Pensare la storia. La storia concettualizzante


Introduzione alla lettura

Ho rilevato più volte (tra l’altro nell’Autobiografia intellettuale) l’importanza che la scoperta della scuola degli storici francesi che facevano capo a Les Annales, avvenuta all’inizio degli anni 70, ha avuto sulla mia formazione.

Essendo già marxista, praticavo da tempo piuttosto sistematicamente lo studio della storia. Ricordo che spesso, per tollerare la noia di alcuni corsi di medicina, ahimè obbligatori, portavo con me all’Università qualche testo storico e lo leggevo avidamente, collocandomi nell’ultimo banco dell’aula.

Mentirei se affermassi di aver amato da sempre la storia. La “scoperta” del fascino di questa disciplina è avvenuto casualmente al liceo, in seguito alla lettura della Storia della letteratura latina di Concetto Marchesi. Dato che l’istituto che frequentavo era sostanzialmente conservatore e bigotto, ho sempre pensato che l’adozione del testo da parte del docente sia avvenuto per ignoranza. All’epoca, 1958, Concetto Marchesi, scomparso da poco, era stato commemorato alla camera dei Deputati da Palmiro Togliatti, suo amico personale. Socialista militante dal 1893, tra i fondatori nel 1921 del Partito comunista italiano, docente universitario che nel 1943 aveva pronunciato all’Università un celebre discorso invitando gli studenti alla resistenza (”Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria; vi ha gettato tra cumuli di rovine; voi dovete tra quelle rovine portare la luce di una fede, l’impeto dell’azione e ricomporre la giovinezza e la Patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi, insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano. (…) Studenti, mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi, maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta insieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga ancora della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace nel mondo”), partigiano, deputato del partito Comunista italiano, anticlericale al punto da entrare in rotta con Togliatti sul problema dell’inserimento dei Patti lateranensi nella Costituzione italiana, Marchesi rappresentava l’incarnazione dell’intellettuale organico gramsciano.

Immagino che il docente, peraltro piuttosto mediocre, se avesse avuto una minima consapevolezza di tutto ciò, si sarebbe ben guardato dall’adottare il testo. Benché presumibilmente casuale, quella scelta rappresentò per me una congiuntura biografica di grande significato.

Non sapevo io stesso nulla di Concetto Marchesi, ma la lettura del libro, che delineava lo sfondo storico-sociale che consentiva di illuminare l'ideologia, la personalità degli autori e di capire in profondità il valore delle loro opere, ebbe su di me un effetto sconvolgente, suggerendomi l'idea dell'interazione tra storia sociale, esperienza individuale e produzione culturale.

Attraverso Marchesi mi accostai al marxismo e cominciai ad approfondirlo, aderendo ad esso ed iscrivendomi al partito nel 1960, ma come antistalinista; motivo per cui, pur militando, non riuscii mai ad inserirmi del tutto in esso, finendo per fuoriuscirne dopo i fatti di Praga.

Mi ritengo ancora oggi fortunato per essermi avvicinato al marxismo attraverso un testo di storia della letteratura latina, che, pure inserendo l’analisi delle opere nel contesto della storia sociale cui appartenevano, era ed è di una straordinaria finezza critica (basta, per convincersene, rileggere le pagine su Lucrezio, Catullo, Seneca). Esso mi mise per sempre al riparo dal marxismo volgare, e mi indusse a ritenere che essere marxisti non significa ripetere pedissequamente le formule di Marx, bensì pensare la storia nella sua complessità e nella totalità dei suoi fenomeni, che vanno dalla dimensione macrosociale (l’economia, le istituzioni, le ideologie, ecc.) a quella microsociale (i sistemi familiari, le esperienze individuali).

L’incontro con la nuova storia francese, aperta al marxismo e alla psicoanalisi, intese entrambe criticamente, mi fornì nuovi strumenti per approfondire il senso storico originariamente intuito in conseguenza della lettura del testo di Marchesi.

Pensare la storia – dall’evoluzione biologica all’organizzazione della società e della cultura, i due poli che si riflettono congiunturalmente in ogni esperienza soggettiva: questa ritengo essere ancora oggi la formula magica che dà alla coscienza individuale un potere critico, impegnandola a trascendere il suo orizzonte inevitabilmente événémentiel.

Non ignoro che, per quanto magica, la formula è difficile da spiegare perché essa comporta l’accettazione della sfida di una complessità, inerente l’appartenenza dell’individuo ad una totalità che lo trascende, inquietante, che azzera la possibilità di vedere tutto chiaro.

Per questo aspetto, l’articolo di Paul Veyne è epistemologicamente illuminante. Esso, infatti, permette di intuire che, nel gran mare della storia, nel quale fluiscono le esperienze individuali, non tutto si può capire. Occorre sforzarsi però per discriminare ciò che è destinato a rimanere incomprensibile da ciò che è misterioso, ma può essere compreso.

All’articolo, che riporto per economia di spazio senza l’abbondante apparato di note, faccio seguire una riflessione personale su due aspetti storici che, senza alcuna intenzione di scimmiottare il magistero di Veyne, servono forse a far capire meglio che cosa io intendo per pensare la storia.

PAUL VEYNE

La storia concettualizzante

in Fare Storia, a cura di Jacques le Goff e Pierre Nora, Einaudi, Torino 1981, pp. 25-59

A titolo di introduzione, riassumiamo preliminarmente il discorso che intendiamo fare. La storia non si riduce a un campo di applicazione delle scienze, già nate o che devono ancora nascere, ma non è neppure residuale rispetto a queste scienze: infatti comprende nuclei di scientificità. Quindi beneficierà degli eventuali progressi delle scienze umane; tuttavia si può ritenere che questo apporto resterà sempre limitato. D’altro canto, non ci può essere una scienza della storia, perché il divenire storico non comporta un primo motore. In queste condizioni, quali prospettive future restano aperte alla storia? Quella della concettualizzazione, di cui l’opera storica di Max Weber resta il modello.

Non abbiamo una conoscenza immediata del divenire storico più di quanto l’abbiamo del mondo fisico: i circuiti degli avvenimenti inizialmente ci sono conosciuti solo in una maniera parziale e confusa. Espressioni come: storia non événementielle, storia in profondità, storia comparata, generalizzante, tipologica, o ancora sociologia storica, anzi topica storica, sono altrettanti modi per designare questo lavoro di concettualizzazione di quel caos che è dapprima lo spettacolo del divenire.

Da questo punto di vista, lo sforzo dello storico assomiglia più allo sforzo filosofico che a quello scientifico. La storia spiega meno di quanto espliciti. Esempi di questo lavoro di tematizzazione: la prasseologia e l’analisi di quelli che si possono chiamare i collettivi (una guerra, una società, una mentalità, per esempio la cosiddetta mentalità primitiva).

I.

La storia può essere oggetto di scienza? E, se no, che cosa può fare di meglio? Per rispondere alla prima domanda, sarebbe sorprendente che le pretese di scientificità degli storici fossero più ambiziose di quelle dei fisici. Ebbene, questi ultimi non pretendono affatto che il corso della natura, pur essendo determinato, sia interamente oggetto di scienza, ma soltanto che certi aspetti di questo corso, quelli necessari, si prestino alla spiegazione e alla previsione scientifica. Le scienze spiegano gli anticicloni o un ribasso del prezzo del grano; però non prevedono un acquazzone ad Antibes, una domenica di febbraio; non spiegano la crisi del 1929: tocca alla storia spiegare il panico in borsa.

Gli avvenimenti umani si prestano alla spiegazione scientifica né più né meno di quelli della natura: vi si prestano per una piccola parte che presenta un carattere necessario, generale, infallibile.

Come il corso della natura, anche la storia è un insieme di avvenimenti di cui ciascuno è determinato ma soltanto alcuni sono oggetto di scienza, e che nel loro complesso costituiscono un caos che non è più “scientifico” di quanto lo sia il complesso dei fenomeni fisico-chimici che si producono in un dato tempo all’interno di un dato perimetro della superficie terrestre. Un fisico non si interesserà che agli aspetti necessari di quei fenomeni; lascerà perdere il resto, cosa che non potrà fare uno storico, il quale s’interessa a tutto ciò che accade e non ha il compito di isolare avvenimenti fatti su misura per la spiegazione scientifica; egli non ha il diritto di ricordare, del Fronte popolare, solo la recessione del 1937, della quale oggi si conosce la spiegazione scientifica.

La frontiera che separa la storia dalla scienza non è quella del contingente e del necessario, ma quella del tutto e del necessario.

Dal momento che la storia è il corso intero del mondo, vi si ritrova tutto ciò che la filosofia distingue nel corso del mondo. Vi si trova in primo luogo il necessario, cose che accadono infallibilmente: i corpi nel vuoto cadono alla stessa velocità, il valore si stabilizza al margine in regime di concorrenza perfetta: è il campo della fisica o dell’economia teorica. Vi si trovano poi “cose che accadono per lo più”: i capelli diventano grigi sulla quarantina, tutte le grandi città moderne comprendono quartieri degli affari, il modello di Harrod insegna che, per mancanza di risparmio o di tendenza a investire, il tasso di crescita possibile non viene mai pienamente raggiunto: è il campo della macroeconomia o della medicina. Vi si trova infine la pura accidentalità: Giovanni senza Terra è passato di qui, io vado ad Atene e dei pirati mi dirottano verso Egina.

Tutto sommato, la storia è fatta di molta casualità, con qualche nucleo di necessità e di cose che accadono per lo più; la storia del Fronte popolare è un susseguirsi di fatti casuali, misti ad alcuni fatti che rientrano in teoremi economici, e ad altri fatti conformi a quello che vediamo accadere solitamente in politica: quello che Tucidide avrebbe considerato come il xtema es aei del Fronte popolare e che un contemporaneo chiamerebbe sociologia. Solo i rapporti necessari e quelli che si producono per lo più dànno luogo a sillogismi, si prestano a essere oggetto di scienza. Il passaggio di Giovanni senza Terra non può essere sussunto sotto una premessa maggiore; in compenso, lo si può spiegare storicamente: si dirà che Giovanni aveva dei motivi per passare, che è stato costretto a passare o che è passato per caso.

La storia non è dunque soltanto ciò che sfugge alla scienza, e neppure si oppone alle scienze: qual è la spiegazione storica della recessione del 1937, se non la vera spiegazione, vale a dire la spiegazione macroeconomica? La storia è quindi scienza, ma lo è solo parzialmente, perché la maggior parte del suo corso, ancorché determinata, non è per questo meno accidentale, e possiede una necessità puramente “materiale” nel senso aristotelico del termine. Per citare Raymond Aron, “i sistemi e gli avvenimenti sociali sono, nel senso epistemologico del termine, indefiniti: così come sono vissuti dai soggetti, osservati dagli storici o dai sociologi, essi non sono né suddivisi di per se stessi in sottosistemi definiti, né ridotti a un piccolo numero di variabili suscettibili di essere organizzate in un insieme di proposizioni legate le une alle altre; da nessuna teoria si potrebbe dedurre come conseguenza necessaria il fatto che i seguaci di Hitler abbiano ucciso in maniera industriale milioni di ebrei”. Poiché, se tutto è determinato, non tutto è determinabile.

Il rammarico dello storico è quello di non poter mai giungere a qualcosa di definito. Certo, dal momento che la storia contiene isole di necessità, ogni progresso delle scienze, umane o di altro genere, potrà costituire un beneficio per la storia; resta il fatto che questi benefici saranno sempre limitati. Le altre scienze non potranno mai determinare interamente il duro nucleo della storia.

E vero che ogni pagina di storia è sottesa da sillogismi impliciti dovunque spieghi in luogo di constatare, e che la retrodizione che “tappa i buchi” di ogni documentazione suppone anch’essa inferenze che partono da premesse maggiori: l’empirismo logico lo ha detto e ripetuto. Ma la maggior parte di questi sillogismi poggia semplicemente su “quello che capita per lo più”, e non ha nulla di scientifico; e in questo la storia non si distingue dalla vita quotidiana. Essi poggiano sia sull’idea di una natura umana (“gli uomini fanno di necessità virtù più spesso di quanto si rivoltino contro la loro condizione”), sia sul posto occupato dai costumi e dai codici: rosa designa sempre una rosa, i romani mangiano sdraiati. A partire da queste premesse si procede a deduzioni (“... ora questo romano mangia, dunque questo romano si è dovuto sdraiare per mangiare”) a induzioni (“questo romano medio è sdraiato, questo romano medio mangia, quindi tutti i romani dovevano mangiare sdraiati”) e ad abduzioni che vanno dalla premessa maggiore e dalla conclusione alla premessa minore, e che costituiscono la “logica della scoperta”, l’inferenza dell’indagine poliziesca e storica ( in questo bassorilievo questo romano è rappresentato sdraiato, si sa dai testi che i romani mangiavano sdraiati, dunque è segno che questo romano è rappresentato mentre mangia”).

La storia non si riduce alle varie scienze se non in piccola parte. D’altro lato non esiste neppure una scienza della storia, una chiave del divenire, un motore della storia. Attribuire il ruolo di motore ai dati materiali o all’economia significa giocare su un equivoco: ciò che causa la servitù è il mulino ad acqua, o è invece il fatto di utilizzare questo mulino? L’economia è l’aspetto economico di certi comportamenti, o coincide con questi stessi comportamenti, che comportano altri aspetti, giuridici, mentali, ecc.? Come oggetto “materiale” (nel senso di corporeo), il mulino non fa altro che pesare sul terreno su cui poggia. Se motore della storia è il fatto di utilizzarlo, anziché trascurare questa invenzione tecnica per spirito abitudinario, allora il preteso primo motore è solo un avvenimento fra altri: la diffusione del mulino, che, come ogni avvenimento, deve essere a sua volta spiegata. L’oggetto mulino prende l’aspetto di “causa materiale” (nel senso di possibilità da utilizzarsi) solo per il fatto di essere utilizzato, ed è un fatto di mentalità, il sottrarsi all’abitudine, ad avere in questo caso il ruolo di causa efficiente. E vero che questa mentalità deve essere a sua volta spiegata: diventa a sua volta causa materiale delle cause efficienti che l’hanno portata a esistere...

Se c’è una filosofia dialettica (nel senso che si dà oggi a questa parola), è proprio l’aristotelismo. Per quanto sottile possa essere l’interpretazione che si sceglie di accreditate al marxismo, essa urta sempre contro la stessa difficoltà: “un primo motore non può comportare potenza”; se rientra nell’ordine del possibile prima di esistere, se è avvenimento, è esso stesso materia di altre cause, e dunque non è primo. La “personalità di base” secondo Kardiner (o piuttosto le istituzioni primarie che la determinano) non sono la chiave di una cultura, perché sono esse stesse spiegabili a partire dal resto della società e della storia. In quella rete di interazioni che è la storia, il motore sarà dovunque lo si vorrà collocare.

Ora, dal momento che una categoria di cause non ha il privilegio di essere un primo motore, può sempre, a seconda delle circostanze, essere messa in scacco da altri fattori che si rivelano più potenti in questa o in quella situazione; è qui che interviene l’idea di variabile strategica. La presenza di un agente patogeno non è sufficiente a provocare una malattia infettiva: bisogna che il terreno si presti, e ancora il microbo sarà tenuto in scacco se il malato ha una salute di ferro; per quanto coriaceo, il capitalismo può sempre essere spezzato nell’anello più debole della catena; un corpo d’armata, per quanto potente lo si supponga, può sempre essere fermato in un punto strategico oppure in una strozzatura; per quanta importanza si riconosca alle cause economiche, possono essere bloccate da un ritardo intellettuale o giuridico.

Non esiste un motore della storia: ci sono soltanto variabili strategiche che non sono mai le stesse da una congiuntura all’altra; la storia, quella che si fa e quella che si scrive, non è allora questione di scienza, ma di prudenza.

II.

Se tutta la verità stesse qui, la storia non sarebbe molto interessante: ci direbbe quello che è accaduto, was eigentlich gescheben ist; racconto di un intrigo, oggetto di memoria, si limiterebbe a criticare e a far parlare il contenuto dei documenti; per far questo, le basterebbe guardarli con gli stessi occhi con cui si guarda la vita quotidiana; la si leggerebbe come si legge un romanzo, eccezion fatta per qualche dettaglio di ordine scientifico (un po’ di economia, di metallurgia per capire il trionfo della spada di ferro, di navigazione per i viaggi di Colombo) per cui ci si affiderebbe agli specialisti competenti...

Ma non è così; sebbene non sia scientifica, nondimeno la storia è un’attività molto elaborata, che non si improvvisa. La comprensione degli avvenimenti non è immediata, le società umane non sono trasparenti a se stesse; quando spiegano e si spiegano ciò che loro accade, solito non lo fanno direttamente. Quella parte degli avvenimenti che è immediatamente compresa è circondata da un’aura di “non événementiel” che una “storia pioniera”, una “storia in profondità” si sforza di capire. Si sa quali sono stati i progressi di questa storia negli ultimi tre quarti di secolo: nel giudizio delle generazioni future, il nostro secolo avrà dato nuove basi alla storia.

Questi progressi non consistono nella scoperta di meccanismi e di cause motrici che spiegherebbero la storia (e con buoni motivi), ma nella spiegazione, nella concettualizzazione del non événementiel. Non indichiamo con questo nient’altro che il fatto evidente che, in uno storico del secolo XX, ci sono molte più idee, e più sottili, che in un cronista dell’anno Mille, che sa vedere soltanto re, battaglie, pestilenze e miracoli.

Ai nostri giorni un libro di storia che conta è un libro che trova parole che permettono di “prendere coscienza” di realtà che si intuivano vagamente senza riuscire a tematizzarle; di decennio in decennio, il progresso dell’astrazione si fa più tangibile: da una pagina di Marc Bloch, che analizza in una forma ancora impressionistica la temporalità medioevale, a una pagina di G. Duby, sottesa da una rete di universali che si prestano a entrare in altre combinazioni e a essere disposti in una topica. Nel secolo scorso, non si sapeva ancora parlare di classi, di stile di vita, di razionalismo economico, di ricchezza inattiva, di mentalità, di conspicuous consumption, di attrazione esercitata dalla classe immediatamente superiore, di mobilità sociale, di dinamica di gruppo, di ascesa per corto circuito.

E un progresso dell’analisi sull’immediatezza confusa. Infatti la nostra prima visione di noi stessi e del mondo sociale, come pure del mondo fisico, non ci offre che quell’olon sugkecumenon, quel “tutto confuso” di cui parla, in sostanza, l’inizio della Fisica. Nello stesso modo in cui “i bambini cominciano col chiamare tutti gli uomini papà e tutte le donne mamma, e solo più tardi imparano a distinguere” i legami di parentela, così la coscienza spontanea non distingue i diversi tipi ideali del potere o della disuguaglianza sociale (diversità di reddito, di autorità, di prestigio). I circuiti causali sono ancora più difficili da immaginare, e solo la riflessione può ricostruire gli effetti di una decisione strategica o di misure protezionistiche; inoltre abbondano le false teorie: intossicazione da mestatori, antisemitismo, decadenza delle nazioni provocata dal lusso, sovrapopolazione e guerre. Le convenzioni del nostro gruppo sodale, i principi delle nostre istituzioni e le massime della nostra condotta ci appaiono meno chiaramente di quelli altrui, ed esistono per noi nella forma dell’implicito e della, Selbstverstandigkeit.

Per il cogito l’anima è una sconosciuta, i suoi meccanismi e i suoi istinti sono inconsci. I “collettivi” infine sono la sede privilegiata dei malintesi e della falsa coscienza; crediamo di condividere gli ideali di una coalizione di cui condividiamo gli interessi, le istituzioni ci fanno perseguire fini disinteressati sotto la spinta di motivazioni personali, distinguiamo male la difesa dei valori da quella del nostro status professionale.

Le attività intellettuali, pratiche o estetiche a cui si riferisce la concettualizzazione sono più numerose di quelle a cui si riferisce la scienza; e la storia è lungi dall’essere la sola concettualizzazione possibile. Si può così sviluppare il concetto che si parla dell’Essere in parecchi sensi, o che certi animali sono vertebrati o a sangue freddo, che certe regioni hanno un habitat disperso e altre un habitat raggruppato, che una forma è classica o barocca, che una strategia si propone di logorare il nemico e un’altra di schiacciarlo...

Si può anche tenere un diario dei propri stati d’animo, analizzare il cuore umano, descrivere la società da sociologo o “scomporre” tecniche sportive o gesti artigianali per impararli, insegnarli o perfezionarli. Una scienza come la linguistica attuale non è in larga parte che una riflessione sui fatti linguistici: parlare di commutatori (shifters), è forse qualcosa di diverso da una concettualizzazione, e, in definitiva, da un filosofema? Non è certo una spiegazione o una legge.

Neppure le concettualizzazioni storiche sono il frutto di una ricerca sperimentale, di una scoperta, ma di un esame attento e penetrante, di un’appercezione intellettuale che può essere paragonata allo sforzo di mettere a fuoco un oggetto. La sensazione dello sforzo è presente in due momenti del lavoro storico: la critica e l’esplicitazione.

Allo stesso modo che l’abilità di un fisico sta nell’indovinare l’equazione di un fenomeno (almeno così immagino), l’abilità di uno storico sta per metà nell’inventare concetti. Di qui la sensazione che accompagna come un’ombra il lavoro di sintesi storica: quando si è arrivati finalmente a distinguere tra due nozioni confuse o a localizzare l’impressione di qualcosa di estraneo in un avvenimento che, a prima vista, era riconducibile a nozioni banali, sembra che in fondo si fosse “sempre saputo” come stavano le cose, e che ci si coprisse gli occhi per non vedere.

La concettualizzazione – che è solo un nome diverso per indicare il “ tipo ideale ” weberiano – è così il procedimento grazie a cui la conoscenza storica “esce dalla sfera delle cose che sono solo vagamente intuite”, per citare le parole di Weber’. I concetti falsamente scientifici della sociologia generale trovano qui la loro vera utilità, che è descrittiva ed euristica: è dubbio che la nozione di “ruolo” sia univoca’, dubbio che la si possa utilizzare senza essere portati a spingerne l’analisi più lontano (le persone non hanno gli stessi motivi né gli stessi modi di adattarsi ai diversi ruoli preparati per loro dalle diverse specie di situazioni o di convenzioni), è dubbio che essa sia qualcosa di più di una metafora zoppicante; in compenso è chiaro che se si considera un tipo storico, il puritano o l’avventuriero, come un ruolo prefissato e definito, si sarà indotti a elucidare più a fondo la sua struttura, ed a disegnarla più energicamente. Sarà tanto di guadagnato per la storia, poiché la storia è analisi piuttosto che narrazione. Sono i concetti a distinguerla dai romanzo storico e dai propri documenti; se essa fosse risurrezione e non analisi, non bisognerebbe più scriverla: basterebbero Guerra e pace o i cinegiornali.

La realtà esiste senza essere concepita distintamente, il romanziere la crea o la ricrea; lo storico ne dà l’equivalente concettuale: non è soltanto un erudito.

La prospettiva della concettualizzazione dà il suo giusto significato a quella che gli addetti ai lavori chiamano la storia non événementielle. Con quest’espressione si indica una serie di ricerche la cui unità non appare a prima vista: uno studio sull’atteggiamento dei mercanti genovesi davanti alla ricerca della sicurezza, uno studio sulla demografia nel secolo XV; questi studi hanno forse in comune il fatto di esplorare la lunga durata, le evoluzioni lente? Non in particolare.

La storia non événementielie si definisce contrapponendosi alla storia di un tempo, alla “storia di trattati-e-battaglie”; quest’ultima era una storia narrativa, scritta a livello delle fonti, ossia a livello della visione che avevano della propria storia i contemporanei, autori di queste fonti. Ne avevano evidentemente una visione confusa e incompleta: parlavano di crisi ministeriale, ma non di tipi ideali di instabilità politica, della nascita di una figlia dei vicini, ma non di tasso di riproduzione, erano decisi a non avere più di due figli, o ai contrario a prendere tutti quelli che sarebbero venuti, ma non avrebbero saputo precisare se lo avevano deciso per convinzione religiosa o per la trascuratezza propria di un’epoca poco razionalizzata; non avevano neppure una chiara coscienza di certe pulsazioni rapide del tempo storico (per esempio del momento in cui, politicamente, una situazione vacilla perché, una bella mattina, davanti alla convinzione dell’ineluttabile, ciascuno, attraverso i si dice, i mass media, e le proprie inclinazioni o anticipazioni, ha la sensazione che tutti gli altri gli forzino la mano, perché non può e non deve fare niente senza di loro; allora ci si dice che “una pagina è stata voltata”, e questa è nello stesso tempo una risoluzione per l’avvenire; momento altrettanto poco deliberato di quando, a teatro, riprendono gli applausi, prima isolati poi unanimi, dopo un istante di incertezza).

La storia non événementielle è, in verità, una storia che spinge la concettualizzazione più lontano di quanto facciano le sue fonti e di quanto facessero gli storici del passato. Essa non è quindi destinata a disprezzare la storia politica e militare, ma a scriverla meglio; una storia militare non événementielie si scrive con Hans Delbruck o con Ardant du Picq; una storia politica, con una filosofia politica. Il termine “filosofia” potrebbe preoccupare solo se fosse vero che il confine tra la filosofia e le “conoscenze positive” è lo stesso in tutti i campi, che esso è chiaro dovunque e non è mai convenzionale. Nel secolo scorso si parlava comunemente di storia filosofica, si diceva che una certa pagina di Boeckh o di Tocqueville aveva un interesse filosofico: l’espressione non era infelice.

Formare il concetto o formulare l’equazione: la concettualizzazione e la formalizzazione sono due atteggiamenti intellettuali fondamentali; se la contrapposizione di uno spirito letterario a uno spirito scientifico ha un senso, non può essere che questo.

La concettuailizzazione appare o fa sentire la sua assenza in tutte le fasi del lavoro storiografico. Avere l’idea di “domande nuove” da porre ai documenti, “che sono inesauribili”, significa aver sviluppato concetti inediti. Allora accade spesso che un certo concetto nuovo abbia successo, che sia di moda, e che si creda di ritrovarlo dovunque: ci fu un periodo in cui si ritrovava dappertutto una borghesia in ascesa, nella Francia di Luigi XVI come nell’Inghilterra di Cromwell, nella Roma di Cicerone e nel Giappone dei Tokugawa; poi si scopri che questa nuova chiave poteva entrare in tante serrature solo a condizione di forzarle, e che per queste serrature diverse bisognava foggiare altre concezioni ancora. L’errore aveva avuto per lo meno un valore euristico, ma forse si sarà tentati di trarne la conclusione, appena esagerata, ma comunque esagerata, che la storia non si scrive con le astrazioni, che “i concetti sublunari sono eternamente falsi perché sono fluidi, e sono fluidi perché il loro oggetto si muove continuamente”, come ha scritto ingenuamente un autore contemporaneo (a dire il vero, credo di esser stato io stesso).

Questa ingenuità antisteniana ha certamente qualcosa di sano; tuttavia non deve essere ipostatizzata, pena il ridurre la storiografia ad impressionismo, per assenza di concetti. Il pericolo dell’impressionismo è presente ovunque, e in particolare nella storia della cultura.

E fin troppo vero che la religiosità romana o quella del secolo XVI non è la nostra, e che non rientra neppure in categorie “bell’e fatte”, cioè acquisite ai nostri giorni: Margherita di Navarra non era veramente erasmiana né evangelica, il poeta Orazio credeva nell’esistenza di Apollo senza crederci e al tempo stesso credendoci. Era necessario dirlo, era necessario ricordare che le mentalità sono più evanescenti delle classificazioni dei teologi, che bisogna capirle a partire dai valori e dalla psicologia della loro epoca; si rileggerà sempre la Religione de Rabelais di Febvre, perché bisognerà sempre imparare questa lezione. Ma non possiamo neppure attaccarci a queste verità negative e all’evocazione un po’ letteraria dello spirito di un’epoca, perché la storia, se resta allo stato semifluido, ci scivolerà tra le mani; essa non è ri-creazione, ma esplicitazione. Per dire positivamente quello che Orazio pensava di Apollo, bisogna trovare parole, inventare schemi e categorie in rapporto a cui reperire gli elementi del paesaggio troppo confuso della sua anima; senza limitarci a quello che la mentalità del suo tempo aveva di diverso, domandarci come è fatta una mentalità in generale.

Se vogliamo veder chiaro in quella “totalità confusa” che è una religiosità, anziché accontentarci di suggerire con belle parole la sua disordinata ricchezza, dobbiamo giungere ad analizzarla: nel caso preso in esame, apprendere quello che fu la religiosità di Orazio sarà frutto di un’analisi sociologica, come vedremo più oltre.

Se tutte le essenze fossero offerte immediatamente all’intuizione, se non ci fosse niente di “confuso”, se non restasse nulla da scoprire, allora scrivere la storia equivarrebbe a raccontare storie immediatamente comprensibili; il concetto varrebbe più della definizione, e l’analisi discorsiva non sarebbe altro che un cavillare superfluo, spiccioli dell’oro del vissuto. Non è così: la vera narrazione presuppone l’analisi; la storia non è l’immediatezza.

III.

Della totalità confusa che è tematizzata dalla conoscenza storica, vorremmo esaminare tre aspetti il cui studio sembra andare nel senso dell’attualità: la prasseologia, l’inconscio e i collettivi (in particolare quel collettivo che sono le mentalità, a cui la nostra scuola delle “Annales” attribuisce giustamente tanta importanza).

1) La prasseologia.

I circuiti causali dell’azione non si rivelano interamente ad una visione immediata; di qui la necessità di una concettualizzazione che, a seconda che l’argomento si presti o meno, si presenterà come una serie di concetti coordinati in una topica oppure organizzati in un sistema ipotetico-deduttivo. Consideriamo quella pratica che è il gioco degli scacchi. Una teoria degli scacchi che permettesse di dedurre in tutti i casi la strategia ottimale è possibile in linea di principio, ma è irrealizzabile di fatto: una macchina elettronica per vincere in tutti i casi dovrebbe avere le dimensioni di una nazione o di un continente. Così un giocatore umano non può prevedere chiaramente tutte le diverse conseguenze possibili di una mossa che sta per fare, oltre, credo, cinque o sei mosse; poi, è la nebbia. Fortunatamente, i trattati di scacchi distinguono grandi tipi ideali di strategie e di situazioni: non permettono di dedurre tutto e di vincere a colpo sicuro, ma di orientarsi e di evitare i grossi errori. In questo si può vedere un’allegoria di ogni prasseologia; certo, la contingenza, la “necessità materiale”, il carattere “indefinito” delle cose umane non sono la stessa cosa della complicazione perfettamente definita di un calcolo combinatorio, disciplina matematica dove i numeri più che astronomici sono moneta corrente: ma ogni allegoria zoppica da qualche parte.

Ammettiamo che la macchina per vincere parta da una teoria, da una prasseologia deduttiva, che la vista troppo breve del giocatore urti contro la “totalità confusa” di Aristotele e che il manuale di scacchi elabori una concettualizzazione che si presenta come una topica.

Accade lo stesso con lo scacchiere internazionale: che vi giochi io stesso o che faccia il sociologo di quelli che vi giocano, lo storico di coloro che vi hanno giocato, ho tutto da guadagnare dal poter disporre di una teoria o almeno una topica delle relazioni internazionali, di una filosofia politica; l’analisi concettuale permette di “definire la specificità dei sottosistemi, fornisce un elenco delle principali variabili, suggerisce certe ipotesi relative al funzionamento, facilita la discriminazione fra le teorie e le pseudoteorie”.

A seconda del campo a cui si applica, la tematizzazione approda a una teoria deduttiva oppure si limita a una concettualizzazione. L’esempio classico (a dire il vero, quasi l’unico) di una teoria deduttiva, di una “scienza umana” (con la connotazione matematica del termine “scienza”) è l’analisi economica. Resta aperto il problema se si debba parlare di una scienza (descrittiva) o di un’arte (normativa) che acquista un valore descrittivo solo se gli uomini si comportano effettivamente come dovrebbero. Prendiamo un esempio meno consacrato di quello della teoria economica: la teoria geografica delle città. Si può spiegare la diffusione molto ampia (ancorché non universale) della vita urbana a partire da due o tre considerazioni astratte che prendono le mosse da una logistica dello spazio: la teoria dei luoghi centrali da una parte, e l’idea che la vita urbana permette di massimizzare le interrelazioni sociali dall’altra (interrelazioni che si possono analizzare mediante la teoria dell’informazione: la città è un nodo dove si concentrano le reti di comunicazione). Certo, se gli uomini vogliono massimizzare le loro relazioni, devono ubbidire alla norma e costruire città; dal momento che vogliono effettivamente massimizzarle, ne costruiscono: il fatto è che la loro natura è quella di essere animali politici, come dicono i filosofi. Ma al contrario potrebbero preferire vivere separati gli uni dagli altri, come certe specie animali; la scienza prasseologica indica allora come vivere il più possibile a distanza gli uni dagli altri, come occupare più spazio possibile e avere le frontiere più facilmente difendibili da tutti i lati: bisogna suddividere la superficie terrestre in esagoni embricati; naturalmente non è sicuro che gli interessati lo saprebbero, né che vi acconsentirebbero.

Il campo delle scienze umane è la materia nel senso marxista della parola, la “realtà oggettiva”, cioè, in definitiva, le cose e gli altri: la scarsità delle cose materiali e la pluralità delle volontà sono ciò che si oppone alla volontà di ciascuno, ciò che resiste, e costituiscono, per riprendere le parole di Habermas, l’oggetto del “lavoro” e del “potere”, dell’economia e della teoria dell’organizzazione.

Il prezzo di mercato non è quello che ogni venditore voleva: risulta dalla composizione delle diverse volontà e non è prevedibile che con il ragionamento. La pluralità degli individui assomiglia all’oggettività delle cose materiali: impone condizioni e comporta conseguenze che non erano né volute né previste; collegandosi, organizzandosi, le azioni umane giungono a costituire figure, costellazioni (il mercato, una città, l’impresa, una dinamica di gruppo, un negoziato, una escalation, la guerra del 1914) che non erano volute da nessuno e che per essere concepite esigono uno sforzo, proprio come le continuazioni di una mossa negli scacchi: è anche utile concettualizzare all’inizio la problematica di un’escalation o di un negoziato, per non dover poi dire: “Non l’abbiamo voluto, gli avvenimenti ci hanno scavalcato”. In questo campo la storia non può essere fatta né scritta a partire dalla conoscenza immediata. Vedremo che non è il solo campo dove le cose stiano così.

2) L’inconscio.

L’anima non è solo sostanza pensante, e per chi non sia cartesiano l’inconscio non costituisce una difficoltà. Un artista non sa perché applica la grammatica visiva della sua epoca; essa è implicitamente presente nella sua creazione, ma egli non ha coscienza di averla subita negli anni della sua formazione: i meccanismi mentali dell’educazione sfuggono al cogito, che ne conosce solo gli effetti. Certo, l’individuo resta ontologicamente un’istanza decisiva: se l’artista si conforma a una grammatica visiva, potrebbe anche non conformarvisi; questa grammatica è subita da ogni artista, ma ne è anche elaborata. Per questa ragione, essa non è storicamente inspiegabile: non è nata dal capriccio di un intelletto attivo collettivo, alla maniera averroista.

Ma l’individuo non è il cogito: la coscienza è una minima parte della psiche. Gli istinti, le facoltà, le tendenze, le abitudini, i meccanismi dello spirito e i fini di ciascuno costituiscono un mondo di realtà psichiche che non pervengono alla coscienza altrimenti che nei loro effetti, allo stesso modo della grammatica di una lingua, delle forme del sillogismo o dei ricordi latenti. E la riflessione a scoprire le forme del sillogismo. Se un giorno si arriverà a discernere quello che può esserci di positivo nella psicoanalisi, questo contributo troverà certamente qui il suo posto.

Il modo giusto di sapere perché gli eserciti del 1916 resistevano a Verdun non è quello di chiederlo ai sopravvissuti, che si limitavano a dire: “Quando finirà tutto questo?”; se oggi rispondessero: “Resistevamo per patriottismo”, la loro risposta, storicamente vera, non sarebbe sincera: queste cose non si dicono. Se hanno ricordi d’infanzia, in compenso non hanno coscienza della forza con cui l’habitus patriottico era stato impresso in loro dalla scuola, dall’ambiente, dall’orgoglio di vedere la Francia o la Germania primeggiare sulla scena internazionale sotto gli occhi degli altri popoli; potevano giudicare di questa forza solo considerando gli effetti che essa avrebbe avuto su di loro durante la guerra, e noi stessi possiamo giudicarne altrettanto bene di loro.

3) I collettivi.

Se non possiamo scrivere la storia della grande guerra basandoci sulla coscienza dei suoi protagonisti, non possiamo neanche scriverla basandoci su quello che ciascuno di loro, cancelliere o soldato semplice, singolarmente preso, avrebbe fatto seguendo la sua linea, indipendentemente da tutti gli altri; la guerra, come risultante collettiva, non è la stessa cosa dei diversi contributi individuali, in grande.

La storia non può limitarsi a un’ontologia delle sostanze individuali, a una logica dei predicati monadici; è fatta di collettivi, perché, in modi diversi, gli individui non sono chiusi nella loro singolarità. Accettano la guerra perché sentono come una malattia personale le sofferenze del corpo politico, anche se non ne soffrono affatto nei loro interessi privati. Inoltre tra gli individui si intrecciano rapporti equivoci, come i rapporti istituzionali (dove ciascuno è spinto da motivi egoistici a perseguire come suo un fine collettivo) o i rapporti di coalizione (leghe di interessi divergenti che, con la sincerità di un giusto calcolo inconscio, condividono il programma che li divide meno).

Infine, e soprattutto, non si può neppure determinare che cosa sarebbe stato l’individuo isolato, al di fuori delle coalizioni, delle istituzioni, del corpo politico, perché, quando vi entra, è già modellato dalla società, cioè dalla storia precedente; non lo s’incontra mai allo stato naturale La scuola elementare aveva reso patriottici i francesi; c’è molto spirito religioso in Spagna, e non si tratta soltanto del cristianesimo sociologico; in Germania si ama molto la musica. I tedeschi sono allora melomani a titolo individuale? E possibile che all’inizio un piccolo gruppo di individui, melomani per caso, siano riusciti a imporre ai loro compatriotti la musica come un’istituzione e un conformismo; si può ugualmente pensare che altri, che non ne avevano la vocazione, facciano musica perché l’istituzione offre loro una carriera, e finiscano poi per amare a loro modo la musica.

La difficoltà è che, quando la musica è diventata in tal modo un’educazione, viene a essere realmente trasformato l’habitus stesso degli individui: le autentiche vocazioni musicali diventano più intense e più numerose. Come separare allora, nella risultante storica, la componente individuale di quella collettiva? Questo fatto rende l’idea di natura umana altrettanto indeterminabile che indeclinabile. Si è disposti ad ammettere che esiste un grado naturale di melomania, ma come dire quale, dal momento che non s’incontrano mai individui al di fuori di una cultura che li ha resi più o meno melomani? Come ci ha insegnato già Platone, la diversità delle culture, delle mentalità, dei caratteri nazionali, dipende da due ragioni che si alimentano reciprocamente: gli individui si trovano inseriti in istituzioni, in ruoli, e questi ruoli arrivano fino a modificare gli individui.

Niente rivela le dimensioni collettive dell’individuo meglio dello studio delle mentalità; a dire il vero, analizzare una mentalità significa analizzare un collettivo. Una mentalità non si riduce al fatto che molti individui pensano la stessa cosa: questo pensiero, in ciascuno di loro, è, in modi diversi, segnato dal fatto che anche altri lo concepiscono. Questo è fin troppo vero per i fatti di ideologia e di falsa coscienza, che sono doppiamente collettivi: l’ideologia consiste nell’appropriarsi personalmente dei fini di un’istituzione o di una coalizione a cui si partecipa; in un altro senso del termine, l’ideologia, come sofisma di giustificazione, risponde al bisogno idealistico e vergognoso di giustificarsi in linea di principio davanti a quello che Kant chiamerebbe il tribunale ideale degli esseri ragionevoli (perché la cattiva coscienza paralizza gli uomini non meno degli animali).

Ciò è altrettanto vero per le mentalità nella loro forma di sapere oggettivo: sono qualcosa di più di quello che sarebbero molti saperi individuali giustapposti. In primo luogo la maggior parte delle conoscenze da cui trae profitto tutta una società è appannaggio esclusivo di alcuni individui (conoscere la via delle Indie Occidentali, sapere costruire una diga idroelettrica, sentire sinceramente e profondamente che Nerval deve essere messo tra gli autori canonici).

Resta il fatto che, nel resto della collettività, il fatto di sapere che alcuni sanno ha un’enorme importanza, perché equivale a sapere che si può avere fiducia; ci si interroga meno sulla giustificazione oggettiva della dottrina che sulla fiducia che si può accordare agli esperti (“Joliot-Curie voterà no”): è un elemento decisivo per la credenza e per la superstizione. Ad esempio gli occidentali (o per lo meno quelli di loro che non sono batteriologi di professione) credono ai microbi, e moltiplicano le misure di asepsi, esattamente allo stesso modo che gli azandé credono alle streghe e moltiplicano le precauzioni contro di loro: credono ciecamente interpretando in questo senso alcuni indizi equivoci; verità o superstizione, la sociologia della credenza è identica. Il regredire del cristianesimo nelle masse durante il secolo scorso si spiega analogamente con la convinzione che, paragonata alla scienza, la religione non era più che superstizione, e questa convinzione si poteva fondare solo sulla fiducia che si aveva in un piccolo numero di scienziati. La stessa fiducia è una delle chiavi del curioso processo per cui si fa la cernita dei grandi scrittori che “passano alla posterità”. In generale, il fatto di credere per fiducia ha un’importanza enorme nella vita culturale e religiosa; la cultura è una piramide che poggia sulla punta, su qualche momento di emozione della parte più sottile dell’anima in una piccola minoranza.

Non meno decisivo è il fatto di sapere che si può sapere.

Raymond Ruyer ha scritto che, per fabbricare a loro volta una bomba atomica, i russi non avevano nessun bisogno di spiare gli americani: per loro era più importante sapere che era possibile fabbricarne una, cosa di cui erano certi, dal momento che sapevano che gli americani ne avevano fabbricate.

Tutta la superiorità degli “eredi” culturali consiste in questo. Lo si nota, per contrasto, nel caso degli autodidatti: per loro è d’importanza decisiva non tanto il fatto che vengano loro consigliati dei buoni libri, quanto il fatto che essi vengano consigliati da persone che sono come loro; poiché in questo caso hanno fiducia (vedi sopra), e ritengono possibile capire quei libri, dal momento che li hanno capiti persone simili a loro. Un “erede” è qualcuno che sa che non ci sono arcani; interi imperi (l’impero romano, e, credo, anche quello inglese) hanno riposato amministrativamente su questo privilegio: facevano dirigere i popoli da giovani dell’establishment che entravano nella carriera a sedici anni, senza una formazione particolare, ma sapendo per nascita che era facile governare, dal momento che avevano visto i loro parenti cavarsela; questa sicurezza permetteva loro di farsi consigliare da subordinati più esperti senza sentirsi per questo a disagio, e avendo anzi su questi uomini navigati il vantaggio di una lucidità dovuta alla freschezza e al distacco.

Un ultimo esempio di connotazione sociale della conoscenza: sapere che le opinioni sono divise. Supponiamo di voler rivivere la mentalità religiosa di un romano colto, Virgilio o Orazio; credevano davvero all’esistenza di Giove o di Apollo, di cui parlano tanto? Sul piano intellettuale la loro epoca era altrettanto poco primitiva che la nostra, e per i loro filosofi, che sono ancora i nostri, il politeismo era l’idea meno filosofica che ci potesse essere. Per chi legge Orazio, il suo atteggiamento religioso è un enigma: parla di Apollo come se l’esistenza del dio fosse una cosa ovvia, senza traccia di enfasi convenzionale, di ironia, di distacco o di condiscendenza; non lascia mai capire che al suo tempo, se, ufficialmente, Apollo riceveva un culto, in compenso gli scettici erano legioni, e coloro che avevano una profonda religiosità si accontentavano come potevano degli dei della città; Orazio ha letto Platone e Carneade, e quando parla delle pratiche religiose del popolo lo fa, come tutta la sua epoca, con il tono condiscendente e simpatizzante di un deista illuminato che ammette la necessità, per le masse, di una religione più ricca di immagini, meno astratta.

Come mettere d’accordo tutto questo? Che dire di un lettore di Hume e di Husserl che parlasse di Fatima con tono di tranquilla sicurezza? La fenomenologia religiosa e la psicologia della credenza sono di scarso aiuto. Parafrasare fenomenologicamente l’idea oraziana della divinità vuol dire trasportare nell’oggetto della credenza le contraddizioni dell’anima di Orazio; ma dove trovare, in quest’anima, il mezzo di collocare queste contraddizioni? Dovremo attribuirgli diversi livelli di pensiero, moltiplicare i ritorni della malafede su se stessa? Certo, un lettore dei filosofi potrebbe ricorrere all’esegesi allegorica, che vedeva, negli dei del popolo, simboli della vera divinità. Ma se Orazio si servisse del nome di Apollo come di una metonimia, non lo farebbe in questo tono; e poi la duplicità allegorica non può essere usata a lungo: il simbolo si logora rapidamente, e in questo caso si è solo filosofi, o al contrario prende consistenza, e si è superstiziosi. Le contraddizioni dell’atteggiamento oraziano sono spiegabili solo con la dimensione collettiva: quando Orazio pronuncia candidamente il nome di Apollo si riferisce ad una credenza ben conosciuta, e, se non certa, almeno ammissibile, dal momento che era accettata da molti ed era ufficiale. Può dispensarsi dal chiedersi qual è la sua posizione personale, perché non ci sarebbe per lui né ridicolo né scandalo, se questa credenza gli venisse attribuita. Così oggi un filosofo fa tranquillamente suoi, nel corso di uno o due paragrafi, le idee o il vocabolario di Spinoza o di Hegel, se questo serve al suo discorso, senza fare per questo professione di spinozismo o di hegelismo: basta che questi pensatori siano ammessi; se non si è d’accordo con loro su un altro punto, ci si accontenta di non adottare il loro pensiero.

La complessità dell’atteggiamento interiore di Orazio non fa che riflettere la complessità della sociologia religiosa del suo tempo: c’è in lui coesistenza di una pluralità di sette. Proprio questa sociologia ha qualcosa di sconcertante per noi: in luogo di una “ cristianità ” e di ideologie metafisiche esclusive, c’era la tolleranza universale e la divisione in sette non rivali che si ritrova in India: né guerre di religione, né Kulturkampf. L’Occidente si evolve ora verso la stessa tolleranza, e per capire Orazio basta osservare un cantante pop, probabilmente agnostico, mentre canta un inno alla Vergine accompagnandosi con la chitarra, animato da un sincero fervore religioso. In queste situazioni di non belligeranza, o si parla di religione con quelli che ci credono, o ci si accontenta di tacere, senza che nessuno ci trovi niente di male. Così che Tucidide ha potuto evitare di scrivere una sola parola sugli dei. Nel campo intellettuale come nell’arena politica o sul mercato economico, ciascuno tiene conto degli altri esseri ragionevoli e porta in certo modo in se stesso la pluralità delle opinioni, almeno se non è dichiarato il Kulturkamp. Non si condanna in poche parole quello che molti credono; anzi, si esita persino a condannarlo nettamente col pensiero. Di qui la scarsa attendibilità delle inchieste statistiche in materia di mentalità.

Nessuno dubita quando tutti gli altri credono: gli psicosociologi hanno mostrato il potere dell’opinione di un gruppo coerente sui suoi membri persino a livello della percezione (effetto Sherif: quello che vedono i miei occhi è in parte sociale; effetto Asch: la società può impedirmi di credere ai miei occhi). Si dubita ancora meno quando un’opinione ha un appoggio istituzionale e influenza il comportamento: in questo caso è più comodo “ridurre la dissonanza ” tra il proprio comportamento e il proprio pensiero, per usare le parole di Leon Festinger, e pensare nella stessa maniera in cui ci si comporta. Insomma, si interiorizza l’altrui.

Le credenze. Sono castelli di carte (ogni individuo è una carta), dove tutti si appoggiano a tutti, e che un bel giorno crollano perché questo sistema di equilibrio è venuto accidentalmente meno: il primo che dice che il re è nudo sveglia tutti gli altri, che allora si stupiscono di aver potuto credere così a lungo; quasi si persuaderebbero che in fondo non credevano veramente, e non sarebbe del tutto falso. Così si è cessato di credere ufficialmente a Zeus verso il 400, alle streghe verso il 1650, alla Rivelazione verso il 1700. Questi crolli non potrebbero essere spiegati con il progresso del pensiero, come si farebbe per spiegare l’evoluzione intellettuale di un individuo, filosofo o scienziato: è la struttura interindividuale a rendere conto della durata e della caduta di un mito. Innumerevoli tedeschi colti che hanno creduto al mito scientifico dell’antisemitismo di Hitler ora non ci credono più, non certo a causa di un progresso dell’antropologia biologica (nel 1934 avevano già i mezzi per non crederci, e del resto nessuna scienza può dimostrare l’inesistenza di Giove); il motivo vero è che sono crollati il regime hitleriano, o piuttosto l’atteggiamento filohitleriano del popolo tedesco fino al 1945 (“i grandi popoli vogliono vivere”). Il castello di carte della caccia alle streghe è crollato più facilmente verso il 1650, perché era sostenuto solo da giuristi e da una parte dell’opinione, non da tutti né da un apparato di stato. Non è un problema di storia delle idee, ma di sociologia della credenza, che si spiega con una certa specie di dinamica di gruppo e con uno studio delle vie e dei rapporti di forza attraverso cui si veniva formando l’opinione. Importante non è tanto la pubblicazione del Discorso sul metodo, quanto piuttosto la sociologia istituzionale e intellettuale dei giuristi e la sociologia dell’elaborazione dell’opinione pubblica. Non pretendiamo che questi punti di vista siano nuovissimi, ma solo che spingendoli più lontano e precisandoli si scoprirebbe la ragione di molti effetti di cui si vanno a cercare spiegazioni ampollose o troppo vaghe.

Se si assimilano le mentalità secondo le loro articolazioni collettive, esse diventano comprensibili; altrimenti, si può ancora raccontare con sensibilità il contenuto di un pensiero, ma non lo si può più comprendere, ripensare; le mentalità sembrano allora fatte per provare l’impossibilità di penetrare in un pensiero cronologicamente o geograficamente lontano: la religione romana, l’astrologia, la mentalità primitiva. Fermiamoci un poco su quest’ultima.

L’idea che in una delle sue tappe l’umanità avrebbe avuto una mentalità fatta diversamente da oggi deriva da due illusioni. La prima sta nel prendere per una forma di pensiero, per un modo arcaico di ragionare, quello che è un contenuto, e un contenuto culturalmente definito: si confonde un genere letterario con una logica. Molti aspetti dell’ingenuità primitiva in realtà sono semplici coperture ideologiche, iperboli edificanti, metafore, o, come la magia, comportamenti con finalità ben definite; coloro che se ne servono non ne sono affatto vittime, non li prendono alla lettera e non si azzardano a usarli al di fuori del campo per cui sono tacitamente previsti: come dice Evans-Pritchard’, “persino i primitivi non confondono affatto una relazione immaginaria con una relazione reale”. I bororo credono veramente di essere dei pappagalli? Gli huichol identificano veramente il grano e il cervo altrimenti che sul piano delle metafore e delle classificazioni? Per crederlo, bisognerebbe averli visti “preparare una farinata di grano credendo di fare del ragù di cervo”’. Il comportamento del “primitivo corrisponde solo parzialmente alle sue parole. I trobriandesi di Malinowski credono fermamente nella magia, ma non si sognano neppure di servirsene se non nei casi in cui mancano ricette tecniche sicure: “... non confondono l’efficacia di questa [magia] con l’efficacia della tecnologia empirica”’. Allo stesso modo i sudditi degli imperatori romani – o anche dei faraoni (ma si) – credevano nella divinità del loro sovrano: vi credevano come un sovietico credeva al genio di Stalin; era un modo sacramentale e iperbolico di affermare sentimenti civici, di stringersi attorno al capo, di non rompere la sacra unione.

Come dice pressappoco Solzenicyn, i grandi popoli non si lasciano facilmente ingannare, ma “vogliono vivere”’: qui i residui contano più delle derivazioni. Resta il fatto che la derivazione, che è religiosa, esprime inadeguatamente il residuo, che ha carattere civile.

Inoltre gli interessati non prendono alla lettera questa derivazione; fatto rivelatore, migliaia di iscrizioni onorifiche greche e romane qualificano come dei gli imperatori, ma non un solo abitante dell’impero si è mai sognato di invocare la loro divinità quando aveva veramente bisogno di un dio, in caso di malattia, di un viaggio pericoloso, della perdita di un oggetto, ecc.: non esiste un solo ex voto alla divinità degli imperatori.

Seconda illusione: si è preso per un’evoluzione della mentalità individuale, che avrebbe avuto leggi che non sono più le nostre (la famosa legge di partecipazione), quello che in realtà è un cambiamento nei collettivi, un fenomeno di sociologia della vita intellettuale, di controllo sociale. I primitivi non sono sprovvisti, all’occasione, di pensiero tecnico e razionale; viceversa, è facile trovare nel mondo contemporaneo tutti gli aspetti della mentalità primitiva che si vorrà. Bisogna forse dire che questi elementi sono residui del passato, e che la forma del nostro pensiero si evolve solo progressivamente? No; non è questione di più o di meno, ma di struttura collettiva della vita culturale.

Non abbiamo un cervello fatto diversamente da quello dei primitivi, abbiamo le stesse potenzialità di superstizione, di ideologia o di logica partecipazionale ; solo che il livello culturale della nostra società è tale, che viene a essere ridotto lo spazio lasciato alle potenzialità non logiche (ad esempio, il diritto moderno è molto più razionalizzato, nel senso di Weber, delle antiche regole consuetudinarie); inoltre, il controllo sociale impone a tutti un livello intellettuale d’élite, colpisce le velleità di superstizione con la disapprovazione o col ridicolo e le confina tra le ubbie personali. Se crediamo nell’astrologia meno dei contemporanei di Wallenstein e di Keplero, non è perché siamo meno disposti a crederci, ma perché la scuola impone a tutti un razionalismo che, su questo punto, in passato era prerogativa di un’élite, di un Calvino o di un Gassendi.

La differenza di mentalità tra una tribù bororo e noi è maggiore di quella che separa la nostra cultura scientifica da quella del secolo XVIII, per esempio, ma ciò non toglie che essa sia strutturalmente confrontabile. Nel secolo XVIII c’erano libri di fisica buoni come quelli di oggi, ma ce n’erano molti di più peggiori, contaminati dalla retorica o dal pensiero prescientifico; la risultante collettiva era allora inferiore alla somma di queste componenti individuali: la coesistenza del meglio e del peggio confondeva le menti, che non avevano più criteri per distinguere la scienza seria da quella falsa, comprometteva il livello generale del mercato delle idee. Un bororo non ha una mentalità primitiva, ma i bororo hanno un livello culturale piuttosto basso.

IV.

L’analisi del mondo storico progredisce a poco a poco con l’elaborazione e la critica dei concetti; i concetti si liberano o si frammentano (quello di ideologia possiede almeno cinque o sei significati diversi). Alcuni di questi concetti hanno una portata molto generale; che si studi la divinizzazione dell’imperatore romano o la vita politica nel secolo XX, è utile e anche indispensabile parlare di collettivi, di derivazioni, di residui non meno di quanto lo sia l’uso dei termini di nazione o di religione. Quando l’analisi storica è spinta abbastanza avanti, la distinzione tra storia e sociologia non ha più importanza, o si riduce a un problema lessicale e corporativo: si può dire indifferentemente che un libro di storia è una monografia sociologica o che un libro di sociologia generale è una topica storica’. Sarebbe inutile che ottimi amici litigassero per così poco, quando hanno un nemico comune: lo stato della documentazione.

Infatti la difficoltà nella storia non événementielle, in tutta la storia in genere, è che non dobbiamo accontentarci dei concetti che si trovano bell’e pronti nelle fonti di ogni periodo, e pensare, ad esempio, il primo secolo unicamente tramite le categorie di Svetonio, mentre si pensa il secolo XIX attraverso Marx e Tocqueville. Altrimenti ne deriverebbero disparità enormi: una amministrazione moderna verrebbe analizzata fin nella sua sociologia e nei suoi miti, laddove un’amministrazione antica sarebbe descritta solo dal punto di vista del diritto pubblico, mentre tutto il resto rimarrebbe implicito. E solo quando l’analisi è condotta egualmente a fondo in tutte le direzioni, che appaiono le grandi linee della storia, le storie parziali trovano dei nessi anche in profondità (invece di opporre due amministrazioni o due religioni nei dettagli, si dispone di una tipologia delle religioni dove esse si contrappongono nei loro caratteri più profondi), e, in un certo senso, ogni storia diviene storia comparata. Non siamo ancora arrivati a quel punto, ma solo allora la storia avrà tutto il suo sapore.

Non pretendiamo che la storia debba o dovrebbe essere concettualizzante; constatiamo che lo è, che il termine di “concettualizzazione ” è quello che meglio descrive i suoi progressi da Tucidide in poi; che è un termine più giusto delle espressioni “storia non événementielle ”, “ generalizzante ”, “esplicativa”, ecc.; infine che, se, non contenta di essere concettualizzante, la storia sa di esserlo, questa consapevolezza può spronarla a diventarlo ancora di più: non si può chiedere di più all’epistemologia.

La concettualizzazione fa l’interesse della storia. Non si tratta solo della curiosità delle origini o del gusto del calore umano, ma di un interesse più intellettuale. Il movimento che ci fa interessare alla storia umana è paragonabile a quello che ci porta verso la storia naturale. E superficiale occuparsi degli animali strani, è superficiale avere il gusto dei francobolli; ma, dagli animali strani, si passa alla comprensione di un organismo vivente: l’importante è “riconoscere in questo organismo il piano della natura”; dai francobolli si passa, per esempio, alla semiologia. Quando l’interesse per le cose umane è in tal modo diventato tutto intellettuale, e non è più “rapporto con i valori” e storia, nel senso weberiano, ma “ragione di conoscere” e “sociologia”, si può essere indotti ad attribuire un interesse estremo a settori la cui importanza vitale o nazionale è molto debole, ma che sono rivelatori delle profondità umane.

La concettualizzazione permette di passare dalla conoscenza della storia a quella delle motivazioni profonde della storia e della natura umana.

Lo sviluppo della storia concettualizzante è una parte del movimento che spinge le società moderne verso la razionalizzazione. L’impatto della razionalizzazione storica sulla vita collettiva è altrettanto considerevole di quello delle scienze fisiche e della tecnologia.

Tematizzare quello che è, “prendere coscienza” dell’impensato, significa anche pensare che questo esistente potrebbe anche non esistere, e trovare il mezzo di desiderare che eventualmente non esista più. Dall’arte non figurativa e dagli esperimenti di estetica divertente ai limiti della letteratura, alla contestazione delle istituzioni e dei costumi, dappertutto si vedono le manifestazioni di questa possibilità che hanno gli uomini di trasformare la loro esistenza attuale, una volta che ne abbiano preso coscienza.

A questo si aggiunge un altro fatto, di ordine quantitativo, le cui conseguenze sono altrettanto importanti per la storia quanto io sono state per l’estetica: l’aumento della quantità della storia ora conosciuta, l’ampliamento del “museo immaginario”. Platone, Aristotele, Tucidide conoscevano una quantità di storia molto minore di quella che conosciamo noi, per ovvi motivi; conoscevano le città e le loro costituzioni, il Gran Re, i barbari, le leggende omeriche. Potevano ancora considerare questa storia poco estesa come un’unica tragedia, attribuire un significato filosofico a ciascuno dei suoi atti; e non avevano affatto i mezzi per immaginare che tempi successivi avrebbero potuto portare novità allora inimmaginabili: le possibili “combinazioni” di cui disponevano erano troppo limitate. Certo, Platone non ignorava che la storia da lui conosciuta non era che una goccia d’acqua in un oceano, e che, nelle tenebre del passato, c’erano sicuramente state variazioni di ogni genere: lo ha scritto; ma quest’affermazione di principio restava sospesa nel vuoto, mancando di un contenuto più concreto; Tucidide poteva sperare non solo che la sua opera sarebbe stata immortale, ma anche che l’uomo quale egli lo descriveva non sarebbe cambiato.

L’interesse della storia è intellettuale, sociologico, e, in definitiva, filosofico. “Una sola collettività, a condizione di essere totalmente compresa, potrebbe forse rivelare l’essenza di tutte le collettività”. Per parlare alla maniera dei surrealisti, il gesto storiografico più semplice consiste nel prendere un foglio bianco e fare il seguente gioco: sapendo, ad esempio, che i consoli romani puntavano sulla qualità degli spettacoli del circo o dell’arena e che vi attribuivano una grande importanza (l’immagine di questi spettacoli era il simbolo del loro consolato sulle tavolette d’avorio che facevano cesellare per commemorare i loro alti incarichi), intraprendere una concettualizzazione dei diversi motivi per cui poteva essere così per i consoli, e dei motivi per cui sarebbe difficile immaginare l’equivalente per i nostri ministri. Ci sono chiaramente ragioni che rilevano del diritto pubblico, della filosofia politica, della psicologia dell’autorità, dell’economia, della cultura, della sociologia dei divertimenti; certo, ma qual è la formulazione precisa? In che cosa consiste la differenza tra loro e noi? La storia è questo, il suo compito non è solo di stabilire che i consoli davano degli spettacoli. Una volta tematizzato questo in che cosa, il perché ne consegue facilmente: lo si trova nel corso precedente degli avvenimenti.

 

Pensare la storia. Una riflessione

Come ho scritto all’inizio, la passione per la storia si è avviata precocemente e si è sviluppata con un ritmo costante. Ho letto, per fortuna, nel corso degli anni, più libri di storia che di psicologia (accademica). Non essendo uno storico di professione, pensare la storia ha significato per me estrapolare, dal flusso degli eventi, circostanze che, apparentemente casuali, implicano invece una causalità che va spiegata. Le circostanze che suscitano in particolare il mio interesse sono quelle che coinvolgono salti di qualità dello sviluppo storico che lasciano pensare all’entrata in azione di potenzialità del cervello fino ad allora inutilizzate.

Mi soffermo su due di esse.

La prima, che pone le premesse per il passaggio dalla preistoria alla storia, è la rivoluzione neolitica, che coincide con la nascita dell’agricoltura. Su tale rivoluzione sono stati scritti numerosi libri, convergenti nel riconoscere in essa uno snodo della civiltà umana secondo solo alla rivoluzione industriale.

Che cosa si dà di apparentemente misterioso in essa? Il fatto di essersi originata, quasi contemporaneamente, in tre diverse regioni del globo. In Chi siamo, Luca e Francesco Cavalli-Sforza illustrano sinteticamente questo aspetto:

“La prima [regione] è il Medio Oriente: qui già da tempo si consumavano. I cereali locali, che crescevano spontaneamente, in particolare grano e orzo. Nell’attuale Israele si era stabilita una popolazione, detta natufiana, che aveva costruito case in pietra, probabilmente perché non aveva bisogno di andare molto lontano per trovare il proprio nutrimento e poteva quindi permettersi il lusso di rinunziare al nomadismo proprio del cacciatore-raccoglitore. Una volta ancorati a una casa, deve essere diventata anche più forte la tentazione di coltivare dei campi nelle immediate vicinanze. Israele è stato uno dei centri di ricerca, e forse anche di origine, più attivi ma non è stato certo l’unico, perché vi sono esempi più lontani. Alcune delle prime tracce oggi note di allevamento di pecore e capre si trovano in Iran, e sono state datate intorno a 10.700 anni fa.

Un’altra regione in cui si sono verificati questi stessi sviluppi, pur in condizioni diverse, è la Cina. Dapprima l’agricoltura si è affermata nel nord circa 9000 anni fa, nella zona intorno alla vecchia capitale di Xian, dove sono stati scavati di recente interi villaggi neolitici, molto grandi, che vivevano soprattutto di miglio. In questa zona le donne erano particolarmente in onore, tanto che gli archeologi cinesi hanno avanzato l’ipotesi che siano state le donne a sviluppare l’agricoltura. È una buona ipotesi, perché fra I cacciatori­-raccoglitori in genere gli uomini hanno la responsabilità della caccia e le donne della raccolta: erano dunque le donne a conoscere le piante che normalmente raccoglievano e a trarre il maggior vantaggio dall’avere I campi in cui coltivarle vicino alle case. Si ritiene che le donne fossero tenute in grande onore nei villaggi neolitici della Cina settentrionale, perché le loro tombe sono più ricche di quelle degli uomini, mentre di solito altrove si verifica il contrario o non vi è differenza.

Nel sud della Cina invece, in almeno due regioni, una vicina a Shangai e un’altra a Taiwan, che allora era connessa con la terraferma, si è sviluppata la coltura del riso. L’allevamento di animali è stato meno intenso, benché il maiale si ritrovi in abbondanza in entrambi I territori.

La terza zona di grande importanza nello sviluppo dell’agricoltura comprende il Messico e le Ande settentrionali, dove già almeno 8000 anni fa si coltivavano il granoturco – che è arrivato in Europa solo dopo la scoperta dell’America – le zucche e I fagioli. All’inizio il granoturco era una piantina che dava pannocchie lunghe due o tre centimetri, ma nel corso dei millenni sono aumentate di di­mensioni con regolarità, fino a raggiungere quelle attuali,

grazie alla cura dedicata alla coltivazione e probabilmente alla continua selezione delle pannocchie più belle. Il contributo dell’America all’agricoltura è stato gran­dissimo: fra le numerose piante la cui coltivazione è stata esportata ad altri continenti solo in tempi molto vicini a noi troviamo le patate e I pomodori, il cacao e la manioca.

La manioca – nota in Europa con il nome di tapioca non può crescere se non in condizioni tropicali, anzi è una delle pochissime piante che visi coltivano facilmente, tanto che, da quando alcuni missionari l’hanno portata in Africa due o tre secoli fa (si ritiene, almeno, che così sia avvenuto), questa pianta vi ha conosciuto uno sviluppo esplosivo. In tutte le zone tropicali umide d’Africa la manioca ha sostituito le colture precedenti, che probabilmente erano di sorgo.” (pp. 209-211)

L’interpretazione che di questo fenomeno forniscono gli autori è la seguente: “E’ ragionevole pensare che in alcune zone si sia venuta a determinare una densità più, elevata di abitanti che rese difficile sostentare la popolazione locale con la vecchia econornia di caccia e raccolta. Si dev’essere creato insomma un problema di sovrappopolazione. Probabilmente ciò è andato di pari passo con un cambiamento nelle condizioni ambientali che ha interessato in quel periodo l’intero globo terrestre. Il clima è diventato decisamente più freddo, la flora e la fauna sono mutate. In America, per esempio, intorno a 11.000 anni fa si sono estinti I mammuth, o per, la scomparsa delle loro fonti di cibo vegetale oppure perché sterminati dai cacciatori. Nelle pianure dell’America settentrionale sono stati sostituiti dal bisonte, che è diventato il nuovo cibo, ma non dappertutto l’avvicendamento è stato così rapido e indolore; in altri luoghi le popolazioni umane devono essersi trovate in grandi difficoltà.

Questi due fattori possono spiegare perché l’agricoltura ha avuto inizio più o meno in una stessa epoca in punti diversi del mondo, probabilmente nelle zone le cui condizioni favorivano una densità di popolazione più elevata, perché disponevano di un ambiente più ricco, e soprattutto di piante e animali facili da coltivare o da allevare.” (p. 209)

L’interpretazione è inconfutabile, ma non esauriente. Essa va completata facendo riferimento al fatto che le condizioni demografiche e ambientali citate, che rischiavano di indurre una fame cronica e un rallentamento della crescita della popolazione, abbiano prodotto l’entrata in azione di potenzialità creative e produttive presenti da sempre nel cervello umano. Sembra di potersi ricondurre, a riguardo, al proverbio per cui la necessità aguzza l’ingegno. Si può ricavare da questa circostanza una legge di ordine generale per cui, messa alle strette, l’umanità trova comunque il modo di cavarsela? Si potrebbe, ma forse sarebbe azzardato.

E’ più importante riflettere sul fatto che le indefinite potenzialità del cervello umano non sono entrate in azione sin dall’inizio. Ma ciò cosa significa in ultima analisi? Né più né meno che il cervello è un organo affiorato in virtù di una selezione naturale con caratteristiche immediatamente adattive ed altre che, nell’immediato non avevano un significato adattivo, ma sono state utilizzate successivamente.

In teoria, l’agricoltura sarebbe potuta nascere dieci o ventimila anni prima, ma evidentemente mancavano le condizioni necessarie perché gli esseri umani entrassero in azione per cercare di risolvere un problema diventato urgente e che in prospettiva avrebbe potuto avere esiti catastrofici.

I quarantamila e più anni che precedono la rivoluzione neolitica sono stati tecnologicamente relativamente stagnanti. Da ciò si potrebbe ricavare un’altra legge: quella per cui l’evoluzione storica non è lineare nè continua. Essa presenta fasi piuttosto lunghe di relativo ristagno e fasi repentine di accelerazione.

Il secondo fenomeno riguarda invece la fioritura, in aree diverse, di Maestri di pensiero destinati ad influenzare le civiltà.

In Storia dell’India (CRS, Milano 2004), Michelguglielmo Torri scrive:

“Per I popoli dell’Ecumène il periodo fra il VI e il III secolo a.C. Rappresenta una fase storica di grande importanza dal punto di vista non solo politico ed economico ma, soprattutto, culturale. Se facciamo riferimento alle quattro maggiori aree di civilizzazione (greca, mediorientale, indiana e sinica), questo spazio di tempo non presenta caratteristiche unitarie per quanto riguarda la storia politica. Da un lato vi fu il processo di unificazione del Medio Oriente a opera della dinastia persiana degli Achmenidi, che portò alla creazione di quello che fu il primo autentico impero «universale» della storia. Il suo fondatore, Giro il Grande, incominciò la sua carriera di conquistatore intorno alla metà del VI secolo. Entro la fine dello stesso secolo, l’opera di Ciro e dei suoi primi successori, Cambise e Dario, portò alla creazione (e all’organizzazione, a opera di Dario) di un impero il cui nucleo centrale era formato dalla Mesopotamia e dall’altopiano iranico, ma che, a occidente, si estendeva fino a comprendere l’Egitto, la Cirenaica e la Tracia, a nord si spingeva nelle steppe dell’Asia centrale e, a oriente, includeva la valle dell’Indo. Anche se, nei due secoli successivi, I margini estremi del potere imperiale achmenide mostrarono la tendenza a contrarsi, l’unificazione politica attuata dai Gran Re servì da quadro di riferimento all’emergere di un’unità culturale destinata a caratterizzare in modo permanente quello che oggi chiamiamo Medio Oriente. Invece, nella medesima fase storica, ciascuno degli altri centri di civilizzazione dell’Ecumène (mondo greco, subcontinente indiano, Cina) offrì lo spettacolo di una molteplicità di potentati in conflitto fra di loro. E questo il periodo in cui Atene e Sparta respinsero, prima, il tentativo di conquista dell’impero persiano e, successivamente, si disputarono, e disputarono con Tebe, l’egemonia del mondo greco; contemporaneamente gli «stati combattenti» si affrontarono per il controllo della Cina e le «repubbliche» e I regni indiani si impegnarono in una lotta senza tregua per il dominio del subcontinente.

Tuttavia, al di sotto della mancanza d’omogeneità in campo politico, questo periodo è caratterizzato da un motivo unificatore di fondo, rappresentato dalla crescita economica visibile in tutta l’Ecumène che, fra l’altro, trovò espressione nell’espansione del mondo urbano e nella realizzazione di grandi opere pubbliche. Queste ultime, destinate a esaltare la gloria e il potere delle classi dominanti, in una serie di casi ebbero un ruolo importante nel favorire il benessere collettivo. E in questa fase storica che Atene edificò le «lunghe mura» e il Partenone, I Gran Re aprirono la «strada reale» da Susa a Sardi e I signori feudali della Cina promossero una massiccia opera di canalizzazione, destinata a diventare un elemento permanente del panorama ecologico dell’area.

Tuttavia è soprattutto a livello culturale che questo periodo storico presenta una sua peculiarità. In un arco temporale relativamente breve fece la sua comparsa in tutta 1’Ecumène una serie di Maestri del pensiero, destinati a connotare in maniera decisiva, attraverso il loro insegnamento, la successiva riflessione filosofica, filosofico-religiosa ed etico-politica di una gran parte del mondo. Nel 585 a.C., circa, Talete di Mileto diede origine alla scuola di filosofia ionica e, più in generale, alla storia gloriosa della filosofia greca.

Circa cinquant’anni dopo, Senofane, un altro greco originario della lonia, evidentemente costruendo sull’originaria riflessione di Talete (che aveva ipotizzato l’esistenza di una sostanza primaria da cui derivavano tutte le cose), postulò una sostanza originaria singola, eterna, immutevole, autocosciente e in grado di controllare tutte le cose: in una parola un Dio unico e onnipotente. Più o meno nel medesimo periodo, in Palestina, il secondo Isaia, protagonista di una predicazione con chiari risvolti politici (la redenzione politica del popolo d’Israele), affermò l’esistenza di un dio d’Israele, unico e onnipotente. Sempre il VI secolo è, probabilmente, il periodo in cui venne composto il Ghata, il nucleo più antico dello Zend Avesta, il libro rivelato della religione fondata dal profeta persiano Zoroastro. Nel Ghata è già presente la concezione per cui l’universo è il campo di battaglia in cui si svolge la lotta cosmica fra le forze del bene e della luce (rappresentate da Ormuz o Ahura Mazda) e quelle del male (incarnate da Ahriman). Una lotta destinata a terminare con il trionfo finale del bene, ma solo a patto dell’impegno di tutti I singoli individui contro le forze del male e della menzogna. Sotto il gran re persiano Dario (al potere nel 521-485) il credo di Zoroastro divenne la religione di stato dell’impero e, sia pure attraversando una serie di modifiche, emerse come dominante in Persia e destinata a rimanere tale fino ai primi decenni dopo la conquista islamica del VII secolo d.C.2. Ancora nel VI secolo, fece la propria comparsa in India una serie di grandi Maestri, alcuni dei quali – in particolare il Buddha e Mahavira – dovevano segnare in maniera decisiva, con la loro predicazione, la civiltà indiana (e, nel caso del Buddha, non solo quella). Infine, in Cina – secondo la tradizione fra il 551 e il 479 a.C. - svolse il suo magistero Confucio, un magistero basato sulla concezione secondo cui la «nobiltà» è funzione non della nascita ma dell’educazione e gli elementi del buon vivere sono dati da bontà, saggezza e coraggio. L’insegnamento di Confucio fu alla base di una visione del mondo che venne fatta propria in maniera definitiva dalla classe dirigente cinese solo sotto gli imperatori Han (all’inizio del II secolo a.C.), ma che, da allora, era destinata a esercitare un peso decisivo nella storia ideologica e politica della Cina fino all’inizio del XX secolo.

E importante sottolineare che tutte queste nuove forme di pensiero avevano un elemento comune destinato a rappresentare, a livello intellettuale, una frattura decisiva, non meno fondamentale di quella rappresentata, a livello tecnologico, dall’utilizzo del fuoco o, a livello economico, dalla rivoluzione agricola. Questo elemento comune era l’idea che I principi dell’etica non erano funzione della volontà del potere politico, ma trascendevano questo potere, tanto che lo stesso potere politico doveva a essi conformarsi per apparire legittimo agli occhi dei propri sudditi.” (pp. 49-51)

Il mistero della fioritura di tanti Maestri di vita (posto che all’elenco di Torri si aggiunga il nome di Socrate) nel giro di due secoli appare veramente incomprensibile, tanto più se si tiene conto dell'eterogeneità delle strutture politiche e dell'organizzazione sociale dei popoli coinvolti. Per ogni Maestro si può articolare una spiegazione locale, ma ciò che appare misterioso è la contemporaneità (relativa in rapporto alla storia) della loro comparsa.

Come concettualizzare il fenomeno?

Penso che l'unica possibilità sia quella di estrapolare e mettere a confronto il pensiero di due di quei Maestri: Budda e Socrate.

L'affiorare del pensiero pessimistico e sostanzialmente nichilistico di Budda sullo sfondo di una società già pervasa dall'Induismo, che è una dottrina sostanzialmente ottimistica, e in una fase di straordinaria espansione economica e civile ha dato non poco da riflettere agli storici. L'ipotesi oggi prevalente vede in esso l'indizio di una dissoluzione della società tribale con la conseguente scomparsa della solidarietà su cui essa si basava. Tale dissoluzione avrebbe prodotto il venir meno delle certezze tradizionali, lasciando l'individuo solo di fronte ad una realtà intollerabile in quanto dolorosa.

Il pensiero di Socrate, invece, affiora in un contesto nel quale l'allentamento dei legami tribali e la “nascita” dell'individuo autonomo ha prodotto una straordinaria vivacizzazione della società, orientandola verso l'espansione economica, civile e culturale. Socrate stesso, nella sua apologia, rivendica uno statuto identitario che, pur riconoscendo al'appartenenza alla comunità, comporta l'orgogliosa affermazione della libertà individuale.

La matrice in comune tra l'avvento di Budda e quello di Socrate sarebbe dunque da ricondurre all'allentamento dei legami tribali e al conseguente potenziamento del bisogno di individuazione. Nel contesto indiano, tale potenziamento avrebbe configurato il dramma di una separazione dell'individuo dalla comunità, che ha prodotto la nostalgia di un riassorbimento dell'individuo nella totalità. Nel contesto greco, invece, l'individuazione è stata colta come un salto di qualità sulla via della realizzazione dell'uomo.

Ci si può chiedere perché lo stesso fenomeno abbia causato conseguenze così diverse nei due contesti. Allo stato attuale si può solo ipotizzare che il legame tribale compromesso dallo sviluppo socio-economico assicurava, in India, una protezione dell'individuo rispetto ai compiti dell'esistenza, mentre in Grecia esso aveva, almeno in parte, esaurito la sua funzione, trasformandosi da protettivo in oppressivo. Il suo venir meno, pertanto, avrebbe conseguito, nel primo caso, l'effetto di una perdita irreparabile, mentre nel secondo sarebbe stato vissuto come una nascita liberatoria.

Se si dà credito a queste ipotesi, il VI secolo a. C. rappresenterebbe il periodo in cui lo sviluppo storico, economico e sociale, sullo sfondo di un’appartenenza comunitaria che avrebbe dominato l’esperienza degli esseri umani dalle origini, avrebbe fatto affiorare un nuovo bisogno - quello di individuazione -, intrinseco alla natura umana, rimasto sino allora represso dall’incapacità dell’individuo di cogliere se stesso come ente autonomo benché sociale.

La lunga gestazione attesta il peso dinamico che l’appartenenza al gruppo ha svolto nella storia umana: peso che persisterebbe a livello inconscio, laddove la socialità interiorizzata svolge ancora un ruolo importante. La nascita del bisogno di individuazione, in questa ottica, avrebbe fenotipizzato un altro aspetto della natura umana e avviato la dialettica dei bisogni che, ancora oggi, non ha trovato un’adeguata mediazione sociale, economica, politica e culturale.