March_ApologiaStoria


MARC BLOCH

APOLOGIA DELLA STORIA O MESTIERE DI STORICO

Einaudi Torino 1969

March Bloch è stato, con Lucien Febrve, il fondatore di una scuola storica francese che ha inciso profondamente e continua ad incidere sulla cultura contemporanea. Rispetto ad una tradizione ossessivamente concentrata sugli eventi militari e politici, la scuola francese ha "scoperto" ciò che oggi può apparire ovvio, vale a dire che la storia coinvolge tutta l'umanità e non solo gli apparati del potere. In conseguenza di questa scoperta, la "nuova storia" (qualificazione con cui viene designata ancora oggi, a oltre settant'anni dalla sua fondazione) ha dedicato un'attenzione particolare agli aspetti della realtà sociale che, in precedenza, erano trascurati, e in particolare ai fattori mentali o ideologici che essa ha assunto come fondamentali per capire il modo in cui, nelle diverse epoche, gli uomini hanno interpretato il mondo e la loro condizione. L'importanza di questo aspetto per le scienze umane e sociali, compresa la psicologia e la psicopatologia, non potrà mai essere sottolineato a sufficienza.

Apologia della storia è un libro incompiuto. Iniziato nel 1941, sotto l'impulso dell'angoscia per l'invasione nazista della Francia, esso viene interrotto (quando la stesura è arrivata ai due terzi del progetto originario) perché Bloch entra nelle file della resistenza, con l'impegno totale e il coraggio già dimostrato all'epoca della Grande Guerra. Ha cinquantasei anni e, alle spalle, nell'intervallo tra le due guerre, un'attività di studioso che lo ha reso internazionalmente famoso. La scelta volontaria, che gli costerà la vita (verrà infatti fucilato dai nazisti nel giugno del 1944) attesta in quale misura l'amore per il lavoro intellettuale si associ in lui al patriottismo e, ancora più, al culto della libertà e della giustizia.

Questi aspetti della personalità di Bloch emergono dal denso e commovente profilo di Lucian Febvre, che introduce il libro:

“Marc Bloch... Sono passati ormai più di sei anni da quando, il 16 giugno 1944, egli ci fu strappato. E io porto pur sempre in cuore la dolorosa ferita della sua scomparsa.

Tuttavia, cercherò di parlare di lui con piena serenità. Per riuscirvi, dovrò vincere lo stesso senso di smarrimento che mi colse alla notizia della sua morte.

Nelle sue grandi linee, e a guardarla dall'esterno, nulla di più semplice di questa vita di studioso. Marc Bloch nacque il 6 luglio 1886 in quella città di Lione, dove più tardi doveva lottare sino alla morte e dove suo padre, Gustave Bloch, storico sagace, vigoroso e sobrio delle società dell'antichità classica, insegnava in quella facoltà di lettere.

Egli fu il vero maestro di suo figlio; e lo vide con gioia entrare, nel 1909, alla Scuola normale superiore di Parigi; proseguire poi per un anno i suoi studi in Germania e, infine, tornato in patria, lavorare presso la Fondation Thiers alla sua tesi di «dottorato».

La guerra del 1914 strappò il giovane professore alla sua tranquilla vita di studioso. Come la maggior parte di noi, Marc Bloch, al momento della mobilitazione, era sottufficiale di fanteria. Partito per la guerra con il grado di sergente, quando, nel 1920, fece ritorno ai suoi studi dopo aver servito al fronte, senz'interruzione, col suo reggimento-, era capitano, cavaliere della Legion d'onore per meriti militari, e la sua croce di guerra era accompagnata da cinque splendide citazioni al valore.

Appena rientrato nella vita civile, il nostro maestro Christian Pfister lo chiamò a insegnare nell'Università di Strasburgo. Bloch vi riorganizzò il «seminario» di storia medievale e, per diciassette anni, vi formò dei buoni studenti: sino al giorno in cui la Sorbona lo chiamò, nel 1936, a succedere a Henri Hauser nella cattedra di storia economica. E, sino alla seconda guerra mondiale, null'altro...

I suoi primi studi si concentrarono su un problema destinato a ritenere la sua attenzione durante tutta la sua esistenza: il problema della libertà.

Che cosa s'intendeva per «libertà» nel medioevo? Più propriamente: che cos'era mai un uomo libero o non-libero nei secoli XI, XII, XIII? Problema singolarmente arduo.

Possedendo, infatti, nei confronti dei nostri avi dell'età di mezzo la superiorità di essere vivi, noi attribuiamo loro, senza che essi si possano difendere, tutte le nostre idee, ogni qualvolta essi usano i vocaboli di cui, noi uomini del secolo XX, ci serviamo per esprimerle. Scoprire l'errore è certamente più facile che portarvi rimedio. Bloch non tardò a rendersene conto. Per tutta la vita, egli lottò per cogliere il preciso significato che poteva avere all'epoca dei primi Capetingi (o, più tardi, al tempo di Luigi il Santo) quella parola «libertà» che noi c'illudiamo di capire senza nessuna difficoltà. E in tale sforzo non impegnò soltanto la sua intelligenza, ma tutta la sua coscienza: la sua esigente coscienza di cittadino. Scoprendo, nel '43, in un fascicolo dei «Cahiers Politiques», i quali si sforzavano di raggruppare i «resistenti» della cultura, una frase che lo feriva, Bloch scriveva: «Chiedo il permesso di manifestare la mia bile. Il termine di Sorel, mito, applicato alle idee nelle quali io credo, mi fa orrore. Mito = menzogna. Dunque, la teoria razzista è davvero un mito. Ma non la libertà francese, che è un'aspirazione».

E aggiungeva: «Chiedo scusa della mia pedanteria; ma siamo dunque così attossicati di Sorel e di Maurras che i migliori tra noi debbano finire col pensare secondo le loro categorie mentali? »

Rievocando simili discussioni, così legate all'azione militante, io non esco dal mio proposito iniziale. Infatti, Bloch non fu un grande storico per aver letto molti libri, collezionato molti documenti, compilato molte schedine.

Ancor meno per aver legato il suo pensiero e la sua prassi di storico a una filosofia. (Egli non lo affermò mai in maniera formale, perché uno storico francese non prova il bisogno di dirlo; ma l'ho detto io per lui, per me e per parecchi altri: «Tutte le idee d'uno storico si ricavano dalla storia». Assioma fondamentale della storiografia francese). Bloch fu un grande storico perché recò sempre nel suo lavoro il senso e la sollecitudine della vita: di quella vita di cui ogni vero storico non si stanca di conoscere il gusto.

Testimone il nostro grande Henri Pirenne, che noi amavamo tanto appunto per quanto aveva in sé di rigoglio di vita, di gusto e di senso storico della vita. Perciò, voler separare in Marc Bloch l'attività del cittadino da quella dello studioso non significa soltanto commettere un errore: significa voler mutilare, a un tempo, e l'uomo e l'opera.

Dunque, se Bloch meditò così a lungo il problema della libertà medievale, è perché sentiva in maniera singolarmente acuta il problema della libertà «senza aggettivi».

Morto per la libertà, Marc Bloch non cessò di studiarne la storia e le vicissitudini. E fu questo senso del vivente, del reale, a fare di lui - appena m'ebbe incontrato a Strasburgo, lui, più giovane di me di otto anni - un compagno di cammino, e come un giovane fratello spirituale, pieno di forza e di entusiasmo.

Per tal modo, i suoi primi studi gi'insegnarono una cosa ch'egli non doveva più dimenticare. E cioè, che la storia non è «la scienza del passato»: come i suoi maestri gli avevano detto e ripetuto nel corso dei suoi studi (e financo, dei suoi studi di filosofia). Quel che invece Bloch imparò e che contribuì ad avvicinarlo a me, più vecchio di lui - fu che la storia è una delle scienze «umane». Il suo oggetto è l'Uomo: o, se si preferisce, gli Uomini. Ci sono i campi, gli strumenti, le macchine, e gli Stati e le nazioni, e le leggi, i sistemi giuridici, le morali, le istituzioni: ma, dietro a tutto questo, le persone umane. E quel che la storia deve cogliere sono, precisamente, le persone. Chi si arroga il nome di «storico», ma senza provare il bisogno di cercare, di trovare l'uomo là dov'esso è (o dove, talvolta, si nasconde) - l'uomo vivente, l'uomo sensibile, l'uomo pieno di passioni e di ardore e di temperamento _ non è che un erudito. Un maniaco della «poIymatia», come diceva il nostro Pierre Malebranche.

Gli uomini, la mentalità degli uomini. Ed ecco come il primo grande libro di Bloch dopo la sua «tesi» (Rois et serfs. Un chapitre d'histoire capétienne, pubblicato nel 1920) fu il suo studio, il suo bellissimo studio su Les rois thaumaturges, che uscì a Strasburgo nel 1924. Etude sur le caractère surnaturel attribué à la personne royale - dichiarava un sottotitolo austero -, particulièrement en France et en Angleterre. Era lo studio d'una credenza, di un sistema di credenze. È noto che il re di Francia - e anche, con minor lustro, i re d’Inghilterra  -  godevano, nella

loro qualità di unti del Signore, del miracoloso potere di guarire le scrofole. Marc Bloch, scrivendo la storia di tale potere miracoloso e delle sue vicende sia in Francia che in Inghilterra, mostrava come la regalità medievale - che i manuali si ostinano a considerare come un'«istituzione » era, in realtà, per i nostri padri, un sistema di credenze al quale si collegava una mistica; e il cui studio è di competenza, anzitutto, della psicologia: di quella psicologia retrospettiva che è la stessa sostanza della storia.

Esistono le credenze, i bisogni spirituali e mistici. Ed esistono altresì le invenzioni: quelle mirabili creature del genio umano che sono le tecniche. Cose, ma che impegnano anch'esse l'uomo ne/la sua interezza. E, innanzi tutto, la sua coscienza e la sua mentalità. Ecco ciò che conferisce un valore esemplare al bell'articolo sul Moulin à eau, che insieme al celebre articolo di Henri Pirenne su Le commerce des vins, è uno degli scritti che più onorano le «Annales d'histoire économique et sociale».

Una storia del mulino ad acqua, della sua propagazione attraverso l'Europa e delle conseguenze della sua diffusione? Sí, certo; ma anche ben altra cosa. Giacché, a ben guardare, c'è qui un problema. Inventare il meccanismo del mulino: facile impresa per società che risolsero di buon'ora problemi di meccanica assai più complicati. Perché mai, allora, tale invenzione, facile da compiere e atta ad affrancare da una così gran somma di fatica umana, ci mise tanto tempo a trovare la sua formula e a conquistare I’Occidente. Bloch non tardò ad accorgersi che l'antichità ebbe a sua disposizione tutti i mezzi materiali necessari per popolare di mulini ad acqua tutti quanti i fiumi dell'Europa occidentale. Per quali ragioni si privò del beneficio di un'invenzione che era, per così dire, a portata di mano? Problema di ruote e d'ingranaggi? Nient'affatto: problema di mentalità, anche in questo caso, e di struttura sociale. Nella storia di tale scoperta era impegnato l'intero problema della schiavitù, della manodopera servile; l'intero problema di come le società antiche concepirono, e utilizzarono, la schiavitù...

Questa maniera di considerare le cose, Bloch non l'applica solamente al mulino. Né a quel problema dell'attelage formulato con tanta singolare spontaneità dal comandante Lefebvre des Noētes. Né a tutto l'insieme dei problemi materiali, i quali sono anch’essi, per tanti aspetti, problemi di credenza e che Bloch trasferì, per proprio uso, dai gabinetti di numismatica, frequentati dal collezionista, ai «seminari» di una storiografia preoccupata di «realtà», ma conscia che anche la mentalità è una «realtà»: e la prima di tutte... Questa maniera di considerare le cose, Bloch l'applicò a tutto insieme della storia agraria, di cui fu il grande, potente indagatore: il Maestro.

Egli si affermò come tale nel 1931 con il suo bel libro su Les caractères originaux de l'histoire rurale francaise, da lungo tempo esaurito e che sto ora interessandomi di fare ristampare. Già molti anni prima della sua pubblicazione, gli specialisti seguivano con interesse il lavoro di Bloch, che, in una serie di articoli ricchi di movimento, stava descrivendo la lotta per l'individualismo agrario nella Francia del secolo XVIII. «L'individualismo agrario»: formula rivelatrice di tutto un orientamento mentale. Bloch non studia le cose, né i testi giuridici o le istituzioni, ma l'uomo: oggetto costante e mutevole della storia. L'uomo e il suo «individualismo agrario »...

Tale lo spirito che informa non solo quella bella «memoria», ma tutta una serie di articoli, pubblicati regolarmente nelle nostre «Annales»: altrettanto originali e fecondi che, un tempo, le Chroniques gallo-romaines pubblicate da Camille Jullian nella «Revue des études anciennes»: più ponderati, tuttavia, più prudenti per un'assidua esigenza critica. Essi non hanno soltanto preparato, e poi circondato e prolungato il suo libro fondamentale: hanno formato tutta una schiera di giovani studiosi, destinati a far vivere a lungo il pensiero del loro maestro, e che fanno onore alla Francia - e a lui.

Infine, due bei volumi, pubblicati nella collezione «L'évolution de l'humanité», sulla Société féodale. Opera di uno psicologo, di un economista anche; e, in pari tempo, di un giurista e di un politico profondamente impregnato di sociologia; opera di un «comparatista», soprattutto. È forse possibile esaminare efficacemente le grandi istituzioni sulle quali si fonda la società feudale - signoria, vassallaggio, comuni cittadini - in un solo paese e isolarle dal generale contesto europeo?

Su questo punto, nessuno disse cose più giuste e penetranti di Marc Bloch: già in un notevole articolo-programma pubblicato nel 1928 nella «Revue de synthèse historique », intitolato Pour une histoire comparée des sociétés européennes. Quelle cose giuste, Bloch aveva acquistato il diritto di dirle grazie a un duro lavoro, mirabilmente regolato: giacché si era formata una cultura di storico europeo d'un'ampiezza rara. Nessuna delle grandi lingue della civiltà d'Europa gli era ignota. E da quegli osservatorî successivi che furono per lui, via via, insieme con le «Annales», la «Revue de synthèse», la «Revue historique», il «Moyen Age», egli non cessò di seguire la produzione storica di tutta l'Europa con la costante sollecitudine di ampliare e di arricchire le proprie concezioni.

Del resto, Bloch non viaggiava soltanto attraverso i libri. Cercava l'occasione di andare a portare in terra straniera la propria parola, di far amare e stimare in sé la più ferma dottrina, la più alta scienza del suo paese. Lo si poté ascoltare così, successivamente, in Norvegia, a Oslo (1929), dove presentò sotto forma di conferenze la sua opera sui Caractères originaux de l'histoire rurale francaise; a Gand, dove fu professore «di scambio», e a Bruxelles, a quell'Ecole des hautes-études (1932); in Ispagna (sempre nel '32), dove prese parte attiva alla «Settimana di storia del diritto» di Madrid e di Salamanca; e, infine, nel I934, a Londra, dove fece, alla London School of Economics, una comunicazione sul tema Seigneurie française et manoir anglais, étude d'histoire comparée, la quale colpi profondamente Sir John Clapham. Dappertutto, compì un ottimo lavoro. Dappertutto, anche, quel patriota osservò, con amarezza, come la Francia tenesse malamente le posizioni che avrebbe potute, e dovute, tenere degnamente; e che essa lasciava conquistare, troppo spesso, da una razza odiosa di grotteschi postulanti...

Fu la duplice preoccupazione di assicurare l'irradiazione delle nostre idee e di raggruppare insieme, in vista di un'azione comune e innovatrice, i migliori tra i nostri giovani storici ciò che lo spinse, nel 1929, a propormi di riprendere con lui un progetto di «Revue d'histoire économique internationale» che avevo elaborato, all'indomani della guerra, con Henri Pirenne, ma che aveva finito con l'arenarsi nelle secche della Società delle Nazioni, a Ginevra... Nacquero così le «Annales d'histoire économique et sociale», che diventarono, dieci anni dopo, le «Annales d histoire sociale»; poi, temporaneamente, durante la guerra, i «Mélanges d'histoire sociale»; e finalmente - titolo odierno- «Les Annales (Economies, Sociétés, Civilisations)».

Nei nostri intendimenti, non si trattava semplicemente di aumentare di un'unità il catalogo delle riviste di erudizione esistenti. Si trattava di compiere tutto uno sforzo di educazione. E, insieme, uno sforzo di illustrazione del pensiero francese. Tale sforzo, posso ben dirlo, ha conseguito pienamente il suo intento. A qual prezzo, l'abbiamo saputo entrambi. Ma nulla del nostro tempo, nulla del nostro lavoro è andato alla fine perduto. E Bloch, ancora una volta, ebbe la soddisfazione di associare intimamente, nelle «Annales», al suo culto della scienza il suo culto di una patria, che amava tanto di più in quanto, per meglio conoscerla, egli non si confinava gelosamente in una ristretta cerchia ideale. Come il nostro grande Michelet, egli pensava che «tutta l'Europa non è di troppo per scrivere la storia di Francia ».

E poi venne la catastrofe. Dovrò forse sorvolare rapidamente su una fine altrettanto dolorosa che magnifica? Quando la dróle de guerre cominciò, Marc Bloch aveva cinquantatre anni. Professore di storia economica alla Sorbona, era autore celebre di tre o quattro opere di fama mondiale. Condivideva con me l'affetto di quella schiera di giovani discepoli entusiasti che le «Annales» avevano raccolta intorno a sé. Aveva già fatto i suoi progetti per il prossimo avvenire. Avrebbe dato all'«Evolution de l'humanité» due volumi capitali sulla storia economica del medioevo; avrebbe scritto un libro di metodologia, il titolo di Apologie pour histoire, e poi (titolo più bello ancora) di Métier hlstorien.

Ora, quest'uomo - che Sir John Clapham doveva celebrare come il «più grande dei medievalisti del nostro tempo» -, padre di sei figli, si affrettò a rivestire, nel 1939, la sua vecchia divisa di capitano di fanteria. Avrebbe potuto restarsene tranquillamente seduto nella sua cattedra della Sorbona. Non lo fece. Partì per il fronte (dove, del resto, non si seppe utilizzarlo). E conobbe, a Dunkerque, ore tragiche.

Poi, l'occupazione tedesca. A un certo momento, Bloch avrebbe potuto rifugiarsi con facilità in America, preservarsi per l'indomani della liberazione, salvare in sé uno dei più grandi valori intellettuali e morali del suo paese... Fece invece di tutto per non partire. In fondo, voleva restare.

Cacciato dalla Sorbona dalle leggi razziali, BIoch fu inviato dagli uomini di Vichy prima a Clermont, poi a Montpellier. Dopo l'invasione della zona meridionale della Francia da parte dell'esercito tedesco e la fine della finzione di una Francia non-occupata, egli lasciò Montpellier e, anziché nascondersi silenziosamente in qualche sperduto villaggio, si gettò in pieno nella resistenza. Ben presto, diventò a Lione uno dei capi del movimento. E a Lione venne arrestato dalla Gestapo alcuni mesi dopo, nel marzo del '44, incarcerato nel Fort Monluc, atrocemente torturato...

Così, tre volte - nel 1939, nel '40, nel '43 - Marc Bloch ride spalancarsi davanti a sé le porte della salvezza; e tre volte rifiutò di varcarne la soglia. Non diciamo che cercò la morte: una morte «orribile», com'egli ben sapeva (me lo disse l'ultima volta che lo vidi vivo, nel '43). Egli squadrò la morte; ne prese la misura; e, ogni volta, le disse: «Tanto peggio! mantengo la sfida », nutrendo forse nel suo intimo, nel suo fervore di offerta alla Francia, il segreto desiderio di perderla. Di fatto, fu la morte quella che vinse.

Il 26 giugno i945, a Parigi, nell'aula magna della Sorbona, davanti all'élite del mondo universitario francese, accorso a celebrare la memoria della più illustre delle vittime della spaventosa tragedia, lessi il Testament spirituel de Marc Bloch, qual egli lo aveva scritto a Clermont-Ferrand, il 18 marzo 1941. Pagina mirabile, che terminava con una specie di rimpianto nostalgico: «Nel corso delle due guerre, non mi è stato concesso di morire per la Francia. Pure, posso rendermi, in tutta sincerità, questa testimonianza: muoio, come vissi, da buon francese..» 18 marzo 1941. Tre anni dopo, il 16 giugno 1944: le nove di sera. La notte scende sulle grandi praterie del Val de Saone, laggiú, a una trentina di chilometri a nord di Lione, sulla strada da Trévoux a Bourg-en-Bresse. Ci s'immagina l'odore che sale, in quella stagione, dai prati in fiore. Il fragore d'un autocarro. Il veicolo si arresta. Ne scendono, quattro alla volta, degli uomini, dei Francesi strappati brutalmente dalle loro celle, a Lione. Dei Tedeschi li spingono verso un prato cinto di siepi. Una raffica di mitragliatrici. I primi quattro cadono, falciati. Avanti altri quattro!

Un uomo giovanissimo, quasi un ragazzo, si dispera: «Chissà che male! » Dolcemente, paternamente, il suo vicino lo prende sotto il braccio: «Ma no, piccolo, non farà male... Vieni! » E lo trascina nel campo tragico. Grida: «Viva la Francia! »; e si abbatte al suolo.

Il suo vicino: Marc Bloch. Colui che, nel suo Testament, aveva scritto fieramente, nello stesso spirito di un Bergson levantesi per l'ultima volta dal suo letto di malato per recarsi al commissariato di polizia del quartiere a dichiararsi «ebreo »: «Affermo, dunque, se necessario, in faccia alla morte, che sono nato ebreo; non ho mai pensato a difendermene, né ho mai avuto alcun motivo per avere la tentazione di farlo. In un mondo invaso dalla più atroce barbarie, la generosa tradizione dei profeti ebraici, che il cristianesimo, in quanto ebbe di più puro, riprese per ampliarla, non costituisce forse una delle nostre migliori ragioni di vivere, di credere e di lottare?» E aggiungeva: «Attaccato alla mia patria da una tradizione familiare ormai lunga, nutrito del suo retaggio spirituale e della sua storia, incapace in verità di onorarne un'altra dove io possa respirare a mio agio, io l'ho molto amata e l'ho servita con tutte le mie forze. Non mi sono mai accorto che la mia qualità di ebreo mettesse il minimo ostacolo a tali sentimenti... »

Era necessario che, al termine di questa breve nota, riproducessimo queste poche righe. Per scolpire a nostra guisa, sulla sua tomba, le parole che Marc Bloch desiderava vedervi incidere un giorno, e che non sono scolpite profondamente che nei nostri cuori: Dilexit veritatem.”

Apologia della storia è un testo denso di riflessioni metodologiche sul mestiere di storico, ma il suo significato ultimo sta nel rispondere alla domanda, riportata all'inizio che un bambino rivolge ingenuamente al padre, storico di professione:"Papà, spiegami a che serve la storia". Domanda non vana, che ancora oggi si pongono gran parte degli studi costretti a studiare testi graficamente ambiziosi ma, in ultima analisi, vincolati alla vecchia storia, irretiti dagli eventi politici e militari e affollati di date. Nel contesto particolare in cui il libro viene recensito, cioè sul sito Nilalienum, la domanda potrebbe essere formulata in termini più oggettivi. A che serve la storia - ci si potrebbe chiedere - agli psichiatri, agli psicologi e agli operatori sociali?

Sarebbe facile, e approssimativo, rispondere che la psicoanalisi ha scoperto l'importanza del passato nel presente di ogni soggettività, e che le interpretrazioni analitiche dovrebbero avere un taglio microstorico. In realtà, il passato in questione nella vita di tutti noi non si esaurisce nei recinti dell'esperienza privata, familiare. Ogni famiglia appartiene alla società e al mondo storico, veicola, nel suo modo di essere, nei suoi equilibri e nei suoi squilibri, come pure nei tratti di carattere dei singoli membri, l'influenza delle generazioni che l'hanno preceduta e, attraverso questa, della storia tout-court. Uno psichiatra che nulla sa di storia sociale (e la gran parte nulla sa) non può ridursi che a prendere atto dei sintomi e a valutarli in un'ottica nosografica. Sarebbe far torto a Bloch ridurre a questo l'insegnamento del testo per coloro che intendono studiare l'uomo a tutto campo. C'è molto di più, come si può ricavare dall’Introduzione:

“«Papà, spiegami a che serve la storia». Così, pochi anni or sono, un ragazzo che mi è molto vicino, interrogava suo padre, uno storico. Vorrei poter dire che questo libro rappresenta la mia risposta, perché non credo ci sia lode migliore, per uno scrittore, che di saper parlare, con il medesimo tono, ai dotti e agli scolari. Ma una semplicità tanto elevata è privilegio di alcuni rari eletti. Tuttavia la domanda di quel fanciullo, di cui sul momento non riuscii gran che bene a soddisfare la sete di sapere, la conserverei volentieri qui, come epigrafe. Senza dubbio, alcuni ne giudicheranno ingenua la formulazione; a me pare, invece, del tutto pertinente1. Il problema ch'essa pone, con la sconcertante dirittura di quell'età inesorabile, è, né più né meno, quello della legittimità della storia.

Ecco dunque lo storico invitato alla resa dei conti. Egli non vi si accingerà senza un certo tremito interiore: quale artigiano, incanutito nel mestiere, ha potuto domandarsi, senza una stretta al cuore, se abbia fatto della propria vita un uso saggio? Ma il problema supera, di molto, i modesti scrupoli di una morale «corporativa». Vi è interessata, e per intero, la nostra civiltà occidentale.

Essa infatti, a differenza di altri tipi di civiltà, si è sempre ripromessa molto dalla propria memoria. Tutto ve la induceva: la tradizione cristiana al pari di quella classica.

I Greci e i Latini, primi nostri maestri, erano popoli storiografi. Il cristianesimo è una religione di storici. Altri sistemi religiosi hanno potuto fondare le loro credenze e riti su una mitologia quasi estranea al tempo umano. I cristiani, come Libri Sacri hanno invece dei libri di storia, e la loro liturgia commemora, con gli episodi della vita terrena di un Dio, i fasti della Chiesa e dei santi. Ma storico il cristianesimo lo è anche per un altro aspetto, forse più profondo: ai suoi occhi, il destino dell'umanità, svolgentesi tra la Caduta e il Giudizio, appare come una lunga vicenda, di cui ogni destino, ogni «pellegrinaggio» individuale è, a sua volta, il riflesso; nella durata dunque, e perciò nella storia, si svolge, asse centrale di qualsiasi meditazione cristiana, il gran dramma del Peccato e della Redenzione. La nostra arte, i nostri monumenti letterari sono ricchi di echi del passato; i nostri uomini di azione hanno continuamente sulle labbra i suoi insegnamenti, veti o presunti. Senza dubbio, fra le psicologie dei vari gruppi nazionali sarebbe opportuno segnare più d'una differenza.

Molto tempo fa lo rilevò il Cournot: eternamente inclini a ricostruire il mondo secondo schemi razionali, i Francesi nella loro maggioranza vivono assai meno intensamente che, per esempio, i Tedeschi2, i propri ricordi collettivi. È anche indubbio che le civiltà possono mutare. Non è concepibile, in via di principio, che un giorno la nostra si allontani dalla storia. Gli storici farebbero bene a riflettervi. La storia mal compresa potrebbe, se non vi si pone attenzione, finire col trascinare nel proprio discredito la storia meglio intesa. Ma, se dovessimo un giorno arrivare a tal punto, ciò avverrebbe a costo di una profonda rottura con le nostre più costanti tradizioni intellettuali.

Per ora, noi ci troviamo, in proposito, nella fase dell'esame di coscienza. Ogni volta che le nostre anguste società, in continua crisi di crescenza, prendono a dubitare di se stesse, esse si domandano se abbiano avuto ragione di interrogare il loro passato, oppure se l'abbiano interrogato bene. Leggete ciò che si scriveva prima della guerra, ciò che si potrebbe scrivere ancor oggi: quasi immancabilmente, udrete tale inquietudine unire la sua voce alle altre diffuse inquietudini del tempo presente. In pieno dramma, mi fu dato di coglierne un'eco assolutamente spontanea. Eravamo nel giugno 1940, proprio il giorno, se ben ricordo, dell'ingresso dei Tedeschi a Parigi. Nel giardino normanno in cui il nostro Stato Maggiore, privo di truppe, si cullava nell'ozio, noi rimuginavamo le cause del disastro. «Dobbiamo dunque credere che la storia ci ha ingannati?», mormorò uno di noi. Così l'angoscia dell'uomo maturo coincideva, con un accento più amaro, con l'ingenua curiosità del giovinetto. Bisogna rispondere all'una e all'altra.

Tuttavia, occorre ancora stabilire il significato del termine «servire». Prima di esaminarlo aggiungo però una parola di scusa. Le circostanze della mia vita odierna, l'impossibilità di recarmi in una grande biblioteca, la perdita dei miei libri, mi costringono a fidarmi molto dei miei appunti e di quel che so. Troppo spesso mi sono interdette le letture complementari e i controlli richiesti dalle stesse leggi del mestiere di cui intendo descrivere i metodi. Mi sarà concesso un giorno di colmare queste lacune? Mai completamente, temo. Su questo punto non mi resta che invocare indulgenza e, direi, riconoscermi colpevole, se ciò non significasse assumermi, più del legittimo, le colpe del destino.

Certamente, anche se la storia dovesse esser giudicata incapace di servire ad altro, resterebbe pur sempre a suo favore il fatto che procura uno svago. O, più esattamente - poiché ciascuno cerca le sue distrazioni dove più gli piace -, il fatto che lo procura incontestabilmente a un gran numero di persone. Personalmente, per quanto riesco a ricordare, la storia mi ha sempre divertito molto. Come tutti gli storici, suppongo. Altrimenti, per quali altre ragioni avrebbero scelto questo mestiere? Tutte le scienze sono interessanti per chi non sia del tutto stupido. Ma ogni dotto ne trova una sola ch'egli si diverta a praticare. Scoprirla, per dedicarvisi, è propriamente quel che si suol chiamare «vocazione».

D'altro canto, quest'innegabile attrattiva della storia merita già la nostra riflessione.

Come germe e come stimolo, anzitutto, la sua funzione fu e rimane essenziale. Prima del desiderio di conoscere, il semplice trovarci gusto; prima dell'attività scientifica, pienamente cosciente dei propri fini, l'istinto che vi conduce; filiazioni del genere abbondano nell'evoluzione del nostro comportamento intellettuale. Persino i primi passi della fisica debbono non poco ai vecchi «musei di curiosità». Così pure, abbiamo tutti notato che i piccoli piaceri delle anticaglie costituiscono l'origine di orientamenti di studi, divenuti poi, a poco a poco, sempre più seri. Tale la genesi dell'archeologia e, in tempi recenti, del folclore. I lettori di Alexandre Dumas non sono forse che storici in potenza, cui manca soltanto la preparazione necessaria per provare un godimento più puro e, a mio parere, più intenso: quello del colore vero.

Questo fascino, d'altronde, non svanisce neppure quando intraprende la ricerca metodica accompagnata dalla necessaria austerità; anzi, proprio allora - tutti i veti storici possono attestarlo - acquista maggiore vivacità e pienezza: e l'osservazione vale, in un certo senso, per qualsiasi lavoro intellettuale. Eppure, la storia, è indubbio, ha godimenti estetici propri, dissimili da,quelli di ogni altra disciplina. Questo perché Io spettacolo delle attività umane, suo oggetto peculiare, è più di qualsiasi altro atto a sedurre l'immaginazione degli uomini; soprattutto poi quando, allontanandosi esse nel tempo e nello spazio, il loro dispiegarsi si adorna delle sottili seduzioni del diverso e dello strano. Lo stesso grande Leibniz ce l'ha confessato: quando, dalle astratte speculazioni della matematica o della teodicea, si volgeva a decifrare antiche carte o cronache della Germania imperiale, egli provava, come noi, la «voluttà di conoscere cose singolari ». Guardiamoci dal togliere alla nostra scienza il suo soffio di poesia e soprattutto cerchiamo di non provarne quel senso di vergogna che ho notato in taluni. Credere che la storia sia meno capace di soddisfare anche la nostra intelligenza per il fatto che esercita un così possente richiamo sulla sensibilità, sarebbe davvero una straordinaria sciocchezza.

Se tuttavia la storia, alla quale ci richiama un’attrattiva quasi universalmente sentita, non potesse dimostrare altrimenti la propria legittimità; se non fosse insomma che un piacevole passatempo, come il bridge o la esca con lenza, meriterebbe davvero la fatica che spendiamo per scriverla? S'intende, per scriverla onestamente, veracemente, e cercandone, nella misura del possibile, le rnolle segrete: quindi, con difficoltà. Oggi gli svaghi - ha scritto A.ndré Gide - non ci, sono più permessi; neppure - aggiungeva - quelli dell’intelligenza

Quanto più piena di significato risuona tale affermazione, oggi, nel 1942! Certo, in un mondo che ha ora affrontato la fisica atomica e ha appena iniziato l'esplorazione dei misteri degli spazi siderali, nel nostro povero mondo giustamente orgoglioso della propria scienza, ma incapace di crearsi un poco di felicità, le prolisse minuzie dell’erudizione storica, capacissime di divorare tutta una vita, meriterebbero di essere condannate per sciupio di energie, assurdo sino a essere delittuoso, se valessero so/tanto a rivestire d'un po' di verità uno dei nostri passatempi. O dovremo sconsigliare lo studio della storia agli ingegni suscettibili di un miglior impiego, oppure la storia dovrà dimostrare di avere le carte in regola come conoscenza.

Ecco presentarsi qui un nuovo problema: che cosa, esattamente, rende legittimo uno sforzo intellettuale? Nessuno, credo, oggi oserebbe più dire, con i positivisti di rigida osservanza, che il valore di un'indagine è determinato interamente dalla sua capacità di servire all'azione. Non soltanto l'esperienza ci ha insegnato l'impossibilità di stabilire a priori se le speculazioni in apparenza più disinteressate non si riveleranno un giorno di sorprendente utilità pratica. Ma infliggeremmo una ben singolare mutilazione all'umanità, negandole il diritto di cercare, senza curarsi affatto del benessere, la soddisfazione dei propri bisogni intellettuali. Anche se dovesse restare eternamente indifferente all'homo faber o politicus, alla storia basterebbe, per la sua propria difesa, di essere riconosciuta come necessaria al pieno sviluppo dell'homo sapiens. Però, anche così limitato, il problema non è ancora, per ciò stesso, bell'e risolto.

Il nostro intelletto, tende, per sua natura, assai più a voler comprendere che a voler sapere. Ne consegue ch'esso giudica autentiche soltanto quelle scienze che giungono a stabilire nessi esplicativi tra i fenomeni. Tutto il resto, secondo affermazione di Malebranche, non è che «polimatia». Ora, la «polimatia» può apparire svago o mania; ma non meno oggi che all'epoca di Malebranche, non potrebbe esser considerata come una fra le attività intellettuali utili. La storia, dunque, anche indipendentemente da qualsiasi eventuale applicazione alla condotta pratica, avrà il diritto di rivendicare il suo posto fra le forme di conoscenza veramente degne di sforzo, soltanto se ci prometterà una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità, anziché una semplice enumerazione senza nessi e quasi senza limiti.

Pure, non si può negare che una scienza la quale prima o poi non ci aiuti a vivere meglio ci sembrerà sempre incompleta. In particolare, come non proveremmo questo sentimento con maggiore forza nei confronti della storia, tanto più evidentemente destinata a giovare all'uomo in quanto ha per materia l'uomo stesso e le sue azioni? Difatti, un'inveterata tendenza, cui si concederà almeno valore di istinto, c'induce a chiedere alla storia i mezzi per guidare il nostro operare; e quindi, a prendercela con lei, come quel soldato sconfitto di cui ho riferito le parole, se per caso essa ci appai~ impotente a fornirceli. Il problema dell'utilità della storia, nel ristretto significato pragmatico del termine «utile», non va confuso con quello della sua legittimità, più propriamente intellettuale. D'altra parte, non può presentarsi che in un secondo tempo: per agire ragionevolmente, non occorre prima comprendere? Ma quel problema non potrà essere eluso, salvo che non ci si accontenti di rispondere soltanto a metà alle più imperiose suggestioni del senso comune.

A questi problemi hanno già risposto alcuni tra i nostri consiglieri, o che tali vorrebbero essere. Essi miravano a strapazzare le nostre speranze. I più indulgenti hanno detto: la storia è priva di profitto e di solidità. Altri, la cui severità non indulge a mezze misure: essa è dannosa. «Il prodotto più pericoloso che la chimica dell'intelletto abbia elaborato», ha sentenziato uno di loro, e non dei meno noti. Queste condanne esercitano un'indubbia attrattiva, in quanto giustificano a priori l'ignoranza. Fortunatamente, per quel poco di curiosità intellettuale che sopravvive ancora in noi, non sono inappellabili.

Ma se si deve riprendere in esame la causa, è necessario disporre di dati più sicuri.

A quanto pare, a questa precauzione i soliti denigratori della storia non hanno pensato. La loro parola non manca di eloquenza, né di ingegnosità. Ma i più hanno trascurato di procurarsi esatte informazioni su ciò di cui dissertano.

L'immagine che si fanno dei nostri studi non è nata in un laboratorio. Sa più di accademia retorica che di gabinetto di lavoro. E, soprattutto, è scaduta. Così che potrebbe darsi che tanta verve, alla fine dei conti, risulti spesa al solo scopo di esorcizzare un fantasma. Ebbene, assai diverso deve essere qui il nostro sforzo. Noi cercheremo di stabilire il grado di certezza dei metodi realmente usati dall'indagine, sino nell'umile e delicato dettaglio delle sue tecniche. I nostri problemi saranno gli stessi che la disciplina ch’egli pratica Impone ad ogni istante allo storico. Insomma, vorremmo dire come e perché uno storico esercita il suo mestiere. Al lettore, poi, il decidere se meriti o no di essere esercitato.

Stiamo tuttavia bene attenti. Anche così inteso e limitato, il compito è semplice solo in apparenza. Sarebbe semplice, forse, se dovessimo esaminare una di quelle arti applicate, di cui si è parlato a sufficienza quando si son enumerati, gli uni dopo gli altri, i movimenti della mano, a lungo sperimentati, in cui consiste il loro esercizio. Ma la storia non è l'orologeria o l'ebanisteria; bensì uno sforzo inteso a una migliore conoscenza, e perciò qualcosa di dinamico. Limitarsi a descrivere una scienza quale si fa, sarà sempre un tradirla in parte. Più importante ancora è dire in qual modo essa speri di riuscire progressivamente a farsi. Ora, siffatta impresa richiede necessariamente, da parte dell'analista, una dose non lieve di scelta personale.

Infatti, il cammino di qualsiasi scienza, a ogni tappa, è costantemente traversato da tendenze divergenti, innanzi alle quali non è possibile far la parte di arbitro senza una specie di anticipazione sull'avvenire. Qui non ci si propone di indietreggiare dinanzi a questa necessità. Nelle questioni intellettuali, al pari che nelle altre, l'orrore delle responsabilità non è un sentimento da raccomandare. Tuttavia, era dovere di onestà avvertire il lettore.

Infatti, le difficoltà contro cui inevitabilmente va a cozzare qualsiasi studio dei metodi variano di molto a seconda del punto momentaneamente raggiunto da ogni disciplina sulla traiettoria, sempre alquanto irregolare, del suo sviluppo. Quando, cinquant'anni fa, Newton dominava ancora come maestro, immagino fosse singolarmente più agevole di oggi esporre, con rigore di linee, i principî della meccanica. Ma la storia si trova in una fase ancor meno favorevole alle certezze.

Infatti, oltre che una scienza in cammino, essa è anche una scienza nell'infanzia, al pari di tutte quelle aventi come oggetto lo spirito umano, giunto tardi nella sfera della conoscenza razionale. Più esattamente, la storia, vecchia nella forma embrionale del racconto, per lungo tempo impacciata da finzioni, ancor più a lungo vincolata ai soli avvenimenti afferrabili con immediatezza, è giovanissima

come lavoro ragionato di analisi. Stenta a penetrare al di sotto dei {atti esteriori, a respingere, dopo le lusinghe della leggenda o della retorica, i veleni, oggi più pericolosi, della pratica erudita e dell'empirismo camuffato da senso comune. Su alcuni tra i problemi essenziali della sua metodologia, non ha ancora finito di andar tastoni. Per questo, non avevano certo torto Fustel de Coulanges e, già prima di lui, il Bayle quando la definivano «la più difficile tra tutte le scienze ».

Se la mia non è un'illusione, mi pare però che, per quanto ancora incerto sia in molti punti il nostro procedere, noi ci troviamo, oggi, in una situazione migliore dei nostri immediati predecessori per vederci un po' chiaro.

Le generazioni immediatamente antecedenti alla nostra, quelle degli ultimi decenni del secolo XlX e dei primi anni del XX, sono vissute quasi allucinate da un'idea assai rigida, veramente comtiana, delle scienze del mondo fisico. Estendendo al complesso delle cognizioni dello spirito questo ingannevole schema, a esse pareva che non potesse esistere conoscenza autentica che non sapesse giungere, mediante dimostrazioni di un'evidenza irrecusabile, a certezze espresse sotto {orma di leggi imperiosamente universali. Opinione quasi unanime; ma che, applicata agli studi storici, diede origine, a seconda dei temperamenti, a due opposte tendenze.

Gli uni credettero possibile istituire una scienza dell'evoluzione umana che si conformasse a quell'ideale in un certo senso pan-scientifico, e si adoperarono per riuscirvi: salvo, poi, rassegnarsi a lasciar fuori dall'orizzonte di questa conoscenza degli uomini numerose realtà assai umane, ma che apparivano disperatamente ribelli a un sapere razionale. Quel residuo lo chiamavano, sdegnosamente, «avvenimento»; eppure, esso era gran parte della vita più intimamente individuale. Tale fu, in sostanza, l’orientamento della scuola sociologica fondata da Durkheim, almeno a non voler tener conto dei correttivi via via apportati all'originaria rigidezza dei suoi principî da uomini troppo intelligenti per non cedere, sia pure contro voglia, alla pressione della realtà. I nostri studi debbono molto a quel poderoso sforzo: abbiamo imparato a penetrare più addentro con l'analisi, a serrare più da vicino i problemi, a pensare, oserei dire, meno alla buona. Se ne parlerà qui con infinita riconoscenza e con rispetto. Oggi, esso può dirsi superato: ma questo è per tutti i movimenti intellettuali, prima o poi, lo scotto della loro fecondità.

Altri studiosi, nella medesima epoca, assunsero un atteggiamento ben diverso. Non riuscendo a inserire la storia n6gli schemi del legalismo fisico ed essendo, per di più, particolarmente preoccupati, a cagione della loro prima formazione mentale, dalle difficoltà, dai dubbi, dal frequente rifarsi da capo della critica documentaria, essi ricavarono anzitutto da quelle constatazioni una lezione di disingannata umiltà. La disciplina cui si erano votatl parve loro, in fin dei conti, incapace sia di conclusioni certe nel presente, sia di grandi prospettive di progresso nel futuro. Furono indotti a vedervi, anziché una conoscenza veramente scientifica, una specie di gioco estetico o, almeno, di esercizio igienico utile alla salute intelettuale. Furon chiamati, talvolta, «storici storicizzanti»: nomignolo ingiurioso per la nostra corporazione, poiché sembra far consistere l'essenza della storia nella negazione stessa delle sue possibilità. Per conto mio, troverei volentieri, nel momento del pensiero francese cui si collegano, un'etichetta più espressiva.

Il simpatico e schivo Sylvestre Bonnard, se si sta alle date della sua attività fissate dal libro di Anatole France, è un anacronismo; proprio come quegli antichi santi che gli scrittori medievali ingenuamente rappresentavano con i colori del proprio tempo. Sylvestre Bonnard solo che si voglia dare, per un momento, un'esistenza corporea a quest'ombra fantastica, il «vero» Sylvestre Bonnard, nato ai tempi del primo Impero, la generazione dei grandi storici romantici l'avrebbe annoverato fra i suoi: egli ne avrebbe condiviso gli entusiasmi commoventi e fecondi, la fede un po' candida nell'avvenire della «filosofia» della storia. Dimentichiamo l'età in cui France lo fa vivere e restituiamolo a quella in cui ne fu narrata la vita immaginaria: egli ci sembrerà degno di apparire come il patrono, come il santo protettore di tutta una corporazione di storici, che furono press'a poco i contemporanei intellettuali del suo biografo: lavoratori intimamente onesti, ma dall'orizzonte un po' limitato, e che si direbbe portassero neUe ossa, come i figli i cui padri se la son troppo goduta, la stanchezza delle grandi orge storiche del romanticismo; disposti a farsi piccini piccini dinanzi ai loro confratelli del laboratorio; desiderosi insomma di consigliarci più la prudenza che l'entusiasmo. Sarebbe forse eccessiva malizia cercare il loro motto nelle singolari parole sfuggite un giorno a quell'uomo pure di intelligenza così vivace che fu il mio caro maestro Charles Seignobos: «È utilissimo porsi i problemi, ma pericolosissimo rispondervi»? Non è certo la frase di un gradasso. Ma, se i fisici non fossero stati intrepidi, a qual punto sarebbe la fisica?

Oggi la nostra atmosfera mentale non è più quella. La teoria cinetica dei gas, la meccanica einsteiniana, la teoria dei quanta hanno profondamente modificato l'idea che ciascuno, ancora ieri, si faceva della scienza. L'hanno, non impicciolita, ma resa più duttile. In molti punti, hanno sostituito al certo l'infinitamente probabile; al rigorosamente misurabile, il concetto dell'eterna relatività della misura. Il loro influsso si è esercitato anche sugli innumerevoli spiriti che - ahimè, tra loro debbo mettermi anch'io! - per le debolezze della loro intelligenza o della loro formazione non possono seguire questa vasta metamorfosi se non da lontano e, in certo qual modo, di riflesso.

Siamo dunque ormai molto meglio preparati ad ammettere che una conoscenza possa meritare il crisma di scienza, anche se si dichiari incapace di dimostrazioni euclidee o di immutabili leggi di ripetizione. Siamo molto più disposti a concepire la certezza e l'universalità come un problema di gradi. Non avvertiamo più l'imperativo di cercare di imporre a tutti gli oggetti del sapere un modello intellettuale uniforme, derivato dalle scienze del mondo fisico; poiché, anche in queste ultime, tale modello non è più applicato interamente. Non sappiamo ancora con esattezza che cosa diverranno le scienze dell'uomo; sappiamo però che - pur continuando, è ovvio, a obbedire alle leggi fondamentali della ragione - non avranno bisogno, per esistere, di rinunziare alla propria originalità, né di vergognarsene.

Vorrei che soprattutto i giovani, tra gli storici di professione, si abituassero a meditare su queste titubanze, su questi diuturni pentimenti del nostro mestiere. Sarà per essi il modo più sicuro di addestrarsi, mediante una ponderata scelta, a guidare ragionevolmente il loro sforzo. Soprattutto mi auguro di vederli volgersi sempre più numerosi a questa storia, a un tempo allargata e spinta in profondità, il cui disegno siamo ormai in parecchi a concepirlo, noi stessi ogni giorno meno rari. Se il mio libro può aiutarli, avrò il sentimento di non aver lavorato del tutto inutilmente: c'è in esso, lo confesso, una parte di programma.

Ma io non scrivo unicamente, e nemmeno soprattutto, a uso interno d'ateIier. Neppure ai semplici curiosi ho pensato che occorresse nascondere le incertezze della nostra disciplina. Esse sono la nostra scusa, meglio ancora: esse dànno freschezza ai nostri studi. A favore della storia, non abbiamo soltanto il diritto di chiedere l'indulgenza dovuta a tutti i cominciamenti. L'incompiuto, che eternamente tenda a superarsi, irradia, su ogni spirito un po' ardente, un fascino pari a quello del risultato più perfetto.

Il buon agricoltore - ha detto all'incirca Péguy - ama l'aratura e le sementi quanto le messi.

È necessario che queste poche note introduttive si conchiudano con una confessione personale. Ogni scienza, presa a sé, non è che una parte del moto universale verso la conoscenza. Ho già avuto occasione, poco fa, di darne un esempio: per comprendere e valutare bene i metodi di indagine, di cui si serve la storia, anche quelli in apparenza più particolari, sarebbe indispensabile di saperli collegare, con un vincolo ben solido, all'insieme degli indirizzi che si manifestano, nello stesso tempo, nelle altre discipline. Orbene, questo studio dei metodi in sé costituisce una sorta di specializzazione, i cui tecnici sono detti «filosofi».

Non mi è lecito pretendere questo titolo. E, senza dubbio, questo saggio, a cagione di questa lacuna nella mia prima formazione, difetterà di precisione di linguaggio e di ampiezza di visione. Non mi resta che presentarlo per quel

che è: il memento di un artigiano che ha sempre amato meditare sul proprio compito quotidiano, il taccuino di un operaio che, pur avendo a lungo maneggiato tesa e livello, non si crede, per ciò, un matematico.

Note

1 In ciò mi trovo, sin dall'inizio, e senza averlo voluto, in opposizione con l'Introduction aux études hisloriques di Langlois e Seignobos. Questo era già scritto da tempo quando m'è caduta sotto gli occhi, nell'avvertenza di quell'opera, una lista di «problemi oziosi». Vi vedo figurare, alla lettera, questo: «A che cosa serve la storia?» Senza dubbio capita, per questo problema, ciò che accade a quasi tutti i problemi concernenti le ragioni d'essere dei nostri atti e dei nostri pensieri', gli spiriti che per natura sono ad essi indifferenti - o hanno volontariamente deciso di essere tali - comprendono sempre difficilmente che altri spiriti ne facciano l'oggetto di riflessioni appassionanti. Pertanto, poiché se ne offre così l'occasione, credo sia meglio fissare fin d'ora la mia posizione di fronte a un libro giustamente rinomato, che il mio, d'altra parte, per il fatto di muoversi su di un altro piano e di essere in alcune sue parti molto meno sviluppato, non pretende assolutamente di sostituire. Sono stato discepolo dei due autori e, in particolare, del Seignobos. Essi mi hanno dato preziosi segni della loro benevolenza. La mia prima educazione deve molto al loro insegnamento e alla loro opera. Ma essi non ci hanno soltanto insegnato, tutti e due, che lo storico ha come primo dovere la sincerità; non ci nascondevano anche che lo stesso progresso dei nostri studi è dato dalla necessaria contraddizione fra le generazioni di studiosi. Rimarrò, dunque, fedele alla loro lezione se Ii criticherò liberamente là dove lo crederò utile; come mi auguro che un giorno i miei discepoli, a loro volta, critichino me.

2 Il francese antistorico: COURNOT, Souvenirs, p. 43, a proposito della mancanza di ogni sentimento monarchico alla fine dell'Impero: «... Per spiegare il fatto singolare che ci interessa, credo che occorra anche tener conto della scarsa popolarità della nostra storia e del debole sviluppo, che ha presso di noi, nelle classi inferiori, per motivi che sarebbe troppo lungo esaminare, il sentimento della tradizione storica».”

Anzitutto, dunque, la rivendicazione del rapporto reciproco tra il passato e il presente che viene stabilito dalla comprensione. Comprendere il presente attraverso il passato, comprendere il passato attraverso il presente: sono i titoli di due capitoletti del libro sui quali non si finirà mai di riflettere. Comprendere il passato attraverso il presente significa che, a livello storico come a livello microstorico, l'inerzia del passato è ben più rilevante di quanto comunemente si riesca ad ammettere a ragione del fatto che, il più spesso, il presente sembra completamente affrancato dal tempo che lo ha preceduto. Bloch scrive:"L'uomo trascorre il suo tempo a costruire dei meccanismi, di cui diviene poi il prigioniero più o meno volontariamente." (p. 51) Egli di sicuro fa riferimento alle ideologie, ai recinti mentali che gli uomini costruiscono e nei quali poi la loro coscienza rimane irretita per lungo tempo. Ma questa verità ha riscontro anche a livello psicopatologico. Cos'altro sono i romanzi familiari, le razionalizzazioni, le rimozioni se non meccanismi che sovrappongono al passato esperienziale una mistificazione che non coincide se non minimamente con l'esperienza stessa?

Comprendere il passato attraverso il presente è, se possibile, ancora più importante. L'incomprensione del presente - scrive Bloch (p. 54) - nasce fatalmente dall'ignoranza del passato. Chi, immerso in una società come la nostra, che, in conseguenza dell'uso dei mass-media, sta progressivamente perdendo le memorie che, un tempo, si trasmettevano oralmente di generazione in generazione, non condividerebbe questa affermazione? Un aspetto inquietante col quale si confrontano tutti coloro che si interessano di disagi giovanili è la presentificazione delle coscienze. Non pochi giovani nulla sanno non già dei loro nonni e bisnonni, ma persino della storia dei genitori. Se la portano inesorabilmente dentro a livello inconscio. Ma ricostruirla è una fatica immane.

Per un altro aspetto, comprendere il passato attraverso il presente ha un'incidenza a livello psicopatologico. Le memorie che sottendono le esperienze soggettive, e sulle quali spesso si strutturano i conflitti, sono interpretazioni della realtà prodotte utilizzando gli strumenti cognitivi propri dell'infanzia: strumenti inesorabilmente molto poveri per comprendere la complessità dei fatti umani e dei comportamenti degli adulti. L'elaborazione dei conflitti comporta non solo la rievocazione delle memorie ma anche una loro ristrutturazione cognitiva che dia ad essi un nuovo significato. Questo lavoro è imprescindibile da una dotazione cognitiva che è sola degli adulti e che l'analisi, talora, deve promuovere.

La reinterpretazione del passato alla luce del presente è la metodologia che accomuna la psicoanalisi alle discipline storiche.

Il tema della comprensione dei fatti umani viene ripreso da Bloch nel capitolo quarto, il cui primo capitolo - Giudicare o comprendere? - affronta un tema infinitamente suggestivo se si tiene conto che l'attività interpretativa di ogni soggetto è naturalmente incline a privilegiare, con una sorta di automatismo, il giudizio rispetto alla comprensione. I soggetti affetti da disagio psichico, da questo punto di vista, sono particolarmente a rischio. Nonostante una sensibilità quasi sempre viva e un'intelligenza non di rado acuta, essi inclinano, consciamente e inconsciamente, a giudizi rigidi e inappellabili su di sé e sugli altri.

Se la tendenza al giudizio è propria della mente umana, e se chi soffre è particolarmente esposto al rischio di identificare, dentro o fuori di sé, un colpevole della sofferenza, come si può giungere all'imparzialità, vale a dire ad un giudizio equo?

Bloch scrive:

“È famosa la formula del vecchio Ranke: lo storico non si propone null'altro che di descrivere le cose «come sono avvenute» (wie es eigentlich gewesen). L'aveva detto ancor prima Erodoto: «raccontare ciò che fu» (ton eonta). In altre parole, il dotto, lo storico, è invitato a eclissarsi di fronte ai fatti. Come molte massime, anche questa dové forse la sua fortuna alla sua ambiguità. Vi si può leggere, modestamente, un consiglio di probità: tale ne era, senza dubbio, il senso per Ranke. Ma anche un consiglio di passività. Di modo che, ecco, ad un tempo, sollevati due problemi: quello dell'imparzialità storica, e quello della storia come tentativo di riproduzione o come tentativo di analisi.

Ma esiste davvero un problema dell'imparzialità? Esso si presenta solo perché la parola è, a sua volta, equivoca.

Ci sono due modi di essere imparziali: quello dello studioso e quello del giudice. Essi hanno una radice comune: l'onesta sottomissione alla verità. Lo studioso registra, anzi, meglio, provoca l'esperienza che forse capovolgerà le sue più care teorie. Il giudice, qualunque sia il voto segreto del suo cuore, interroga i testimoni senz'altra preoccupazione all'infuori di quella di conoscere i fatti, quali essi avvennero. È, in entrambi i casi, un obbligo di coscienza che non si discute.

Eppure, a un certo punto, le loro strade divergono.

Quando uno studioso ha osservato e spiegato, ha concluso il suo compito. Al giudice tocca ancora di dare la sua sentenza. Facendo tacere ogni simpatia personale, egli la pronuncia secondo la legge? Allora si reputerà imparziale. E, in effetti, lo sarà, almeno secondo la misura dei giudici. Ma non secondo quella dei dotti. Infatti non si può condannare o assolvere senza prendere partito per una tavola di valori che non deriva da nessuna scienza positiva.

Che un uomo ne abbia ucciso un altro, è un fatto in sommo grado suscettibile di prova. Ma punire l'omicida presuppone che si consideri colpevole l'omicidio: il che, tutto considerato, non è che un'opinione sulla quale non tutte le civiltà si sono trovate d'accordo.

Per lungo tempo, si vide nello storico una specie di giudice degli Inferi, incaricato di distribuire elogi o condanne agli eroi morti. Bisogna credere che quest'opinione risponda a un istinto fortemente radicato, perché tutti i professori che si son trovati a correggere lavori di studenti sanno quanto difficilmente i giovani si lascino dissuadere dal rappresentare, dall'alto dei loro scanni, la parte di Minosse o di Osiride. Vale più che mai la frase di Pascal: «Ciascuno crede di essere Dio, giudicando: "questo è buono o cattivo"». Si dimentica che un giudizio di valore non ha ragione di essere se non come preparazione di un'azione e ha senso soltanto in rapporto a un sistema, volontariamente accettato, di punti di riferimento morali.

Nella vita quotidiana, le esigenze del comportamento ci impongono questa etichettatura, di solito molto sommaria. Là dove non possiamo più nulla, là dove gli ideali comunemente accettati differiscono profondamente dai nostri, essa non è che un impaccio. Siamo davvero tanto sicuri di noi stessi e del nostro tempo, per separare, nella folla dei nostri padri, i giusti dai reprobi? Assolutizzando i criteri, puramente relativi, di un individuo, di un partito, di una generazione, che stupidaggine applicarne i dettami al modo con cui Silla governò Roma o Richelieu gli stati del re cristianissimo! Siccome poi niente è per sua natura più variabile di siffatte sentenze, soggette a tutti gli ondeggiamenti della coscienza collettiva o del capriccio personale, la storia, permettendo troppo spesso che l'«albo d'oro» avesse la meglio sul «registro d'esperimenti» si è guadagnata gratuitamente la fama di essere la più incerta delle discipline; alle vuote requisitorie succedono infatti altrettanto vane riabilitazioni. Robespierristi, antirobespierristi, noi vi chiediamo grazia: per pietà, diteci, semplicemente, chi fu Robespierre.

Inoltre, se il giudizio non facesse che seguire la spiegazione, il lettore sarebbe libero di saltare la pagina. Malauguratamente, a forza di giudicare, si finisce, quasi fatalmente, per perdere persino il gusto di spiegare. Siccome le passioni del passato mescolano i loro riflessi ai preconcetti del presente, la realtà umana non è più che un quadro in bianco e nero. Montaigne ci aveva già ammoniti: «Dal momento che il giudizio pende da un lato, non ci si può trattenere dal delineare e storcere la narrazione in quel verso». Dopotutto, per intendere una coscienza estranea, separata da noi dall'intervallo delle generazioni, occorre quasi spogliarsi del nostro Io. Per dirle il fatto suo, basta restare se stessi. Lo sforzo è certamente meno gravoso. Quanto più facile scrivere a favore o contro Lutero che scrutarne l'anima; credere a papa Gregorio VII piuttosto che all'imperatore Enrico IV, o ad Enrico IV piuttosto che a Gregorio VII, invece di tentare di dipanare le ragioni profonde d'uno dei maggiori drammi della civiltà occidentale! E prendiamo, fuori del piano individuale, la questione dei beni nazionali. Il governo rivoluzionario, rompendo con la legislazione anteriore, decise di venderli a lotti anziché metterli all'incanto. Indubbiamente, ciò significava compromettere gravemente gli interessi del Tesoro. Alcuni eruditi ai giorni nostri hanno protestato con veemenza contro quella politica. Che uomini di coraggio se, alla Convenzione, avessero osato parlare con quel tono! Lontano dalla ghigliottina, questa violenza senza rischi diverte. Molto meglio cercare ciò che realmente volevano gli uomini del Novantatre. Anzitutto, desideravano favorire l'acquisto della terra da parte del popolo minuto delle campagne; all'equilibrio del bilancio, essi preferivano il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini poveri, garanzia della loro fedeltà al nuovo regime. Avevano torto o ragione? Che m'importa la tardiva decisione di uno storico a tale riguardo? Noi gli chiediamo soltanto di non lasciarsi ipnotizzare dalla propria scelta al punto di non riuscire più ad ammettere che un'altra sia stata un tempo possibile. La lezione dello sviluppo intellettuale dell'umanità è, nondimeno, chiarissima: le scienze si sono sempre mostrate tanto più feconde e, di conseguenza, tanto più utili alla stessa pratica, quanto più deliberatamente abbandonavano il vecchio antropocentrismo del bene e del male. Oggi si riderebbe di un chimico che mettesse da un lato i gas cattivi, come il cloro, e dall'altro i buoni, come l'ossigeno. Ma, se la chimica ai suoi primordi, avesse adottato questa classificazione, avrebbe rischiato fortemente di impantanarsi a tutto scapito della conoscenza dei corpi.

Badiamo però di non forzare troppo l'analogia. La nomenclatura di una scienza degli uomini avrà sempre i suoi aspetti peculiari. Quella delle scienze del mondo fisico esclude il finalismo. I termini «successo», o «insuccesso», «inaccortezza», o «abilità», potrebbero soltanto fungere, nel caso migliore, da metafore, sempre gravide di equivoci pericolosi. Al contrario, essi appartengono al vocabolario normale della storiografia, giacché la storia ha da fare con esseri capaci, per natura, di fini coscientemente perseguiti.

Si può ammettere che un capitano che dia battaglia, si sforzi di solito di vincerla. Se la perde a forze approssimativamente eguali, sarà perfettamente legittimo dire che ha manovrato male. Questo accidente gli era abituale? Non si uscirà dal più scrupoloso giudizio di fatto osservando che, senza dubbio, non era un buon stratega. Si consideri inoltre una misura di carattere monetario il cui scopo era, supponiamo, di favorire i debitori a spese dei creditori. Qualificarla come ottima o come deplorevole equivarrebbe al prendere posizione a favore di uno dei due gruppi, cioè a dire, trasportare arbitrariamente, nel passato, un concetto affatto soggettivo del pubblico bene. Ma immaginiamo che, per caso, l'operazione destinata ad alleggerire l'onere dei debiti abbia portato in pratica - è già accaduto - ad un risultato opposto. «È fallita», diciamo, senza che con ciò si faccia altro che constatare onestamente una realtà. L'atto mancato è uno degli elementi essenziali dell'evoluzione umana, nonché di ogni psicologia.

Non basta. Il nostro generale ha per caso volontariamente guidato i suoi uomini alla sconfitta? Non si esiterà ad affermare che ha tradito: perché così, di solito, viene definito alla buona un tale comportamento. La storia sarebbe di una delicatezza alquanto pedantesca se respingesse l'aiuto del semplice e diritto lessico dell'uomo comune. Resterà poi da vedere ciò che la morale comune del tempo o del gruppo pensava di un simile atto. Il tradimento può essere, a suo modo, una forma di conformismo: basti pensare ai «condottieri» della vecchia Italia.

Una parola domina e illumina i nostri studi: «comprendere». Non diciamo che il buon storico è senza passioni; ha per lo meno quella di comprendere. Parola, non nascondiamocelo, gravida di di difficoltà, ma anche di speranze. Soprattutto, carica di amicizia. Persino nell'azione, noi giudichiamo troppo. È così comodo gridare: «Alla forca! » Non comprendiamo mai abbastanza. Colui che differisce da noi - straniero, avversario politico - passa, quasi necessariamente, per un malvagio. Anche per condurre le lotte che si presentano come inevitabili, occorrerebbe un po' più di intelligenza delle anime; e tanto più per evitarle, quando si è ancora in tempo. La storia, pur che rinunci alle sue false arie di arcangelo, deve aiutarci a guarire di questo difetto. È una vasta esperienza delle varietà umane, un lungo incontro degli uomini. La vita, al pari della scienza, ha tutto da guadagnare da che questo incontro sia fraterno.”

Ecco infine a che serve la storia: a privilegiare la comprensione rispetto al giudizio, o meglio per far discendere il giudizio da una comprensione sempre più profonda dei fatti umani. Tutti gli uomini hanno bisogno di una "cura" del genere. La psicoterapia non può prescindere da essa se non a patto di tradire la sua vocazione e il suo senso. Ne ha bisogno soprattutto la psichiatria, ferma ai suoi terribili giudizi nosografici nei quali risuona, troppo spesso, un difetto totale di comprensione della realtà umana. Affascinata dalla causalità biologica, essa incorre sistematicamente in un errore metodologico. Tale errore, rilevato da Bloch nel campo della storigrafia, è estensibile a qualunque scienza umana: "La superstizione della causa unica, in storiografia, è molto spesso la forma insidiosa della ricerca di un responsabile; quindi di un giudizio di valore... Pregiudizio del senso comune, postulato del logico o mania del giudice istruttore, il monismo della causa unica è per la spiegazione storica soltanto una fonte di imbarazzo. Essa cerca treni d'onde causali e non si spaventa, poiché la vita li mostra così, di trovarli multipli." (p.163)

Una citazione conclusiva sottolinea il valore del libro, e merita un'attenta riflessione:"I fatti storici sono essenzialmente fatti psichici. Quindi trovano di norma i loro antecedenti in altri fatti psichici. Senza dubbio, i destini umani s'inseriscono nel mondo fisico e ne subiscono il peso. Però, anche laddove l'intromissione di queste forze esteriori sembra più brutale, la loro azione si esercita soltanto sotto la guida dell'uomo e della sua mente... Nondimeno, non c'è solo una psicologia della coscienza chiara. A leggere certi libri di storia si crederebbe che l'umanità sia composta unicamente di volontà logiche, per le quali i motivi dell'azione non avrebbero mai il più piccolo segreto. Di fronte allo stato attuale delle ricerche sulla vita mentale e le sue oscure profondità, questa è una prova in più dell'eterna difficoltà che le scienze incontrano di restare contemporanee le une alle altre." (p.164)

A distanza di oltre cinquant'anni questa considerazione conserva immutato il suo valore, e non solo ovviamente per le scienze storiche.