Luigi Luca Cavalli Sforza

L’evoluzione della cultura

Codice edizioni, Torino 2008

1.

Nella prefazione al libro, di mole ridotta ma denso e chiaro, l’autore - uno dei genetisti contemporanei più famosi - rileva che “l’evoluzione culturale è un argomento che ha stranamente ricevuto pochissima attenzione”, e che, in conseguenza di questo l’antropologia culturale sta morendo in America, mentre in Europa non ha mai fatto molta strada. Convinto della sua importanza, egli intende rilanciarla in una cornice multidisciplinare, che integri la biologia evoluzionistica con le scienze umane e sociali (linguistica, psicologia, sociologia, antropologia culturale, ecc.).

L’intento, oltre che significativo in sé e per sé, è indiziario di una tendenza che ormai sottende tutti i saperi che hanno come oggetto l’uomo e che io ho definito panantropologia. Genetisti, biologi, neuroscienziati, psicologi, psicoanalisti, sociologi, filosofi sembrano tutti impegnati, talora consapevolmente talaltra inconsapevolmente, in questa direzione. Tutti sanno che l’impresa, data la coincidenza del soggetto e dell’oggetto, non potrà mai pervenire alla Verità: tutti, però, in rapporto alla ricchezza dei dati di cui si dispone, ritengono che sia legittimo uno sforzo per approssimarsi ad essa.

Il problema, naturalmente, sta nelle diverse ottiche e nei diversi presupposti con cui procedono gli studiosi, che sono sempre in qualche misura influenzati dalla loro specializzazione e dai loro punti di vista.

Ciò nondimeno, valutare i diversi contributi nei loro pregi e nei loro limiti potrà senz’altro spostare un po’ al di là il confine tra ignoto e noto.

Cavalli Sforza è un genetista che oserei definire umanista: la sua specializzazione non lo ha portato a restringere le ricerche nell’ambito della genetica strettamente intesa. Da anni, sulla base del darwinismo, egli persegue l’intento di ricostruire una mappa della variazione genetica in rapporto alle differenze linguistiche, che sono l’indizio più immediato e percettibile della diversità culturale che si dà tra i gruppi umani.

La tesi di fondo del saggio in questione è che, nonostante indubbie differenze, si dia una sorta di parallelismo tra evoluzione biologica e evoluzione culturale, la quale ultima è imprescindibile dal linguaggio:

“La parola cultura ha molti significati. Vogliamo usare quello più generale: l'accumulo globale di conoscenze e di innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali trasmessi attraverso le generazioni e diffusi al nostro gruppo sociale, che influenza e cambia continuamente la nostra vita. Questo sviluppo è stato reso possibile dalla capacità di comunicazione fra individui dovuta alla maturazione del linguaggio. Tale capacità, tipicamente umana ed egualmente sviluppata in tutti i popoli oggi viventi, ha permesso alla nostra società di prosperare e di espandersi, demograficamente e geograficamente, anche se la comprensione reciproca è limitata a regioni non troppo vaste a causa della grande differenziazione linguistica locale.

Lo sviluppo culturale che ha generato il nostro comportamento sociale odierno è avvenuto, per la maggior parte, negli ultimi centomila anni, molto probabilmente perché, intorno a quella data, la piccola popolazione che ha dato origine a tutti gli uomini che vivono oggi aveva raggiunto la capacità odierna di comunicare...” (p.3)

Il problema immediatamente conseguente a questa definizione è, per l’appunto, il mistero non già delle modalità con cui si realizza l’evoluzione culturale, ma lo scarso interesse assegnato dagli studiosi a questo tema:

“Finora non vi sono stati seri tentativi di capire i meccanismi dell'evoluzione culturale e di spiegare alcuni fenomeni caratteristici come, ad esempio, le ragioni per cui alcuni tratti culturali sono stabili mentre altri cambiano rapidamente. Per molto tempo la tendenza generale è stata, e continua a essere, quella di considerare le differenze di comportamento osservate in nazioni o culture diverse come legate a differenze di eredità biologica. “ (p. 4)

Benché genetista di professione, Cavalli-Sforza non dà molto credito al riduzionismo genetico sottolineando il significato primario dell’apprendimento:

“E ovvio che il comportamento umano è largamente appreso, dato che le cognizioni che ci consentono di orientarci nella vita quotidiana e nei rapporti sociali sono soprattutto di natura tecnologica o convenzionale. Tuttavia, la stratificazione socioeconomica e la necessità della specializzazione dei vari settori lavorativi creano differenze profonde in ciò che viene imparato. Naturalmente esistono anche differenze di predisposizione individuale a diverse attività intellettuali specifiche, come dimostrano soprattutto casi eccezionali di grandi artisti, letterati, scienziati, uomini politici o inventori, ma non è per nulla chiaro quanto sia importante la componente genetica nell'origine di questi pochi, grandi uomini di genio. Trascurando qui le diatribe sul quoziente di intelligenza, sembra più interessante notare la nostra ignoranza sulle cause dell'origine dei più grandi uomini di genio dell'arte o della letteratura, della scienza o della politica. Molti hanno avuto un'origine umilissima e la loro ascendenza e discendenza non ha necessariamente rivelato doti veramente eccezionali. Ciò induce a considerare in maniera più critica la tendenza a invocare spiegazioni genetiche semplici. D'altra parte, esiste una componente genetica in quasi tutti i caratteri, ma è sovente difficile dimostrarla chiaramente. Essa viene spesso sopravvalutata a causa del metodo normale di analisi finora seguito per separare i fattori genetici e ambientali di qualunque carattere. Tale metodo, basandosi sullo studio della trasmissione in famiglie, incontra notevoli difficoltà nel separare l'eredità biologica dall'eredità socioculturale, che risulta molto forte nella maggior parte delle famiglie e produce effetti che si sottraggono a una semplice valutazione quantitativa. Mozart aveva senza dubbio doti genetiche eccezionali, se poteva comporre musica a cinque anni, ma probabilmente nessuno se ne sarebbe accorto se fosse nato in una famiglia di pigmei africani, invece che in una famiglia austriaca dedita alla musica. In realtà questi personaggi eccezionali traggono beneficio da straordinarie e rarissime combinazioni di doti genetiche e di fattori socioculturali favorevoli. Lo sviluppo della musica è legato soprattutto a un piccolo numero di persone che hanno avuto un'influenza sproporzionata e continuano a dominare il campo. Lo stesso è vero di quasi tutte le arti, delle scienze, di molta tecnologia, della politica e della storia...

Oggi cominciamo a capire meglio l'evoluzione culturale e anche questo suo procedere per sbalzi (lo stesso vale, forse in modo meno drammatico, anche per quella biologica, secondo l'ipotesi degli "equilibri punteggiati" di Niles Eldredge e Stephen J. Gould). Lo studio scientifico dei fenomeni culturali e della loro evoluzione può diventare una realtà.” (p. 3-4)

Occorre naturalmente guardarsi dal rischio del riduzionismo biologico e sociologico. Cavalli-Sforza è perfettamente consapevole di tale rischio. Ciò nondimeno egli ritiene che la genetica, pur trovando il suo campo elettivo di applicazione sul piano dell’evoluzione biologica, rappresenti una “teoria … del tutto generale [che] include anche quella dell'evoluzione culturale, perché vale per qualunque "organismo" capace di autoriproduzione.” (p. 7)

Per non incorrere nel riduzionismo, basta tenere conto, oltre alle analogie, alle differenze che si danno tra gli “oggetti” che evolvono:

“Questo non vuole affatto dire che i geni controllino la cultura: la determinano solo nel senso che controllano gli organi che la rendono possibile e, in particolare, permettono il linguaggio, che è una caratteristica praticamente esclusiva degli uomini ed è la base necessaria per la comunicazione. Ma la cultura rimane profondamente separata e largamente indipendente dai geni: diviene addirittura capace di influenzare l'evoluzione genetica. Naturalmente, nell'estensione dalla biologia alla cultura, molte cose cambiano a cominciare dagli oggetti che evolvono: il DNA nella biologia, le idee nella cultura. Cambiano i nomi che diamo ai meccanismi evolutivi particolari, ma non cambiano i concetti teorici. Rimangono alcuni legami teorici sotterranei ma profondi e, fortunatamente, i termini scientifici di cui abbiamo bisogno sono pochi. Alcuni possono essere mantenuti invariati anche fra campi diversi come la biologia e la cultura perché sono estremamente simili.” (p. 7-8)

2.

Nell’ottica di Cavalli Sforza, la cultura, dunque, evolve sulla base di nuove idee che, se sono socialmente accettate e ritenute utili, si replicano e si diffondono:

“L'evoluzione culturale, nel suo insieme, è determinata dalla somma delle innovazioni e delle scelte o, più esattamente, dall'accettazione o meno di queste innovazioni da parte della società e da quali innovazioni vengono accettate. Vi è quindi un cambiamento continuo che è sempre di natura statistica, dato che è molto improbabile che tutti accettino le stesse scelte. Alcune innovazioni sono più fortunate di altre. La storia della cultura è quindi la storia delle innovazioni: quali sono state proposte, quali hanno avuto fortuna e perché. La motivazione che conduce a creare o accettare un'innovazione è più o meno sempre la stessa: si osserva un bisogno e si cerca di andargli incontro. L'inventore è spesso un personaggio particolare, dotato di creatività e di indipendenza intellettuale, ma ciascuno di noi è potenzialmente un inventore capace di creare qualche novità. Questo inventore occasionale può restare l'unico a utilizzare la sua creazione; più di rado la novità ha fortuna e si diffonde e magari diventa veramente importante nel determinare nuovi sviluppi sociali.

Nel tentativo di ricostruire la storia della cultura è importante anche considerare le motivazioni che spingono di volta in volta ad accettare o a rifiutare un'invenzione. Gli studiosi delle invenzioni hanno trovato che esiste una grande variazione individuale nella tendenza generica ad accettare le novità: da un lato ci sono gli smaniosi di novità, i "pionieri", mentre all'estremo opposto ci sono i più pigri, gli ultimi ad accettare. La tendenza e la velocità di accettazione variano da un individuo all'altro entro questi due estremi, secondo le leggi comuni della variabilità individuale. Ma, naturalmente, l'intensità della motivazione varia anche in base all'oggetto della novità, a quanto se ne ha bisogno e a quanto piace, e risulta pertanto profondamente influenzata anche dai gusti e dalle preferenze personali. Parecchie invenzioni sono di natura tecnologica, ma molte, forse in numero maggiore, sono di natura socioeconomica. Tutte le novità, di qualunque tipo, devono offrire qualche beneficio, almeno all'apparenza, per avere una probabilità non nulla di essere accettate (talvolta l'unico beneficio è quello di essere, appunto, novità). Tuttavia, ogni innovazione non ha solo un beneficio, ma ha sempre anche un costo, che può essere, all'inizio, di difficile valutazione. Ciò crea in alcuni un sentimento di generale sfiducia verso le novità, che tende a rallentarne o impedirne l'accettazione. Esiste tuttavia anche una tendenza opposta che si manifesta con un'attrazione per le novità in quanto nuove. Tra coloro che possiedono una simile tendenza troviamo anche i pionieri.

La storia della cultura ha quindi lo scopo di identificare le innovazioni più importanti in ogni epoca, luogo e situazione in cui sono avvenute, le motivazioni che hanno spinto a proporle e ad accettarle o imporle e la soddisfazione che hanno recato. “ (pp. 11-12)

E’ evidente che fare riferimento a caratteri acquisiti - le idee nuove, appunto - come motore dell’evoluzione spinge a distanza di tempo a rilevare che, se Darwin aveva ragione, anche Lamarck ha intuito qualcosa di importante:

“Nella teoria lamarckiana dell'evoluzione, si riteneva che i caratteri acquistati dall'organismo nel corso della sua vita venissero ereditati. Questo non vale per i caratteri biologici e quindi per l'evoluzione biologica. Invece le "mutazioni" che avvengono nell'evoluzione culturale, cioè le innovazioni e le invenzioni che vengono trasmesse culturalmente, non sono ereditate necessariamente dai figli, ma possono essere ereditate anche da qualche altro membro della società. Quindi l'evoluzione culturale è di tipo lamarckiano, a differenza di quella biologica, e in realtà Lamarck non distingueva fra eredità biologica e culturale quando parlava di "eredità dei caratteri acquisiti". In biologia i caratteri acquisiti durante la vita di un individuo non sono ereditati dai suoi figli. Probabilmente, Lamarck raggruppava con i tratti biologici anche tutti i caratteri di natura psicologica, alcuni - anzi molti dei quali possono essere trasmessi culturalmente e quindi mostrare un'eredità di tipo lamarckiano. Vi è un altro fatto che collega l'evoluzione culturale al modello di Lamarck: egli insisteva sulla "volontà di evolvere". La mutazione culturale, cioè l'invenzione, a differenza di quella biologica, non è un fenomeno indipendente dalla nostra volontà, non è un fenomeno che si possa considerare "casuale", ma ha quasi sempre lo scopo di risolvere un problema pratico particolare. Questa è una grossa differenza tra l'evoluzione culturale e quella genetica, in cui le mutazioni sono invece casuali e non dirette a risolvere i problemi del momento. Inoltre, la trasmissione culturale non è, come quella biologica, legata al passaggio da genitori a figli. Essa può essere infinitamente più rapida, quasi istantanea, specialmente oggi. Viceversa, la trasmissione genetica è condizionata dal processo di riproduzione che richiede una generazione: 25-30 anni nel caso umano. Pertanto, a meno che il tasso di mortalità non sia estremamente elevato, cosa che fortunatamente si verifica assai di rado, il cambiamento genetico delle popolazioni umane è estremamente lento. Quindi vi sono differenze fondamentali fra l'evoluzione biologica e quella culturale e i due meccanismi vanno tenuti perfettamente distinti. Tuttavia essi possono influenzarsi reciprocamente e, per questa ragione, si parla anche di coevoluzione biologico-culturale.” (pp. 26)

Il concetto di coevoluzione è fondamentale. Cavalli Sforza non ha dubbi riguardo al fatto che la biologia possa offrire all’antropologia culturale un modello che è stato comprovato nella sua validità ad un livello, ma è estensibile ad altri livelli:

“Riteniamo utile comprendere le basi dell'evoluzione biologica, perché la sua teoria matematica […] permette di capire qualunque altra evoluzione in cui vi sia, come per gli organismi viventi, autoriproduzione, cioè una trasmissione regolare di unità (genetiche nel caso dell'evoluzione biologica) da genitori a figli. Nell'evoluzione culturale abbiamo gli equivalenti di diversi organismi che si autoriproducono, ma la sostanza che si autoriproduce è molto diversa dal DNA: sono le "idee" che formano non il genoma, ma il nostro corredo di conoscenze, costumi, e così via. Anch'esse vengono trasmesse, in parte, dai genitori ai figli, ma in parte in modo molto diverso e non a individui strettamente imparentati. Il ciclo di trasmissione non dura necessariamente una generazione, come nel caso biologico, ma può essere molto breve, come quando si ricevono notizie per telefono o per radio, oppure lunghissimo, come quando leggiamo gli avvenimenti della guerra di Troia nei poemi di Omero. L'analogia fra le due evoluzioni potrebbe sembrare molto tenue, ma in realtà non lo è: quando impariamo qualcosa dai nostri genitori ci troviamo in una situazione che ha molte analogie con la trasmissione genetica e quando impariamo una barzelletta da un amico ci troviamo in una situazione statisticamente molto simile alla trasmissione delle malattie infettive. Per entrambi i casi vi sono teorie matematiche che prevedono l'andamento dei fenomeni relativi.” (p. 59)

Si tratta naturalmente di distinguere nettamente ciò che si trasmette a livello genetico e a livello culturale:

“Mendel parlava di "elementi" per definire quelli che oggi chiamiamo geni. Quali sono gli "elementi" della cultura? Che cosa sono gli equivalenti del gene nella cultura o, più in generale, del DNA? Si tratta, chiaramente, delle idee che ci trasmettiamo l'un l'altro, che trasmettiamo ai nostri figli, agli amici e a tutti coloro che vengono a contatto con le nostre parole. Possiamo trasmettere le idee nella forma in cui sono state trasmesse a noi, oppure possiamo trasmettere idee modificate o idee nuove. Se ci chiediamo quale sia la natura fisica delle idee, ci troviamo in imbarazzo, In realtà non lo sappiamo, ma è qualcosa che succede nel nostro cervello, in particolare nelle cellule nervose della corteccia, che sono centinaia di miliardi e sono connesse fra loro da fibre nervose che escono dalle cellule. Noi studiamo l'attività delle cellule nervose registrando le correnti elettriche che possiamo ricavarne, o il loro consumo di glucosio o di altre sostanze. Inoltre, sappiamo che vi è una somiglianza, per quanto superficiale, fra il cervello e un computer, il quale può riprodurre entro certi limiti l'attività del cervello. La neurofisiologia sta andando incontro a notevoli sviluppi e possiamo sperare che fra qualche anno capiremo molto di più; oggi però siamo pressappoco allo stesso punto in cui si trovava la genetica prima di scoprire che il DNA è la struttura fisica responsabile dell'eredità. Quanto alla struttura fisica dell'idea, possiamo dire, per non lasciare un completo punto interrogativo, che un'idea, vecchia o nuova, è un circuito di neuroni. L'essenziale è che, quando ci viene spiegata un'idea nuova, di solito capiamo di cosa si tratta e possiamo adottarla, prendendo qualche iniziativa suggerita dall'idea, oppure rifiutarla.

In realtà siamo già andati un passo avanti perché, quando ci viene proposta un'idea e noi la accettiamo o la rifiutiamo, è già avvenuta una trasmissione culturale. La prima fase, la mutazione, è la creazione di un'idea nuova. Possiamo chiamarla "innovazione" o "invenzione". Se non vengono create idee nuove, vi è anche un'altra possibilità di mutazione: la perdita di un'idea, di un costume (una mutazione di "perdita" avviene anche nel DNA, quando ne viene perduto un pezzo, magari anche una sola base)...

Chi conosce una nuova idea, o un'idea comunque non nota ai potenziali allievi, può avere il desiderio di insegnarla; oppure, chi non la conosce può avere il desiderio di apprenderla. Questo è l'atto della trasmissione, che però può non funzionare se vi è il rifiuto o l'incapacità di apprendere. Si può anche dire che la trasmissione passa attraverso due fasi: la comunicazione di un'informazione, di un'idea, da un insegnante (transmitter) a un allievo (transmitter), e la comprensione e acquisizione dell'idea. Questo è l'atto di riproduzione dell'idea che avviene quando l'idea passa da un cervello all'altro. Dato che consideriamo tale atto analogo alla generazione di un figlio, possiamo parlare di autoriproduzione delle idee. E chiaro che i meccanismi sono profondamente diversi, in biologia e nella cultura, ma il risultato essenziale è lo stesso. Un DNA può generare molte copie di sé che alloggeranno entro i corpi di individui diversi, e l'idea può generare molte copie di sé in altri cervelli. Indubbiamente si tratta di autoriproduzione anche nel caso delle idee e, altrettanto indubbiamente, le idee hanno possibilità di mutazione. Occorre intendere la mutazione in un senso più generale, in quanto vi è la possibilità che sorgano idee completamente nuove, come una generazione dal nulla, una vera creazione. Le idee (anche se non sappiamo esattamente cosa siano) sono oggetti materiali in quanto hanno bisogno di corpi materiali e di cervelli, in cui essere prodotte per la prima volta e riprodotte nel processo di trasmissione: come il DNA sono oggetti materiali, anche se di natura profondamente diversa da esso.” (pp. 67-69)

Le idee nuove sono dunque prodotte da qualcuno ma verificate nella loro validità dal gruppo sociale. Tenendo conto di questo aspetto si può parlare tranquillamente e propriamente di selezione culturale:

“Non c'è dubbio che qualunque oggetto capace di autoriprodursi e mutare sarà soggetto o meno a una forma di selezione naturale, come discuteremo più avanti. Dato che il passaggio di un'idea da un cervello a un altro è certamente una forma di autoriproduzione, esso determinerà selezione, sia culturale sia naturale, qualora vi siano idee diverse in competizione. Abbiamo detto che un'idea è molto probabilmente un circuito di neuroni che ha, ovviamente, la capacità di esistere a lungo, anche per tutta la vita, dopo essersi formato nel cervello con processi di cui al momento ignoriamo i dettagli. Siamo sicuri che molte idee sono innate, cioè circuiti creati nel corso dello sviluppo embrionale. Molti di questi circuiti esistono alla nascita, e forse anche prima, e possiamo considerarli come fissati geneticamente nel nostro DNA, ma molti sorgono nel corso della vita attraverso il nostro sviluppo culturale, sia perché apprendiamo nuove idee dagli altri sia perché le sviluppiamo noi stessi.” (pp. 71-72)

La plasticità del cervello assegna alle idee la loro potenza e la capacità di diffusione, il cui unico limite sono le differenze linguistiche:

“Si può dire che la cultura sia un meccanismo biologico, in quanto dipende da organi, come le mani per fare gli strumenti, la laringe per parlare, le orecchie per udire, il cervello per capire, ecc., che ci permettono di comunicare fra di noi, di inventare e di costruire nuove macchine capaci di esercitare funzioni utili e speciali, di fare tutto quel che è necessario, desiderato e possibile. Ma è un meccanismo dotato di grande flessibilità che ci permette di applicare qualunque idea utile ci venga in mente, e sviluppare soluzioni per i problemi che nascono di volta in volta.

Oltre a questa totipotenza, un'altra caratteristica della cultura è la sua capacità di diffondersi rapidamente a tutta la popolazione: un meccanismo di adattamento reso possibile da una o più innovazioni, se la diffusione non è ostacolata da barriere geografiche, economiche o sociali. E anche chiaro che diventa necessaria un'elevata specializzazione e divisione del lavoro, a causa della grande quantità di conoscenze e abilità diverse che sono necessarie nella vita moderna. Dato che la comunicazione fra i membri di una società è molto importante, i comportamenti che rendono più coesa e più efficiente una società hanno una certa tendenza a diffondersi nel gruppo, rendendolo culturalmente piuttosto omogeneo. D'altra parte, il linguaggio evolve rapidamente e i gruppi che hanno una necessità limitata o nulla da comunicare fra loro hanno pochi scambi culturali; quindi il linguaggio di gruppi anche relativamente vicini può sviluppare rapidamente delle differenze. Bastano mille o millecinquecento anni perché due lingue separate perdano la comprensibilità reciproca. Sorgono così i dialetti legati alla zona di origine, si differenziano, perdono comprensibilità reciproca e divengono lingue diverse.

La differenziazione linguistica tende a ridurre gli scambi culturali e ad aumentare le differenze culturali tra i gruppi. In pratica, possiamo attenderci che le differenze culturali fra etnie diverse siano grandi, e quelle entro una medesima etnia piccole: il contrario di quanto avviene per la variazione genetica, dove la differenza fra popolazioni è piccola rispetto a quella all'interno delle popolazioni. Questa regola sembra ragionevole, ma in realtà non è mai stata dimostrata e forse neanche enunciata in modo esplicito. Ma varrebbe la pena di controllare la correttezza di questa ipotesi. Vi sono difficoltà nell'analisi delle differenze culturali, perché è difficile stabilire scale di misura valide anche al livello delle differenze qualitative dei caratteri culturali, anche se sono difficoltà superabili. Il motivo principale a sostegno di questa regola, che sembra verosimile ma probabilmente non è mai stata enunciata, è che per la cultura vi è la necessità di una coerenza entro il gruppo che manca per la variabilità genetica. Infatti, la variazione genetica può salire a livelli elevati ed è vantaggioso che essa sia mantenuta al livello più alto possibile, compatibilmente con il mantenimento della completa fertilità tra gli individui della stessa specie. Siamo sicuri che non vi è nessun limite all'interfertilità fra gruppi umani. La ragione è semplice: siamo una specie molto giovane e la differenziazione che ha potuto svilupparsi è molto limitata. Siamo molto colpiti dalla differenza di colore della pelle, rispetto alla sua relativa omogeneità locale, dovuta all'adattamento a climi molto diversi. Ma tale differenza è connessa a ben pochi geni ed è molto visibile perché l'adattamento al clima impone cambiamenti di superficie.” (p. 79)

La trasmissione culturale ha dunque un limite, che spiega le sue vicissitudini e il suo cotaante funzionare meglio all’interno del gruppo che tra i gruppi:
Diversamente da quelle genetiche, molte differenze culturali possono aumentare rapidamente; tuttavia esse non possono aumentare liberamente entro una popolazione, perché l'alta intensità di scambi culturali all'interno del gruppo sociale richiede un'elevata somiglianza di comportamento individuale affinché i contatti sociali possano essere mantenuti. Al contrario, fra popolazioni che hanno poco scambio culturale le differenze culturali possono svilupparsi facilmente. Gli emigranti possono imparare, di solito in un tempo abbastanza breve, quanto è necessario per trovarsi bene fra stranieri. Inoltre, una delle regole sociali più comuni è l'ospitalità, cioè la tolleranza e la disponibilità a dare aiuto agli stranieri, che rende possibile (fino a un certo punto) gli scambi culturali fra gruppi culturalmente diversi. Invece, la variazione genetica è altamente conservata e molto stabile nel tempo e incontra come unico limite dentro un gruppo la necessità che rimanga una grande interfertilità. In particolare, le popolazioni cresciute rapidamente per espansione demografica e geografica, come quella umana, mantengono a lungo la loro variabilità genetica originale, che rimane simile all'interno di tutte le popolazioni. La variazione genetica fra popolazioni è dovuta alla selezione naturale, diversa in ambienti diversi, e al drift. Ma, dato che queste forze operano entrambe lentamente, salvo che in situazioni eccezionali, la variazione genetica tra le popolazioni è esigua rispetto alla variazione individuale entro le popolazioni, che si è accumulata in un tempo lunghissimo ed è molto stabile nelle generazioni.

Il fatto che la cultura sia un meccanismo di adattamento è visibile anche nella tendenza di molti fenomeni culturali ad aumentare la forza dei vincoli sociali. Esiste anche, e viene spesso discussa, la possibilità che si sviluppi un adattamento genetico in questa direzione in molti fenomeni culturali tipici come la facilità dell'adesione a molteplici ritualizzazioni - un'ipotesi difficile da provare rigorosamente, ma verosimile se si pensa a una forma di predisposizione che sorge in certe condizioni e si sviluppa magari in periodi critici o sensibili. La parola "rituale" si riferisce a un comportamento altamente standardizzato e ripetitivo, caratteristico di uno o molti gruppi sociali. Il termine fa riferimento a un vasto insieme di comportamenti clic include i fenomeni di iniziazione, tutti i dettami comuni a tutte le religioni, qualunque rito e cerimonia di natura sacra o profana, e anche i piccoli gesti ripetuti che divengono obbligatori anche magari per un individuo soltanto. Già Emile Durkheim aveva individuato nel rituale la funzione di rinforzare il senso di appartenenza a un gruppo sociale.” (p. 79-80)

Sulla base della plasticità cerebrale e del vincolo linguistico la trasmissione la diffusione delle innovazioni può avere i ritmi più vari:

“La trasmissione genetica è perfettamente conservatrice, ma mantiene sempre un'alta variabilità, tranne che in condizioni di riproduzione asessuata; invece quella
culturale è proteiforme: può essere altamente conservatrice, ma può anche permettere variazioni rapidissime. Nella trasmissione culturale esistono tutti i gradi di conservazione o velocità del cambiamento, ma vi sono meccanismi come il linguaggio e la ritualizzazione che tendono a mantenere tutti i membri della società in forte contatto
reciproco e a rendere relativamente omogenei i comportamenti individuali. Si può accumulare variazione culturale fra società diverse più facilmente che all'interno di ciascuna. Questo può succedere perché la trasmissione dei caratteri culturali avviene con molti meccanismi diversi e può diffondere le novità molto rapidamente. I vari meccanismi di trasmissione culturale, verticale e orizzontale, possono funzionare tutti insieme, magari con risultati opposti in conflitto fra loro. I nostri figli imparano cose diverse a casa e dai loro amici e compagni, e qualche volta imparano cose ancora diverse dagli insegnanti: devono fare delle scelte e non sempre fanno quelle migliori, ma intanto preparano i cambiamenti possibili della futura società.

In alcune ricerche compiute con Marc Feldman, ho fatto uno studio teorico della trasmissione mostrando perché la velocità cambia. Vi sono due tipi fondamentali di trasmissione: la trasmissione verticale, il cui modello più semplice è quello della trasmissione da genitori a figli, e la trasmissione orizzontale, in cui il rapporto di parentela o di età ha un'importanza limitata o nulla. Questi termini erano già usati dagli epidemiologi, perché alcune malattie contagiose si trasmettono per via verticale, e altre soprattutto per via orizzontale. La trasmissione culturale verticale ha la tendenza a dare risultati molto simili, anche se non identici, alla trasmissione genetica; quindi è anche conservativa, e l'evoluzione è lenta perché occorrono venticinque anni in media (una generazione) affinché un neonato diventi l'insegnante dei suoi figli. La trasmissione culturale verticale si svolge largamente fra gli stessi attori della trasmissione genetica e coinvolge anche altri membri della famiglia (fratelli, zii): è quindi difficile distinguerla dalla trasmissione genetica, perché entrambe le trasmissioni comportano una certa somiglianza tra genitori e figli o in genere fra parenti. Lo studio della somiglianza fra parenti di diverso grado e tipo è il metodo normale di studio della trasmissione genetica, ma è utile anche per lo studio della trasmissione culturale.” (pp. 83-84)

“La trasmissione culturale può determinare cambiamenti molto rapidi, ma qualunque attività culturale può anche avere una permanenza elevata. Quindi l'evoluzione culturale può essere molto rapida ma anche molto lenta, a seconda dei caratteri considerati, e può avvenire a tutti i gradi intermedi di velocità, dalla massima permanenza alla massima rapidità di cambiamento. La permanenza di effetti culturali può essere confusa facilmente con l'eredità genetica e questo è un errore comune che porta facilmente a conclusioni razziste, intendendo, con Levi-Strauss, il razzismo come la convinzione che le differenze osservate fra le popolazioni siano dovute a fattori genetici e siano quindi praticamente immutabili...

In pratica, accanto ai geni che si autoriproducono e variano assai poco nel tempo, vi sono molti fattori ambientali che hanno una capacità elevata di autoriproduzione, in quanto hanno una vita propria, spesso per necessità di ordine sociale, e che variano poco nel tempo. Essi garantiscono una notevole persistenza delle culture. Non stupisce pertanto che storici, politici ed economisti siano costretti a cercare le radici di molti fenomeni culturali in un tempo che può essere anche lontano e poco noto e debbano essere pronti a cercare interazioni complesse fra fattori di eredità e di evoluzione molto diversi tra loro. Per questo la storia della cultura e la visione multidisclipinare sono diventate necessarie.” (pp. 98-99)

3.

In questa ottica, si pone naturalmente il problema di valutare perché, nonostante lo sviluppo culturale e la potenza della cultura, i comportamenti umani e la storia tout court siano così profondamente segnate dall’rrazionalità. Cavalli Sforza risponde in questi termini:

“L'etologo Danilo Mainardi, che ho avuto il piacere di avere come studente nel primo corso di genetica che ho tenuto a Parma, ha recentemente pubblicato un libro dal titolo L'animale irrazionale, che è ovviamente l'uomo (Mainardi, 2001). II fatto che la corteccia cerebrale sia molto più sviluppata nell'uomo rispetto agli animali fa pensare che questi ultimi siano effettivamente meno razionali di noi e che questa sia una differenza importante. Ma gli studi di psicologia animale mostrano che gli animali si comportano in media piuttosto razionalmente ed è difficile pensare che tutto il loro comportamento sia dovuto sempre e solo ai loro geni. Molte delle loro azioni sono chiaramente razionali. Invece, abbiamo molte ragioni per pensare che, più spesso di quanto vogliamo riconoscere, le nostre azioni siano reazioni apparentemente irrazionali, cioè dettate da emozioni provocate da eventi esterni, cui si aggiungono pulsioni interne spontanee che occorre distinguere dalle emozioni. Le nostre emozioni e pulsioni sono irrazionali, ma solo nel senso che non sono di solito provocate da ragionamenti coscienti o, comunque, completamente controllati da noi. Esse si trovano all'interno della parte più profonda e antica del nostro cervello. Senza dubbio sono predisposte dai geni, ma non ci si può attendere che la loro programmazione sia perfetta e che non sia alterata dagli eventi della nostra vita, che inevitabilmente influenzano la nostra personalità. Possiamo considerare le emozioni e le pulsioni come irrazionali, anche se in realtà la parte genetica è stata costruita nel corso dell'evoluzione e quindi ha una sua razionalità dettata dalla selezione naturale. Ciò però non è sufficiente a garantire la miglior prestazione in ogni situazione e sarebbe sempre meglio poter lasciare alla parte razionale di noi il tempo e il modo di controllare quel che facciamo. Non è neanche facile fare un elenco completo di pulsioni che vada oltre a quelle più banali come fame, sete, desideri più o meno specifici (sessuale e molti altri), rabbia, paura determinata da eventi esterni inattesi e così via. Inoltre, non è sempre facile distinguere le pulsioni dalle emozioni, con cui possono essere in parte o completamente identificate, e da altri stati psicologici durevoli come invidia, gelosia, odio, ammirazione, affetto, amore e così via.

Forse la neurofisiologia potrà aiutare a chiarirci le idee anche su queste classificazioni. Ma la psicologia già aiuta in due modi questa analisi: crea una classificazione delle personalità che permette di capire qualcosa, genericamente, sulle preferenze e le tendenze delle persone singole e studia i valori (morali) che vengono accettati dagli individui, dalle società e dalle culture e che sono una guida (talora solo velleitaria) per il comportamento. Spesso, questi valori sono espressi da proverbi (la cosiddetta "saggezza dei popoli") e modi di dire e possono essere valutati chiedendo agli individui in esame se accettano e ammirano o meno certi proverbi, modi di dire o esempi di valori. Naturalmente, ogni indagine psicologica che utilizza questionari è sempre soggetta a limitazioni che dipendono dalle condizioni e dai motivi per cui vengono effettuate e anche dalla stessa personalità dell'individuo che si vorrebbe indagare.

Gli psicologi sono, naturalmente, agguerriti e compiono spesso controlli interni dei loro questionari che permettono una certa garanzia di validità, ma non ci si può fidare interamente di nessun test di personalità, di accettazione di valori morali, di soddisfazione personale o di opinione di se stessi. Tali questionari non sarebbero affidabili neppure se fossero sottoposti sotto lie detector. Questo non vuoi dire che analisi del genere non possano aiutare a osservare, documentare e capire differenze individuali, sociali, regionali e nazionali. Ciò che si vuoi dire è che esse vanno sempre prese "con più di un grano di sale" (o, come si dice spesso in inglese, "con una tonnellata di sale"). Forse, nel definire una personalità, la cosa più importante e difficile è capire se e quanto una persona sia in grado di pensare razionalmente e di capire quali siano le forze irrazionali alle quali è più sensibile.

Un grande problema di natura più generale, comunque, è che sarebbe molto interessante (ma non veramente importante dal punto di vista pratico) sapere se e in che misura queste tendenze razionali e irrazionali di un individuo abbiano un'origine genetica o socioculturale. In realtà, il problema è estremamente difficile. Malgrado lo sforzo fatto per capire il Q.I., il mondo scientifico è ancora diviso: una frazione crede che sia quasi tutto di origine genetica, mentre un'altra, come abbiamo già detto, dà un'importanza all'incirca eguale a tre fattori, ossia l'eredità biologica, l'influenza dell'ambiente familiare unitamente a quello socioculturale, cioè la trasmissione culturale, e i fattori esterni accidentali che intervengono nello sviluppo intellettuale dell'individuo. La seconda opinione è quella a cui io mi associo. Il Q.I. è una discreta misura della "razionalità" di un individuo, ma è senza dubbio una misura "fenotipica", cioè non dice quale sia il vero potenziale genetico dell'individuo: il Q.I. misura solo il potenziale realizzato attraverso l'insegnamento e l'esperienza che questi ha accumulato nel tempo. Come si è detto, agli emigranti italiani, che furono sottoposti al controllo del Q.I. in occasione dell'arrivo a NewYork o della coscrizione militare in America, fu assegnato un Q.I. pari a zero, in quanto erano analfabeti, e queste misure vennero usate dal Congresso per decidere che si doveva limitare a cifre bassissime la quota di immigrazione dall'Europa del sud. Il Q.I. misura anche la capacità di un individuo di imparare un lavoro che richiede un'intelligenza un pò superiore alla media e quindi è utile per l'assunzione di impiegati, ma non misura bene eventuali prestazioni eccezionali (James Watson dice che non aveva un Q.I. molto superiore alla media).

Le capacità intellettuali d'eccezione sono quasi sempre specializzate; forse quasi ogni individuo ha qualche lato del suo intelletto piuttosto sviluppato, anche se magari non lo ha mai scoperto. Solo pochissimi individui, come Leonardo da Vinci, hanno doti eccezionali che permettono loro di produrre opere magistrali in numerosissime direzioni, dalla scienza all'ingegneria alla pittura; ma individui del genere si contano in tutta la storia del mondo sulla punta delle dita. Il Q.I. ci dice anche poco sulla parte irrazionale di un individuo, che qualche volta è anche potenzialmente positiva, almeno in certi lavori. Oggi è un fatto accettato che malattie psichiche come la schizofrenia, la psicosi maniaco-depressiva e certe paranoie, che sono chiaramente causa di irrazionalità pronunciata e spesso decisamente patologica (cioè, determinano episodi di vera follia), possono predisporre favorevolmente a certe attività artistiche o anche scientifiche, favorendo l'immaginazione ("allargano la fantasia"). Il numero di pittori o poeti che furono, per una parte della loro vita, rinchiusi in manicomio per queste cause è troppo grande e troppo nota perché valga la pena di insistervi.” (pp. 116-118)

“Sembra naturale concludere che, se un certo grado di razionalità del comportamento è necessario come base della routine quotidiana e del mantenimento della vita sociale, spesso l'irrazionalità e, qualche volta, una certa casualità - magari semplicemente qualche mutazione biologica o culturale importante - hanno avuto una parte significativa nel determinare le grandi svolte, nel bene e nel male. Queste grandi svolte possono essere considerate responsabili degli "equilibri punteggiati", cioè dei cambiamenti evolutivi rapidi, e non lenti come si riteneva fosse la regola, che si estendono su un'area vasta in un tempo relativamente breve, ma lasciando una situazione radicalmente mutata. Essi avvengono sia nell'evoluzione culturale sia in quella biologica. I più grandi sono stati lo sviluppo del linguaggio e, quindi, dell'uomo moderno, poi l'avvento dell'agricoltura, dei metalli, della scrittura, dell'industria e della medicina.” (p. 119)

4.

La stima che nutro nei confronti di Cavalli Sforza, il cui libro Chi siamo rimane ancora uno dei più bei saggi di divulgazione scientifica pubblicati negli ultimi trenta anni, non comporta un’adesione acritica alle sue idee. Il parallelismo tra replicazione genetica e replicazione culturale penso che abbia un’indubbia validità. La prima tende a preservare il pool genetico proprio di una specie, e rimane in un certo senso sconfitta solo quando si confronta con una mutazione vantaggiosa. La replicazione culturale serve a preservare di generazione in generazione il patrimonio di tecniche, di saperi, di valori di modelli di comportamento “selezionato” dalle generazioni precedenti.

Le differenze però tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale mi sembrano però enormi.

E’ fuori di dubbio che in un’ottica monistica tutti i contenuti psichici scorrono entro canali biologici e che dunque la genetica è il fondamento dell’attività mentale.

Cavalli Sforza, però, per quanto riveli un’apertura inconsueta tra i darwinisti alla teoria degli equilibri punteggiati di Gould ed Eldredge, rimane per alcuni aspetti fermo ad un visione adattamentista sia sotto il profilo biologico che culturale.

Che il cervello umano abbia capacità adattive è attestato dal fatto che una specie originariamente sprovveduta e carente è riuscita a sopravvivere e a colonizzare il mondo. Ciò nondimeno, essa ha pagato e sta pagando prezzi enormi all’essere dotata di un cervello ex-attato, vale a dire indefinitamente ridondante.

La ridondanza funzionale comporta la creatività, l’innovazione, ma anche, in nome dell’indefinito ventaglio di scelte che essa offre ai singoli individui e ai gruppi, il pericolo di imboccare vicoli ciechi di ogni genere.

Ritengo che un modello panantropologico dovrebbe partire da questo aspetto, dalla ridondanza funzionale del cervello, che implica non solo la produzione di idee innovative ma deleterie (come, per esempio, l’ideologia nazista), bensì anche la produzione di pregiudizi, opinioni false, valori posticci, ecc.

La ridondanza funzionale del cervello implica la necessità che la coscienza sia tenuta al riparo da un mondo interiore caotico e complesso. Quello che vale per un singolo cervello vale anche per i gruppi culturali.

La cultura opera senz’altro una selezione, ma spesso sulla base dell’esigenza degli esseri umani di semplificare la massimo grado la complessità della realtà e del loro stesso essere.

Identificare nel mondo delle emozioni, che sono di sicuro prevalenti a livello inconscio, la causa dell’irrazionalità umana, non è del tutto errato, ma banale.

Gran parte dell’irrazionalità umana, sia a livello individuale che collettivo, dipende dal fatto che gli esseri umani sono ancora in gran parte “traumatizzati” dal dono che la natura ha fatto loro, procedono sulla base della strategia dei tentativi e degli errori, e spesso impiegano un tempo indefinito a rendersi conto dell’errore commesso.

La panantropologia non può trascurare la genetica darwiniana, né tanto meno ignorare la lezione di Lamarck. E’ vero, però, che la sua fondazione e la sua costruzione non potrà mai avvenire in un’ottica adattamentista. Ciò significa non solo per essa aprirsi al contributo della teoria degli equilibri punteggiati, ma soprattutto integrare le coperte psicoanalitiche con la biologia. Ciò significa tenere conto che, in tutti i suoi aspetti, a livello individuale e a livello collettivo, la cultura può essere uno strumento di mistificazione e di demistificazione. Finora, però, essa ha funzionato più a favore dell’esigenza umana di sfuggire il confronto con la realtà esistenziale (e storica) che non obbligandolo ad accettare a fronte aperta questa sfida.