Riflessioni sulla storia (1)

Caso e necessità: il fenomeno Hitler

1.

In un articolo precedente, ho cercato di illustrare in che senso si può ritenere la storia maestra di vita. Essa, di fatto non, insegna alcunché: costringe semplicemente a riflettere, a porsi problemi, a tentare di trovare spiegazioni sul rapporto tra natura umana e cultura, che, nel corso del tempo, si declina in forme infinitamente varie. Non sono i fatti in sé e per sé l'essenza della storia, bens" il loro valore sintomatico, la capacità che almeno alcuni di essi hanno di porre di fronte a singolari congiunture che rivelano aspetti importanti di quel rapporto.

In questa ottica, il nazismo si configura come un problema che richiede ancora uno sforzo di concettualizzazione per evitare che, al di là del giudizio oggettivo sui crimini da esso perpetrati, si rimanga fermi ad una valutazione moralistica che legge in esso l'espressione del Male assoluto come potenzialità intrinseca alla natura umana.

Ancora oggi ci si chiede come sia potuto nascere e affermarsi, nel cuore della civilissima Europa e dal seno di una nazione che ha contribuito notevolmente, dalla riforma protestante in poi, ad arricchire il patrimonio culturale europeo, un fenomeno politico, sociale e culturale cos" "barbarico"; come un intero popolo abbia potuto riconoscere il suo leader in un uomo, dotato senz'altro di un fascino magnetico sulle masse, ma, nel contempo, evidentemente squilibrato, megalomane e paranoico.

Su questi problemi sono stati versati fiumi d'inchiostro da storici, politologi, sociologi, filosofi, psicoanalisti, ecc. Lo spettro delle interpretazioni verte dall'estremo di considerare il nazismo come un brutale momento di reazione del sistema capitalistico alla crisi economica del 1929 che, soprattutto in Europa, dette corpo al fantasma della presa di potere da parte del comunismo all'estremo opposto di attribuire a Hitler come "psicopatico" la capacità di suggestionare un intero popolo trascinandolo alla catastrofe. All'interno di questo spettro si ritrovano le interpretazioni più varie, che fanno riferimento al nazismo come revival di una mai sopita volontà di potenza del popolo tedesco, protesta contro le assurde e penalizzanti condizioni di pace imposte dalla Francia, reazione della classe media alla minaccia comunista, contestazione dell'ordine democratico e borghese, realizzazione del darwinismo sociale su scala etnica, incarnazione del nazionalismo radicale e dell'imperialismo, ecc.

E' difficile trarre da questa congerie di interpretazioni un filo unitario: in breve, giungere ad una spiegazione del nazismo.

Il problema è che se lo si ricostruisce nella sua oggettività, tenendo conto della sua ideologia e della sua pratica - economica, politica, sociale e culturale -, esso appare nulla più che un'aberrazione nazionalistica e razzista; se, viceversa, si incentra l'analisi a partire dalla personalità del suo fondatore e del suo leader - Adolf Hitler - ci si imbatte nel mistero di una personalità complessa e squilibrata, che, cionondimeno, affascina un'intera nazione e crea proseliti anche nel resto dell'Europa.

C'è una sola possibilità, a mio avviso, di venire a capo del problema. Essa consiste nel tenere conto di una singolare congiuntura storica per cui la vicenda personale e l'ideologia privata di Hitler hanno assunto, ad un certo punto, il significato di una chiave che ha immediatamente dato senso alla vicissitudine di una nazione, che in esso si è riconosciuta.

La storia del nazismo è una delle espressioni dell'incidenza nei fatti umani del caso e della necessità, vale a dire di un gioco di variabili congiunturali che assumono, ad un certo punto, una valenza deterministica e quasi fatale. Uno di questi fattori, non di certo, forse, il più importante, ma paradossalmente decisivo è la biografia e la personalità di Hitler.


2.

Avvio quest'analisi ben conscio dei suoi limiti. Ho letto parecchio su Hitler e sul nazismo, ma non quanto sarebbe stato necessario. Le analisi psicoanalitiche fornite, tra gli altri, da Erikson, Fromm e A. Miller, non mi hanno mai suggestionato più di tanto. Ritengo che l'individualità abbia un peso rilevante nella storia, ma solo quando essa si intreccia con circostanze oggettive - economiche, politiche, sociali, culturali - che le consentono di assumere un determinato peso specifico.

Quest'analisi non mira, pertanto, a fornire una nuova interpretazione della personalità di un uomo del quale si può dire tranquillamente che sarebbe stato meglio per tutti che non fosse mai venuto alla luce. Essa mira piuttosto a definire meglio quell'intreccio nei suoi aspetti casuali e fatali.

Non è dunque tanto l'infanzia di Hitler che mi interessa. Se egli, nato in una piccola città della frontiera austro-bavarese, ha sofferto, ha sofferto come tanti altri in un'epoca in cui la struttura familiare è rigidamente patriarcale. La violenza e la brutalità del padre, enfatizzate oltre ogni misura da A. Miller, sono poco provate. In paese, Alois Hitler aveva fama di essere un uomo posato e rispettabile. Nato illegittimo, egli era pienamente soddisfatto della carriera che lo aveva portato ad essere un funzionario dello Stato. Se lo scontro tra padre e figlio c'è stato, esso è da ricondurre alla valenza oppositiva del carattere di Adolf, che coglie nel padre - un modesto funzionario statale - una mediocrità insopportabile e, in conseguenza di questo, oppone un'accanita resistenza alla sua aspettativa di vederlo diventare un semplice impiegato ("Per quanto mio padre fosse fermo e determinato... la caparbietà e l'ostinazione del figlio non gli fu da meno nel respingere un'idea che lo attraeva tanto poco. Io non volevo diventare un funzionario.")

Su cosa si fonda questa caparbietà?

Hitler intuisce precocemente le sue potenzialità, che sono indubbiamente superiori alla media, ma, in un orizzonte familiare e ambientale angusto, non sa come applicarle. E' vivace, sveglio, ma, ciononostante, ha una carriera scolastica mediocre e stentata. Forse per opposizionismo nei confronti delle aspettative paterne, egli non raggiunge neppure la licenza.

Il rifiuto della mentalità piccolo-borghese familiare, resa ancora più chiusa dalle origini contadine di entrambi i genitori, è il tratto più rilevante della personalità di Hitler in fase evolutiva. Esso implica l'aspirazione alla grandezza, ad una vita ricca di senso e di vasti orizzonti. Il problema è che Hitler non ha alcuna attitudine specifica che possa essere utilizzata per realizzare quell'aspirazione. Di sicuro è dotato quanto basta a rifiutare la mediocrità; altrettanto di sicuro, non è un genio.

Se è importante, il conflitto con il padre lo è perché permette ad Hitler di scoprire la sua forza di carattere, che si esalta nello scontro con la volontà paterna. Su questa base egli costruirà la sua personalità secondo un modello adultomorfo che identifica nella lotta la ragione stessa dell'esistenza e nella capacità di reagire alle avversità la qualità di un uomo ("Non è certo grazie ai principi di umanità che l'uomo può vivere e mantenersi al di sopra del mondo animale, ma unicamente per mezzo della lotta più brutale. Se non lottate per la vita, la vita non sarà mai vinta"). E' ovvio che tale modello implica una radicale fobia della debolezza, che peraltro Hitler esplicita.

Le matrici di questa fobia non sono difficili da capire.

Nel 1903 Hitler perde il padre, nel 1907 la madre. A 18 anni, egli è un orfano senza titolo di studio, senza mezzi di sussistenza. Decide di recarsi a Vienna, sogna di diventare pittore, ma i suoi acquarelli sono mediocri e, per due volte, viene respinto all'esame di accesso all'Accademia. Inizia cos" un periodo oscuro di cinque anni nel corso dei quali vive nella miseria assoluta, tra i vagabondi e i barboni, pur mantenendo un atteggiamento differenziato rispetto ad essi. E' ambizioso, ma, di fatto, non ha un progetto di vita né prospettive. Si dedica alla lettura, allo studio, ma in una maniera disordinata e non sistematica. Ha bisogno di una visione del mondo totalizzante, com'è proprio di tutti gli esseri dotati ma non geniali.

La sua esperienza che lo mette a contatto con i reietti, cui appartiene, avrebbe potuto promuovere un'identificazione con i deboli, gli emarginati. Hitler invece la utilizza per radicalizzare il disprezzo nei loro confronti. L'esperienza di una vita dura tempra ulteriormente il suo carattere.

La Grande Guerra è l'evento decisivo della sua vita. Egli riversa in essa tutta la sua passione patriottica, e la volontà di mettersi alla prova su di un terreno che dovrebbe riscattarlo dal fallimento a livello di vita civile. E' la guerra che lo trae dall'anonimato, dall'appartenere alla categoria sociale degli emarginati, e gli dà un ruolo e una ragione di vita. Non essendo cittadino tedesco, la sua carriera non ha grandi prospettive. La gerarchia militare dell'Impero è dominata dall'appartenenza di classe. Da soldato semplice riesce a diventare solo caporale. Ma il suo comportamento è rilevante: ferito tre volte, nonostante il suo ruolo oscuro di portatore di messaggi, consegue due decorazioni al valore: la seconda - una croce di guerra di prima classe - lo inserisce nel novero dei più valorosi.

E' la guerra dunque la sua vera vocazione. L'esito di essa, reso ancora più amaro dalle condizioni di pace imposte dai paesi vittoriosi, ha un effetto nello stesso tempo devastante e stimolante sulla psicologia di Hitler.

Egli si trova restituito alla sua condizione sociale di miserabile, che riesce a malapena a sbarcare il lunario in virtù di un modesto lavoro, ma condivide questa sorte con una massa di reduci frustrati, che attribuiscono la sconfitta all'inettitudine del potere politico e l'accettazione delle inique condizioni di pace alla vigliaccheria della Repubblica che ha sostituito la Monarchia.

Avviene a questo punto un'identificazione simbolica tra la condizione personale e quella della nazione. Egli sente, sa o presume di essere un grande uomo: sono dunque le circostanze avverse che gli impediscono di affermarsi. Nello stesso tempo, egli sente che la Germania è una grande nazione ingabbiata dall'ostilità e dalla prepotenza delle altre nazioni. Come lui, la patria è un gigante incatenato.

Come uscire dunque da una situazione umiliante e come trarre la Germania dalla condizione in cui è stata ridotta? E' evidente che la soluzione di entrambi i problemi è darsi alla politica e portare avanti un progetto di riscatto della nazione tedesca, che comporta in prospettiva la necessità della guerra.

Fin qui, la vicenda personale di Hitler non ha nulla di particolarmente rilevante. La si potrebbe ricondurre ad una rivendicazione (delirante) di potenza che si estende dal soggetto alla nazione cui egli appartiene. Per capire la congiuntura che ha dato luogo al nazismo, occorre tenere conto di due circostanze oggettive.

3.

La prima è legata all'esito della Grande Guerra e alle sue conseguenze. Catastrofiche per tutti i contendenti (eccezion fatta per gli Stati Uniti), tali conseguenze fanno affiorare un problema che si può ritenere storicamente nuovo. Le guerre del passato si concludevano di solito sulla presa d'atto dell'esito: chi vinceva dettava le condizioni di pace. Nel clima culturale del Novecento, invece, la conclusione della guerra dà luogo alla necessità di identificare il colpevole.

Per coloro che stendono il Trattato di pace di Versaielles non sussistono dubbi, tenendo conto della clausola che essi inseriscono nel trattato stesso, e che suona cos": "I governi alleati e associati affermano, e la Germania accetta, la responsabilità della Germania e dei suoi alleati nell'aver provocato tutte le perdite e tutti i danni che hanno subito i governi alleati e associati e le loro nazioni, come conseguenza della guerra imposta loro dall'aggressione della Germania e dei suoi alleati." Una conseguenza ovvia di tale clausola è che la Germania deve riparare economicamente tutti i danni e tutte le perdite. L'entità delle riparazioni non viene stabilita immediatamente: quando ciò avverrà, nel 1923, risulterà aberrante.

Per coloro che stendono il trattato si tratta di una cosa ragionevole; per i Tedeschi un travisamento flagrante della verità, il profittare della vittoria per mettere la loro nazione in una condizione d'indebitamento che l'avrebbe immiserita e costretta a rinunciare ad ogni ulteriore proposito di aggressione: una punizione fondata sulla criminalizzazione di una nazione, vale a dire sul presupposto di una tendenza malvagia, ad essa intrinseca, a perseguire una politica di dominio che privilegia la forza rispetto al diritto.

Qual è la verità? Che la Germania sia stata responsabile dell'avvio della Guerra è fuori di dubbio. Ma la sua iniziativa è stata presa sullo sfondo di un contesto europeo che da anni, praticamente in tutte le nazioni, si sta preparando alla guerra per risolvere i problemi derivanti da una politica nazionalistica e imperialistica. Giunta per ultima all'imperialismo, la Germania non intende rimanere esclusa dalla spartizione delle risorse coloniali, vale a dire accettare la posizione egemone già raggiunta dall'Inghilterra e dalla Francia.

Essa, dunque, propriamente parlando, nell'avviare la guerra, reagisce al tentativo delle potenze europee di confinarla entro i suoi limiti territoriali. Oggettivamente parlando, è responsabile della guerra, ma non colpevole. Se di colpa si può parlare, essa va ricondotta al clima nazionalistico e bellicistico che è maturato in Europa nel corso dei decenni precedenti.

In questa, come in altre circostanze storiche, la trappola dell'attribuzione di colpa, che dipende dall'adozione di una logica lineare, non interattiva e non sistemica, consegue il suo effetto micidiale di mascherare la responsabilità di tutti i governi europei, gettando la croce addosso alla Germania.

In conseguenza di questo, la Germania viene penalizzata non solo sul piano territoriale, con la perdita del bacino della Saar, occupato dalla Francia, e con la definizione a est di nuove frontiere che includono un gran numero di tedeschi nella Polonia e nella Cecoslovacchia, ma anche su quello economico. Le riparazioni imposte alla Germania, infatti, risultano tali da deprimere in prospettiva la sua economia per una durata imprevedibile.

Nell'immediato, il Trattato di Versaielles non ha effetti incisivi sull'economia tedesca. L'inflazione che si avvia dopo la guerra stimola la tendenza a liberarsi della liquidità, cioè gli investimenti e i consumi. Essa però prende progressivamente a galoppare e giunge all'acme nel 1923. Ciò significa l'immiserimento della classe operaia e del ceto piccolo-borghese, e il trasferimento della ricchezza verso gli industriali, gli uomini d'affari, gli speculatori e gli avventurieri. Tra nazionalismo umiliato e crisi economica, il clima sociale è quello giusto per un primo azzardo. Hitler tenta un colpo di mano, avviando in Baviera un putsch che dovrebbe concludersi con una marcia su Berlino. Egli sente che il popolo può essere dalla sua parte, sulla base di un programma che prevede la messa in discussione del problema delle riparazioni e dei confini territoriali, la contestazione dell'imbelle potere repubblicano e la lotta al comunismo. Non mette in conto, invece, l'opposizione dell'esercito, che interviene duramente e scompiglia il piano.

L'anno di carcere che segue all'arresto e al processo è prezioso. In cella Hitler scrive Mein Kampf, nel quale delinea le coordinate ideologiche e pratiche del nazismo. Egli matura anche la convinzione che la "rivoluzione" non potrà avvenire che sul piano della legalità, attraverso la contesa elettorale, e sulla base dell'appoggio dell'esercito.

L'attivismo di Hitler e del suo partito, dal 1924 in poi, è assolutamente frenetico, ma il lento miglioramento della situazione economica e l'allentamento da parte delle potenze vittoriose delle sanzioni sembra comportare un'evoluzione sociale della Germania più tranquilla. Nelle elezioni del 1928 il partito nazista conquista solo 819000 voti e 12 seggi, ossia circa 100000 elettori in meno che nel 1924.

La seconda circostanza è legata alla catastrofica crisi del 1929. La Germania, la cui ripresa economica negli anni precedenti si basa sull'afflusso di capitali stranieri (soprattutto statunitensi), attirati dagli elevati tassi di interesse, ne viene investita drammaticamente. I capitali stranieri defluiscono. Nonostante alcuni provvedimenti del governo, maldestri in quanto preoccupati più della stabilità della moneta nazionale che non delle condizioni di vita della popolazione, la produzione industriale cala del 60%, l'agricoltura arretra paurosamente, la disoccupazione giunge a sei milioni, l'inflazione diventa galoppante.

Si crea nuovamente un clima sociale favorevole a Hitler. La guerra è ormai lontana, ma egli ha buon gioco nel rinverdire la memoria dei tedeschi leggendo nella crisi attuale la conseguenza di un'intollerabile subordinazione della Germania ai paesi vittoriosi e della mano libera data dal governo repubblicano al capitalismo privato. Occorre invertire radicalmente la rotta, riavviare la Germania sulla via dell'espansione economica e militare, trarla fuori dall'umiliazione e restituirle il primato in Europa.

Su questa piattaforma programmatica, confluiscono sia gli imprenditori tedeschi, che sponsorizzano il nazismo, sia i militari, allettati dalla promessa di una restaurazione della potenza militare, sia la classe media, che si sente minacciata dalla miseria ed è pronta a credere a chiunque prometta un miracolo.

E' questa miscela di circostanze e di fattori che consente ad Hitler di giungere al potere.

3.

Anche tenendo conto dell'identificazione della vicenda personale con l'esperienza della nazione e della congiuntura economica e storica realizzatasi tra la fine della guerra mondiale e l'ascesa di Hitler, rimane il problema di capire il fascino che il F¸hrer ha esercitato su di un intero popolo, portandolo alla catastrofe, e la sottovalutazione, da parte delle nazioni democratiche, della sua pericolosità. Anche a questo livello occorre considerare l'interazione tra la personalità di Hitler e le circostanze storiche.

Chiunque guardi un filmato di un discorso di Hitler dall'inizio alla fine con un po' di attenzione coglie con evidenza i tratti di una personalità singolare. Hitler esordisce, di solito, con un tono di voce grave e basso, con una mimica seria e impenetrabile, con una gestualità molto contenuta. Via via che il discorso procede il tono di voce tende progressivamente ad innalzarsi, diventando martellante e stentoreo, la mimica si anima, la gestualità diventa ampia, imperiosa. Quando il discorso raggiunge il suo apice comunicativo, l'impressione complessiva è quello di una persona quasi in trance, agitata da passioni incontrollabili, che possono essere contenute solo al prezzo di un repentino e transitorio blocco della parola e della gestualità, associato ad una mimica che rimane tesa e ad uno sguardo febbricitante.

E' facile riconoscere in questo stile comunicativo una tecnica retorica in cui Hitler è maestro: quella di preparare l'uditorio per poi coinvolgerlo emotivamente, dandogli ogni tanto tempo per distillare le emozioni. Ma non si tratta solo di una tecnica.

La personalità di Hitler è del tutto scissa. Per un verso, egli ha il culto dell'ipercontrollo delle emozioni, della pacatezza, del calcolo, dell'astuzia. Per quest'aspetto, egli può apparire un essere ragionevole, affidabile, addirittura saggio. Tale, purtroppo, apparirà al suo popolo e ai capi di stato stranieri. Per un altro verso, egli è preda di accessi di passione e di rabbia assolutamente squilibrati. Dato che questi accessi si associano sempre a contenuti ideologici incentrati sulle ingiustizie patite dalla Germania e dal popolo tedesco (da parte degli altri paesi, dei capitalisti, degli Ebrei, dei politici repubblicani, ecc.), che richiedono il riscatto e la vendetta, egli può apparire al suo popolo una sorta di Dio biblico e, ai capi stranieri, un can che abbaia ma non morde.

La personalità di Hitler è dunque quella tipica di un ossessivo che ha il culto del controllo razionale delle emozioni, ma, nel momento in cui si imbatte in qualcosa che ritiene ingiusto, si sente autorizzato a perdere il controllo, e vive la perdita di controllo come una prova di forza. Il razionalismo calcolatore e la passionalità smisurata di Hitler sono le due facce di una stessa medaglia, il cui conio è la fobia della debolezza.

Il problema è che per alimentare il mito della forza, egli ha bisogno di identificare un nemico esterno al quale attribuire ogni nequizia possibile, e la cui qualificazione giustifichi un orientamento vendicativo e distruttivo. E' questo l'elemento paranoico che caratterizza la psicologia di Hitler.

E' noto quali siano stati i nemici individuati da Hitler: il comunismo, che ha minato dall'interno l'unità della nazione tedesca causando la sconfitta, le potenze occidentali democratiche (Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti), che hanno imposto alla Germania condizioni di pace vessatorie, i repubblicani moderati, che hanno accettato ignominiosamente tali condizioni, il capitalismo, che fa i suoi giochi indifferente ai bisogni delle popolazioni, l'ebraismo, che governa la finanza internazionale e, pertanto, rappresenta la longa manus del capitalismo e della sua logica di profitto speculativo.

Lottare contro questi nemici diventa un dovere assoluto per riscattare la Germania dall'umiliazione subita, per affrancarla dai vincoli che l'hanno ridotta ad essere una potenza miserabile, disarmata e subordinata, e portarla ad assumere il ruolo egemone che ad essa e al suo popolo compete in Europa. E' evidente che, mutatis mutandis, questi obiettivi valgono anche per l'individuo Hitler, tenuto conto della sua precedente carriera di vita.

Per questa via, il successo politico e quello personale giungono ad essere la stessa cosa, e si determina la possibilità che il popolo tedesco identifichi nel leader colui che lavora con passione e senza interesse personale per il bene della comunità e della nazione.

Qual è il problema, dunque? Che le motivazioni personali, mascherate come motivazioni politiche e mistificate come motivazioni assolutamente realistiche, giungono ad avere la meglio sulla ragionevolezza. Nella misura in cui si realizzano, tendano ad alimentarsi fino a livello patologico.

Ciò consente di comprendere che il sogno di riscatto - personale e patriottico - assuma una configurazione megalomane e paranoica. La megalomania consiste nel progettare l'assoggettamento di tutta l'Europa al F¸hrer e alla Germania; la paranoia nel ritenere un nemico da distruggere o da ridurre in schiavitù chiunque ostacoli tale progetto. Per un verso e per l'altro, comunque, il riscatto postula una prova di forza, il conflitto, la guerra.

La logica della guerra, come soluzione finale dei problemi, come restaurazione di una scala gerarchica internazionale che assoggetti i popoli inferiori a quelli superiori, e, all'interno della nazione, i tarati, i malati, gli handicappati, ai sani, ai forti e ai coraggiosi troppo banalmente viene ricondotta all'influenza di Nietzsche. In Hitler essa rappresenta l'espressione di un meccanismo patologico di scissione, che non comporta alcuna mediazione tra opposti: tra superiore e inferiore, forte e debole, coraggioso e inetto, sano e tarato si dà, nell'ideologia di Hitler una discontinuità assoluta, un salto qualitativo. Se una categoria domina la sua mente e giustifica la scissione, questa è facilmente identificabile in quella che oppone puro e impuro. Paradossalmente, si tratta della categoria fondamentale della religione ebraica!

Questa conclusione può apparire ambigua, ma non lo è. Pochi hanno rilevato le similitudini tra la storia biblica e il nazismo. Il Dio biblico stabilisce un patto con un'etnia che privilegia rispetto a tutte le altre e alla quale assicura il primato politico e spirituale su tutta la terra. Tale patto implica che tutti i popoli non circoncisi, che praticano il politeismo, sono impuri e inferiori. In conseguenza di questo il popolo ebraico può deve lottare contro di essi e, se possibile, sterminarli. L'alleanza con Dio comporta l'assoggettamento alle sue leggi e la punizione mortale di ogni ribellione. Il regno di dio, regno del bene, è destinato a durare nei secoli e a contrapporsi a quello del Male.

Può darsi che siano coincidenze, come pure che le analogie si riconducano alla struttura culturale del Potere assoluto. Occorreva rilevarle.

La paranoia di Hitler ha fatto presa su di un intero popolo perché, al di là delle condizioni oggettive, si davano condizioni culturali e mentali che l'hanno favorita. Messi di fronte ad una sconfitta imprevista e imprevedibile (perché i militari hanno ingannato il popolo sull'andamento reale della guerra), al crollo di un Impero, alla catastrofe economica, allo smarrimento assoluto per la sostituzione dell'Impero con una repubblica democratica, il popolo tedesco aveva bisogno di trovare i colpevoli di tutto ciò. Data la convinzione di essere entrato in guerra per giuste ragioni (e non, com'era vero, sotto la spinta di un militarismo imperialista), esso non poteva sviluppare alcuna autocritica.

Hitler ha intuito la possibilità di soddisfare quel bisogno, e lo ha fatto identificando i colpevoli nei comunisti, nei "criminali di novembre", vale a dire nei repubblicani che avevano accettato le condizioni di pace, nei capitalisti e, infine negli Ebrei. Solo quest'ultima categoria, forse, non era già presente nell'immaginario collettivo. Essa però non solo era presente nell'immaginario di Hitler, ma, in una certa misura, rappresentava o s'intrecciava con tutte le altre. Sono occorsi anni di propaganda antisemita per convincere il popolo tedesco della fondatezza della paranoia hitleriana. La catastrofe del 1929 è stata la goccia che ha fatto precipitare il vaso perché essa, consentendo ad Hitler di ricondurla al capitale finanziario manovrato dagli Ebrei, ha infine indotto l'identificazione del colpevole.

4.

E' evidente in quale misura la vicenda privata di Hitler, quella collettiva della Germania e le condizioni oggettive create prima dalla Grande Guerra e poi dalla crisi del 1929 si siano tradotte in una congiuntura storica che ha reso il nazismo una fatalità. Se se ne può ricavare un insegnamento, esso non consiste nel sottolineare a quali eccessi può pervenire il male intrinseco alla natura umana, bens" nel prendere atto che, date determinate circostanze oggettive, la psicologia di un singolo individuo e quella di un'intera nazione possono confluire, cortocircuitandosi, in una visione del mondo che diventa una gabbia mentale patologica. Al di sotto della patologia, si danno però sempre e comunque motivazioni umane: uno stato di frustrazione, l'esigenza di un riscatto, un bisogno di giustizia, ecc. Che motivazioni del genere possano produrre comportamenti aberranti è dovuto al fatto che esse non possono prescindere dalla logica di una causalità lineare che comporta la necessità di individuare i colpevoli di quella situazione.

Tutto ciò non significa che gli esseri umani o alcuni di essi siano mostri, bens" semplicemente che l'umanità è ancora immersa nella sua preistoria e, quando s'imbatte in enormi difficoltà, preda di vissuti persecutori.