche HUSCHKE, Mimices et Physiognomices, Fragmentum Physiologicum, 1821, p. 21. Intorno all'espressione sbiadita del guardo, veggasi il dottor PIDERIT, Mimik und Physiognomik, 1867, p. 65.

139) Per l'influenza dell'affanno sugli organi respiratorii, veggasi specialmente sir C. BELL, Anatomy of Expression, terza edizione, 1844, p. 151.

140) Nelle precedenti osservazioni sul modo con cui le sopracciglia si fanno oblique, ho seguito l'opinione generale di tutti gli anatomici dei quali ho consultato le opere od intesi verbalmente le idee sull'azione dei muscoli su menzionati. Nel corso di quest'opera, terrò lo stesso metodo relativamente all'azione dei muscoli corrugator supercilii, orbicularis, pyramidalis nasi e frontalis. Tuttavia il dottor Duchenne ritiene (e ciascuna delle conclusioni a cui giunge merita una seria considerazione) che il muscolo che solleva l'estremità interna, ed è l'antagonista della parte superiore ed interna dell'orbicolare, come anche del pyramidalis nasi, dei sopraccigli, sia il corrugator, chiamato da lui sopraccigliare (vedi Mécanisme de la Physionomie humaine, 1862, in-foglio, art. V testo, e figure dalla 19 alla 29; edizione in-8°, 1862, p. 43, testo). Peraltro quest'autore ammette che il corrugator ravvicini le sopracciglia, producendo così delle rughe verticali sopra la radice del naso o quel che si dice un aggrottamento di sopraccigli. egli crede ancora che, relativamente ai due terzi esterni del sopracciglio, il corrugator agisca in comunanza con la parte superiore dell'orbicolare e che questi due muscoli siano gli antagonisti del frontale. A me, dopo i disegni di HENLE (fig. 3), riesce impossibile comprendere come il corrugator possa agire nel modo descritto dal signor Duchenne. Veggansi pure su questo argomento le osservazioni del prof. DONDERS (Archives of Medicine, 1870, vol. V, p. 34). J. Wood, così celebre per i minuziosi suoi studi sui muscoli del corpo umano, mi dice ch'egli crede esatta la mia teoria intorno all'azione del sopraccigliare. Ma ciò non ha alcuna importanza relativamente all'espressione cagionata dall'obliquità dei sopraccigli, e non ne ha di più per spiegarne l'origine.

141) Sono obbligatissimo al dottor Duchenne del permesso concessomi di far riprodurre a mezzo della eliotipia queste due fotografie (fig. 1 e 2) tolte dalla sua opera in-foglio. Molte fra le precedenti operazioni sull'increspamento della pelle, quando le sopracciglia diventano oblique, sono tratte dal suo bellissimo capitolo su questo argomento.

142) Mécanisme de la Phys. humaine. Album, p. 15.

143) HENLE, Handbuch der Anat. des Menschen,1858, vol. I, p. 148, fig. 68 e 69.

144) Veggasi lo studio sull'azione di questo muscolo, del dott. DUCHENNE, Mécanisme de la Physionomie humaine. Album (1862), VIII, p. 34.

145) HERBERT SPENCER, Essays Scientific, ecc., 1858, p. 360.

146) F. LIEBER, sui suoni vocali di L. BRIDGMAN, Smithsonian Contributions, 1851, vol. II p. 6.

147) Veggasi anche MARSHALL, Philosophical Transactions, 1864, p. 526.

148) Nell'opera del BAIN (The Emotions and the Will, 1865, p. 247) si trova una lunga e interessante discussione sulle cause del riso. La citazione, trascritta più in su, sul ridere degli Dei è tratta da quest'Opera. - Si veda anche MANDEVILLE, The Fable of the Bees, vol. II, p. 168.

149) The Physiology of Laughter. Essays, seconda serie, 1863, p. 114.

150) LISTER, Quarterly Journal of Microscopical Science, 1853, vol. I, p. 266.

151) De la Physionomie, p. 186.

152) Sir C. BELL (Anat. of Expressions; p. 147) fa alcune osservazioni sul movimento del diaframma durante il riso.

153) Mécanisme de la Physionomie humaine. Album, leggenda VI.

154) Handbuch der, System. Anat. des Menschen,1858, vol. I, p. 144. - Veggasi la mia fig. 2, H.

155) Si veggano anche le osservazioni del dott. J. CRICHTON BROWNE, relative allo stesso argomento, nel Journal of Mental Science, aprile 1871, p. 149.

156) C. VOGT, Mémoire sur les Microcéphales, 1867, p. 21.

157) Sir C. BELL, Anatomy of Expression, p. 133.

158) Mimik und Physiognomik, 1867, p. 63-67.

159) Veggansi le osservazioni di sir J. REYNOLDS (Discourses, XII, p. 100). «Egli è curioso, egli dice, osservare come gli estremi delle passioni s'esprimano, salvo leggerissime differenze, coi medesimi atti». Ad esempio, egli cita il piacere frenetico d'una Baccante ed il dolore d'una Maria Maddalena.

160) Il dott. PIDERIT giunse alle medesime conclusioni, ibid., p. 99.

161) La Physionomie, di G. LAVATER, edizione del 1820, vol. IV, p. 224. - Per la citazione seguente veggasi anche sir C. BELL, Anatomy of Expression, p. 172.

162) Dictionary of English Etymology, seconda ediz., 1872. Introduzione, p. XLIV.

163) CRANTZ, citato da TYLOR, Primitive culture, 1871, vol. I, p. 169.

164) F. LIEBER, Smithsonian Contributions, 1851, vol. II, p. 7.

165) Il signor BAIN fa notare (Mental and Moral Science, 1868, p. 239) che «la tenerezza è un gradito sentimento, derivato da varie cause, e che ha per effetto di spingere gli uomini ad abbracciarsi a vicenda».

166) In sir J. LUBBOCK (Prehistoric Times, seconda ediz., 1869, p. 552) si trovano le ragioni che giustificano queste asserzioni. La citazione di Steele è tolta da quest'Opera.

167) Si veda uno studio completo di tale questione, con ogni spiegazione, in E. B. TYLOR, Researches into the Early History of Mankind, seconda ediz., 1870, p. 51.

168) Origine dell'Uomo, trad. italiana di M. LESSONA, pag. 532.

169) Veggasi lo studio di questo fatto in Body and Mind, del dott. MAUDSLEY, 1870, p. 85.

170) The Anatomy of Expression, p. 103, e Philosophical Transactions, 1823, p. 182.

171) The Origin of Language, 1866, pag. 146. - TYLOR (Early History of Mankind, seconda ediz., 1870, p. 48) attribuisce un'origine più complessa alla posizione delle mani durante la preghiera.

172) Anatomy of Expression, p. 137-139. Non è a stupire se i sopracciliari assunsero maggior sviluppo nell'uomo che non nelle scimmie antropomorfe, perché l'uomo li mette in moto continuamente e nelle più svariate circostanze, ond'essi ebbero a fortificarsi per l'uso, e questo carattere dovette trasmettersi per eredità. Vedemmo l'importanza della loro funzione, in uno a quello dei muscoli orbicolari, proteggendo gli occhi contro i pericoli di un afflusso sanguigno troppo notevole durante violente espirazioni. Quando si chiudono gli occhi con ogni possibile forza e prestezza, per esempio a schivare una percossa, si contraggono le sopracciglia. Nei selvaggi ed in generale presso gli uomini che stanno abitualmente a testa scoperta, le sopracciglia sono sempre abbassate e contratte per riparare gli occhi da troppo vivida luce; questo movimento, in parte effettuato dai sopracciliari, dovette riuscire specialmente utile ai primi antenati dell'uomo, allorché cominciarono ad assumere la stazione eretta. Recentemente il prof. DONDERS espose l'opinione che i sopracciliari giovino a spingere il globo dell'occhio in avanti per la visione degli oggetti vicini (Arch. of Medic., ed. da L. BEALE, 1870, vol. V, p. 34).

173) Mécanisme de la Physionomie Humaine. Album, leggenda III.

174) Mimik und Physiognomik, p. 46.

175) History of the Abipones, trad. ingl., vol. II, p, 59, citata da LUBBOCK, Origin of Civilization, 1870, p. 355.

176) De la Physionomie, p. 15, 144, 146. - HERBERT SPENCER attribuisce l'increspamento dei sopraccigli esclusivamente all'abitudine di contrarli, onde far ombra agli occhi e proteggerli contro una troppo vivida luce. Vedi Principles of Psychology, seconda ediz., 1872, p. 546.

177) GRATIOLET osserva (De la Physionomie, p. 55) che: «quando fissa l'attenzione su qualche immagine ideale, l'occhio vaga nel vuoto e s'associa automaticamente alla contemplazione dell'animo». A vero dire, è già molto se a questa osservazione si dà il nome di schiarimento.

178) Miles Gloriosus, atto II, scena seconda.

179) La fotografia originale del sig. Kindermann è molto più espressiva di questa copia, perché si distinguono assai meglio le pieghe della fronte.

180) Mécanisme de la Physionomie humaine. Album, leggenda IV, fig. 16-18.

181) HENSLEIGH WEDGWOOD in The origin of Language, 1866, p. 78.

182) MÜLLER, citato da HUXLEY, Man's Place in Nature, 1863, p. 38.

183) Ne ho dato molti esempi nella mia Origine dell'Uomo (vol. I, cap. IV).

184) Anatomy of Expression, p. 190.

185) De la Physionomie, p. 118-121.

186) Mimik und Physiognomik, p. 79.

187) Veggansi a questo proposito le osservazioni di M. BAIN, The Emotions und the Will, ediz. seconda, 1865, p. 127.

188) RENGGER, Naturgesch. der Säugethiere von Paraguay, 1830, p. 3.

189) Sir C. BELL, Anatomy of Expression, p. 96. - Il dott. BURGESS (Physiology of Blushing, 1839, p. 31) descrive il rossore che in una negra, sotto l'impero di cause morali, si riproduceva sopra una cicatrice.

190) Moreau e Gratiolet discussero intorno al colore del viso sotto l'influenza d'una collera intensa. Veggasi l'edizione del 1820 di LAVATER, vol. IV, p. 282 e 300, e GRATIOLET, De la Physionomie, p. 345.

191) Sir C. BELL (Anatomy of Expression, p. 91-107) trattò a lungo su tale questione. MOREAU, appoggiandosi sull'autorità di Portal, fa osservare (nell'edizione del 1820 della Physionomie, per G. LAVATER, vol. IV, p. 237) che gli asmatici finiscono col presentare una permanente dilatazione delle narici, dovuta all'abituale contrazione dei muscoli elevatori dell'ala del naso. - Il dottor PIDERIT (Mimik und Physiognomik, p. 82) spiega la dilatazione delle narici, dicendo ch'essa ha lo scopo di permettere la respirazione, mentre è chiusa la bocca e sono stretti i denti. Parmi che a questa interpretazione sia da preferirsi quella di sir C. Bell, il quale attribuisce questo stato alla simpatia (cioè all'abituale sinergia) di tutti i muscoli respiratorii. Un uomo in collera dilata le narici, anche a bocca aperta.

192) WEDGWOOD (On the Origin of Language, 1866, p. 76) fa parimente osservare che il suono prodotto da una brusca espirazione viene espresso dalle sillabe puff, huff, whiff; ora il motto inglese huff significa precisamente un eccesso di collera.

193) Sir C. BELL (Anatomy of Expression, p. 95) fece delle bellissime osservazioni sull'espressione del furore.

194) De la Physionomie, 1865, p. 346.

195) Sir C. BELL, Anatomy of Expression, p. 177. - GRATIOLET (De la Physionomie, p. 369) dice: «I denti si scoprono ed imitano simbolicamente l'azione del lacerare e del mordere». Gratiolet sarebbe stato più facilmente compreso, se, in luogo di usare la parola vaga simbolicamente, avesse detto che quest'atto è il vestigio di un'abitudine tempo addietro acquisita, quando i nostri antenati, uomini a mezzo, lottavano a colpi di denti, come presentemente lo fanno i gorilla e gli oranghi. - Il dottor PIDERIT (Mimik ecc., p. 82) parla anche della tensione del labbro superiore durante un accesso di furore. - Nella incisione d'una fra le stupende pitture di Hogarth, agli occhi brillanti e spalancati, alla fronte aggrottata, ai denti scoperti, risulta, mirabilmente rappresentata, l'espressione della collera.

196) Oliver Twist, vol. III, p. 245.

197) The Spectator, 11 luglio 1868, p. 819.

198) Body and Mind, 1870, p. 51-53.

199) Nel suo famoso libro: Conférence sur l'Expression (La Physionomie, per LAVATER, edizione del 1820, vol. IX, p. 268) LEBRUN fa osservare che la collera si esprime stringendo i pugni. - Veggasi pure, su questo argomento, HUSCHKE, Mimices et Physiognomices, Fragmentum Physiologicum, 1824, p. 20, ed ancora sir C. BELL, Anatomy of Expression, p. 219.

200) Transact. Philos. Soc., Appendix, 1746, p. 65.

201) Anatomy of Expression, p. 136. - Sir C. BELL (p. 131) al muscolo che scopre i canini dà il nome di «muscolo del brontolìo» (snarling muscles).

202) HENSLEIGH WEDGWOOD, Dictionary of English Etymology, 1865, vol. III, p. 240-243.

203) ) Origine dell'Uomo, trad. italiana di M. LESSONA, pag. 96.

204) De la Physionomie et de la Parole, 1865, p. 89.

205) Physionomie humaine. Album, leggenda VIII, p. 35. - GRATIOLET (De la Phys., 1865, p. 52) parla anche dell'atto che consiste nel distorre gli occhi ed il corpo.

206) Il dott. W. OGLE, in una interessante Memoria sul senso dell'odorato (Medico-Chirurgical Transactions, Vol. LIII, p. 268), dimostra che, volendo gustare un profumo, non immettiamo l'aria per il naso profondamente, ma con piccole inspirazioni, rapide e ripetute. Se «durante questo tempo si osservano le narici, si vedrà che, ben lungi dal dilatarsi, si contraggono a ciascuna aspirazione. La contrazione poi non si estende a tutta l'apertura delle narici, ma solamente alla porzione posteriore». Poscia quest'autore spiega la causa di tal movimento. - All'incontro, quando vogliamo evitare un odore, la contrazione, mi pare, non interessa che la parte anteriore.

207) Mimik und Physiognomik, p. 84-93. - GRATIOLET (ibid., p. 155) è quasi d'accordo col dottor Piderit relativamente all'espressione del disprezzo e del disgusto.

208) L'alterigia implica una dose considerevole di spregio; e secondo il sig. WEDGWOOD (Dict. of English Etymology, vol. III, p. 125), una delle radici della parola alterigia (scorn) significa lordura o fango. Una persona che si tratta con alterigia è tenuta qual fango.

209) Early History of Mankind, seconda ediz., 1870, p. 45.

210) Veggasi, su questo fenomeno, HENSLEIGH WEDGWOOD, Dictionary of English Etymology, introduzione, seconda ediz., 1872, p. xxxvii.

211) Il dottore Duchenne crede che nel rovesciamento del labbro inferiore, le commessure siano abbassate dai depressores anguli oris. HENLE al contrario ritiene che quest'ufficio sia disimpegnato dal quadrato del mento (Handbuch d. Anat. des Menschen, 1858, vol. I, p. 151).

212) Citato da TYLOR, Primitive culture, 1871, p. 169.

213) Queste due citazioni sono riprodotte dal signor il. WEDGWOOD, On the Origin of Language, 1866, p. 75.

214) Questo fatto è asserito dal sig. TYLOR (Early History of Mankind, seconda ediz., 1870, p. 52); egli poi aggiunge: «L'origine di questo movimento non è chiara».

215) Principles of Psychology, seconda ediz., 1872, p. 552.

216) GRATIOLET (De la Phys., p. 351) fa questa osservazione, ed offre alcune buone note sulla espressione dell'orgoglio. - Veggasi sir C. BELL (Anatomy of Expression, p. 111) a proposito dell'azione del musculus superbus.

217) Anatomy of Expression, p. 166.

218) Journey through Texas, p. 352.

219) Madama OLIPHANT, The Brownlows, vol. II, p. 206.

220) Essai sur le Langage, seconda ediz., 1846. Devo i miei ringraziamenti a miss Wedgwood, che m'ha dato questo ragguaglio, insieme ad un'analisi dell'opera in questione.

221) On the Origin of Language, 1866, p. 91.

222) On the vocal Sounds of L. Bridgman. Smithsonian Contributions, 1851, vol. II, p. 11.

223) Mémoire sur le Microcéphales, 1867, p. 27.

224) Citato da TYLOR, Early history of Mankind, seconda ediz., 1870, p. 38.

225) J. B. JUKES, Letters and Extracts, ecc., 1871, p. 248.

226) F. LIEBER, On the Vocal Sounds, ecc., p. 11. - TYLOR, ibid., p. 53.

227) Dott. KING, Edinburgh Phil. Journal, 1845, p. 313.

228) TYLOR, Early History of Mankind, seconda ediz., 1870, p. 53.

229) LUBBOCK, The Origin of Civilization, 1870, p. 277. - TYLOR, ibid., p. 38. - LIEBER (ibid., p. 11) fa alcune osservazioni sui segni negativi degl'Italiani.

230) Mécanisme de la Physionomie. Album, 1862, p. 42.

231) The Polyglot News Letter, Melbourne, dic. 1858, p. 2.

232) The Anatomy of Expression, p. 106.

233) Mécanisme de la Physionomie. Album, p. 6.

234) Veggasi, ad esempio, l'accurato studio del dott. PIDERIT (Mimik und Physiognomik, p. 88) sulla espressione della sorpresa.

235) Anche il dottor Murie mi diede parecchie informazioni che conducono alla stessa conclusione, e sono in parte fornite dall'anatomia comparata.

236) De la Physionomie, 1865, p. 234.

237) Veggasi, su questo argomento, GRATIOLET, ivi, p. 254.

238) LIEBER, On the Vocal Sounds of Laura Bridgman, Smithsonian Contributions, 1851, vol. II, p. 7.

239) Wenderholme, vol. II, p. 91.

240) LIEBER, On the Vocal Sounds, ecc., ibid. p. 7.

241) HUSCHKE, Mimices et Physiognomices, 1821, p. 18. - GRATIOLET (De la Physion., p. 255) dà una figura che rappresenta un uomo in questo atteggiamento, che peraltro a me sembra raffiguri la paura mista allo stupore. - Anche LE BRUN nota (Lavater, vol. IX, p. 299) le mani aperte d'un uomo stupito.

242) HUSCHKE, Mimices et Physiognomices, p. 18.

243) North American Indians, terza ediz., 1842, vol. I, p. 105.

244) H. WEDGWOOD, Dict. of English Etymology, 1862, vol. II, p. 35. - Veggasi anche GRATIOLET (De la Physionomie, p. 135) sull'origine delle parole terror, horror, rigidus, frigidus, ecc.

245) Il sig. BAIN (The Emotions and the Will, 1865, p. 54) spiega nel modo seguente il costume indiano «di sottomettere i delinquenti alla prova del riso. L'accusato deve riempirsi la bocca di riso e rigettarlo dopo qualche momento. Se questo s'è conservato affatto secco, si ritiene colpevole il giudicabile, perché in lui la coscienza colpevole ebbe a paralizzare gli organi salivali».

246) Veggasi sir C. BELL, Transactions of Royal Phil. Soc., 1822, p. 308. - Anatomy of Expression, p. 88 e 164.-169.

247) Sullo stralunare degli occhi, veggasi MOREAU, nell'ediz. del 1820 di Lavater, tomo IV, p. 263. - V. anche GRATIOLET, De la Physionomie, p. 17.

248) Observations on Italy, 1825, p. 48, citato nella Anatomy of Expression, p. 168.

249) Citato dal dottor MAUDSLEY, Body and Mind, 1870, p. 41.

250) Anatomy of Expression, p. 168.

251) Mécanisme de la Physionomie humaine. Album, leggenda XI.

252) Il dott. DUCHENNE adotta questo modo di vedere (ibid. p. 45), giacchè egli attribuisce la contrazione del pellicciaio al fremito della paura; tuttavia in altro luogo egli confronta questo fenomeno con quel che determina il sollevamento del pelo in un quadrupede sgomento, paragone ch'è difficile ammettere come perfettamente corretto.

253) De la Physionomie, p. 51, 256, 346.

254) Citato in WHITE, Gradation in Man, p. 57.

255) Anatomy of Expression, p. 169.

256) Mécanisme de la Physionomie. Album, tav. 65, p. 44-45.

257) Si vedano, su questo argomento, le osservazioni del sig. WEDGWOOD nell'introduzione del suo Dictionary of English Etymology, seconda ediz., 1872, p. XXXVII.

258) The Physiology or Mechanism of Blushing, 1839, p. 156. Io avrò occasione più volte di citare questo libro nel presente capitolo.

259) Dott. BURGESS, op. cit, pag. 56. A pag. 33 osserva pure che le donne arrossiscono più degli uomini, come si dirà più sotto.

260) Citato da C. VOGT, Mémoire sur les Microcéphales, 1864, p. 20. - Il dott. BURGESS dubita (op. cit., pag. 56) che gli idioti possano arrossire.

261) LIEBER, Ond the Vocal Sounds, ecc., in Smithsonian Contributions, vol. II, 1851, p. 6.

262) Op. cit., p. 182.

263) MOREAU, ediz. del LAVATER del 1820, vol. IV, p. 303.

264) BURGESS, op. cit., p. 38; sul pallore che segue il rossore, p. 177.

265) V. LAVATER, ediz. del 1820, vol. IV, p. 303.

266) BURGESS, op. cit., p. 114, 122; MOREAU in LAVATER, op. cit., vol. IV, p. 293.

267) Letters from Egypt, 1865, p. 66. Lady GORDON erra quando dice che i Malesi e i Mulatti non arrossiscono mai.

268) Il cap. OSBORN (Quedah, p. 199), parlando di un Malese che accusa di crudeltà, dice di aver sentito piacere quando lo vide arrossire.

269) J. R. FORSTER, Observations during a Voyage round the World, 4°, 1778, p. 229. - WAITZ, Introd. To Anthropology, trad. ingl. 1863, vol. I, pag. 135, dà nuove prove relative ad altre isole dell'Oceano Pacifico. - Vedi anche DAMPIER, sul rossore dei Toncinesi (vol. II, p. 40); io non ho però veduta quest'opera. Waitz cita la testimonianza di Bergmann per dimostrare che i Calmucchi non arrossiscono; di ciò si può dubitare, dopo quello che abbiamo detto rispetto ai Cinesi. Egli cita anche Roth, il quale nega che gli Abissini arrossiscano. Disgraziatamente il capitano Speedy, il quale visse a lungo fra gli Abissini, non ha risposto alla mia domanda su questo punto. Infine devo pure aggiungere che il rajah Brooke non ha mai visto il menomo indizio di rossore nei Dyak di Borneo; e all'apposto essi stessi affermano, che nelle condizioni le quali in noi ecciterebbero rossore «si sentono, come se il sangue si ritirasse dalla faccia».

270) Transact. of the Ethnolog. Society, vol. II, 1870, p. 16.

271) HUMBOLDT, Personal Narrative. Engl. Transl., vol. III, p. 229.

272) Citato da PRICHARD, Phys. History of Mankind, quarta ediz., vol. I, 1851, p. 271.

273) Vedi su questo punto BURGESS, op. cit., p. 32 e WAITZ, Introd. to Anthrop., trad. inglese I, 135. - MOREAU dà una notizia dettagliata (LAVATER, 1820, tom. IV, p. 302) del rossore di una schiava negra del Madagascar, costretta dal suo padrone a mostrare il petto nudo.

274) Citato da PRICHARD, Phys. History of Mankind, quarta ediz., vol. I, 1854, p. 225.

275) BURGESS, op. cit., p. 31. Sul rossore dei mulatti, ivi, p. 33. Io ebbi, rispetto ai mulatti, descrizioni simili.

276) Anche BARRINGTON dice, che gli Australiani del Nuovo Wales meridionale arrossiscono, v. cit. di Waitz, op. cit., p. 135.

277) Il Sig. WEDGWOOD dice, Diction, of English Etymology, vol. III, 1865, p. 155) che la parola vergogna (shame) «ha origine nell'idea di ombra e di nascondiglio e può essere illustrata dal tedesco Schemen, Schatten». - GRATIOLET (De la Physionomie, p. 357-362) ha dato una bella descrizione dei gesti che accompagnano la vergogna; ma alcune sue osservazioni mi sembrano fantastiche. Vedi anche BURGESS (op. cit., p. 69) sullo stesso soggetto.

278) BURGESS, op. cit., p. 181, 182. - BOERHAAVE (citato da GRATIOLET, op. cit., p. 361) fa cenno della tendenza a sparger lacrime nel rossore. Come notammo, il signor Bulmer parla degli occhi umidi dei fanciulli indigeni dell'Australia quando hanno vergogna.

279) Vedi anche gli scritti del dott. J. CRICHTON BROWNE su questo soggetto in The West Riding Lunatic Asylum Medical Report, 1871, p. 95-98.

280) Nel corso d'una dissertazione sul così detto magnetismo animale, in Table Talk, vol. I.

281) Op. cit., pag. 40.

282) Il sig. BAIN osserva (The Emotions and the Will, 1865, p. 65) riguardo alla timidezza delle maniere, che essa «deve la sua origine al contatto dei due sessi o all'influenza dell'attenzione reciproca, e precisamente in conseguenza del timore di ambe le parti, di non convenirsi a vicenda».

283) Vedi le prove su questo soggetto: Origine dell'Uomo, 535.

284) H. WEDGWOOD, Diction. English Etymology, vol. III, 1865, p. 184; lo stesso vale per il latino verecundus.

285) Il signor BAIN (The Emotions and the Will, p. 64) ha parlato della timidezza prodottasi in tali circostanze, e del panico degli attori non abituati alla scena. Sembra che il signor Bain attribuisca questi sentimenti a semplice inquietudine o timore.

286) Essays on Pratical Education, per MARIA e R. L. EDGEWORTH, nuova ediz., vol. II, 1822, p. 38. - Il dott. BURGESS (op. cit., p. 187) fa risaltare molto bene questo punto.

287) Op. cit., p. 50.

288) BELL, Anatomy of Expression, p. 95. - BURGESS, riguardo al citato che segue, op. cit., p. 49. - GRATIOLET, De la Physionomie, p. 94.

289) Sull'autorità di Lady Mary Wortley Montague; vedi BURGESS, op. cit., p. 43.

290) In Inghilterra fu, come io credo, sir H. HOLLAND il primo a scrivere dell'influenza dell'attenzione del nostro spirito sulle varie parti del corpo, nelle sue Medical Notes and Reflections, 1839, p. 64. Questo scritto fu ristampato assai più esteso dallo stesso sir H. HOLLAND nei suoi «Chapters on Mental Physiology,» 1858, p. 79, dalla quale opera io tolgo le mie citazioni. Press'a poco nello stesso tempo e poi anche più tardi trattò dello stesso soggetto il prof. LAYCOCK; vedi Edinburgh Medical and Surgical Journal, 1839, luglio, p. 17-22; vedi anche il di lui Treatise on the Nervous Diseases of Women, 1840, p. 110, e Mind and Brain, vol. II, 1860, p. 327. Le idee del dottor Carpenter sul mesmerismo tendono allo stesso punto. L'illustre fisiologo Johannes MÜLLER scrisse dell'influenza dell'attenzione sui sensi: Handbuch der Physiologie des Menschen, trad. ingl., volume II, 1840, pp. 937, 1085. - Sir James PAGET trattò dell'influenza dello spirito sulla nutrizione degli organi nelle sue Lectures on Surgical Pathology, 1853, vol. I, p. 39. Le mie citazioni sono tolte dalla terza edizione riveduta dal prof. Turner, 1870, p. 28; vedi pure GRATIOLET, De la Physionomie, p. 283-287.

291) De la Physionomie, p. 283.

292) Chapters on Mental Physiology, 1858, p. 111.

293) Mind and Brain, vol. II, 1860, p. 327.

294) Chapters on Mental Physiology, p. 104-106.

295) Vedi sopra questo punto GRATIOLET, De la Physionomie, p. 287.

296) Il dott. CRICHTON BROWNE è persuaso, dietro sue proprie osservazioni fatte sui dementi, che l'attenzione concentrata per lungo tempo in una parte del corpo o sopra un organo finisce per modificare la circolazione capillare e la nutrizione di quella parte o di quell'organo. Egli mi ha comunicato alcuni casi singolari; uno di essi, che qui non può essere raccontato nei suoi particolari, riguarda una sposa di cinquant'anni, la quale ebbe per lungo tempo erroneamente la più ferma persuasione d'essere incinta. Quando s'avvicinò il tempo prefisso, essa si contenne esattamente come se si fosse sgravata d'un figlio, e parve ch'essa provasse dolori straordinari, cosicché il sudore le stava sulla fronte. Il risultato fu uno stato di cose, il quale era stato sospeso durante i sei anni precedenti, e che durò tre giorni. Il sig. BRAID racconta nel suo libro Magic, Hypnotism, ecc., 1852, p. 95, e in altre opere, casi analoghi ed altri fatti, i quali dimostrano l'influenza grande della volontà sulle ghiandole mammarie, perfino su quella d'un solo lato.

297) Il dott. MAUDSLEY ha (The Physiology and Pathology of Mind, seconda ediz., 1868, p. 105) in seguito a buone osservazioni, pubblicato dei dati meravigliosi relativi al miglioramento del senso del tatto mediante l'uso e l'attenzione. È degno di nota, che se questo senso ha con questo mezzo guadagnato in perfezione in una data parte del corpo, per es. in un dito, esso si è perfezionato nello stesso modo anche nell'altro lato del corpo.

298) The Lancet, 1838, p. 39-40, citato dal prof. LAYCOCK, Nervous Diseases of Women,1840, p. 110.

299) Chapters on Mental Physiology, 1858, p. 91-93.

300) Lectures on Surgical Pathology, terza ed., riveduta dal prof. TURNER, 1870, p. 28, 31.

301) Handbuch der Physiologie des Menschen, Bd. 2, 1840, S. 97.

302) Il prof. LAYCOCK ha discusso questo punto in un modo assai interessante. Vedi le sue Nervous Diseases of Women, 1840, p. 110.

303) Sull'azione del sistema vaso-motore, si consulti anche una interessante lettura del signor Michael FOSTER, fatta dinanzi alla Royal Institution, tradotta nella Revue des Cours Scientifiques, 25 set. 1869, p. 683.

304) Vedi gli interessanti fatti narrati dal dott. BATEMAN nel suo trattato sull'Afasia, 1870, p. 110.

305) La Physionomie et la Parole, 1865, p. 103, 118.

306) RENGGER, Naturgeschichte der Säugethiere von Paraguay, 1830, p, 55.

307) Citato da MOREAU nella sua edizione del LAVATER, 1820, tom. IV, p. 211.

308) GRATIOLET (De la Physionomie, 1865, p. 66) afferma la verità di questa conclusione.