CIVILTA', CULTURA, IDEOLOGIA, MENTALITA'


Introduzione


Tranne il termine civiltà, che si è riproposto di recente in seguito al conflitto tra Occidente e Islam, cui sarà dedicata una grande attenzione nella sezione attualità, i termini cultura, ideologia, mentalità risuonano spesso nei miei scritti e nelle pagine del sito. Dato il loro significato complesso, mutevole nel corso del tempo e equivocabile, mi sembra opportuno dedicare, qui ad essi un'introduzione che ne chiarisca la storia e l'accezione in cui essi vengono utilizzati.

1.

L'analisi più completa del concetto di civiltà, che io sappia, l'ha fornita Fernand Braudel nel primo capitolo de Il mondo attuale (Einaudi, 1966). L'analisi muove dall'evoluzione del termine civilisation a partire dalla sua comparsa nella Francia del '700, il cui significato, da quello originario di "passaggio allo stato di civiltà" ben presto si radicalizza contrapponendosi fondamentalmente a barbarie e definendo lo scarto tra popoli civili e popoli selvaggi, primitivi. Con questa accezione esso si estende a tutta l'Europa, accompagnandosi al termine cultura. Ancora oggi la distinzione tra i due termini rimane piuttosto confusa, anche se prevale la tendenza a limitare il termine cultura ai principi normativi, ai valori, agli ideali propri di una società, vale a dire agli aspetti spirituali.

Con l'Ottocento, il termine civiltà si arricchisce di un plurale: l'uso "coincide con il tramonto di una nozione, con il declino progressivo dell'idea, cara al Settecento, di una civiltà, identificata con il progresso in assoluto e riservata a qualche popolo privilegiato. Cionondimeno, con l'affermarsi dell'evoluzionismo e del positivismo, il plurale implica una gerarchia di valore tra le diverse civiltà, al culmine della quale si dà quella occidentale per via dello sviluppo industriale. Nella misura in cui tale sviluppo viene ambito da tutte le civiltà, il primato della civiltà occidentale sembra indubbio. Riesce però evidente, oggi più che mai, che accogliere la civiltà industriale non significa per il resto del mondo accettare l'insieme della civiltà occidentale. L'estensione del modello industriale comporta anzi una resistenza, che per alcuni aspetti sembra insormontabile, all'omologazione.

Ciò posto, si tratta di definire il concetto di civiltà in termini generali, scientifici (almeno nella misura in cui ciò è possibile nell'ambito delle scienze umane). Da questo punto di vista, la civiltà comporta un aspetto geografico, uno sociologico, uno economico e, infine, uno che fa capo alla psicologia collettiva.

Ogni civiltà, qualunque ne sia la dimensione, può venire localizzata su di una carta geografica: "parlare di civiltà, equivale a parlare di spazi, di terre, di rilievi, di vegetazione, di specie animali, di vantaggi dati o acquisiti", vale a dire di un insieme di vincoli e di possibilità territoriali. I confini di una civiltà, pur delimitati in maniera precisa, non sono impermeabili: "ogni civiltà esporta ed importa beni culturali" e, in virtù di ciò, dialoga con le altre.

La civiltà presuppone una società che la nutra e la animi con le sue tensioni e i suoi progressi: "la società non può mai venire astratta dalla civiltà e viceversa: le due nozioni si riferiscono alla stessa realtà". Ogni società peraltro ha una sua struttura, stabile per alcuni aspetti, instabile per altri che ne assicurano, con ritmi e tempi diversi, l'evoluzione. E' su questo aspetto che si fonda la distinzione di Levi-Strauss tra società fredde, che sembrano piuttosto inerziali e conservatrici, e società calde, dinamiche e evolutive: le une tendenzialmente ugualitaristiche, nel cui seno i rapporti tra i gruppi sono regolati una volta per sempre, le altre organizzate gerarchicamente, con profonde differenze tra i gruppi, e quindi con mutevoli tensioni, conflitti sociali, ecc. L'aspetto differenziale più evidente tra queste società è l'assenza o la presenza delle città. La presenza, che consente di parlare di civiltà in senso proprio, assicura l'evoluzione: "ma anche le civiltà e le società più evolute presuppongono, all'interno dei loro stessi confini, la presenza di culture, di società elementari… In ogni società lo sviluppo non raggiunge mai allo stesso modo tutte le regioni, tutti gli strati della popolazione".

Ogni civiltà ha una sua struttura economica, che comporta un modo di produzione suo proprio, una determinata distribuzione dei beni e un livello di consumo: "Le condizioni materiali e biologiche pesano molto gravemente sul destino delle civiltà.L'aumento o la diminuzione della popolazione, la buona o la cattiva salute fisica, lo sviluppo o la crisi dell'economia e della tecnica si ripercuotono sull'edificio culturale e sociale". E' proprio di ogni struttura economica riconoscere fluttuazioni di breve o di lunga durata. Le crisi economiche spesso segnano il declino definitivo di una civiltà, o comunque una sua retrocessione. La persistenza e lo sviluppo di una civiltà dipendono dalla produzione di un surplus che ne migliori le infrastrutture e il tenore di vita dei cittadini . da questo punto di vista, "il grosso problema di oggi e di domani è la creazione di una società che sia contenporaneamnete di qualità e di massa: terribilmente costosa e impensabile senza la produzione di un importante surplus posto a disposizione della società, impensabile anche senza larghi margini di tempo libero".

Ogni civiltà, infine, è caratterizzata da un'attrezzatura mentale che definisce una determinata mentalità: "In ogni età una certa rappresentazione del mondo e delle cose, una mentalità collettiva e predominante, anima e permea l'intera massa della società. Questa mentalità, che ispira gli atteggiamenti, orienta le scelte, rafforza i pregiudizi, indirizza i movimenti della società, è un fenomeno peculiare di civiltà. Più che la risultante degli eventi e delle circostanze storiche, la mentalità è il frutto di lontane eredità, di credenze, di paure, di inquietudini antiche, spesso inconsce, quasi il frutto di un'immensa contaminazione i cui germi si sono perduti nel corso del tempo, sono stati trasmessi attraverso generazioni e generazioni di uomini… Questi valori fondamentali, queste strutture psicologiche sono decisamente quello che le civiltà hanno di meno comunicabile tra loro, quello che le distingue e le isola maggiormente". Da questo punto di vista, l'elemento più forte nel cuore della civiltà è la religione: "le civiltà furono quasi sempre invase, sommerse dal fattore religioso, sovrannaturale, magico". Solo la civiltà occidentale ha imboccato la via di un distacco dal fattore religioso, ma proprio in ciò consiste la sua singolarità.

Le costrizioni del sito geografico, le gerarchie sociali, il modo di produzione economico, le mentalità collettive sono dunque le forze profonde, le fondamenta o le "strutture" delle civiltà: "queste strutture sono in genere antiche, di lunga durata e sempre caratteri distintivi e originali: esse danno alle civiltà un volto particolare, una particolare natura, che non viene mutata perché ritenuta di valore insostituibile… Queste permanenze, queste scelte ereditarie o questi rifiuti opposti contro altre civiltà sono per lo più elementi incoscienti per la grande massa degli uomini"; "una civiltà raggiunge la propria vera personalità respingendo nell'oscurità delle terre limitrofe e già straniere tutto ciò che la disturba. La sua storia è costituita dalla decantazione secolare di una personalità collettiva presa, come ogni personalità individuale, fra un destino chiaro e cosciente e un destino oscuro e incosciente, che è la ragione e la base essenziale del primo, pur rimanendo sempre ignorato". In breve: "le civiltà sono continuità, interminabili continuità storiche". Esse appartengono al tempo storico della lunga durata: "una civiltà viene raggiunta solo nel tempo lungo, nella lunga durata, afferrando il filo di una matassa che non finisce più di svolgersi; è, in fondo, tutto ciò che un gruppo di uomini ha conservato e trasmesso di generazione in generazione come il proprio bene più prezioso, attraverso una storia tumultuosa e spesso tempestosa".

La continuità di una civiltà implica dunque la riproduzione sociale di ciò che essa ha di essenziale e specifico. Per alcuni aspetti, questo processo non ha nulla di misterioso: esso può avvalersi di istituzioni che si perpetuano, di testi (diritto, religione), di tradizioni trasmesse verbalmente

2.

Risale a E. B. Tylor la definizione più nota di cultura: "La cultura è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società". Da Tylor in poi, sono state proposte dagli studiosi infinite altre definizione (oltre trecento), ma in tutte queste variazioni sul tema il contenuto essenziale rimane lo stesso. Un antropologo contemporaneo (Geertz) lo ha fissato nei seguenti termini: "(la cultura) denota un insieme strutturato di simboli, un sistema di concezioni ereditarie, espresse in forma simbolica per mezzo delle quali gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano le loro conoscenze e le loro prese di posizioni di fronte alla vita".

La cultura è una condizione necessaria della sopravvivenza e della riproduzione di ogni gruppo e di ogni società. Su che cosa si fonda questa necessità? La risposta più articolata l'ha fornita Lotman: "Tutti i bisogni dell'uomo si possono ripartire in due gruppi. Gli uni richiedono una soddisfazione immediata e non possono (o quasi) venire accumulati. I tessuti possono accumulare determinate quantità di ossigeno, ma a livello dell'organismo umano la respirazione non può venire accumulata… I bisogni che possono essere soddisfatti mediante l'accumulazione di riserve formano un gruppo distinto. Essi sono la base oggettiva per l'acquisizione, da parte dell'organismo, di informazione extragenetica. Come risultato si hanno due tipi di rapporto dell'organismo con le strutture estranee introdotte in lui: le une immediatamente, o con relativa rapidità, vengono riordinate nella struttura dell'organismo stesso, le altre invece sono accantonate, e conservano la propria struttura o un programma ridotto di questa. Sia che si tratti dell'accumulazione materiale di oggetti, sia che si tratti della memoria a lungo o a breve termine, collettive o individuali, il processo è sostanzialmente il medesimo, e può essere definito processo di accrescimento dell'informazione". Da ciò discende una definizione icastica di cultura come "l'insieme di tutta l'informazione non ereditaria e dei mezzi per la sua organizzazione e conservazione ". S'includano o no gli oggetti prodotti dall'uomo (la cultura materiale) - secondo alcuni ciò è lecito, secondo altri inessenziale, perché l'inclusione giunge ad identificare la cultura con la civiltà -, questa definizione sembra oggi la più appropriata. Il problema è che, come tutte le definizioni, essa implica una serie di problemi di grande interesse. Tra questi i più importanti riguardano la produzione della cultura, la sua organizzazione, conservazione e trasmissione attraverso la catena delle generazioni.

La cultura, come attesta primariamente la lingua, che è l'aspetto comune e distintivo di tutti i gruppi umani nel tempo e nello spazio, è un prodotto sociale. Essa presuppone la vita associativa, nella quale introduce le regole necessarie alla sua organizzazione, al suo funzionamento e alla comunicazione interpersonale. Il carattere di prodotto sociale della cultura non contrasta con il fatto che singoli individui possano introdurre in essa delle innovazioni espressive della loro genialità o che possano elaborarla in maniera a tal punto creativa che le loro opere (per esempio letterarie) rimangono impregnate d'individualità. Tutto ciò non sarebbe semplicemente possibile senza un tessuto culturale: la cultura è dunque un patrimonio sociale specifico di un determinato gruppo.

L'organizzazione della cultura, come pure la sua conservazione, è in stretto rapporto di dipendenza dai bisogni sociali, e massimamente dal bisogno di coesione sociale, che richiede la condivisione di valori comuni. Tale condivisione dà ad ogni cultura un carattere primario conservatore, che si realizza attraverso la selezione dei prodotti culturali nuovi che vengono integrati o scartati a seconda che essi la corroborino o la minaccino. Il conservatorismo della cultura è un dato di grande interesse.

Nessuna cultura, neppure la più primitiva, rimane assolutamente immobile nel tempo, non fosse altro che per il fatto ch'essa in qualche misura interagisce con altre culture. Cionondimeno, la distinzione di Levi-Strauss tra culture fredde, la cui inerzia è notevole, e culture calde, dinamiche e evolutive, non è priva di fondamento.

Che cosa assicura l'evoluzione culturale e i tempi in cui questa si realizza? Si possono fornire a riguardo due risposte. La prima fa riferimento al progresso tecnologico, che, cambiando l'ambiente, i rapporti intepersonali, lo stile di vita, smaschera i limiti della cultura preesistente e promuove un'evoluzione. Per convincersi della verità di questo aspetto, basta pensare alla rivoluzione tecnologica più grandiosa avvenuta prima dell'avvento dell'industrializzazione: quella neolitica legata all'agricoltura.

La seconda risposta fa capo invece al carattere intrinsecamente precario di ogni cultura in quanto sistema di valori. Una qualunque cultura si può concepire come il frutto di una serie di scelte tra alternative operate da gruppi umani, che, dando un significato positivo ad alcuni valori - quelli accettati - e uno negativo ad altri - qeulli rifiutati - squalifica e rimuove questi, che pure rappresentano altrettanti modi possibili di pensare, sentire e agire. Per quanto un'identità culturale, una volta che si è definita, tende a naturalizzarsi ideologicamente, essa convive e poggia sulle infinite possibilità alternative che essa ha scartato. E' inevitabile pertanto che, all'interno di una società, alcuni individui intuiscano e divengano testimoni di quelle possibilità, finché esse si realizzano. Un esempio a riguardo può essere rappresentato dalla schiavitù, che è stata considerata una condizione naturale finché qualcuno, a partire dall'antichità, non ha intuito che essa rappresentava una condizione storica. Da quelle intuizioni sono trascorsi secoli per arrivare ad abolirla, ma il cambiamento infine si è realizzato.

Ogni cultura quindi oscilla tra conservazione e rinnovamento. Il gioco dinamico di queste due istanze è peraltro il più vario. La conservazione si fonda in gran parte sulla capacità che una cultura ha di ideologizzarsi, di trasformarsi cioè in una visione del mondo totalizzante, e di naturalizzarsi, di porsi cioè come un insieme di valori corrispondenti a leggi di natura o a leggi di realtà.

3.

La cultura investe tutti i fenomeni della vita sociale, sia a livello collettivo che individuale. All'interno di ogni struttura sociale si possono però distinguere tre piani o livelli differenziati, anche se intimamente correlati. Il primo è il piano dell'organizzazione economica, che mira a provvedere alla produzione dei beni di cui gli esseri umani hanno bisogno. Tale organizzazione dipende dallo sviluppo tecnologico e comporta la divisione del lavoro e la distribuzione del prodotto secondo criteri che variano nel corso del tempo. Il secondo piano è quello dell'organizzazione sociale, caratterizzata da istituzioni politiche (Stato, Amministrazione della giustizia, ecc.) e civili (famiglia, scuola, ecc.) che regolano i rapporti interpersonali, assegnano determinati ruoli normativi e presiedono nel tempo stesso alla conservazione dell'identità culturale e alla riproduzione sociale. Il terzo piano è quello mentale, collettivo e individuale. Dal punto di vista collettivo, esso rappresenta il deposito delle tradizioni culturali, dei valori, delle credenze maturate nel corso dello sv storico. Tale patrimonio solo in parte è oggettivato in testi (religiosi, morali, giuridici, letterari, filosofici, ecc.) e rappresentato nelle coscienze che lo trasmettono oralmente. In gran parte esso appartiene all'inconscio sociale, e, attraverso la catena generazionale, si riproduce per alcuni aspetti in ogni singola esperienza soggettiva, a livello conscio e inconscio.

Questo terzo livello è quello proprio dell'ideologia e della mentalità, vale a dire di quadri mentali che, nel loro complesso, definiscono una visione del mondo.

Il termine ideologia, nato nel '700, ha acquisito una configurazione precisa solo con Marx, che ha inteso con esso denotare la sovrastruttura culturale che, in ogni società, esprime e nello stesso tempo maschera la struttura economica, vale a dire i rapporti che gli uomini intrattengono in conseguenza della loro collocazione nel sistema produttivo. Anche se non è più lecito sostenere che Marx ritenesse l'ideologia una mistificazione perpetrata dalle classi dominanti per indurre l'accettazione dello status quo in quelle subordinate, è fuor di dubbio che nella sua opera il rapporto tra infrastruttura economica e sovrastruttura ideologica non è mai stato approfondito nei suoi aspetti reciprocamente interattivi. Weber ha tentato d'illuminare questo rapporto rovesciando l'ottica di Marx, e assegnando ai fattori sovrastrutturali un significato primario (anche se non esclusivo).

Oggi per ideologia si può intendere una visione del mondo totalizzante, che serve ad assicurare la coesione della società e la conservazione della sua identità culturale nel corso del tempo, la quale, nello stesso tempo esprime alcuni aspetti specifici di quella determinata società e serve anche a mascherarne le contraddizioni.

Le ideologie più totalizzanti in assoluto sono le religioni. Anche il pensiero laico non può però rinunciare al fattore ideologico. La società borghese, per esempio, riconosce la sua matrice ideologica nell'individuo che viene enfatizzato come un dato primario, tal che la società si configura semplicemente come una somma di individui che, pur competendo tra loro, rispettano la reciproca libertà. Potentissima e incisiva al punto di caratterizzare una civiltà, quella occidentale, l'ideologia borghese si fonda nondimeno su di un presupposto - la preesistenza dell'individuo rispetto alla società - che non appare convalidato né dall'evoluzionismo biologico, che assegna l'uomo all'ambito delle specie sociali, né dalla storia che, per un lunghissimo periodo, attesta una subordinazione pressochè totale dell'individuo rispetto al gruppo di appartenenza.

Mentalità è un termine recente, avanzato dalla scuola di storici francesi de Les Annales. Esso non si differenzia nettamente dal termine ideologia se non per due aspetti. Il primo concerne lo statuto prevalentemente inconscio della mentalità, che appartiene dunque a peino titolo alla sfera dell'inconscio sociale. Il secondo concerne il carattere inerziale della mentalità che, proprio per appartenere all'inconscio sociale, può sopravvivere e tramandarsi nel corso del tempo, nonostante i cambiamenti intervenuti a livello economico e sociale possano indure a pensare che essa non esiste più.

4.

Se ci si chiede quale importanza possano avere questi concetti per una nuova scienza panantriopologica e, in particolare, per una nuova scienza del disagio psichico, la risposta è immediata. Se si accetta il fatto che ogni uomo appartiene ad una civiltà, che egli è un essere culturale, costretto a dotarsi alla fine dell'evoluzione della personalità di una sua visione totalizzante del mondo, che non può prescindere dall'assimilare alcuni elementi ideologici, e se si riconosce infine che la trasmissione della mentalità, il più spesso implicita, permea profondamente l'in individuale, riesce evidente per un verso che il riduzionismo biologico, proprio della neopsichuiatria, è semplicemente ridicolo, e, per un altro, che lo psicologismo, sia esso di matrice psicoanalitica o cognitivista, trascura o non valorizza adeguatamente alcuni aspetti importanti dell'organizzazione della personalità e dell'esperienza soggettiva.

Se infatti non si può minimizzare l'aspetto biologico, per cui ogni uomo viene al mondo con un suo corredo genetico, né quello psicologico, per cui l'evoluzione della personalità è fortemente influenzata dai rapporti familiari, appare fuor di dubbio che la soggettività umana intrattiene nessi molteplici e importanti con la storia sociale, cui appartiene anche il gruppo familiare, con l'ideologia dell'ambiente socioculturale con cui interagisce e, infine, con la mentalità che si riflette nel suo inconscio.

Giugno 2003