Lucien Febvre

Problemi di metodo storico

Einaudi, Torino 1976

Introduzione alla lettura

Lucien Febvre (1878 – 1956) è stato, con Marc Bloch il cofondatore della Scuola delle Annales, la quale ha avuto un'influenza profonda non solo sulla storiografia contemporanea, ma su tutte le scienze umane e sociali. Fin dalle sue origini, è stato tipico di tale Scuola un orientamento interdisciplinare orientato a definire, con il concorso di vari studiosi, una scienza dell'uomo nel tempo, che tenesse conto di tutti gli aspetti - biologico, psicologico, sociologico, economico, politico, culturale, ecc.- che concorrono a dare alla vicenda umana una connotazione particolare e diversa rispetto a tutti gli altri esseri viventi.

Dopo la morte prematura di Bloch, è stato Febvre a portare avanti tale progetto allevando, guidando e cooptando una serie di storici che avrebbero raggiunto una fama internazionale: Braudel, Duby, Emmanuel Le Roy Ladurie, François Furet, Jacques Le Goff, ecc.

Il mio debito intellettuale nei confronti dei "nuovi storici francesi" è facilmente ricavabile dal numero di citazioni che ad essi ho dedicato in tutti i miei scritti. Il concetto di inconscio sociale che essi hanno messo a fuoco, e che nulla ha a che vedere con l'inconscio collettivo junghiano, è, in associazione di quello di lunga durata, uno strumento interpretativo di straordinario interesse el campo delle scienze umane e sociali, che ho applicato ripetutamente alla psicopatologia.

L. Febvre ha scritto numerose opere destinate a rimanere pietre miliari della storiografia: La nascita del libro: l'impatto della stampa 1450-1800; Il problema dell'incredulità nel secolo XVI: La religione di Rabelais; La terra e l'evoluzione umana. Introduzione geografica alla storia; Problemi di metodo storico; L'Europa. Storia di una civiltà.

Gli articoli seguenti sono tratti da Problemi di metodo storico. Essi danno la misura dell'apertura intellettuale dell'autore, della sua finissima sensibilità e della sua passione per la conoscenza storica.

Via via che la civiltà contemporanea, per effetto di nuove forme di comunicazione, è sempre più incline a recintare le coscienze nel culto del presente e spesso addirittura di un presente che coincide con l'orizzonte del soggetto, rileggere queste pagine ha un effetto confortante. Esse, infatti, ci rammentano che il passato storico (non meno di quello filogenetico) non muore mai, sicché il venir meno dell'interazione culturale e collettiva con esso serve solo a sancire che il presente nel quale le coscienze contemporanee vivono, inebriate dal contatto immediato con la realtà, è, di fatto, a loro insaputa, un presente ricordato.

Storia e psicologia (p. 108-121)

«Attitudine a scoprire correlazioni»: ecco una delle più soddisfacenti definizioni del genio scientifico. Si pensi al grande medico, al grande clinico, che, raffrontando segni e sintomi disparati, inventa e crea davvero un nuovo tipo di malattia. «Attitudine a stringere accordi e scambi fra discipline vicine fra loro»: per una scienza in fase di espansione si tratta di una non meno buona definizione del progresso. Spesso questa verità sperimentale viene tradotta in un'altra formula: «Le grandi scoperte si fanno ai confini stessi delle scienze» .

Che, quindi, la psicologia, conoscenza scientifica della funzione mentale, debba stringere necessariamente stretti rapporti con la conoscenza scientifica della funzione sociale, la sociologia; ch'essa debba, non meno necessariamente, intrattenere relazioni continue con le discipline mal definite che noi confondiamo sotto il nome tradizionale di «storia», non c'è bisogno di spiegarlo diffusamente. Ma si è anche rassegnati a priori che questi rapporti attualmente non possano essere se non piuttosto deludenti. La psicologia si è appena liberata dalle controversie filosofiche per installarsi sul solido terreno delle ricerche sperimentali. La sociologia ha assunto un nome fra gli uomini soltanto da un secolo; ha una propria realtà solo da minor tempo ancora. Quanto alle discipline che nel corso di un secolo si saranno liberate dal magma confuso della storia, esse non hanno neppure uno stato civile. Una ragione di più perché non si trascuri alcun aspetto della vita delle scienze umane.

Quale sarà a prima vista la posta in gioco di un dibattito di competenze e di attribuzioni fra psicologi, sociologi e storici? Evidentemente la conoscenza dell'individuo. «La psicologia, ‑ diceva Baldwin, ‑ si occupa dell'individuo e la sociologia del gruppo». Quanto alla storia, se Baldwin l'avesse definita, penso che vi avrebbe inglobato, come in campo chiuso, l'individuo e il gruppo, affermando che, forte dei risultati acquisiti per mezzo della psicologia e della sociologia, essa si sforza di definire nell'ambito del passato i loro rapporti reciproci. Nozioni eccellenti per uno studente; gli forniscono chiavi di facile uso. Sfortunatamente, quando si cerca di usare queste chiavi, esse lasciano sempre chiusa la seconda porta. Invece di dissertare in astratto, tracciando sulla carta confini ben delimitati, mettiamoci davanti alla realtà. E applichiamo il metodo migliore: complichiamo quello che appare troppo semplice.

1.

Qual è l'oggetto dello studio di uno storico? L'opinione comune risponde: da una parte, i movimenti confusi di masse umane anonime, destinate in qualche modo ai grossi lavori della storia; dall'altra emerge su questo grigiore l'azione dirigente di un certo numero di individui qualificati «personaggi storici».

Le masse sono poco conosciute. Epoche intere non ci hanno lasciato di loro alcuna testimonianza diretta e particolareggiata. Aristocratica nelle sue origini, la storia non ha avuto, per secoli, occhi e assai spesso ancora non ha occhi se non per i re, i principi, i condottieri di popoli e di eserciti, gli uomini «che fanno la storia», Menschen die Geschichie machen: come dice il titolo di una grossa raccolta di biografie storiche pubblicato recentemente in Germania

Detto questo, i rapporti fra psicologia e storia si stabiliscono, agli occhi dell'opinione comune, assai semplicemente.

Le masse anonime? Esse saranno oggetto di una psicologia collettiva da fondare sullo studio delle masse che attualmente possiamo esaminare, capace di estendere senza fatica ‑ lo si suppone, per lo meno ‑ le sue conclusioni alle masse di altri tempi, alle masse storiche. Per quanto riguarda gli individui distinti, i «personaggi storici», essi apparterranno naturalmente alla psicologia individuale. I documenti che li concernono (molti dei quali importano una interpretazione psicologica della loro attività e del loro carattere) costituiranno una buona preda per gli psicologi, che allargheranno il tesoro delle loro osservazioni. Viceversa, le conclusioni che costoro possono trarre dallo studio dei casi umani che hanno sotto i loro occhi, permetteranno agli storici d'interpretare meglio, di meglio comprendere la condotta e l'azione dei «dirigenti» delle società passate, degli autentici artigiani della storia umana. E, dunque, siamo sempre di fronte al binomio individuo‑società. Ma continuiamo a incalzare il problema sempre più da vicino.

Che cosa sono questi individui prestigiosi, i «personaggi storici»? Sono, abbiamo detto un giorno, «gli autori responsabili di una grande opera storica». Ma che cos'è una grande opera storica? Un insieme di fatti raccolti, raggruppati, organizzati dagli storici, in modo tale da costituire un anello di quelle grandi catene di fatti omogenei e distinti (politici, economici, religiosi, ecc.) di cui gettiamo la rete, più o meno fitta, sul passato storico dell'umanità. Siamo noi a foggiare e rifoggiare senza posa queste catene, nel nostro bisogno di «organizzare il passato», di mettere ordine e regola nell'insieme perpetuamente in moto, nello sfarfallio e nello scintillio difatti che, senza leggi apparenti, si urtano, si confondono, si condizionano reciprocamente intorno ad ogni uomo in ogni istante della sua esistenza, e, dunque, dell'esistenza della società della quale fa parte.

Grandi catene, grandi sviluppi: perché grandi? Perché occorre distinguere, fra le opere umane, quelle che interessano solo un piccolo gruppo di uomini particolari, e le altre che, di là dalle frontiere dei piccoli gruppi, tendono a unire questi o almeno ad orientarli verso la stessa direzione. Così le religioni, nella misura in cui non sono religioni chiuse di gruppi, interdette ai non iniziati. Così i grandi sistemi di idee e di dottrine, che si diffondono oltre le frontiere, collegando tra loro uomini di tutti i gruppi. Così anche le opere politiche: organizzazioni e rivoluzioni, conquiste ed espansioni, con tutto il loro seguito di annessioni, da una parte, di resistenze, dall'altra.

Opere storiche? Sì, nella misura in cui non restano mero frutto della violenza, ma fruiscono della durata e della cooperazione degli uomini, che, dopo aver subito, accettano, adottano e diffondono. Sì, nella misura in cui non son fatte da qualche uomo ad uso e consumo di piccoli gruppi, bensì possono essere riportate ad uno sforzo d'insieme per organizzare la vita delle masse umane. Sì, nella misura in cui ciò che fu in un primo tempo opera particolaristica e, se si vuole, egoistica, si trasforma in opera di civiltà. In realtà, i prodotti della civiltà non sono forse ‑ almeno in parte ‑ fenomeni che, superando una data società, si mostrano capaci di migrare e trapiantarsi in campi a volte assai lontani e differenti dal loro settore originale?

Così è opera storica quella che, di là dal «locale» e dal «nazionale», mira all'umano. Quella che si afferma capace di irradiamento e di espansione pacifica. Ma, allora, il personaggio storico? Esso risponde a un'esigenza elementare delle comuni credenze: ogni orologio presuppone un orologiaio, ogni opera storica postula un autore. Così agisce la categoria fondamentale della generazione: padre‑figlio. Il padre dell'opera storica è il personaggio storico: l'uomo al quale la credenza comune attribuisce la paternità di quest'opera: una semplificazione necessaria e una comoda mnemotecnica. Ma se quello che abbiamo appena detto fosse vero? Se davvero l'autore ‑ e non il «preteso» autore di un'opera d'organizzazione collettiva di durevoli ripercussioni, ma l'autore «certo» di una grande opera scientifica, letteraria, filosofica o religiosa, che veramente sembra uscire dal suo cervello (Darwin e Shakespeare, Marx o Calvino), se questo autore non fosse tuttavia in condizione di dare efficienza a quest'opera senza la collaborazione, senza la partecipazione attiva del gruppo che l'adotta? Se fosse frequente, almeno, se non normale il dramma dell'uomo che lancia un'idea che ritorna a lui totalmente deformata e trasformata dall'«ambiente»? Se fosse tipica l'avventura di Martin Lutero, autentico padre del luteranesimo, ma che cento volte confessa il suo turbamento, la sua confusione, quando deve costatare come le masse, sin dall'inizio, abbiano modificato le sue idee, appropriandosele, e abbiano fatto loro subire la sorte di tutti i grandi creatori di idee o di sentimenti: quello snaturamento, quel rovesciamento, talvolta totale, di idee di cui essi portano, nonostante tutto, davanti alla Storia l'illusoria paternità?

E, d'altra parte, il personaggio storico. Ma dov'è l'essere umano che possa essere considerato una potenza autonoma, indipendente e isolata, una specie di creazione originale e spontanea, quando ogni persona umana subisce tanto forte gli influssi venuti in parte dalle profondità del tempo, altre più immediatamente esercitate dall'ambiente coevo e trasportate innanzi tutto dal linguaggio e dagli strumenti?

Il linguaggio: il mezzo d'azione più potente del gruppo sull'individuo. Il linguaggio, una tecnica lentamente elaborata dall'umanità, e giunta al suo stato attuale, al suo stato perpetuamente mutevole e mobile, dopo, non secoli, ma millenni di lavoro. Il linguaggio, carico, in questo tempo ormai, di tutta la serie di distinzioni, dissociazioni, categorie, che l'umanità è riuscita a creare a poco a poco. Il linguaggio, la cui azione congiunge e quella dei miti, che hanno avuto per l'umanità il posto delle tecniche, quando ancora le difettavano gli strumenti capaci di darle il dominio sulle cose, e il posto delle stesse tecniche, Così strettamente imparentate fra loro nella stessa epoca, così profondamente partecipi di uno stesso stile suscettibile d'essere datato senza errore. Tutto questo, in una parola, permette di affermare che un individuo non è mai altro che quello che la sua epoca ed il suo ambiente sociale gli consentono di essere.

Allora, l'alternativa: individuo o masse? o, se si preferisce l'altro enunciato dello stesso problema: individuo o società? L'ambiente sociale prima di tutto compenetra l'autore di un'azione storica, lo inquadra e in larga misura ne determina la creazione. E, quando questa è compiuta, o muore, oppure, perché sussista, bisogna che subisca la collaborazione attiva, la pericolosa collaborazione delle masse, il peso dell'ambiente, irresistibile e determinante.

In altre parole, la società è per l'uomo una necessità, una realtà organica. Per riprendere l'espressione del dottor Henri Wallon, il solo «linguaggio implica la società, come i polmoni di una specie aerea implicano l'esistenza dell'atmosfera». E l'individuo riceve le determinazioni di questa società; esse gli sono un necessario complemento. «Egli tende verso la vita sociale come verso il suo stato d'equilibrio

In tal modo, tutto ci sembra meno semplice che all'inizio. Se, infatti, in ogni individuo si deve distinguere prima di tutto una certa personalità più o meno caratteristica, per mezzo di un insieme di tratti che gli sono peculiari e che riuniamo secondo una formula e con un dosaggio particolare; e poi, dobbiamo prendere questo individuo come rappresentante della specie umana, portatore degli stessi caratteri specifici di tutti i membri di un certo gruppo di questa specie, ma soprattutto come membro partecipe di una società ben determinata e datata, vediamo che, da una parte, si attenua in modo singolare il contrasto fra l'individuo e la società, che non si possono più contrapporre schematicamente l'uno all'altra; e, d'altra parte, il metodo investigativo, quando si tratti di un individuo, comincia a precisarsi chiaramente.

Tre serie d'inchieste occuperanno volta per volta lo psicologo. Innanzi tutto, esso dovrà dedicarsi alla ricerca di quello che l'uomo deve al suo ambiente sociale: psicologia collettiva. Poi, domandarsi che cosa l'uomo debba al suo organismo specifico: psicologia specifica o psicofisiologia. Infine, studiare quello che quest'essere umano deve alle particolarità individuali della sua fisiologia, ai casi della sua struttura, agli accidenti della sua vita sociale: psicologia differenziale.

Secondo la logica, d'altro canto, quest'ultima dovrà intervenire solo dopo l'approfondimento delle due precedenti. Ma, finché queste non avranno compiuto un progresso decisivo, finché al caos dei casi individuali gli psicologi non saranno stati capaci di sostituire «specie psicologiche» ben caratterizzate, così come al caos dei sintomi i medici sostituiscono «specie morbose» concepite in senso largo, finché non si sarà raggiunta la costruzione di «tipi» che permettano nei confronti di un individuo l'operazione sempre delicata della «diagnosi», consistente nel collegare il caso individuale a qualche specie creata precedentemente, la psicologia differenziale dovrà rassegnarsi a molto empirismo.

E questo, se è vero per la psicologia attuale, è tale anche di più per la psicologia retrospettiva. Se si vuole, della psicologia storica. C'è infatti un problema particolare della psicologia storica. Quando gli psicologi parlano nelle loro memorie, nei loro trattati di emozioni, di decisioni, di ragionamenti dell'«uomo», in realtà essi trattano delle nostre emozioni, delle nostre decisioni, dei nostri ragionamenti: del nostro settore particolare, di noi, uomini bianchi dell'Europa occidentale, integrati in gruppi di antichissima civiltà. Ora, come potremo valerci, noi storici, di una psicologia basata sull'osservazione degli uomini del secolo XX per interpretare le azioni di uomini d'altri tempi? E come gli psicologi potrebbero ritrovare a loro volta nei dati forniti loro dalla storia (o che dovrebbero essere forniti loro dalla storia) sulla mentalità degli uomini d'altri tempi un contributo capace di allargare puramente e semplicemente un'esperienza tratta dal contatto coi loro contemporanei? Tutt'al più, quest'esperienza potrà arricchirli di qualche tipo di confronto, che permetta loro di meglio avvertire le differenze che i nostri progenitori ‑ diretti o no, lontani o vicini ‑presentavano nei nostri confronti.

In realtà, né la psicologia dei nostri psicologi contemporanei può aver corso nei passato, né la psicologia dei nostri progenitori può avere un'applicazione globale per gli uomini d'oggi: sia che si tratti degli «eroi» della storia, dei «personaggi storici», a noi noti per un insieme più o meno vasto di documenti biografici, e di «ritratti» fisici e mentali, sia che si tratti delle masse anonime di cui non ci si è quasi curati di analizzare psicologicamente gli elementi, né di caratterizzarne globalmente le reazioni. In entrambi i casi, per usare le parole di cui si serviva Charles Blondel nella sua Introduction à la psychologie collective (p. 197), «non c'è motivo di ostinarsi a determinare de plano modi universali d'agire, di sentire, di pensare, forse inesistenti e, in ogni caso, attualmente inafferrabili». E Blondel precisava: «Considerando isolatamente i gruppi umani dispersi nel tempo e nello spazio, la sua funzione [della psicologia collettiva] è al contrario quella di descrivere i sistemi mentali propri a ciascuno di essi, analizzarli, per quel che è possibile, sforzandosi di afferrare il meccanismo della loro elaborazione, il senso del loro sviluppo e la natura dei rapporti che collegano fra loro gli elementi

Non sarebbe possibile dire meglio, né denunziare più chiaramente il pericolo: il pericolo di voler passare direttamente ‑ senza neppure sospettarne le difficoltà ‑ dai sentimenti e dalle idee che sono nostri ai sentimenti e alle idee che simili parole, o le stesse parole, generatrici delle confusioni più gravi per la loro ipotetica e fallace identità, servono sempre a significare, talvolta a distanza di alcuni secoli. C'è bisogno di qualche esempio?

Non c'è bisogno di andarne a cercare troppo lontano. Perché già Charles Blondel ben rilevava «se prendiamo due collettività sufficientemente distanti l'una dall'altra nel tempo e nello spazio, la differenza delle mentalità corrispondenti ci apparirà subito evidente». Ma se sono più vicine fra loro, occorreranno sforzi e ricerche, a volte lunghe e delicate, per rilevare le divergenze, spesso anche notevoli. Non dedichiamoci, dunque, né ai primitivi, i cui modi di sentire, pensare e agire Lucien Lévy‑Bruhl si è sforzato di analizzare (le sue osservazioni servono essenzialmente per la formazione non di una storia, ma di una preistoria, di una paleontologia psicologica), né a quei Cinesi di cui i libri Così ricchi di Granet ci permettono di comparare con le nostre le azioni intellettuali. Limitiamoci a porre una domanda: a che cosa è più attaccato, o se si preferisce, a che cosa rinunzierebbe meno facilmente l'uomo del nostro tempo? (Una domanda che già presuppone alcune riserve; perché l'uomo: quale uomo?) Si sarà d'accordo tuttavia nel rispondere, senza troppo riflettere: alla sua vita, alla sua propria esistenza.

Dopo di che apriamo un'opera di Frazer. E in questi libri ormai classici, troveremo in abbondanza fatti sorprendenti ‑ almeno per noi ‑ che ci mostreranno differenze, contrasti veramente enormi nell'apprezzamento di questo valore ‑ che la «Natura» stessa sembrerebbe disporre in prima fila ‑ fra società relativamente vicine e le nostre società. Apprenderemo così che interi popoli hanno non protetto, ma distrutto i loro figli, offrendoli spontaneamente in sacrificio. Apprenderemo che l'unione, indissolubile per noi, della divinità e dell'immortalità (se non dell'eternità) fu ed è ignorata da milioni e milioni di esseri umani, che hanno creduto e credono alla morte dei loro dèi, che hanno fatto divinità mortali a loro immagine e somiglianza.

Storia antica? Certo. Ma apriamo il nono volume della Histoire littéraire du sentiment religieux en France di Henri Bremond. E’ intitolato: La vie chrétienne sous l'ancien régime e contiene sull'«arte di morire» un capitolo stupefacente. Si vedrà a piacere come, neppure tre secoli or sono, si trattassero i moribondi con una specie di crudeltà psicologica ‑ almeno a nostro giudizio ‑ che di colpo ci trasporta ben lontano da noi stessi e dalla nostra mentalità.

Ed ecco altri esempi. Nelle vite romanzate che in questi ultimi anni abbiamo visto moltiplicarsi a piacere, ‑ un piacere per altro degli editori, assai più che dei lettori colti, ‑che cosa urta lo storico? Gli equivoci, le confusioni e le goffaggini ripetute da autori senza competenza né preparazione? I furti sistematici, i cinici plagi di veri storici compiuti dai giornalistucoli frettolosi della storiografia? In realtà, la cosa più grave è il perpetuo, irritante anacronismo incoscientemente commesso da uomini che si proiettano quali sono nel passato, coi loro sentimenti, le loro idee, i loro pregiudizi intellettuali e morali, e che avendo travestito un Ramsete II, un Giulio Cesare, un Carlo Magno, un Filippo II, ed anche un Luigi XIV, da bravi borghesi del 1938, ritrovano nei loro eroi quello che essi stessi vi hanno messo, ne stupiscono doverosamente e concludono la loro «analisi» con un nil novi atteso sin dall'inizio: «Così l'uomo è sempre identico a se stesso».

Ora, senza allontanarci ancora, facciamo appello alla nostra coscienza di storici. E’ impossibile studiare la vita, i costumi, i modi di essere e d'agire degli uomini del Medioevo (un Medioevo che si prolunga fino al secolo XVI almeno, e magari anche oltre), è impossibile leggere nei testi autentici, racconti sui principi, relazioni di feste, di processioni, di esecuzioni giudiziarie, sermoni popolari, ecc., senz'essere colpiti dalla singolare mobilità d'umore, dalla straordinaria permeabilità alle impressioni esterne, che manifestano gli uomini di quel tempo. Pronti a irritarsi, pronti a entusiasmarsi, sempre pronti ad afferrar la spada, ma anche ad abbracciarsi. Si danza, si piange; si respira il sangue e poi le rose.

«Bisogna ricordarsi, ‑ scrive in un libro molto suggestivo, L'autunno del Medioevo, lo storico olandese Huizinga, ‑ bisogna ricordarsi di questa recettività, di questa facilità alle emozioni, di questa tendenza alle lacrime, di queste variazioni spirituali, quando si voglia concepire l'asprezza del gusto, la violenza di colore della vita in quei tempi». Certamente: ma bisogna soprattutto spiegare. E la spiegazione è ardua. Mette in causa una moltitudine di dati che gli storici, sinora, non si sono curati di riunire, di raccogliere insieme, né ai quali hanno pensato di attribuire il loro vero valore.

Uomini fatti tutti di contrasti? Ma la loro vita materiale ‑ già lo notavamo nel 1925 ‑ non era forse fatta a sua volta tutta di contrasti? Pensiamo a cose assai grosse, di cui non misuriamo mai il peso. Il contrasto fra il giorno e la notte, che cosa rappresenta per noi? uomini del secolo XX? Nulla o quasi. Un bottone, un gesto; e la luce elettrica succede alla luce solare. Signori del giorno e della notte, ne godiamo da raffinati. Ma gli uomini del Medioevo? Quelli del Cinquecento? Non ne erano certo padroni, poveretti, essi che non possedevano neppure lampade a olio, neppure bugie da accendere al calar della sera. Vivevano una vita scandita, ritmata quotidianamente dalla successione delle tenebre e della luce; una vita divisa in due parti nette (diseguali a seconda delle stagioni e dei luoghi): il giorno, la notte; il bianco, il nero; il silenzio assoluto ed il lavoro rumoroso. E’ possibile credere ch'essa abbia potuto suscitare negli uomini le stesse abitudini mentali, gli stessi modi di pensare, di sentire, di volere, d'agire e di reagire, della nostra vita stabilizzata, privata d'urti, di contrasti e d'opposizioni brutalmente divise? Giorno e notte.

Ma e inverno ed estate, cioè freddo e caldo? L'inverno esiste forse ancora per un europeo, per un nord‑americano agiato? Quando lo vogliono, certamente. Quando lo vanno a cercare dove si trova più accentuato, per fare le loro «vacanze invernali». Ma questo inverno è sempre accompagnato, in confortevoli alberghi, da un'estate che chiede soltanto di sostituirlo. Tutto il giorno si scia sulla neve e la sera si è riscaldati a venti gradi. E riscaldati dappertutto. Chi oggi entra in una casa «borghese» di città, nel cuore dell'inverno, sente immediatamente sui viso l'alito caldo dei radiatori. Quindi, si spoglia. Chi penetrava nella propria casa di gennaio, nel Cinquecento, sentiva il freddo calare sulle proprie spalle: il freddo immobile, silenzioso e cupo di un alloggio senza fuoco. In casa si tremava anche di più, come si tremava in chiesa, come si tremava nei palazzo reale, a dispetto dei monumentali camini in cui si consumavano alberi interi. E il primo gesto dell'uomo che rientrava in casa non era di togliersi il cappotto, ma di vestire una zimarra più calda di quella usata per uscire e di mettersi un berretto orlato di pelo, più spesso di quello usato per la strada.

Inverno, estate: contrasti mitigati per gli uomini più umili del nostro tempo. Contrasti di selvaggia violenza per i più ricchi e fastosi uomini dei tempi andati. E indubbiamente ‑ ma tocca agli psicologi dircelo ‑ eguaglianza di condizioni di vita materiale, eguaglianza d'umori. Le due cose non si susseguono, non si collegano logicamente, non si condizionano fra loro?

E per quanto riguarda le condizioni di sicurezza? Sicurezza di fortuna: un incendio, oggi, un incidente, una morte prematura: interviene l'assicurazione. Ma in quei tempi...? Né si tratta, si badi, di casi individuali. Quando il fuoco si appiccava all'estremo margine di una città alle case ricoperte di paglia, quando, sospinto da un vento violento, le consumava tutte e annientava in pochi minuti un intero villaggio sorpreso nella notte, senza mezzi di difesa, incapace di salvare persino le sue bestie, si trattava di dieci, venti, cento famiglie che vedevano improvvisamente sciogliersi i loro vincoli: i figli partivano alla ventura e si perdevano di vista, senza sapere più dove ritrovare i loro fratelli. Ma che dire della sicurezza della vita?

E l'immenso campo dell'alimentazione? La psicologia di popolazioni superalimentate, quali lo sono state per anni, eccettuati i periodi bellici, quelle occidentali, che avevano a loro disposizione con copia crescente, dal secolo XIX al XX, cibi ricchi e variati, può forse essere quella di popolazioni perpetuamente denutrite, che costruivano il loro precario regime di vita sui margini dell'inanizione e finivano col morire in massa, sia per carenza alimentare, sia, destino più tragico, per la buona volontà male edotta di benefattori trasformati in uccisori: ricordiamoci di quegli eschimesi vittime della filantropia di Europei pietosi, che, credendo di ben fare, introdussero nelle loro razioni alimenti più ricchi: questi alimenti ruppero l'equilibrio precario della razione cui i pionieri della nuova scienza dell'alimentazione attribuiscono tanta importanza... E gli Eschimesi che nel bisogno vegetavano, morirono in massa per l'abbondanza.

E’ necessario ricordare che il Medioevo fu un'età di continua denutrizione, di fame e di carestie, interrotte in certi giorni da eccezionali strippate? E’ possibile supporre che quel regime producesse, conservasse uomini fisicamente e mentalmente costruiti come noi: noi coi nostri regimi di grassi sedentari, che fanno succedere al martirio del famelico il martirio dell'obeso? Pensiamo alla successione brutale di quelle immagini di popoli, registrate sulle retine dei loro vicini più prossimi; pensiamo al popolo di pallide ranocchie affamate che gli Inglesi del Settecento si rappresentavano (e certo non a torto) vivente sulle rive della Senna, mentre a loro volta si riconoscevano con piacere in John Bull, l'apoplettico, abbondantemente nutrito mangiatore di carni rosse e sanguigne, innaffiate da alcoliche birre. Sono tutti suggerimenti, sollecitazioni per studi non ancora fatti, che bisognerà pur fare.

Si è detto abbastanza da far capire che se ci vietiamo di proiettare il presente, il nostro presente, nel passato; se ci rifiutiamo l'anacronismo psicologico, il peggiore di tutti, il più insidioso ed il più grave; se pretendiamo di rischiarare tutti i moti delle società, e anzitutto i loro moti mentali, attraverso l'esame delle loro condizioni generali di esistenza, è evidente che non potremo considerare valide per il passato le descrizioni e le osservazioni dei nostri psicologi, i quali lavorano su dati forniti dal nostro tempo. Non meno evidente è il fatto che una vera psicologia storica non sarà resa impossibile che dall'accordo, stretto chiaramente, fra lo psicologo e lo storico. Questi orientato da quello. Ma quello strettamente tributario al primo e costretto a rimettere a lui la cura di creare le condizioni per il suo lavoro. Lavoro di collaborazione. Lavoro collettivo, per parlar chiaro.

E', in realtà, far l'inventario prima di tutto nei minuti particolari e poi ricomporre per l'età studiata il materiale mentale di cui disponevano gli uomini di quell'età; ricostruire con un potente sforzo di erudizione, ma anche di fantasia, l'universo, tutto l'universo fisico, intellettuale, morale, nel quale si mosse ognuna delle generazioni che lo precedette: avere chiaro il senso di quelle lacune e deformazioni nella rappresentazione che una data collettività storica si fece del mondo, della vita, della religione, provocate, da un lato, dall'insufficienza delle nozioni di fatto su questo o quel punto, dall'altro, dalla natura del materiale tecnico in uso in un dato periodo nella società che si tratta di studiare; e infine rendersi conto ‑ per usare l'osservazione di Henri Wallon ‑ che un universo «in cui la sola forza muscolare dell'uomo è alle prese con gli esseri concreti che si levano contro di lui» non è, non può essere lo stesso universo in cui l'uomo ha assoggettato l'elettricità ai suoi bisogni, e ha assoggettato le forze stesse della natura al fine di produrre questa elettricità; comprendere in una parola, che «l'Universo» non è un assoluto più che «lo Spirito», o «l'Individuo», ma va trasformandosi senza posa con le invenzioni, con le civiltà create dalle società umane: ecco il fine ultimo dello storico, che non sarà però raggiunto dagli isolati, anche se essi hanno cura di unirsi agli psicologi.

Immenso è il lavoro per gli storici, se essi intendono procurare agli psicologi i materiali di cui questi hanno bisogno per elaborare una valida psicologia storica. Tanto da superare non solo le forze e i mezzi di un solo uomo, ma di superare lo stesso campo d'azione di una scienza o di due. Esso presuppone ‑ per essere condotto a buon fine ‑ la formazione di tutta una rete di collegamenti.

Tecniche? E’ necessario, trattandosi delle società civili d'altri tempi, l'aiuto efficace di un'archeologia che estenda il proprio dominio su età molto più vicine a noi che non le età antiche propriamente dette. E’ necessario, trattandosi di società contemporanee, l'aiuto altrettanto efficace di un'etnologia che non limiti ai soli primitivi i suoi sforzi d'inventari, ma tratti ‑ esattamente come Soustelle i suoi Lacandoni, o Métraux i suoi Tupi‑Garani ‑ popolazioni a noi più vicine e assai più ricche di risorse civili.

E il linguaggio, quest'altra via maestra d'accesso del sociale nell'individuo? Occorre la collaborazione dei filologi, capaci di formare quegl'inventari di linguaggi che non sono fatti per gli storici, ma dai quali costoro possono trarre tanti vantaggi: non gli inventari globali di quelle grandi lingue civili che fondono il contributo di tanti gruppi, locali o sociali, diversi per trasmetterceli alla rinfusa; ma quegli inventari di dialetti che, interpretati dagli storici delle società rurali, ci forniscono tante preziose indicazioni che essi soltanto sono in grado di darci. E occorre anche la collaborazione di quei «semantologi» che, restituendoci la storia di parole particolarmente gravide di significato, scrivono contemporaneamente capitoli esatti di storia delle idee. Occorre la collaborazione di quegli storici delle lingue ‑ come Meillet, quando studia la storia della lingua greca, o Ferdinand Brunot, quando segue passo passo lo svolgimento della lingua francese ‑ che annotino l'apparizione, in un dato momento, di tutta una schiera di nuove parole o di nuovi significati dati a parole antiche. Occorre, per passare da un gioco di segni a un altro, la collaborazione di quegli esegeti dell'iconografia che, per mezzo di monumenti datati, ci restituiscono la storia dei sentimenti religiosi più complessi. Occorre...

Non continuiamo nella nostra enumerazione, perché in realtà tutto sta anche, in una parola, nella necessità di spiriti vivaci, inventivi, ingegnosi, capaci di ricercare le collaborazioni e di porsi davanti ad ogni lavoro intellettuale il problema del ricercatore: A che cosa può servirmi questo? E come utilizzare quel che non è fatto per me?

Dunque, al lavoro! Non è un problema teorico. Non si tratta di sapere se tutta la storia, politica, sociale, economica, intellettuale, dei gruppi umani debba coordinarsi in funzione di un'intemperante «psicologia, innanzi tutto», attorno a una storia dei pensieri, dei sentimenti e delle volontà prese nelle loro trasformazioni cronologiche. Era questa l'idea, non molto tempo fa, di Karl Lamprecht. Grandi tesi dottrinarie. Per ora, non discutiamole. Ma limitiamoci semplicemente a fare appello coi nostri voti all'urgente ricerca del positivo lavoro di cui abbiamo or ora fissato le condizioni. Si tratta d'integrare una psicologia storica affatto individuale ‑ da crearsi ‑ nella potente corrente di una storia in cammino, come ogni altra cosa, verso lo sconosciuto destino dell'Umanità.

La sensibilità e la storia (pp. 121-138)

Storia e sensibilità: ecco un argomento nuovo. Non conosco un libro che ne parli. Non vedo neppure qualche pubblicazione dove si trovino formulati i molteplici problemi che esso implica. Ed ecco dunque ‑ si perdoni a un povero studioso di storia questo grido da artista ‑ ed ecco dunque un bell'argomento! Tanta gente se ne va sconsolata di tanto in tanto: non c'è più niente da scoprire, a quel che pare, su questi mari troppo battuti. Si immergano nelle tenebre della psicologia alle prese con la storia, e riprenderanno gusto all'esplorazione.

Or non è molto leggevo il resoconto di una seduta accademica. Uno «storico» presentava alla dotta assemblea le conclusioni di una memoria che aveva appena terminato di comporre su uno dei casi disperati della storia aneddotica: quale peso si debba dare alle famose «lettere della cassetta» di Maria Stuarda e quale spiegazione convenga accettare per trattare «scientificamente» questo illustre fatto di cronaca: il matrimonio della regina di Scozia con l'assassino di suo marito. Il brav'uomo spiegava dunque che, stanchi ormai per la lunga disputa e in mancanza di meglio, si poteva ricorrere alla psicologia per delucidare il mistero. E parlava anche dell'«immaginazione intuitiva»: si può usare, dichiarava, come un modo di divinazione quando si tratti di un caso individuale; tuttavia, è assai deludente, perché, in fin dei conti, il Napoleone di Stendhal non è quello di Taine, che non è quello di ecc., ecc. Non sviluppo ulteriormente l'argomento, ma costui per parte sua lo sviluppava e aggiungeva: c'è, tuttavia, un campo completamente chiuso per la psicologia. Un campo dov'essa non ha nessuna possibilità d'azione. Quello della storia impersonale, della storia delle istituzioni e della storia delle idee: istituzioni, idee concernenti una data società per un certo periodo; in questo settore «l'immaginazione intuitiva» non può avere alcuna funzione. Se mai avessi avuto qualche dubbio sull'opportunità di un esame dei rapporti fra la sensibilità e la storia, la mia lettura l'avrebbe immediatamente dissipato. Vorrei provare a spiegare perché.

Ma, prima di tutto, due parole di definizione: «sensibilità» è una parola abbastanza antica. È attestata nella lingua almeno dagli inizi del secolo XIV. Il suo aggettivo, «sensibile», lo aveva preceduto di qualche tempo, come spesso avviene. Durante la sua esistenza, come anche avviene, «sensibilità» si è caricata di significati diversi. Ce n'è di più ristretti e di più ampi che, in una certa misura, possiamo localizzare nel tempo. Così nel Seicento la parola sembra designare soprattutto una certa suscettibilità dell'essere umano alle impressioni d'ordine morale: si parla molto di sensibilità per il vero, il bene, il piacere, ecc. Nel Settecento il termine indica un certo modo particolare d'avere sentimenti umani: sentimenti di pietà, di tristezza, ecc. Ed il lavoro dei sinonimisti consiste allora soprattutto nella contrapposizione di «sensibile» e «tenero»: per esempio Gabriel Girard, nel suo elegante trattato dei Synonimes français ‑ mi servo dell'edizione riveduta dal Beauzée, Paris 1780, t. IT, p. 38 ‑ scrive: «La sensibilità attiene maggiormente alla sensazione; la tenerezza, al sentimento. Quest'ultima ha un rapporto più diretto con i trasporti di un'anima che si slanci verso gli oggetti; è attiva. Quella ha un rapporto più spiccato con le impressioni che fanno sull'anima gli oggetti; è passiva... Il calore del sangue ci porta alla tenerezza; la delicatezza degli organi entra nella sensibilità. I giovani saranno quindi più teneri dei vecchi, i vecchi più sensibili dei giovani».

Ma esistono altri significati di questa parola. Significati semiscientifici e semifilosofici che la cultura ‑ come viene diffusa nei licei tende a far predominare a poco a poco. Già il Littré aveva cominciato col dire: «Sensibilità: proprietà di certe parti del sistema nervoso, per cui l'uomo e gli animali percepiscono le impressioni, sia causate dagli oggetti esteriori sia prodotti all'interno». Per parte nostra diremo ‑ senza impegnarci in uno sforzo di definizione personale affatto illusorio e senza ricorrere, d'altra parte, alla vecchia e superata psicologia delle facoltà dell'anima (erano tre, come tutti sanno: intelligenza, sensibilità e volontà) ‑, diremo che la sensibilità rappresenta per noi, e rappresenterà nel corso di questo studio, la vita affettiva e le sue manifestazioni.

A questo punto mi aspetto l'obiezione: «Dato questo punto, dove prenderete gli argomenti per la sensibilità e la storia? Scegliamo un esempio: alla base della vita affettiva, e quindi della sensibilità come voi la definite, ci sono le emozioni. Ora, che cosa di più strettamente individuale delle emozioni?» Esaminiamo l'obiezione. Ma, innanzi tutto, devo prevenire i miei lettori che per tutto quello che segue mi riferirò all'ottimo volume della Encyclopédie française dedicato a La vie mentale (t. VIII), in cui per la prima volta gli studiosi che sono all'avanguardia della ricerca psicologica nel nostro paese ci hanno dato con rara e fortunata audacia un quadro d'insieme dello sviluppo psichico dell'uomo osservato da un estremo all'altro della sua carriera, dal concepimento alla morte. E, in particolare, mi riferirò all'originale articolo sulle emozioni firmato dallo stesso dottor Wallon: poche letture possono meglio di questa illuminare la lanterna di uno storico in cerca di chiarezza.

Dunque, si obietterà, che cosa di più rigorosamente individuale, di più personale di un'emozione? Anzi, che cosa di più strettamente momentaneo? Non sono forse una brusca parata o una replica istantanea a certe sollecitazioni esterne? E non traducono modifiche dei nostri organi che per definizione sono incomunicabili? In realtà, la vita affettiva è ‑ per usare la formula di Charles Blondel nella sua Introduction à la psychologie collective, p. 92 ‑ quanto «di più necessariamente e di più inesorabilmente soggettivo» c'è in noi. Quindi, che cosa ha a che fare la storia con tutto quel personalismo, individualismo e soggettivismo psicologico? Le si chiede forse d'analizzare nelle sue cause organiche un certo accesso di paura, di collera, di gioia o d'angoscia di Pietro il Grande, di Luigi XIV o di Napoleone? E quando uno storico ci dirà: «Napoleone ebbe un accesso di rabbia», o «un momento di vivo piacere», il suo compito non sarà in quel punto finito? Gli si chiederà forse di scendere nel mistero fisiologico delle viscere del grand'uomo?

Tutto ciò è assai specioso. Prima di tutto, perché non bisogna confondere: un'emozione è senza dubbio qualcosa di diverso da una semplice reazione automatica dell'organismo alle sollecitazioni del mondo esterno. Come difesa e replica, non è provato che le reazioni da cui è accompagnata e caratterizzata siano sempre di natura tale da rendere più precisi, più diversi e più vivaci i gesti dell'uomo in preda all'emozione. Al contrario.

In realtà, come dice giustamente il Wallon, costituiscono una nuova formula d'attività, che non dobbiamo confondere con i semplici automatismi di replica. In primo luogo, attingono ad altre fonti della vita organica: ma questo è scarsamente importante per noi storici, che non siamo tenuti a ricercare queste fonti. E molto più importante notare che le emozioni, contrariamente a quel che si pensa quando le confondiamo con i semplici automatismi di reazione al mondo esterno, hanno un carattere particolare da cui non può fare astrazione in tal caso chi si occupi della vita sociale dei suoi simili.

Esse implicano rapporti fra uomo e uomo, relazioni collettive. Nascono senza dubbio nelle profondità organiche particolari di un dato individuo e spesso in occasione di un evento che colpisce solo questo individuo o almeno lo tocca con una gravità, con una violenza particolare. Ma si esprimono in modo tale, o meglio la loro espressione è il risultato di una tale serie di esperienze di vita in comune, di reazioni simili e simultanee all'urto di situazioni identiche e di contrasti della stessa natura, o meglio ancora è il frutto di una tale fusione, di una tale riduzione reciproca di diverse sensibilità che velocemente acquistano il potere di provocare fra tutti i presenti ‑ per una specie di contagio mimetico ‑ il complesso affettivo‑motore corrispondente all'avvenimento sopraggiunto e risentito da uno solo.

Così, a poco a poco, le emozioni associano diversi partecipanti che sono a loro volta iniziatori e seguaci, arrivando a costituire un sistema di incitamenti interindividuali che si diversifica a seconda delle situazioni e delle circostanze, diversificando insieme le reazioni e la sensibilità d'ognuno. Tanto più che una volta stabilitasi questa concordia, regolatasi la simultaneità delle reazioni emotive e rivelatesi di natura tale da conferire al gruppo una sicurezza maggiore o una maggiore potenza, si trova ben presto l'utilità di giustificare la costituzione di un vero e proprio sistema di emozioni. Esse diventano come un'istituzione. Sono regolate alla stregua di un rituale.

Quante cerimonie presso i popoli primitivi sono un insieme di simulacri che hanno l'evidente fine di suscitare in tutti, attraverso gli stessi atteggiamenti e gli stessi gesti, la stessa emozione, fondendo tutti gli individui in una specie di individualità superiore, preparandoli alla stessa azione!

Fermiamoci qui: tutto questo indubbiamente non è di natura tale da lasciare indifferenti gli storici. Certo, si tratta in questo caso di società che noi continuiamo a definire «primitive», pur continuando nello stesso tempo a dichiarare assurdo questo termine. Diciamo, se si preferisce, che si tratta di società ancora ai primi passi. Ma non sottilizziamo troppo. Queste società ricoprono uno spazio e un tempo maggiori nel passato dell'uomo che non nelle nostre forbite società odierne. Ma queste società hanno lasciato in noi molte loro debolezze. Perché nulla si perde, anche se tutto si trasforma. E, soprattutto, quel che abbiamo appena detto ci permette di afferrare un'altra cosa, assai più importante. Quello che abbiamo detto ci consente d'assistere semplicemente alla genesi dell'attività intellettuale.

L'attività intellettuale presuppone una vita sociale. I suoi strumenti indispensabili ‑ il linguaggio, prima di tutto ‑ implicano infatti l'esistenza di un ambiente umano in cui essi siano stati necessariamente elaborati, dato che il loro fine è quello di operare la messa in rapporto di tutti i partecipanti allo stesso ambiente. Dove trovare, dunque, il primo terreno conosciuto delle relazioni interindividuali di coscienza fra gli uomini, se non in ciò che abbiamo descritto e che possiamo definire la vita emozionale? Non è forse lecito pensare che l'organo specializzato del linguaggio, la parola articolata sia sorta e si sia sviluppata sulle basi dello stesso fondo d'attività organiche, di attività toniche come le emozioni, quando ancor oggi scorgiamo i turbamenti delle funzioni toniche avere per conseguenza immediata turbamenti d'elocuzione?

Ma molto presto sorge un antagonismo fra le emozioni e le rappresentazioni. Si rivela un'incompatibilità. Infatti da un lato si è rilevato subito che non appena si producono emozioni, esse turbano il funzionamento dell'attività intellettuale. E, d'altra parte, ci si è accorti altrettanto presto che il miglior modo di reprimere un'emozione era quello di rappresentarsene con precisione i motivi e l'oggetto, di procurarsene lo spettacolo, oppure, semplicemente, di immergersi in un calcolo o in una qualsiasi meditazione. Fare del proprio dolore un poema o un romanzo fu indubbiamente per molti artisti una forma di anestesia mentale.

Nello stesso modo si è potuto assistere nelle società in via d'evoluzione a questo lungo dramma: alla repressione più o meno lenta dell'attività emozionale per mezzo dell'attività intellettuale; se, in un primo tempo, le emozioni erano state le sole capaci di realizzare fra gli individui l'unità di atteggiamenti e di coscienza da cui poté svilupparsi il commercio intellettuale ed il suo primo strumento, in seguito sono entrate in conflitto con quei nuovi strumenti di relazione di cui proprio esse avevano reso possibile la creazione. E più si svilupparono le operazioni intellettuali negli ambienti sociali in cui tutti i rapporti umani si trovano sempre meglio regolati da istituzioni o tecniche, più si è andata rafforzando la tendenza a considerare le emozioni come una perturbazione dell'attività, come qualcosa di pericoloso, d'importuno, e di brutto; diciamo quanto meno di impudico. Il gentiluomo non si turba per nessuna ragione: se qualcosa lo turba è di non conservare sempre il proprio sangue freddo e di tradire la propria emozione. Vero è che le nostre società non sono costituite soltanto da gentiluomini...

Si dirà che un tale schema ‑ i cui elementi, ripeto, sono tratti dal bell'articolo di Henri Wallon nell'ottavo volume dell'Encyclopédie francaise - è per lo storico privo di valore? Tutto dipende da quel che si intende per storia. Credo tuttavia che ci sia qualche interesse. E che ci consenta non solo di capire un pò meglio l'atteggiamento degli uomini di un tempo, ma forse anche di definire un metodo di ricerca, come è nostro fine in questa sede.

Ecco un libro che non ha avuto in Francia ‑ siamo tentati di affermare ‑ la fortuna che meritava: si tratta di Herbst von Mittelalter, L'autunno del Medioevo di Huizinga, diventato prosaicamente nella traduzione francese Déclin du Moyen age (Payot, Paris 1932).

Un bel libro, ripeto. Ma forse la sua mancanza di successo è dovuta a qualche ragione profonda?

Apro il primo capitolo, intitolato: I toni crudi della vita. L'autore ci mostra in questa fine del Medioevo la potenza sovrana delle emozioni, la loro violenza esplosiva, capace di rovesciare talvolta i piani più razionali e meglio studiati. «L'uomo moderno non ha generalmente alcuna idea della sfrenata stravaganza e infiammabilità dell'animo medievale» scrive (p. 17, trad. it., Firenze 1944). E rileva nel senso di giustizia tanto forte a quel tempo la semplice trasposizione, nella maggioranza dei casi, di un bisogno di vendetta. Ci mostra come questo sentimento raggiunga la massima tensione fra questi due poli: la legge del taglione, cara al pagano, e l'orrore religioso del peccato, frutto del cristianesimo: ma il peccato, per questi violenti e questi impulsivi, era assai spesso un altro modo di definire le azioni dei loro nemici. Mette di fronte a noi, uomini del secolo XX e già ‑ o soprattutto, forse? del secolo XIX, di fronte a noi che cerchiamo di dosare le pene con lucidità e precauzione, a somministrarle con lentezza e moderazione, col contagocce, vorrei quasi dire, pone di fronte a noi quegli uomini del Medioevo, alla sua fine, che conoscono soltanto un'alternativa, categorica e brutale: la morte o la grazia. E la grazia spesso incomprensibile, brusca, improvvisa, totale, immeritata, se mai una grazia poteva essere immeritata... La vita, conclude Huizinga, «così cruda e così variopinta era la vita, che essa poteva spirare in un medesimo istante l'odore di sangue e di rose»... (p. 28).

Ebbene, tutto questo è detto molto giustamente, e anche in modo molto elegante, eppure lascia nel nostro spirito un certo malessere. È un buon lavoro? Voglio dire: il problema, Così impostato, può essere risolto? Si può davvero parlare a questo proposito di un periodo particolare e distinto della storia affettiva dell'umanità? Quelle brusche rivoluzioni, quei bruschi rivolgimenti dall'odio alla clemenza, dalla più furiosa crudeltà alla pietà più patetica, sarebbe dunque il segno di una sregolatezza propria di una certa epoca, il segno della fine del Medioevo, del declino del Medioevo, dell'autunno medievale, per contrapposizione, immagino, all'inizio del Medioevo, alla primavera medievale, oppure, al contrario, all'inizio dell'età moderna?

Ho qualche dubbio per quel che riguarda gli inizi del Medioevo. Una lettura di Gregorio di Tours chiarirebbe ben presto la questione... E ho qualche dubbio anche per gli inizi dell'età moderna. Perché, in fin dei conti, ricordo che già alcuni anni or sono, in un giro di conferenze a Ginevra, Losanna e Neuchâtel sulle origini della Riforma francese, sottoponevo ai miei ascoltatori questo tema da meditare: quando Giovanni Calvino insiste con forza, nella sua teologia, sul carattere di dono affatto gratuito e incondizionato che riveste la concessione della grazia agli eletti, quando attesta Così la propria invincibile ripugnanza ‑ proclamata più volte e in termini risoluti ‑ per la contabilità a partita doppia delle opere e dei peccati tenuta negli uffici della divinità da tutta una schiera di contabili incorruttibili e conclusa da un estratto conto finale, non esprime in modo del tutto spontaneo ‑ proprio lui che, d'altronde, paragona tanto spesso il suo Dio a un re ‑ non esprime un sentimento analogo a quello dei Francesi suoi contemporanei, che, vedendo passare il re per le loro campagne nel corso della sua interminabile marcia attraverso il reame, cominciata il giorno della sua incoronazione per terminare soltanto il giorno dei suoi funerali a Saint‑Denis, deponevano i loro strumenti di lavoro per correre a gambe levate a baciare chi la sua staffa, chi il panno del suo manto, chi almeno il fianco del suo cavallo? È la giustizia del re che passa in maestà, è il luogotenente di Dio in terra, che, come Dio stesso, può tutto al di sopra di ogni legge. Un gesto, e la testa cade. Un gesto, e l'uomo è salvo. Nessun punto intermedio, nessuna gradazione, nessun medio termine. La grazia o la morte...

Ma perché la grazia piuttosto della morte? Forse dopo un attento studio dei fatti e dei meriti insorge un dubbio? Mai più! Solo la nostra giustizia pesa e soppesa, esita e tentenna e dosa. Ma la giustizia del Cinquecento? Tutto o niente. E quando la giustizia ha detto: «Tutto oppure niente», interviene il re. Per sfumare, per dosare?

No. Il re dona liberamente non la sua giustizia, ma la sua pietà: che può cadere sopra un indegno. E anche la carità, questa grande virtù del mondo cristiano. Poco importa: il popolo non si pone tale problema, esattamente come il re. E’ altrettanto lieto del dono della grazia se il dono cade su un criminale, che se cade su un uomo degno di pietà. Come è altrettanto soddisfatto nel fare la carità a un farabutto che a un onest'uomo. Quel che conta non sono le circostanze attenuanti e il grado di contabilità; quello che conta è la Pietà in quanto tale. Il dono che è puro dono. La grazia che è pura grazia...

Ricordiamoci di quel racconto dell'epoca: il colpevole inginocchiato, gli occhi bendati, con la testa sul ceppo... Già il carnefice brandisce la sua terribile spada nuda... E improvvisamente si odono grida, un cavaliere a briglia sciolta irrompe nella piazza brandendo una pergamena: «Grazia, grazia!» La parola giusta. Perché il re concede la sua grazia; non tiene conto di un merito. Così il Dio di Giovanni Calvino. Così l'uomo dai bruschi rivolgimenti, dagli improvvisi mutamenti, l'uomo in bianco e nero che Huizinga ci assicura essere stato per eccellenza l'uomo alla fine del Medioevo, e che rischia parecchio d'essere l'uomo eterno...

Perché, in verità, Huizinga avrebbe senza dubbio chiarito tutto con una parola ‑ e il suo libro avrebbe notevolmente guadagnato in chiarezza ‑, se avesse innanzi tutto posto in rilievo questo fatto: che in ogni sentimento umano c'è ambivalenza. Diciamo chiaramente che ogni sentimento umano è se stesso e il suo contrario; che una specie di comunità fondamentale unisce sempre i poli opposti dei nostri stati affettivi; che le circostanze, il gioco delle nostre rappresentazioni, certi atteggiamenti personali possono ben spiegare in un dato caso e in un dato momento come uno di questi poli predomini abbastanza spesso sull'altro: l'odio sull'amore, il bisogno di pietà sull'istinto di crudeltà, ecc. Ma questi stati contrastanti restano solidali e l'uno non può manifestarsi senza che l'altro non si ridesti, più o meno, allo stadio latente. Di qui le oscillazioni, i bruschi mutamenti, che sconcertano la logica, le improvvise conversioni, ecc. Non più della vita affettiva degli uomini presa a sé stante, la vita dei gruppi umani nel corso di una certa età non può essere resa per mezzo di una semplice giustapposizione di tinte senza sfumature. È la risultante di opposte tendenze indotte naturalmente e di bramosie diversamente orientate dal loro appuntarsi su certi oggetti.

Quindi, se si è cominciato col porre in tali termini le cose, se si è cominciato dal generale, dall'umano per scendere al particolare e al circostanziale, non si è più tentati di rivestire «la vita del Medioevo» ‑ per riprendere l'espressione del Huizinga ‑ di una specie particolare di «asprezza», che le conferirebbe qualche particolarità, originalità e distinzione. La vita del Medioevo non ha in questo caso nulla a che fare. O meglio, il problema è fuori posto, male impostato.

Dato questo fatto universale, questo fatto «umano», l'ambivalenza dei sentimenti, è il caso di distinguere nella storia delle società umane epoche in cui il rovesciamento delle correnti si opererebbe con maggiore frequenza e anche maggiore violenza? E’ il caso di pensare
che in questa stessa storia in certe epoche tendenze di un certo tipo avrebbero il sopravvento, per frequenza e violenza, sulle tendenze di tipo opposto: più crudeltà che pietà, più odio che amore? E in modo anche più generale, è il caso di pensare che ci siano nella storia periodi dominati dalla vita intellettuale, che succedono a periodi di vita affettiva particolarmente sviluppata? E come, e perché? Ecco poste adesso le vere questioni. Quelle che non ha posto Huizinga, a rischio di provocare confusione in mancanza di questo ritorno alle origini, di questo risalire verso i problemi di genesi che a qualche nostro lettore possono sembrare fastidiosi e importuni. Credo che ora se li spieghino e li comprendano.

La verità è che pretendere di ricostituire la vita affettiva di una data età costituisce un'impresa estremamente seducente e, in pari tempo, terribilmente difficile. Ma che cosa possiamo fare? Lo storico non ha diritto di disertare.

Non ne ha il diritto perché, se non comincia questa impresa ‑ a parte il concluderla felicemente ‑ si rende complice di affermazioni del tipo di quella che citavo all'inizio. E’ possibile ‑ dicono ancora troppi storici ‑ è possibile «impiegare la psicologia» per interpretare i fatti forniti da documenti validi sul carattere, le azioni, la vita di un uomo di primo piano, di uno di quegli uomini «che fanno la storia». Ma che cosa dobbiamo intendere in questo caso per «psicologia»? Quella specie di saggezza piuttosto triviale, a base di vecchi proverbi, di reminiscenze letterarie appassite, di prudenze apprese o
ereditate che serve ai nostri contemporanei per guida nelle loro relazioni quotidiane coi loro simili?

Infarcita di alcune citazioni ben scelte, di qualche sentenza a effetto, rivestita di bello stile accademico, è quella che ha compiuto meraviglie negli innumerevoli capolavori della storia romanzata, da cui furono invase per dieci anni le vetrine delle nostre librerie: sembra però che il loro terribile fetore di muffa abbia messo in fuga i lettori. La psicologia: intendiamo Bouvard o Pécuchet, fatti esperti dalla loro assiduità con le modiste e le bottegaie del loro quartiere, che si basano su questa loro esperienza per accomodare in tal modo i sentimenti di Agnes Sorel per Carlo VII, o di Luigi XIV per la Montespan, che i loro parenti e amici esclamano leggendo: «Com'è vero!»...? Questa psicologia produce il Childerico di padre Velly, che divertiva tanto il nostro ottimo maestro Camille Jullian: Childerico, racconta Velly nella sua Histoire de France (1755) «fu un principe dalle numerose avventure. Era l'uomo più ben fatto del suo reame. Aveva ingegno, coraggio. Nato con un cuore tenero, si abbandonava troppo all'amore: esso fu la causa della sua perdita». Buffonate!

E invece, il settore da cui si vorrebbe escludere ogni immaginazione intuitiva, il settore della storia delle idee, il settore della storia delle istituzioni è un magnifico campo di ricerche, di ricostruzione e d'interpretazione per lo storico psicologo! II suo settore d'inchiesta per eccellenza. Perché, al contrario, il meccanismo delle istituzioni di un'età, le idee di un'epoca non possono essere comprese da uno storico e da lui venir fatte comprendere senza questa sollecitudine primordiale che, per parte mia, definisco psicologica: la cura di collegare, di reinserire in tutto l'insieme delle condizioni d'esistenza della loro epoca, il significato dato alle loro idee dagli uomini di quella data età. Perché queste condizioni dànno alle idee ‑ come a ogni altra cosa ‑ un colore particolare, ben preciso secondo il tempo e la società; perché queste condizioni dànno la loro impronta a queste idee, come a tutte le istituzioni e alloro meccanismo. E per lo storico, idee, istituzioni non sono mai dati eterni: sono manifestazioni storiche del genio umano in una data età, avvenute sotto la pressione di circostanze che non si riproducono mai.

Solo che bisogna non farsi illusioni: l'impresa è dura, rari gli strumenti e difficili da maneggiare. Quali sono i principali?

Prima di tutto, ecco i linguisti, o, più esattamente, i filosofi offrirci i loro vocabolari e i loro dizionari. Così insufficienti, per altro, così incompleti ancora e tanto poco precisi... Che cosa possiamo trarre dallo studio di un vocabolario? Se si tratta di sentimenti, molto poco. Qualche volta un tale studio permette d'isolare e di arrivare a comprendere certe condizioni d'esistenza fondamentali a proposito degli uomini che crearono quel dato vocabolario. Tanto per prendere un esempio classico, ci consente di rilevare l'aspetto contadino conservato da termini di una lingua come il latino, dove la «rivalità» è chiamata così dalla discussione tra vicini che pretendono le acque dello stesso canale d'irrigazione, rivus; l'eccellenza dell'uomo ‑ egregius ‑ è paragonata al valore di una bestia tratta fuori dal gregge ‑ exgrege ‑ per essere curata a parte; il debole ‑ imbecillis ‑ richiama l'idea di una pianta senza palo di sostegno, bacillus; e la nozione di gioia, laetitia, resta profondamente legata a quella di concime, lactamen. Solo che, non appena si tratta di un insieme di sentimenti e delle loro sfumature mutevoli, non si possono seguire, ancora una volta, se non evoluzioni individuali e frammentarie. Nessuno studio lessicale permette di ricostruire un'evoluzione d'insieme di tutto un sistema di sentimenti in una data società in una data epoca. Bisogna accontentarsi di ricerche monografiche che hanno, se si vuole, la funzione di una sezione geologica attraverso una grande quantità di terreno, di cui non si ha il tempo di ispezionare tutta la massa. E lo schema che se ne può tracciare può ben essere in condizione di generare centinaia di suggerimenti diversi: ha sempre il valore di un campione. Non può costituire un elemento statistico per lo studio di un insieme.

Seconda risorsa: l'iconografia artistica. Quella su cui l'acuta fatica di Emile Male ha fortemente attratto in Francia l'attenzione da un mezzo secolo e più. E, certo, la risorsa è importante.

E’ noto come, grazie all'iconografia, Emile Male abbia ricostruito quelle che potremmo chiamare mode successive e spesso contrastanti della sentimentalità religiosa. E’ noto come abbia saputo contrapporre all'arte classica divina, razionale e piena di serenità del secolo XIII gotico, l'arte patetica, umana, sentimentale e talvolta sensuale, l'arte espressiva e tormentata del secolo XV «fiammeggiante». E’ noto come abbia potuto datare con precisione l'apparizione nell'arte plastica di questa o quella sfumatura di espressione sentimentale che, avvicinata ad altre, permette di comporre i capitoli concatenati di una storia artistica del sentimento religioso in Francia dagli inizi del secolo XII al XVII. E bisogna ben guardarsi dal diminuire l'altissimo valore di questo tentativo, non solo per la storia dell'espressione artistica, ma per la storia in generale, di questo tentativo e dei lavori che ha suscitato. Anche se è opportuno mostrarsi prudenti.

Prima di tutto, perché bisogna tener conto dei prestiti, dell'imitazione delle arti vicine. E bisogna tenerne conto anche in modo ben superiore a quello che ha fatto Emile Mille: se è vero, per esempio, che qualcosa ha falsato fin dall'origine la prospettiva del suo secondo
volume, qualcosa che più tardi non ha saputo sistemare nuovamente che in modo imperfetto: intendo parlare della sua relativa incuria per l'arte italiana, il suo disconoscimento della potente azione esercitata dall'arte italiana del Trecento sull'arte francese nella genesi di quell'arte patetica, realistica, umana, di cui Male attribuisce unicamente la nascita agli influssi convergenti delle Meditationes vitae Christi del pseudo‑Bonaventura e del teatro dei Misteri.

Il prestito è il grosso problema. Perché non basta evidentemente dire: «Vedete: in quest'arte che noi cogliamo in Francia, tutta una parte viene dall'Italia o dalle Fiandre», per rendere impossibile ogni ulteriore ragionamento sull'evoluzione sentimentale dell'arte francese, dell'arte colta in Francia, in una certa epoca presa in considerazione. Se il prestito avviene, significa che se ne ha bisogno. Se i Francesi s'impadroniscono di temi sentimentali sviluppati dai vicini d'Italia o dei Paesi Bassi in un'epoca determinata, significa che questi temi sentimentali li toccano profondamente. E impadronendosene li fanno propri. Nello stesso modo che, prendendo globalmente in prestito da una lingua vicina tutto un vocabolario, ne fanno propri i diversi elementi. Si vedano quei volumi massicci, curiosi, pesanti e insieme sottili, informati e tendenziosi, che Louis Reynaud dedicò al problema delle relazioni culturali tra la Francia e la Germania del Medioevo. Aveva la pretesa di mostrare quest'ultima come un paese che assumeva in prestito in blocco dalla Francia tutto il vocabolario della cortesia: le parole e, con le parole, una volontà di creare ‑ e, soprattutto, di creare artificialmente ‑ la serie di stati d'animo o di cuore corrispondenti. La parola straniera, come il tema artistico straniero, viene adottato se corrisponde a un bisogno. Almeno al bisogno di coloro che l'adottano...

E qui incontriamo la seconda difficoltà. Emile Màle parla troppo del sentimento religioso delle masse ‑ quale viene da lui ricostruito nelle sue sfumature sentimentali grazie alla documentazione iconografica come di un tutto. «Tutto», se si vuole: ma ci sono sfumature che riappaiono non appena si esaminino le cose da vicino. Un esempio: se c'è un tema patetico di cui siamo in condizione di seguire in modo eccellente l'elaborazione e l'evoluzione attraverso i documenti figurativi della fine del Medioevo, è proprio il tema delle sofferenze di Maria, la Passione della Madre connessa alla Passione di Cristo, con tutto il suo seguito di devozioni del sangue e delle piaghe, esposte talvolta agli occhi dei fedeli per commuoverne il duplice istinto di pietà e di crudeltà, che sonnecchia in fondo a ciascuno, talvolta invece trasfigurate sui piano mistico in rappresentazioni come quelle della «Fontana della Vita» o del «Torchio mistico». E tutto si conclude, infine, nel gruppo di Maria ai piedi della croce: a volte prostrata, semisvenuta, tragica e pietosa, a volte in piedi nell'atteggiamento descritto nello Stabat Mater:

Stabat Mater dolorosa

juxta crucem lachrimosa

dum pendebat Filius.

Ora, già dagli inizi del Cinquecento, nel 1529, si legge ‑ nel libro di un dottore cattolico, Jean de Hangest, in polemica con gli avversari del culto di Maria ‑ una protesta contro le affermazioni di alcuni che, reagendo contro queste rappresentazioni della Vergine dolorosa, le accusavano di falso col seguente pretesto: «Non super Filii passione doluit, aut lachrymata est...»

Si tratta di una battuta? Ma questo testo mi ritornava in mente poco fa leggendo nella Histoire littéraire du sentiment religieux en France di Henri Bremond un passo dedicato alle appassionate controversie sollevate nel secolo XVII da questa critica dello Stabat Mater; e più ancora leggendo nel bel libro di Marcel Bataillon su Erasme et l'Espagne quello che egli scrive a proposito del successo che conobbe nella Spagna patetica della fine del Quattrocento il tema della Vergine prostrata e piangente ai piedi della croce, e delle proteste che provocò anche li questa introduzione nella pietà di un elemento in qualche modo di dolore veristico. Conflitto fra due metodi e due scuole; di due concezioni dei patetico nella religione interiore: è l'eterna opposizione tradotta in primo luogo nel sonetto di Campanella che si distoglie dall'immagine del Crocifisso per immergersi nella contemplazione gloriosa del Resuscitato:

che ragion vuoi ch' e' sia per tutto visto

sol pinto e predicato fra tormenti,

che lievi fur presso a' piacer seguenti...?

Ahi folle volgo, che, affissato a terra,

se' di veder l'alto trionfo indegno,

onde sol miri al dl dell'aspra guerra!

A che risponde eternamente l'orazione di santa Teresa, quel grido magnifico di donna appassionata: «Io ti amo più a causa della tua agonia e della tua morte che a causa della tua resurrezione. Perché penso che, resuscitato, risalendo negli spazi azzurri del cielo, avendo ai tuoi ordini il tuo universo, meno bisogno hai della tua serva...»

La conclusione è solo che in ogni modo occorre saper dosare, pesare, valutare. Non generalizzare in modo abusivo e senza precauzioni. Non figurarsi che in un certo momento la fede sia una. Più è viva ‑ direi ‑ più è personale, più anche è diversa e intransigente sulle sue modalità. Non prendiamo una data forma di religiosità, tipicamente francescana ‑ quella del Dio pietoso o della Madre prostrata ‑ non prendiamo un dato metodo d'evocazione del Dio della Passione e d'esaltazione sulle sue piaghe, come il metodo universalmente ammesso da tutti i credenti mistici di un'età avida di cristianesimo interiore.

Tali correzioni non diminuiscono affatto il valore di un'opera come quella di Emile Male, ma ci insegnano una prudenza che, personalmente, non ho sempre avuto.

Quale altra risorsa abbiamo? La letteratura. E non solo la registrazione che essa ci dà, la registrazione che le dobbiamo delle sfumature della sensibilità separanti fra loro le epoche e, più precisamente, le generazioni, ma lo studio del modo stesso con cui essa crea e poi diffonde una certa forma di sentimento fra le masse, la cui importanza sia poi possibile valutare esattamente. Perché il pubblico di un romanzo cavalleresco del Medioevo non è esattamente lo stesso ‑ né per qualità, né per natura ‑ di quello di un romanzo d'appendice del secolo XIX o di un film popolare del XX. Ma poiché si tratta in questo momento di sensibilità e di sfumature di sensibilità, come non rivolgersi direttamente ai due magnifici volumi su Le Préromantisme français di André Monglond, che apportano per la composizione dei capitoli di una «storia del sentimento letterario in Francia», la stessa squisita eleganza, la stessa delicatezza di sentire e di gusto applicate da un Henri Bremond nella composizione dei suoi successivi volumi sulla Histoire littéraire du sentiment religieux? Come non andar dritti soprattutto a quel bel secondo volume, integralmente dedicato al «maître des âmes sensibles», a Rousseau, a coloro che l'hanno preparato, che l'hanno aiutato, che l'hanno protetto?

Tutto ciò ha un valore inestimabile. A condizione, naturalmente ‑ ripeto ‑ di osservare le stesse precauzioni critiche nel maneggiare i testi letterari di quelle necessarie per lo studio è l'utilizzazione dei documenti dell'arte figurativa. A condizione che non si resti ciechi sull'estensione, come sulla reale profondità della diffusione di sentimenti che la storia della letteratura ci mostra nel loro succedersi con una sorta di logica implacabile, quando in realtà ‑ bisogna notano esse non fanno che ricoprirsi e scoprirsi a vicenda perpetuamente

Il Settecento è l'età trionfale della sensibilità sovrana? Ne sono certo. Ma se ritorno ai miei Synonimes francais di Girard (edizione del 1780) trovo: «La tendresse è un debole. La sensibilité una debolezza... La sensibilité ci obbliga a vegliare per il nostro interessamento degli altri... Il cuore sensibile non sarà cattivo, infatti non potrebbe ferire altri senza ferire se stesso. Il cuore tenero è buono, perché la tenerezza è sensibilità in azione. Voglio credere che il cuore sensibile non sia il nemico dell'umanità. Ma sento che il cuore tenero ne è l'amico».

Ed ecco in qualche riga ‑ ma tutto l'intero parallelo occupa quattro pagine ‑ una bella requisitoria datata del 1780 e che certo può passare per una traduzione valida del sentimento francese intendo dire del sentimento dei francesi colti e raffinati di questo tempo ‑, ecco una bella requisitoria del 1780 contro quella sensibilità lacrimosa e eccessiva che senza dubbio ha riempito tutta una parte del Settecento. Soltanto una parte, come si vede, e non senza suscitare qualche violenta reazione. Tanto più chiaroveggente, per altro, e più incapace di illusioni.

Ricapitoliamo: documenti morali, sono elementi forniti dagli archivi giudiziari e da quella che con un termine assai ampio possiamo chiamare la casuistica; documenti artistici, quelli forniti dall'arte plastica, ma anche dall'arte musicale se correttamente interrogata; documenti letterari, con le riserve che ho indicate. No, in fin dei conti, non siamo a mani vuote. E, se noi manteniamo sempre e soprattutto il contatto con le ricerche degli psicologi e coi risultati da loro procurati, se prendiamo come regola di non intraprendere mai ricerche di psicologia applicata alla storia, o di storia che cerchi di ricostruire l'evoluzione dei dati psicologici, senza prima iniziarci all'ultimo stadio della questione ‑ a che vale sfogliare i vecchi libri di cui ricordiamo i titoli solo perché ce n'è stato parlato venti, trenta, quarant'anni fa al liceo, quando spesso erano già allora superati? ‑ se fin dall'inizio ci appoggiamo solidamente agli ultimi risultati acquisiti dal lavoro critico e positivo dei nostri vicini, gli psicologi, allora potremo ‑ credo ‑ intraprendere una serie di lavori che ci mancano totalmente: e finché ci mancheranno non ci sarà possibilità di storia.

Si pensi che non abbiamo una storia dell'Amore. Non abbiamo una storia della Morte. Non abbiamo una storia della Pietà, né della Crudeltà. Non abbiamo una storia della Gioia. Grazie alle «Semaines de synthèse» di Henri Bert, abbiamo avuto un rapido schizzo di una storia della Paura. Questa sola basta a mostrarci quale grande interesse possano avere simili tipi di storia.

Quando dico: non abbiamo una storia dell'Amore e della Gioia, è chiaro che non invoco uno studio sull'Amore o sulla Gioia attraverso tutti i tempi e tutte le civiltà. Indico soltanto una direzione di ricerca. E non l'indico a isolati. A puri fisiologi. A puri moralisti. A puri psicologi, nel senso mondano e tradizionale del termine. No. Richiedo l'apertura di una vasta inchiesta collettiva sui sentimenti fondamentali degli uomini e le loro modalità. Quali sorprese sono da prevedersi! Parlavo della Morte: si apra il nono volume della Histoire littéraire du sentiment religieux en France di Henry Bremond, il suo studio sulla Vie chrétienne sons l'ancien régime (1932); lo si apra al capitolo intitolato L'art de mourir: nemmeno trecento anni, eppure quale abisso fra i costumi, i sentimenti degli uomini di quel tempo ed i nostri!

E ora, per un'ultima occhiata, rievochiamo di nuovo lo schizzo col quale ho aperto queste pagine, quello schizzo della funzione dell'attività emotiva nella storia dell'umanità, paragonata alla funzione dell'attività intellettuale, che tracciavo basandomi sui dati elaborati nell'ottavo volume dell 'Encyclopédie francaise. Ricordiamo quella specie di curva che ci mostrava nel suo complesso il sistema delle attività emotive contenuto e sempre più respinto dalla massa prolificante, dall'invadente sistema delle attività intellettuali: conquistatrici, dominatrici, respingono sempre più ai margini le emozioni, alla periferia, per così dire, in una funzione secondaria e meschina.

Molto bene. E, movendo di qui, possiamo ‑ se siamo uno di quegli intemperanti razionalisti, secondo l'antica moda, che tutti abbiamo conosciuto, e che forse possiamo ancora conoscere piuttosto facilmente, solo col discendere dentro di noi in certi momenti ‑ possiamo intonare un bell'inno trionfale al Progresso. Alla Ragione. Alla Logica. Ma volete che rileggiamo il testo che ricordavo poco fa?

«Così, a poco a poco, le emozioni associano diversi partecipanti che sono a loro volta iniziatori e seguaci, arrivando a costituire un sistema di incitamenti interindividuali, che si diversifica a seconda delle situazioni e delle circostanze, diversificando insieme le relazioni e la sensibilità d'ognuno. Tanto più che, una volta stabilitasi questa concordia, regolatasi la simultaneità delle reazioni emotive e rivelatesi di natura tale da conferire al gruppo una sicurezza maggiore o una maggiore potenza, si trova ben presto l'utilità di giustificare la costituzione di un vero e proprio sistema di emozioni. Esse diventano come un'istituzione. Sono regolate alla stregua di un rituale. Quante cerimonie presso i popoli primitivi sono un insieme di simulacri che hanno l'evidente fine di suscitare in tutti, attraverso gli stessi atteggiamenti e gli stessi gesti, la stessa emozione, fondendo tutti gli individui in una specie di individualità superiore, preparandoli alla stessa azione!»

Tutto ciò ‑ che si applica magnificamente alle grandi feste delle società indigene, per esempio a quel Pilù dei Canachi della Nuova Caledonia, di cui si può leggere la descrizione nel bellissimo libro di Maurice Leenhardt, Gens de la Grande Terre, un libro che onora la scienza francese e l'umanità ‑ tutto ciò può essere applicato, senza bisogno di mutare una sola virgola, a tanti spettacoli tragici che si svolgono sotto i nostri occhi, a tanti sforzi pazienti, ostinati, istintivi e insieme studiati, per impadronirsi di sorpresa di quella parte di vita emotiva che esiste in ciascuno di noi, pronta sempre a sottomettere la vita intellettuale e a operare un brusco rovesciamento di quell'evoluzione di cui eravamo tanto orgogliosi: dall'emozione al pensiero, dal linguaggio emotivo al linguaggio articolato...

Sensibilità nella storia: un argomento per dilettanti raffinati... Presto, presto, torniamo alla vera storia! Alle circostanze dell'incidente Pritchard. Al problema dei luoghi santi. O al censimento dei magazzini del sale nel 1563. Ecco la storia. Quella che si deve insegnare ai nostri figli a scuola e agli studenti all'università. Ma la storia dell'Odio, la storia della Paura, la storia della Crudeltà, la storia dell'Amore, lasciateci in pace ‑ per carità! ‑ con questa vana letteratura! Questa vana letteratura, estranea all'umanità, ma che domani avrà finito di fare dell'universo un carnaio puzzolente.

Sì. Coloro che inizialmente si sono forse domandati: «A che tende tutta questa psicologia riassunta?», potranno ora concludere, credo: «Tende alla storia». Alla storia più antica e alla più recente. A quella dei sentimenti primitivi in situ, come a quella dei sentimenti primitivi resuscitati. Come alla nostra storia di continui risorgimenti e resurrezioni sentimentali. Culto del sangue, del rosso sangue, di quello che c'è di più animale e di più primitivo. Culto delle potenze elementari, che traduce la stanchezza delle bestie sforzate che siamo noi, delle bestie schiacciate, consumate, squarciate dal rumore forsennato, dal dinamismo forsennato delle mille macchine che ci ossessionano. Resurrezione compensatrice di una specie di culto della Terra madre, sui cui seno è tanto dolce, la sera, stendere le proprie membra doloranti. Resurrezione, egualmente generale, di una specie
di culto del Sole nutritore e guaritore: nudismo e campings, immersione e abbandono nell'aria e nell'acque. Esaltazione di sentimenti primari, con una brusca rottura d'orientamento e di valenza; esaltazione della durezza a spese dell'amore, dell'animalità a spese della cultura ‑ ma di un'animalità affermata e provata come superiore alla cultura ‑; per la verità concludo: la sensibilità nella storia vale un'inchiesta, una larga inchiesta, profonda, collettiva? E la psicologia, è un sogno di malati pensare e sostenere che sia alla base stessa di tutto il lavoro valido dello storico?

Vivere la storia (pp. 139-154)

Amo la storia. Se non l'amassi, non sarei uno storico. Dividere la propria vita in due parti, una da dedicare al mestiere, svolto senza amore, l'altra riservata alla soddisfazione dei propri bisogni profondi, è abominevole quando il mestiere che si è scelto è un mestiere intellettuale. Amo la storia, e per questo sono lieto di potervi parlare oggi di quello che amo. Ne sono lieto, e ciò è naturale. Quando nel 1899 sono entrato, al pari di voi, in questa scuola, dopo il mio anno di servizio militare ‑ il primo dei sette anni che gli uomini della mia generazione hanno dato in media alla vita militare ‑ mi sono iscritto alla sezione di lettere. Era un tradimento: dalla mia infanzia avevo radicata nel mio essere la vocazione dello storico. Ma questa vocazione non aveva saputo reggere ai due anni di «retorica superiore» presso il liceo Louis‑leGrand, ai due anni di rimasticamento del Manuel de politique étrangère di Emile Bourgeois, che avrei ritrovato come professore in questa scuola.

Anatole France racconta in un suo libro che da piccolo sognava di scrivere una storia di Francia «con tutti i particolari». I nostri maestri, nei licei, parevano proporsi l'ideale puerile del piccolo Anatole. Si sarebbe detto che, per loro, fare storia significasse apprendere se non tutti i particolari, almeno il maggior numero di particolari possibile sulla missione di de Charnacé presso le Corti del Nord. E chi sapeva qualche particolare di più del vicino, aveva naturalmente la meglio su di lui: andava bene per la storia! Ho un po' di paura che le cose non siano troppo cambiate dai miei tempi. Con quello spirito normalista che conservò fino ai suoi ultimi istanti, un collega che abbiamo perduto poco fa al Collège de France, il grande matematico Henri Lebesgue, ci confidava un giorno che esistevano, per quel che sapeva, due specie di matematiche: una che faceva paura ‑ quella degli ispettori generali, che per parte sua confessava di non capire molto bene ‑, l'altra accessibile, quella che egli faceva progredire quotidianamente, e di cui non temeva nessuna difficoltà. Che esistano anche due specie di storie, la prima delle quali non riesca gradita egualmente a tutti? La domanda è temeraria. In ogni modo non di quella voglio parlarvi, ma dell'altra. Della storia, semplicemente. Quella che cerco di far progredire. Quella che amo.

Storia, semplicemente? ‑ domanderete voi. No, perché ci avete annunziato una serie di conversazioni sulla storia «economica e sociale». Ma proprio la prima cosa che desidero dirvi è che non esiste, per parlare propriamente, una storia economica e sociale. Non solo perché il collegamento dell'economico col sociale non è un privilegio ‑ una «esclusiva» come direbbe il direttore di un cinematografo ‑, in quanto non c'è maggior ragione di dire «economico e sociale», piuttosto che «politico e sociale», o «letterario e sociale», o «religioso e sociale», o anche o filosofico e sociale». Non sono ragioni ragionate ad averci dato l'abitudine di collegare l'un l'altro naturalmente e senza ormai phi riflettervi i due epiteti di «economico» e di «sociale». Sono ragioni storiche, molto facili da determinare: la formula di cui ci occupiamo non è, in ultima analisi, se non un residuo o un'eredità delle lunghe discussioni cui ha dato origine da un secolo quello che viene chiamato il problema del materialismo storico.

Non crediate, dunque, che, quando uso questa formula corrente, quando parlo di storia economica e sociale, abbia il minimo dubbio sul suo reale valore. Quando Marc Bloch ed io facemmo stampare queste due parole tradizionali sulla copertina delle nostre «Annales», sapevamo perfettamente che «sociale» soprattutto è uno di quegli aggettivi ai quali si sono fatte dire nel corso dei secoli tante cose che alla fine oggi non significa quasi più nulla. Ma proprio per questo l'abbiamo raccolto. Raccolto tanto bene che, per ragioni puramente contingenti, oggi si trova a dover comparire da solo sulla copertina delle stesse «Annales», diventate da «économiques et sociales» semplicemente «sociales», a causa di un nuovo infortunio. Un infortunio che abbiamo accettato sorridendo. Perché siamo d'accordo nel pensare che proprio un termine vago come «sociale» pareva creato apposta da un decreto speciale della provvidenza storica per servire da insegna a una rivista che aveva la pretesa di non circondarsi di mura, ma irradiare intorno largamente, liberamente, indiscretamente persino, su tutti i possessi dei vicini, uno spirito, il suo spirito: intendo dite uno spirito di libera critica e d'iniziativa in tutti i sensi.

Dunque, ritornando a quel che si diceva, non esiste una storia economica e sociale. Esiste solo la storia, nella sua unità. La storia che è per intero sociale, per definizione. La storia che io penso che sia io studio, scientificamente condotto, delle diverse attività e delle diverse creazioni degli uomini di altri tempi, colti nel loro tempo, entro l'ambito delle società estremamente varie e tuttavia comparabili fra loro (è il postulato del sociologo) con cui hanno ricoperto la superficie della terra e la successione dei tempi. La definizione è piuttosto lunga, ma io diffido delle definizioni troppo corte, troppo miracolosamente corte. E questa liquida mi pare, proprio grazie ai suoi termini, molti falsi problemi.

Per questo, prima di tutto, qualifico la storia come studio condotto scientificamente, e non come scienza, per la stessa ragione per cui tracciando il piano dell'Encyclopédie française, non volli darle come base ‑ come era richiesto dal rito ‑ una classificazione generale delle scienze; soprattutto per questo motivo: parlare di scienze significa innanzi tutto rievocare l'idea di una somma di risultati, di un tesoro, se si vuole, più o meno ben fornito di monete, le une preziose, le altre no; non significa mettere l'accento su quello che è la proprietà motrice dello studioso, cioé l'inquietudine, il rimettere in causa ‑ non perpetuo e maniaco, ma ragionato e metodico ‑ le verità tradizionali, il bisogno di riprendere, di rimaneggiare, di ripensare quando è necessario e non appena è necessario, i risultati acquisiti, per riadattarli alle concezioni e quindi alle condizioni nuove dell'esistenza che il tempo e gli uomini ‑ gli uomini nel tempo ‑ continuamente foggiano.

E, d'altra parte, dico «gli uomini»: gli uomini, solo oggetto di storia, di una storia che s'iscriva nel gruppo delle discipline umane di tutti gli ordini e di tutti i gradi, a fianco dell'antropologia, della psicologia, della linguistica, ecc.; di una storia che non s'interessi a non so che uomo astratto, eterno, immutabile nella sua sostanza e sempre identico a sé, ma agli uomini, afferrati sempre nell'ambito delle società di cui sono i membri, agli uomini membri di queste società in una fase ben determinata del loro sviluppo, agli uomini dotati di funzioni molteplici, di attività diverse, di varie preoccupazioni e attitudini, che si confondono tutte insieme, si urtano, si contrastano, e finiscono col concludere fra loro una pace di compromesso, un «modus vivendi» che si chiama «la Vita».

L'uomo, Così definito, può ben essere afferrato per comodità per questo o quel membro, per la gamba o il braccio, piuttosto che per la testa: è sempre l'uomo, tutto l'uomo a venir tratto fuori, quando si tira. Quest'uomo non si lascia tagliare a pezzi: altrimenti, lo si uccide. E lo storico non sa che farsene di pezzi di cadaveri, lo storico studia la vita passata, e Pirenne, il grande storico del nostro tempo, lo definiva un giorno: «un uomo che ama la vita e che sa osservarla». In una parola, quest'uomo è il luogo comune di tutte le attività che esercita; è possibile interessarsi particolarmente a una di queste, alle sue attività, alle sue attività economiche, per esempio. A una condizione: non dimenticare mai che esse lo mettono in causa sempre nella sua integrità ed entro l'ambito delle società da lui foggiate. Ed è precisamente questo il significato dell'epiteto «sociale», accodato ritualmente a «economico»: esso sta a ricordarci che l'oggetto dei nostri studi non è un frammento della realtà, uno degli aspetti isolati dell'attività umana, ma l'uomo stesso, colto in seno ai gruppi di cui è membro.

Mi scuso per quel che di astratto può esserci nelle mie osservazioni. E non perdo di vista, formulandole, né il mio vero piano, né il motivo profondo che mi fa essere qui in questo momento. Rileggevo ieri, pensando a voi, alcuni testi belli e curiosi. Hauser ha pubblicato nel 1914 alcune note di Michelet, piene come sempre di lampi, di lampi d'intuizione e di genio. Fra di esse, una lezione pronunziata proprio qui il 10 luglio 1834, davanti agli allievi del terzo anno che avrebbero lasciato la scuola per partire per la provincia. Michelet faceva coraggio a quei giovani che erano attesi dal duro lavoro di professori in un regio istituto, in una città priva di archivi organizzati, di biblioteche catalogate, senza comodità di viaggi, né possibilità d'evasione. Mostrava come, dovunque si trovi, uno storico che lo voglia, possa lavorare utilmente. Il problema oggi non è più lo stesso. Ma quello che Michelet tentava con la sua autorità e l'ardore della sua parola e l'aureola del suo genio è esattamente quello che io, per quanto mi sarà possibile, vorrei tentare di dire a voi.

Se io potessi raggiungere o consolidare qualche vocazione vacillante di storico, se potessi disarmare pregiudizi nati contro la storia da un contatto disgraziato con qualche cosa offerto sotto questo nome, troppo spesso ‑ con quel che vi è stato somministrato e si chiederà che somministriate ancora negli esami fino al dottorato, il solo che sfugga o almeno possa sfuggire a tale pericolo ‑ se potessi farvi sentire che è possibile vivere la propria vita da storici, avrei pagato un poco del debito che ho contratto verso la nostra scuola. Ma come farvelo sentire, farvi sentire che si può vivere come storici, se non esaminando davanti a voi, insieme con voi, qualcuno dei problemi vitali che la storia pone oggi a coloro che si portano all'avanguardia estrema della ricerca, per coloro che di vedetta sulla nave interrogano senza posa l'orizzonte dinanzi ai loro occhi?

Il fatto è che porre un problema significa esattamente cominciare e finire ogni storia. Senza problemi, niente storia. Solo narrazioni, compilazioni. Ora ‑ ricordate ‑ se non ho parlato di «scienza» della storia, ho parlato di «studio scientificamente condotto». Queste due parole non erano state pronunziate per parata. «Scientificamente condotto»: questa formula implica due operazioni, le stesse che si trovano alla base d'ogni lavoro scientifico moderno: porre problemi e formulare ipotesi. Due operazioni che agli uomini della mia età venivano già denunziate come le più pericolose di tutte. Perché, porre problemi o formulare ipotesi significava nient'altro che tradimento. Far penetrare nella cittadella dell'oggettività il cavallo di Troia del soggettivismo...

In quel tempo gli storici vivevano nel rispetto puerile e devoto per il «fatto». Avevano la convinzione ingenua e commovente che lo scienziato sia un uomo che, solo col mettere l'occhio al microscopio, può afferrare tutto un fascio di fatti. Fatti offertigli, fatti fabbricati per lui da una Provvidenza compiacente, fatti che deve soltanto registrare. Sarebbe bastato che uno di questi maestri di metodo appoggiasse, sia pure per un momento, il proprio occhio all'oculare di un microscopio ed osservasse una preparazione di istologia, per accorgersi immediatamente che non si trattava per l'istologo di osservare, ma di interpretare quello che bisogna pur definire un'astrazione. In cinque minuti avrebbe potuto misurare nell'atto dello scienziato di impossessarsi di ciò che prima ha preparato lungamente, difficilmente, sulla base di un'idea «preconcetta», tutta la parte personale svolta dall'uomo, dal ricercatore, che agisce solo perché si è posto un problema, perché ha formulato un'ipotesi.

Lo stesso accade allo storico. Allo storico cui nessuna Provvidenza fornisce fatti bruti, fatti dotati per potere straordinario di un'esistenza perfettamente definita, semplice, irriducibile. Anche i più umili fatti storici sono chiamati alla vita dallo storico. I fatti, questi fatti davanti ai quali tanto spesso siamo invitati in modo perentorio a inchinarci con devozione, sappiamo benissimo che sono soltanto astrazioni, e che per determinarli bisogna ricorrere alle testimonianze più diverse e talvolta più contraddittorie, che noi necessariamente scegliamo a nostro giudizio. Dimodoché questa collezione di fatti che ci viene presentata Così spesso come se fosse composta di fatti bruti, capaci automaticamente di comporre una storia trascritta nel momento stesso in cui gli avvenimenti si sarebbero prodotti, ha essa stessa una storia, che è quella del progresso della conoscenza e della coscienza degli storici. A tal punto che per accettare la lezione dei fatti, siamo in diritto di chiedere che ci si associ innanzi tutto al lavoro critico che ha preparato la concatenazione di quei fatti nello spirito di chi li invoca.

Allo stesso modo, se lo storico non si pone problemi, o se, essendoseli posti, non formula ipotesi per risolverli, ho ragione di dire, in fin dei conti, che, in fatto di mestiere, di tecnica, di sforzo scientifico, è piuttosto in ritardo persino sull'ultimo dei nostri contadini: perché essi ben sanno che non devono lanciare alla rinfusa le loro bestie nel primo campo che trovano, perché esse vi pascolino come Dio vuole; ma le installano, attaccate a un palo e le fanno brucare in un posto piuttosto che in un altro. E ne sanno il perché.

Che volete mai? Quando in uno di quei grossi tomi, la cui redazione sembra assorbire da tanti anni tutte le energie dei nostri migliori professori di storia, quando in qualcuno di quegli onorevoli manuali, coscienziosamente preparati, accuratamente redatti, infarciti difatti, cifre e date, di enumerazioni di quadri, di romanzi o di macchine, quando in uno di questi libri, forniti di titoli lusingatori elargiti dall'Institut de France, dalla Sorbona, dalle Università regionali, in maggior numero che non le placche multicolori inalberate da un nostro buon albergo turistico, arriviamo a scoprirvi per caso un'idea e l'idea è la seguente: «Il periodo che ci accingiamo a studiare [e si tratta di uno dei più vivaci della nostra storia!] continua quello che precede e preannunzia quello che segue; esso è degno di nota per quello che sopprime, ma anche per quello che instaura...»', ecc.; continueremo ancora a domandarci perché canzonino la storia, abbandonino la storia, sprezzino e ridicolizzino la storia tanti studiosi notevoli, delusi nel vedere tanti sforzi, tanto denaro, tanta carta stampata impiegati soltanto per diffondere questa filosofia? per perpetuare quella storia psittacistica e priva di vita, in cui nessuno sente ‑ prendo in prestito il linguaggio, e ci tengo a dirlo, di Paul Valéry ‑ «quel senso di sospensione davanti all'incerto in cui consiste la grande sensazione delle grandi vite: quella delle nazioni davanti la battaglia in cui è in gioco il loro destino; quella degli ambiziosi nell'ora in cui vedono che l'ora successiva sarà quella della corona o del patibolo; quella dell'artista che sta per scoprire il suo marmo o per dar l'ordine di toglier via le impalcature che nascondono ancora il suo edificio». Potete stupire allora delle violente campagne contro la storia, di quel disamore dei giovani, di quel regresso, quindi, e di quella vera crisi della storia che gli uomini della mia generazione han visto svilupparsi lentamente, progressivamente, risolutamente?

Pensate che, quando io entravo alla Scuola normale, la partita era vinta. Troppo vinta da parte della storia. Troppo, perché essa non appariva neppure più come una disciplina particolare e limitata. Troppo, perché assumeva l'aspetto di un metodo universale, capace di esser applicato indistintamente all'analisi di tutte le forme dell'attività umana. Troppo, perché ancor oggi vi sono spiriti retrogradi che definiscono la storia non mediante il suo contenuto, ma mediante questo metodo, che non è neppure il metodo storico, ma semplicemente il metodo critico. La storia conquistava a una a una tutte le discipline umane. La critica letteraria diventava con Gustave Lanson storia letteraria; la critica estetica, storia dell'arte con André Michel, il successore del tempestoso Courajod, quel Giove tonante della Scuola del Louvre, e la vecchia controversia si mutava in storia delle religioni. Soddisfatta dei propri progressi, orgogliosa delle proprie conquiste, vanitosa per i propri successi materiali, la storia si addormentava sulle sue certezze, si fermava nella sua marcia. Ridiceva, ripeteva, riprendeva, non ricreava più. E ogni anno che passava, dava alla sua voce sempre più il tono cavernoso di una voce d'oltretomba.

E intanto si andavano elaborando nuove discipline. La psicologia rinnovava insieme i propri metodi e i propri obiettivi sotto l'impulso datole da Ribot, da Janet, da Dumas; si costituiva la sociologia dietro l'appello di Durkheim, di Simiand e di Mauss, nella scienza e a un tempo nella scuola; la geografia umana instaurata da Vidal de la Biache nella Scuola normale, sviluppata nella Sorbona da Demangeon, nel Collège de France da Jean Brunhes, soddisfaceva un'esigenza realistica che non trovava nulla per la propria soddisfazione negli studi storici, sempre più orientati verso la storia diplomatica, la phi arbitraria, la più astratta da ogni realtà, e verso la storia politica, la più incurante di tutto ciò che non fosse se stessa nel senso più stretto della parola. Alle nuove discipline andava, sempre crescente, il favore dei giovani. Venne la guerra e la crisi scoppiò: fu da parte degli uni l'abbandono, da parte degli altri il sarcasmo. Ma la storia ha un posto troppo vasto nella vita del nostro spirito perché non ci si curi delle sue vicissitudini, e perché ci si limiti ad alzare le spalle parlando degli attacchi che possono essere ingiusti nella loro forma o maldestri ‑ che spesso son tali ‑ ma che rivelano tutti quello cui bisogna porre rimedio, e alla svelta: un disincantamento, una delusione totale, l'amara sensazione che fare storia, leggere storia sia ormai soltanto un perditempo.

II

Porre un rimedio; ma come?

Prendendo chiaramente coscienza dei vincoli che uniscono ‑ lo sappia o no, lo voglia o no ‑ la storia alle discipline che la circondano, e da cui la sua sorte mai la separa.

Michelet, nella sua lezione del 1834, diceva ai suoi allievi: «Nella storia le cose vanno come nel romanzo di Sterne: quel che si faceva nel salotto si faceva anche nella cucina. Proprio come due orologi simpatetici, l'uno dei quali, a duecento leghe, segni l'ora, mentre l'altro la suona». E aggiungeva ad esempio: «Non diversamente vanno le cose nel Medioevo. La filosofia di Abelardo suona l'ora della libertà, mentre i Comuni piccardi la segnano». Formule assai acute. Michelet ‑ osservo di sfuggita ‑ non stabiliva tra le diverse attività umane una gerarchia, una classificazione gerarchica, non nutriva nel suo animo la semplicistica metafisica massonica: prima assise, seconda assise, terza assise, o primo grado, secondo, terzo. Né stabiliva una genealogia: questo deriva da quello, questo genera quello. No, aveva l'idea di un clima comune: un' idea ben altrimenti fine e acuta. E, fra parentesi, è davvero curioso constatare oggi, in un mondo saturo di elettricità, quando l'elettricità potrebbe offrirci tante metafore appropriate ai nostri bisogni mentali, come ci ostiniamo ancora a discutere gravemente con metafore derivateci dal fondo dei secoli, pesanti, grevi, inadatte. Ci ostiniamo sempre a pensare le cose della storia mediante assisi, stadi, pietre, fondamenta e sovrastrutture, quando il veloce passaggio della corrente sul filo, le diverse interferenze, i corti circuiti sarebbero in grado di offrirci una quantità di immagini capaci di inserirsi con migliore malleabilità nell'ambito del nostro pensiero. Ma è sempre così.

Quando uno storico vuol fare teoria della storia, per ispirarsi al dizionario scientifico, rilegge ‑ se ha uno spirito curioso ‑ l'Introduction à la médecine expérimentale di Claude Bernard. Un gran libro, ma il cui interesse è ormai puramente storico. Un buon secolo di ritardo è sempre di regola! Il buon Plattard ha scritto tempo fa un articolo per meravigliarsi del fatto che il sistema di Copernico non abbia avuto una maggiore diffusione immediata nel suo tempo, provocando una brusca rivoluzione nello spirito umano. Ci sarebbe un bell'articolo da scrivere, oggi, sul fatto davvero sorprendente che, da trenta o quarant'anni, sotto la spinta della fisica moderna, tutti i vecchi sistemi scientifici su cui riposava la nostra quiete sono stati fatti a pezzi e rovesciati; e non solo i sistemi, ma le nozioni di base devono essere riconsiderate, rimesse a punto, a cominciare da quella del determinismo. Ebbene, fra cent'anni, penso, quando sarà sopraggiunta un'altra rivoluzione, quando le concezioni d'oggi saranno superate, gli uomini intelligenti, gli uomini colti che scriveranno la teoria delle scienze umane, e innanzi tutto della storia, si accorgeranno ‑ immagino ‑ che, tanto per citare solo Francesi, sono esistiti i Curie, i Langevin, i Perrin, i Broglie, i Joliot e altri ancora. Si impadroniranno allora di qualche briciola dei loro scritti teorici per rimettere a punto i loro trattati metodologici. Al punto di cent'anni prima.

Poco importa, d'altronde. Gli storici possono non accorgersene: la crisi della storia non è stata una malattia specifica, che abbia colpito soltanto la storia. È stata, è uno degli aspetti, l'aspetto propriamente storico di una grande crisi dello spirito umano. O meglio, non è se non uno dei sintomi e insieme una delle conseguenze di una nettissima trasformazione, affatto recente, dell'attitudine degli uomini di scienza, degli scienziati nei confronti della scienza.

Infatti, è vero che alla base di tutte le nuove concezioni degli scienziati ‑ o meglio, dei ricercatori, di coloro che creano, che fanno progredire la scienza e spesso si preoccupano più di agire che non di fare la teoria delle loro azioni ‑ è vero che all'origine di esse c'è il grande dramma della relatività, sopraggiunto a scuotere, a distruggere l'intero edificio delle scienze, come un uomo della mia generazione lo immaginava ai tempi della mia gioventù.

In quel tempo vivevamo, senza paura e senza grandi sforzi, su nozioni elaborate lentamente e progressivamente nel corso del tempo, sulla base di dati sensori, che potremmo definire antropomorfici. In primo luogo, si era costituito col nome di «fisica» un blocco di conoscenze frammentarie, considerate originariamente autonome e distinte, raggruppanti fatti comparabili in quanto offerti all'uomo da uno dei loro organi sensori. Dalla vista, ed ecco l'ottica. Dall'udito, ed ecco l'acustica. Dal senso tattile e muscolare, ed ecco il calore. La meccanica era già più complessa, in quanto scienza del movimento del corpo percepito contemporaneamente dalla vista e dal senso muscolare, che combinava in tal modo dati sensori di diversa origine; più complessa, ma anche più rapida nel suo sviluppo, forse a causa della maggior ricchezza d'informazioni immediate, di una maggiore curiosità nutrita nei suoi confronti da uomini interessati alla meccanica per ragione d'ordine tecnico e pratico: per la costruzione di macchine, di mulini, di segherie, per esempio, clic ponevano problemi sempre più complessi di idraulica; per la fabbricazione e il perfezionamento continuo di armi da fuoco, soprattutto di cannoni, la cui costruzione poneva problemi balistici sempre più ardui. Gli altri capitoli della fisica, quelli in cui meno immediata era l'esperienza umana, si sviluppavano più lentamente, e più lentamente ancora i nuovi settori dell'elettricità e del magnetismo, in cui tutto o quasi sfuggiva alla diretta captazione degli organi sensori.

Non è mio compito dire, e d'altronde non ne sarei in condizione e per di più non rientrerebbe nel mio assunto, come la meccanica si sia disposta a conquistare a poco a poco tutti questi diversi capitoli e a penetrarli. Prima di tutto, si annetté l'acustica, interpretando le sensazioni sonore mediante le vibrazioni. Poi, costituì una meccanica celeste, applicando agli astri le leggi umane del movimento, leggi del movimento formulate dalla mente dei nostri avi sulla base dei loro sforzi muscolari. Più tardi estese i suoi metodi e le sue leggi a tutto il campo del calore, a tutto il settore dei fluidi. Certo, l'ottica, il magnetismo, l'elettricità resistevano, ma già si credeva di poterne annunciare la conquista, già si celebrava in anticipo il trionfo universale e incontestato della fisica cartesiana, geometria del mondo; già immense speranze sorgevano, già si annunziava, si vedeva, si abbozzava, si prediceva ‑ sempre sullo stesso piano la riduzione trionfale dello psichico al fisico, e noi storici eravamo a nostro agio in quest'universo scientifico dove tutto ci sembrava segnato in cifre note, quando a un tratto scoppiò la Rivoluzione. Una rivoluzione in due tempi: innanzi tutto, la rivelazione imprevista che l'elettricità, il magnetismo e la stessa ottica resistevano all'annessione annunziata in anticipo e già celebrata. Poi ‑ derivata dall'opposizione formale che erigeva contro la meccanica, costruita da Newton sulla base delle osservazioni di Copernico, l'elettrodinamica fondata da Maxwell sulle esperienze di Ampere e Faraday ‑ si giunse alla prodigiosa sintesi che, rimescolando le primitive nozioni di tempo, lunghezza e massa, abbracciò integralmente la fisica e strinse in fasci di leggi i fattori che l'antica concezione aveva lasciato separati.

Intanto nel campo della vita si effettuava un'analoga rivoluzione, una rivoluzione provocata dalla microbiologia: la nozione di organismi composti da un numero immenso di cellule dell'ordine di grandezza di un millesimo di millimetro scaturiva a poco a poco dall'osservazione. E, mentre gli organismi viventi osservati a occhio nudo apparivano sempre più come sistemi fisico‑chimici, gli organismi rivelati dalla microbiologia erano organismi sui quali l'azione delle leggi meccaniche della pesantezza, ecc., sembrava trascurabile. Essi si sottraevano al dominio delle teorie esplicative sorte nel tempo in cui anche gli organismi, almeno quelli elementari, sembravano retti da leggi della meccanica classica. Gli organismi esaminati dalla microbiologia erano invece organismi privi di resistenza propria; in cui è maggiore il vuoto che il pieno, e che per la maggior parte non erano altro che spazi percorsi da campi di forza. Così, bruscamente, l'uomo cambiava di mondo. Davanti a lui stavano da una parte organismi come il suo corpo, visibili a occhio nudo, palpabili al tatto, organismi dai grandi meccanismi nei cui confronti ‑ pensiamo per esempio alla circolazione sanguigna ‑ le leggi della meccanica classica basata sulla geometria euclidea erano, e restavano, applicabili, Ma, in pari tempo, stavano davanti a lui miliardi e miliardi di cellule da cui era formato questo organismo. Di una grandezza o di una piccolezza tali da rendere impossibile la rappresentazione. E quel che accadeva al livello cellulare smentiva continuamente quel che accadeva al livello delle nostre percezioni sensorie. Gli organismi che noi riuscivamo ad afferrare in questo modo, improvvisamente, gli organismi che ci rivelavano le opere più recenti, superavano, per così dire, e urtavano il nostro «buon senso». E i vuoti che ne formavano il contesto ci abituavano anch'essi, nel campo della biologia, a quella nozione del discontinuo che, d'altra parte, si veniva introducendo nella fisica con la teoria dei quanta: decuplicando le distruzioni già provocate nelle nostre concezioni scientifiche dalla teoria della relatività, essa sembrava rimettere in discussione la nozione tradizionale, l'antica idea di causalità, e quindi, in pari tempo, la teoria del determinismo, quell'incontestato fondamento di ogni scienza positiva, quella colonna indistruttibile dell'antica storia classica.

Così rovinava in un solo istante tutta una concezione del mondo, tutta la costruzione elaborata da generazioni di scienziati nel corso dei secoli, di una rappresentazione del mondo astratta, inadeguata e sintetica. Le nostre conoscenze superavano bruscamente la nostra ragione. Il concreto faceva saltare i limiti dell'astratto. Il tentativo di una spiegazione del mondo da parte della meccanica newtoniana o razionale si concludeva in un fallimento brutale. Occorreva sostituire alle vecchie teorie teorie nuove. Occorreva rivedere tutte le nozioni scientifiche su cui fino allora eravamo vissuti.

Troppo lungo sarebbe indicare adesso in particolare in che cosa consistette questa revisione. Osserviamo solo che nulla è sfuggito ad essa. Né la concezione del fatto scientifico, né la concezione della legge scientifica, né quella del caso. Né, complessivamente, quella delle stesse scienze, della scienza. Le scienze, come le presentava un tempo Auguste Comte: gerarchizzate in una classificazione di cui bruscamente appariva un duplice vizio: quello di disconoscere l'unità profonda del lavoro scientifico e quello di trasformare abusivamente lo stato di fatto in stato di diritto, per esempio, elevando al sommo delle scienze una geometria e una meccanica orgogliose, che si compiacevano nell'immagine della loro perfezione e proponevano alle altre scienze le loro leggi, le loro leggi di verità, le loro leggi astratte e assolute, universali e necessarie, come tanti modelli e, per Così dire, come l'ideale.

Le scienze? Campi di spartizione, magma, e tutte le scoperte si compiono non nell'interno di ognuna di loro, nel loro cuore, ma agli orli, ai margini, alle frontiere, là dove si compenetrano. Le scienze. Ma la scienza, per parte sua, si avvicinava all'arte, e si poteva dire di essa quel che Berthelot nel 18 6o diceva della chimica organica fondata sulla sintesi, quando nell'ebrezza dei suoi primi trionfi affermava: «La chimica crea il proprio oggetto». E quando aggiungeva: «Questa facoltà creatrice, simile a quella dell'arte, la distingue essenzialmente dalle scienze naturali e storiche». Perché queste scienze precisava ‑ «hanno un oggetto dato e indipendente dalla volontà dall'azione dello scienziato, non dispongono del loro oggetto», mentre la nuova chimica ha «il potere di formare una quantità di esseri artificiali, simili agli esseri naturali e partecipanti a tutte 1e loro proprietà». La distinzione diventava caduca quando quel che appariva sempre più agli scienziati come il termine stesso dello sforzo scientifico non è la conoscenza, ma la comprensione. Distinzione caduca, dacché i nostri scienziati definiscono sempre più la scienza come una creazione, ce la rappresentano «in atto di costruire il proprio oggetto» e rilevano in essa, in ogni momento, l'intervento costante dello scienziato, della sua volontà e della sua attività.

Questo, oggi, è il clima della scienza. Un clima che non ha ormai più nulla in comune con quello della scienza di un tempo, della scienza di quando avevo vent'anni. Tale scienza e i postulati su cui poggiava sono completamente scossi, criticati, superati: gli scienziati vi hanno rinunziato da anni, li hanno sostituiti. E, quindi, io formulo questa semplice domanda: continueremo noi storici a riconoscerli, solo noi, come sempre validi? E, d'altra parte, che valore avrebbe questo riconoscimento, se è vero che tutto il materiale di nozioni scientifiche da noi usato l'abbiamo preso in prestito precisamente agli uomini che decine e decine di anni fa coltivavano le scienze nel senso napoleonico della parola, le scienze dei mondo fisico e naturale? Non è forse il caso di sostituire a quelle nozioni antiquate, nuove nozioni, più esatte, più prossime a noi? E almeno, non sarà il caso di rinunziare finalmente a basarci sulle «scienze» di cinquanta anni or sono per esporre e giustificare le nostre teorie, dato che le scienze di cinquant'anni fa più non sono se non un ricordo e un fantasma?

Ecco il problema. Risolverlo, significherebbe risolvere la crisi della storia. E se è vero che le scienze sono solidali fra loro, la soluzione è già nota. Inutile esporla in modo solenne.

Tale il grande dramma che si svolge davanti a noi. Uno dei grandi drammi. Perché ne esistono tanti altri, che si svolgono e si manifestano sotto i nostri occhi, senza che noi accordiamo ad essi un minuto d'attenzione. Se ne avessi avuto il tempo, vi avrei ben volentieri tratteggiato, per riferimento e paragone, quello che potremmo definire «la tragedia del progresso». Come mi sarebbe piaciuto mostrarvi i creatori, gli animatori delle forti società borghesi del secolo XIX mentre fondavano i principi della loro potenza sulla ragione, sostenendo questa potenza con l'aiuto di una filosofia decisamente razionalistica, e poi, verso la fine del secolo, quando si annunciano le prime grandi difficoltà nella spartizione del mondo, quando le masse si organizzano e reclamano sempre più imperiosamente un più elevato livello di vita, far voltafaccia, e gettare in acqua la ragione: nello stesso momento in cui affidavano la loro esistenza alle tecniche e quelle applicazioni della scienza che un tempo i loro padri celebravano sotto lo stesso nome di «progresso» ‑ quelle applicazioni della scienza che ormai non servivano più, ma li asservivano ‑ cessavano di credere proprio a quella scienza e a quel progresso di cui proclamavano il fallimento... Patetica contraddizione, che è tuttavia possibile risolvere, se è vero che proprio perché questi uomini hanno cessato di credere al valore umano della scienza, possono essere asserviti dalle loro tecniche. Quando nessun maggior fine sollecita più gli uomini ai limiti del loro orizzonte, allora i mezzi diventano per loro fine e da uomini liberi si trasformano in schiavi.

Grande lezione per noi storici. Storia, scienza dell'uomo: non dimentichiamolo mai. Scienza del perpetuo cambiamento delle società umane, del loro perpetuo e necessario adeguarsi a nuove condizioni d'esistenza materiale, politica, morale, religiosa, intellettuale. Scienza di quell'accordo che viene negoziato, di quell'armonia che si stabilisce perpetuamente e spontaneamente, in tutte le epoche, fra le diverse e sincrone condizioni d'esistenza umana: condizioni materiali, condizioni tecniche, condizioni spirituali. In tal modo la storia ritrova la vita. In tal modo cessa di essere una signora di schiavitù, di perseguire quel sogno mortale ‑ in tutti i sensi della parola ‑ di imporre ai vivi la legge che si pretende sia stata dettata dai morti di ieri. E, poiché ho la fortuna di saper presenti in questa sala giovani decisi a dedicare la loro esistenza alla ricerca storica, dico loro con sicurezza: «Per fare storia volgete risolutamente la schiena al passato e, innanzi tutto, vivete. Mescolatevi alla vita. Alla vita intellettuale, senza dubbio, in tutta la sua varietà. Storici, siate geografi. Siate anche giuristi. E sociologi. E psicologi. Non chiudete gli occhi dinanzi al grande movimento che trasforma davanti a voi a una velocità vertiginosa le scienze dell'universo fisico. Ma vivete anche una vita pratica. Non accontentatevi di osservare oziosamente dalla riva quel che avviene sul mare in tempesta. E sulla nave minacciata, non siate Panurge che s'insozza di maschia paura, né il buon Pantagruel che si limita a levar gli occhi al Cielo e a implorarlo, abbracciato all'albero maestro. Rimboccatevi le maniche, come fra Giovanni, e aiutate i marinai nella manovra. E tutto? No. E addirittura niente, se dovete continuare a separare la vostra azione dal vostro pensiero, la vostra vita di storici dalla vostra vita di uomini. Fra azione e pensiero non c'è separazione. Non ci sono barriere. Bisogna che la storia non vi appaia più come una necropoli addormentata, dove soltanto ombre passano, prive d'ogni sostanza. Bisogna che penetriate nel vecchio palazzo silenzioso in cui dorme, animati dalla lotta sostenuta, ricoperti della polvere del combattimento, del sangue coagulato del mostro che avete vinto, e spalancando le finestre, richiamando la luce e il rumore, risvegliate con la vostra vita giovane e bollente la gelida vita della principessa addormentata...»

L'unità del mondo, del mondo lacerato, rotto, sanguinante, che invoca grazia, non verrà ristabilita da interventi esterni. Ognuno deve rifarla in se stesso col magnifico accordo del proprio pensiero profondo e della propria azione disinteressata, facendo l'offerta totale che sola sarà capace di liberare le nostre coscienze dalla muta domanda che ricordavo iniziando, che sola ci consentirà di rispondere affermativamente, con nuova e piena sicurezza alla grande domanda: «Ne ho il diritto?»

Perdonatemi per la piega che ha preso questa conversazione. Lo dico soprattutto per gli storici. Ma, se fossero tentati di trovare che Così parlando non si parla da storici, li scongiuro di riflettere prima di formulare questo rimprovero. E’ mortale.

La storia è eguale a ogni altra disciplina. Ha bisogno di buoni operai e di buoni capomastri, capaci di eseguire correttamente il lavoro secondo piani altrui. Ha bisogno anche di alcuni buoni ingegneri. E costoro debbono vedere le cose da un poco più in alto che dal basamento. Devono poter tracciare piani, vasti piani, larghi piani, alla cui realizzazione possano poi lavorare utilmente i buoni operai e i buoni capomastri. E per tracciare ampi e vasti piani, occorrono spiriti grandi ed elevati. Bisogna avere una chiara visione delle cose. Bisogna lavorare d'accordo con tutto il movimento del proprio tempo. Bisogna avere orrore di quanto è meschino, angusto, povero, antiquato. In breve, bisogna saper pensare.

E proprio quello che manca agli storici ‑ riconosciamolo ‑ da mezzo secolo a questa parte. E quello che non deve più mancar loro. Altrimenti alla domanda: «Bisogna fare storia?» risponderò chiaramente: «No. Non gettate la vostra vita. Non ne avete il diritto». D'altra parte, che una chiara ed ampia visione dei rapporti che uniscono la storia alle altre scienze non impedisca ‑ al contrario! ‑ di afferrare i problemi concreti e di porli in modo pratico e positivo, è quello che cercherò di mostrarvi prossimamente E se gli storici prenderanno forse più gusto ed interesse a queste lezioni che non a questa prolusione, li pregherò di riflettere, semplicemente, che tutto è collegato insieme. E che una solida cultura generale è forse pia utile all'architetto di una buona pratica e maestria nell'opera muraria.

Ecco quel che volevo dirvi, oggi, alla buona. E che vi ringrazio di aver voluto ascoltare senza impazienza

Verso un'altra storia (pp. 168-187)

Per un quarto, se non di un terzo, incompleto, è uscito in questi giorni un libro, un piccolo libro. Ha un bel titolo, o meglio, due: Apologie pour l'bistoire, ou Métier d'historien . Ma è il secondo a meritare quell'epiteto; se non che l'autore, dopo averli scritti entrambi sulla copertina del suo manoscritto, non era più là nel momento di scegliere definitivamente il preferito: l'autore, Mare Bloch, fucilato senza processo dai Tedeschi il 16 luglio 1944, l'indomani dello sbarco in Provenza, quand'essi «vuotavano» le prigioni, compiendo stragi in massa di patrioti; Mare Bloch, uno degli spiriti più saldi del nostro tempo, giunto, grazie a un mirabile sforzo di studi (lingue antiche e moderne, tecniche particolari, letture straordinariamente estese, analisi penetranti di testi d'ogni provenienza, viaggi e ricerche all'estero) a quel punto in cui le grandi opere sembrano nascere da sole sotto la penna del maestro che le porta dentro di sé; Mare Bloch, forse la perdita più crudele fra tutte quelle subite dalla Francia fra il 1940 e il '44, la più irrimediabile.

Altrove ho raccontato come, ritornato in Francia dopo l'armistizio, attraverso il pericoloso itinerario Dunkerque‑Londra‑Rennes, lontano dai suoi appunti, nascosti a Parigi in un luogo sicuro, ed anche più lontano dai suoi libri, accuratamente imballati e spediti in Germania dalle forze d'occupazione, quest'uomo, che odiava l'ozio, prese in mano la penna per cominciare a gettare sulla carta alcune riflessioni sulla storia. E, innanzi tutto, sulla sua legittimità, sia per quel che riguarda gli stessi storici, sia per quel che riguarda la nostra civiltà, direttamente interessata al dibattito.

Essa è, infatti, nella sua essenza e nelle sue origini, una civiltà di storici. A differenza di tante altre, di cui qualcuna anche importante, come per esempio quella indiana'. E la religione che ne esprime tanti aspetti fondamentali, il cristianesimo, è davvero, anch'essa, una religione di storici. «Io credo in Gesù Cristo, che nacque da Maria Vergine, fu crocifisso sotto Ponzio Pilato e risuscitò dai morti il terzo giorno»: ecco una religione datata. E queste indicazioni non costituiscono per il fedele un semplice complemento. Non si è cristiani se non si accettano queste affermazioni, che la religione colloca alle soglie della fede, come tante verità situate nel tempo. Parimenti, non si è cristiani se non si pone se stessi, ed insieme le società, le civiltà, gli imperi, fra la caduta, punto di partenza, ed il giudizio, punto d'arrivo di tutto quel che vive su questa terra. Il che significa insieme inquadrare se stessi ed inquadrare l'universo nella durata; dunque, nella storia.

Ora, che negli ultimi decenni molti portatori della civiltà occidentale si siano bruscamente distaccati dal loro vecchio gusto per la storia; che abbiano sottolineato con forza la loro delusione di uomini che troppo avevano creduto in ciò che si erano compiaciuti di chiamare le sue «lezioni»; che lo stesso ritmo, così furiosamente accelerato, delle rivoluzioni tecniche, generatrici di vere e proprie trasformazioni psicologiche nelle nostre società, ogni quindici o vent'anni, corrispondenti a nuovi cambiamenti: ferrovie, poi automobili, poi aeroplani, ed ogni volta la pelle di zigrino si restringe per la scossa subita; vapore, poi forza elettrica, poi energia atomica in via di addomesticamento, e tutto il resto, per cui occorrerebbero pagine d'enumerazione, tutto quanto concerne il modo di vita, il comportamento individuale o collettivo, le reazioni sensoriali dell'uomo'; che questo stesso ritmo, questa prodigiosa accelerazione di rivolgimenti scavi sempre più il fossato che separa le generazioni e rompe le tradizioni, tutto questo non c'è bisogno di dimostrano con lunghi discorsi. Una conseguenza, fra le altre: grande sdegno per la storia. Sdegno di
uomini ebbri dei loro successi, privi del tempo di fondare su essi un edificio stabile, perché altri successi sopravverranno domani a rimetter tutto in discussione. Sdegno di uomini, che si proclamano orgogliosi figli delle loro opere, e non dei loro avi fuori (li moda. Che importa ai nostri costruttori di centrali elettriche di Alessandro Volta? come parlare di Icaro a un costruttore d'aeroplani! Vecchie ubbie. E questo pregiudizio si fa strada ogni giorno di più: com'è possibile perdere tempo nella ricerca storica, quando tanti compiti fecondi e capaci di «rendere» di più esigono oggi tutte le energie, tutte le intelligenze?

E’ necessario reagire contro questa tendenza? Certo, nella misura in cui rischia di scuotere dalle fondamenta una civiltà di storici. Bloch parti da questa grave preoccupazione. In tre parole il primo titolo del suo libro ce lo rivela in modo eccellente. Ma c'è anche il secondo. Ho detto che è bello; ma è anche pieno di promesse.

Avviene di rado che uno storico di razza come Marc Bloch tragga da sé, da vivo, e quando è nel pieno della sua forza creatrice ed è ossessionato dalle opere che porta in sé, avviene di rado che formuli le lezioni della propria esperienza per comunicarle ai suoi contemporanei. Non l'ha fatto Michelet, lui che era la storia stessa. Né Fustel de Coulanges. Né Jullian, ai giorni nostri. Neppure Pirenne. Hanno insegnato, e quindi trasmesso ad altri, un poco delle loro riflessioni. Ma c'è parecchia differenza fra i consigli distribuiti ad apprendisti, alla rinfusa, in modo discorsivo e frammentario; c'è parecchia differenza fra queste indicazioni di lavoro e quella specie di confidenza umana di un maestro, che spiega ai lettori (i quali non sono necessariamente «dalla sua parte o) quel che rappresenta per lui la sua attività, quali fini ad essa propone e con quale spirito la pratica: e tutto questo non da pedante che dogmatizzi, ma da uomo che cerca di comprendersi interamente. Quel che più si gusterà nel libro di Marc Bloch, più che la sua stessa arringa per la storia, sono le sue preziose confidenze. Le riflessioni del maestro artigiano sul suo delicato mestiere. Libere, ma ordinate, senza nulla di scolastico, però, né di ereditato.

E’ questo ‑ credo ‑ che può soprattutto, prima di tutto interessare, in questo libro, il filosofo, curioso di afferrare gli aspetti viventi delle discipline contemporanee. E in ogni caso, è questo che interessa noi storici, nei confronti della critica filosofica. E’ forse necessario dire che questa, in genere, non ci rende forse tutti i servigi che potremmo auspicare? Probabilmente perché i filosofi sono un po' le vittime degli storici, ossia dei pregiudizi che troppi di loro continuano a trascinare con sé: pregiudizi ereditati da un passato lontano, accettati senza discussione da praticanti poco inclini a maneggiare idee e pronti ad approvare le osservazioni di Péguy, senza accorgersi del loro fondo acidulo. «In via generale, ‑ cito a memoria e me ne scuso, ‑ non è bene che lo storico rifletta troppo sulla storia. Durante il tempo in cui se ne occupa, ferma il suo lavoro. Ed il filosofo (che fa di ciò il suo mestiere) incrocia le braccia. Il che dà come risultato due uomini che non lavorano...» Péguy dice questo assai meglio. E in realtà, i libretti intitolati Introduzione o Iniziazione agli studi storici riflettono troppo spesso ancora, nel 1940, lo stato della scienza intorno al i 88o; e l'immagine che offrono della storia non è fatta per conciliane le simpatie delle persone intelligenti e use a riflettere.

Ma non ci sono solamente loro. Tutti ci si sono messi. Vi furono certi metodologi impenitenti che intorno al 1880‑90 scoprirono che la storia, in fin dei conti, non era se non un metodo: il metodo storico. Il quale non era se non il metodo critico. E, quindi, non era affatto monopolio degli storici. Ne derivava che la storia svaniva, perdeva ogni contenuto e realtà. Il che, fra parentesi, dispensava gli storici dal porsi la temibile domanda: «Che cos'è la storia?»

Per parte loro, i sociologi, nell'entusiasmo delle loro prime conquiste, se la prendevano allegramente con una disciplina così mal difesa. I seguaci della scuola di Durkheim non dissolvevano la storia in fumo: se l'annettevano da padroni. Tutto quello che nel campo delle scienze storiche pareva loro suscettibile di analisi razionale apparteneva loro. Quel che restava, era la storia: un'impaginazione cronologica ‑ tutt'al più ‑degli avvenimenti superficiali, frutto, assai spesso, del caso. Diciamo: un racconto.

E facile allora comprendere l'atteggiamento degli uomini di mondo, e le loro canzonature: gli uomini di mondo, in nome dei quali parlava Paul Valéry, quando intentava, peraltro non senza buon senso, il processo a quel tipo di storia, in cui, sfortunatamente, siamo in un certo numero a rifiutare di riconoscere l'oggetto delle nostre cure; Valéry, che insegna a quegli sciocchi, i quali prima di lui non se n'erano accorti, che, per esempio, l'apparizione nelle case della luce elettrica è stato un avvenimento storico più importante che non quel certo congresso diplomatico dalle soluzioni effimere. Il che ci divertiva notevolmente, perché ci mostrava che il nostro censore faceva ben cattive letture di storia, non aveva mai letto ‑diciamolo pure ‑ un solo rigo degli articoli, dei discorsi, dei libri di Henri Pirenne, di Marc Bloch, di E.‑F. Gautier, dello Jullian delle Chroniques galloromaines, o delle prolusioni tenute al Collège de France dal Jules Sion delle Etudes méditerranéennes: i nostri classici, i nostri breviari; e parlo naturalmente soltanto dei morti. Fra i quali, in testa, quell'incarnazione della storia in cui noi continuiamo a trovare presentimenti mirabili e idee di ricerca di una forza singolare: noi, gli amici di Michelet, dal mio vecchio maestro, Gabriel Monod, sino al suo discepolo Henri Hauser, da Marc Bloch sino a Renaudet, da..., ma siamo in troppi. A non sapere che cos'è la storia, evidentemente. Di tanto in tanto, qualcuno che lo sa ‑ a parer suo ‑ ci infligge una reprimenda che subiamo con deferenza; ci insegnano che Michelet fu tutto quel che si vuole, tranne che uno storico. Diamone atto. Non parliamone più, fino al giorno in cui, reso noto al pubblico tutto quello che ‑ del suo diario intimo ‑ è riuscito a sfuggire alle forbici di Athénais Mialaret, Michelet ritornerà degno d'interesse. Gabriel Monod non ha scritto forse che nessuno ha mai parlato con tanta franchezza della propria vita intima come il suo maestro? Ecco qualcosa che, al momento opportuno, potrà attirare particolari simpatie. E la sollecitudine degli editori.

Ma lasciamo questo. Qualche tempo fa formulai alcune brevi osservazioni a proposito di «un modo di concepire la storia che non è il nostro». Del nostro modo particolare Marc Bloch dà un'esposizione sventuratamente interrotta: ma che «ripulisti»!

Non che il libro sia minimamente polemico. Al contrario: la sua serenità ci colpisce. Tutti gli scritti lasciatici da Marc Bloch nel periodo fra il 1940 e il ’43, vissuto da lui con tanta dignità, risoluzione eroica e nobiltà, hanno lo stesso carattere. A proposito del suo ammirevole testamento spirituale e delle sue ultime parole, mi avvenne di scrivere che richiamavano da soli la parola «santità». E proprio questa stessa parola sale alle labbra quando ci si ricorda quel che si è potuto sapere della passione e della morte di quel grande francese. La tranquillità con cui, arrischiando quotidianamente la sua vita, se ne prospettava il termine quasi fatale, nobilitava, purificava tutti i suoi moti intellettuali. Ne appariva mutato perfino lo stile: più sobrio, meno malizioso, più commovente nel suo contenuto, sovranamente distaccato dalle piccolezze e meschinità del viver quotidiano. Ma, per ridirlo in una parola, il «ripulisti» ne risulta anche più completo. E più decisivo.

Un metodo storico, questo libro? Niente affatto. Considerazioni pseudofilosofiche sulla storia? Neppure. La correzione di nozioni erronee o superate? Forse, se lo si vuole. Ma questo libro è, innanzi tutto, una rassegna critica dei modi sbagliati di pensare e di praticare la storia; in forma di libera conversazione da uomo a uomo. Il pignolo, il pedante qui non hanno nulla a che fare. Un esempio: Mare Bloch, all'inizio del suo libro, si propone di dare della storia «una lunga e rigida definizione»? Non ne mancano certo i precedenti. Quale storico non ha ceduto almeno una volta nel corso della sua esistenza al contagio? Marc Bloch se ne schiva. Non definisce la storia: ogni definizione è una prigione, e le scienze, come gli uomini, hanno innanzi tutto bisogno della libertà.

Definire la storia? Ma quale? Voglio dire, in qual epoca, in quale quadro della civiltà? Non varia forse la storia, perpetuamente, nella sua inquieta ricerca di tecniche nuove, di angoli visuali inediti, di problemi che vanno posti meglio? Definire, definire: ma le definizioni più esatte, più accuratamente meditate, più meticolosamente formulate, non rischiano forse di lasciare, in ogni momento, il meglio fuori del loro ambito? Che dire di questa gran mania delle definizioni ‑ buona ai tempo in cui ogni buon borghese viveva addossato al gran libro del debito pubblico, incastrato profondamente nel sistema di Laplace, la tasca ben fornita di solidi napoleoni ‑, che dire in questi tempi di rivolgimenti, d'incertezze, di distruzioni? Non ci ricordano un poco la nota battuta, divertente e profonda, su quegli allievi di una grande scuola scientifica che «sanno tutto, ma niente di phi»? Definire, definire: ma non si finisce col maltrattare? «Attenzione, amico mio, voi state uscendo dalla storia... Rileggete la mia definizione: è Così chiara! Se siete degli storici, non porrete il piede su quel terreno: è il campo del sociologo. Né su quell'altro: finireste dallo psicologo. A destra? Non pensateci neppure! Andreste in casa del geografo! E a sinistra, dall'etnologo...» Incubi. Sciocchezze. Mutilazioni. Abbasso i recinti e le etichette. Lo storico deve liberamente lavorare alla frontiera, sul confine, un piede di qua, uno di là. Lavorare utilmente.

Da un capo all'altro del libro si procede Così. Marc Bloch non attacca nessuno. Va dritto per la sua strada con passo sicuro. Espone le cose come sono al suo sguardo e sobriamente spiega perché in effetto esse sono tali al suo sguardo. «Storia, scienza del passato». Ma il passato sarebbe dunque, in quanto tale, un oggetto di scienza? E perché no, allora, una scienza del presente, se non del futuro? No: «Da un pezzo i nostri grandi predecessori ‑ Micheict, Fustel ‑ ci hanno insegnato a riconoscere che oggetto della storia è per natura l'uomo». Una pausa, e Bloch, correggendosi, cita questa frase di un amico: «Non l'uomo, non mai l'uomo, le società umane, i gruppi organizzati». Una frase, del resto, che non va considerata come tendente a escludere dalla storia lo studio dell'individuo: non si prendono mai abbastanza precauzioni con le formule, questi congegni mal regolati che non scattano sempre nel senso previsto. Ma ci sono i paesaggi e le macchine, le istituzioni e le credenze e gli scritti: dietro tutto quello che interessa la storia, che è materia di storia, quel che lo storico vuole afferrare sono gli uomini. «Il buono storico somiglia all'orco della leggenda: là dove finta carne umana, là sa che è la sua preda».

Eccoci su un terreno solido: rimane da aggiungere soltanto una parola: essenziale, però. La storia non pensa soltanto «l'umano». Il suo clima naturale è quello della durata. Scienza degli uomini, si, ma degli uomini nel tempo. Il tempo, ininterrotta continuità, ma anche perpetuo cambiamento. «Dall'antitesi di questi due attributi sorgono i grandi problemi della ricerca storica».

Non seguirò in questo modo il pensiero di Marc Bloch dall'inizio a quella che è oggi, purtroppo, la fine del suo libro. Ne ho parlato a sufficienza per mostrarne lo spirito e il metodo. Quanto al resto? Si tratti dei limiti dell'attuale, del modo di comprendere il presente per mezzo del passato e anche, e soprattutto, il passato per mezzo del presente; si parli dell'osservazione, dei suoi caratteri generali, della nozione di testimonianza e di quel che implica; della critica; della menzogna e dell'errore, e quindi della verità storica; dei problemi speciali dell'analisi e innanzi tutto del fine che essa persegue: giudicare o comprendere: su tutti questi problemi e su tanti altri che ad essi si ricollegano, si può trovare in quest'opera incompiuta il parere di un maestro, espresso con una semplicità, una modestia, un'umanità davvero rare.

«Voi approverete, mi lusingo spesso. Mi rimbrotterete qualche volta. E tutto ciò farà stringere fra noi un legame di più». Così terminano le preziose righe indirizzatemi a guisa di dedica sulla prima pagina del manoscritto. E, infatti, approvo senza riserve, purtroppo! E se Bloch fosse davanti a me, come tanto spesso avveniva, l'occhio curioso e divertito, non lo «rimbrotterei» di certo. Ma lo ringrazierei, semplicemente, per aver tradotto pensieri che ci furono a lungo comuni, a proposito dei quali egli scriveva che, in piena coscienza, non avrebbe saputo risolversi a dire «se fossero suoi, miei o di entrambi»... Tuttavia, vorrei aggiungere qualcosa a ciò che Bloch ha detto.

La storia si evolve rapidamente, come ogni scienza, oggi. Esitando spesso, con qualche passo falso, alcuni cercano di orientarsi sempre più verso il lavoro collettivo. Verrà il giorno in cui si parlerà di «laboratori di storia» come di realtà, e senza provocare sorrisi ironici. Il lavoro dell'economista non si concepisce più senza un insieme di strumenti sempre più perfezionati: e, quindi, senza la costituzione di gruppi ben addestrati e organizzati. E, dunque, senza inchieste ben concertate. Davanti a questo esempio, che li tocca da vicino, ci sono storici che cominciano a svegliarsi a una concezione nuova del loro lavoro. Ancora una generazione o due, e il vecchio signore assiso nella sua poltrona, dietro i suoi schedari strettamente riservati a suo uso e consumo personali, sorvegliati gelosamente contro le invidie dei rivali, quanto un portafogli in una cassaforte, questo vecchio signore di Anatole France e di tanti altri avrà terminato la sua esistenza un poco grottesca. Avrà lasciato il suo posto al capo di una équipe, agile e pronto, che, nutrito di solida cultura, preparato a cercare nella storia elementi di soluzione dei grandi problemi che la vita
quotidianamente pone alle società e alle civiltà, saprà tracciare le direttive per un'inchiesta, formulare esattamente i problemi, indicare esattamente le fonti d'informazione e, fatto questo, valutare la spesa, regolare la rotazione degli apparecchi, fissare il numero dei membri dell'équipe, lanciarli alla ricerca dell'incognito. Due, tre, quattro mesi: il raccolto è terminato, comincia la realizzazione del lavoro. Lettura di microfilm, schedatura, preparazione delle carte, delle statistiche, dei grafici, confronto dei documenti propriamente storici con i documenti linguistici, psicologici, etnici, archeologici, botanici..., ecc., capaci di facilitare la conoscenza. Sei mesi, un anno: l'inchiesta è pronta per essere offerta al pubblico. L'inchiesta che un lavoratore isolato avrebbe impiegato dieci anni a compiere, non Così ricca, vasta, valida. Anche, e soprattutto se fosse riuscito a concepire l'idea in tutta la sua ampiezza.

«La fine di tutto! Fine dell'arte, della personalità! Ancora e sempre una meccanica del sapere. Una di più!» Credete? Per conto mio, io penso che domani sarà necessario maggior sapere, più intelligenza, più immaginazione, più larghezza di spirito, in una parola, più energia per porre bene un problema tradizionalmente male impostato, o, soprattutto, per porre finalmente, per la prima volta, un problema che nessuno ancora aveva posto, e che ha enorme importanza per la nostra comprensione sia del presente per mezzo del passato, sia del passato per mezzo del presente. E chi impedirà, dunque, a colui che imposta i problemi, al direttore del lavoro, d'avere il suo talento di scrittore? E di usarlo per mettere alla portata di tutti il risultato dell'inchiesta?

Questo, Marc Bloch nel suo libro non lo ha detto. Ripeto: questo, che è secondo me capitale per l'avvenire della storia. Non che non fosse disposto a sottoscrivervi. Quando nel 1936, prendendo possesso della cattedra di storia della civiltà moderna al Collège de France, esposi nella mia prolusione ‑ Esame di coscienza di una storia e di uno storico ‑ quella che per allora non era se non una visione dell'avvenire, egli non sollevò certo nessuna obiezione. Ma le circostanze, quella specie di ripiegamento su se stesso ch'egli conobbe l'indomani della crisi dei 1940, il disorientamento, il bisogno di riprendersi, piuttosto che di estendersi, spiegano senza dubbio un silenzio che nulla toglie alla forza e all'efficacia delle sue meditazioni, quantunque esse ne appaiano datate. Ora, dopo il 1945, noi viviamo in un'età in cui ogni anno ne vale dieci. C'è chi si crede un precursore, e intanto il grosso della truppa lo ha già superato di parecchi chilometri...

Tutto questo è soltanto tecnica? SI, tecnica. Ma se ne parlate sdegnosamente, non sono d'accordo con voi. E, dato che ci siamo messi su questo terreno, mi sia lecito aggiungere qualcosa: meno importante, ma che ha tuttavia il suo valore. La storia si fa, senza dubbio, con documenti scritti. Quando ce n'è. Ma si può fare, si deve fare senza documenti scritti, se non ne esistono. Per mezzo di tutto quello che l'ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare per fabbricare il suo miele, in mancanza dei fiori normalmente usati. Quindi, con parole. Con segni. Con paesaggi e con mattoni. Con forme di campi e con erbe cattive. Con eclissi lunari e con collari da tiro. Con le ricerche su pietre, eseguite da geologi, e con analisi di spade metalliche, compiute da chimici. In una parola, con tutto quello che, essendo proprio dell'uomo, dipende dall'uomo, serve all'uomo, esprime l'uomo, significa la presenza, l'attività, i gusti e i modi d'essere dell'uomo. Non è forse vero che una parte, e quella più appassionante senza dubbio, del nostro lavoro di storici consiste nello sforzo costante di far parlare le cose mute, far dire loro quel che da sole non dicono sugli uomini e sulle società che le hanno prodotte, fino a costituire fra loro quella vasta trama di solidarietà e di ausili reciproci, capace di supplire all'assenza del documento scritto?

Non esistono statistiche, né demografiche, né d'altro tipo: dovremo, dunque, rassegnarci a questa mancanza? Essere storici significa non rassegnarsi mai. Vuol dire tentare tutto, provare tutto, pur di colmare i vuoti dell'informazione. Vuoi dire «ingegnarsi»: grande parola. Ingannarsi, o meglio gettarsi venti volte con entusiasmo per una strada ricca di promesse, per accorgersi poi ch'essa non conduce dove si voleva andare. Tanto peggio, si ricomincia da capo. Si riprende pazientemente l'intrico di fili spezzati, mescolati, sparpagliati. Rapporti a lunga distanza di antichissime civiltà? Testi? Non arriviamo a sperare tanto. Ma forme di imbarcazioni, ancor oggi associate a questo o a quello strumento, a questa o a quella pratica culturale, a un dato numero, a un dato vocabolo, a un dato rito? Talvolta datate, fortuitamente, trovate qua e là. Ecco quel che consente, con quella sorta di ebbrezza data dai procedere lungo quella stretta linea esistente fra verosimiglianza e fantasia, fra pura invenzione e costatazione, ecco quel che consente di preparare i materiali di una carta: diciamo dell'Oceano Indiano, questa grande matrice di civiltà, prima forse che il Mediterraneo conoscesse la sua prima sistemazione e il suo primo sviluppo... E più vicino a noi? Una società medievale. Nessun catasto, nessuna carta parcellare. E allora, incroceremo le braccia e diremo: non sappiamo? No. Ecco altri documenti: dei proprietari, dei registri terrieri, delle «denunce»: scuotiamone la polvere, leggiamo, riflettiamo, inventiamo, e finiremo col procurarci non solo una specie di bilancio parcellare di un dato territorio, ma anche altri dati. Una statistica familiare in un momento determinato. Una ripartizione delle colture, ecc.

Guardiamoci bene dal sottovalutare la tenace potenza del vecchio tabù: «Tu farai storia solo con i testi!» Mi viene fatto di immaginare uno storico dell'arte che legiferi: «La pittura? Si ha quando si stendono colori a olio su tele per mezzo di pennelli». Per cui, lo si lasci in pace con gli affreschi dell'Arena a Padova, con il ritratto di Giovanni il Buono al Louvre, e con tutti i primitivi e tutti gli esotici che non stesero colori a olio su telai ricoperti di tele. Lo si lasci in pace con i capolavori ritrovati nelle caverne dall'abate Breuil. Si tratta forse di pittura? Macché! Quella è archeologia! Non superiamo con un passo disinvolto il limite sacro: storia di qua, preistoria di là...

Certamente, non c'è bisogno di dimostrare che il mestiere del conoscitore di stazioni lacustri richiede conoscenze e, indubbiamente, attitudini che lo storico delle ferrovie del secolo XIX non userebbe. E viceversa. Ma è vero anche che il concetto di preistoria è uno dei phi ridicoli che si possano immaginare. Chi studi l'area di diffusione di un dato vasellame neolitico fa storia, esattamente come chi disegna una carta della distribuzione dei centri telefonici nell'Estremo Oriente nel 1948. L'uno e l'altro, con lo stesso spirito, per gli stessi fini, si dedicano allo studio delle manifestazioni del genio inventivo dell'umanità, differente per età, per rendimento, se si vuole, ma non certo per ingegnosità. Tutto questo, Mare Bloch lo sapeva bene quanto me. Risparmiato dal destino, potendo unire nel 1945 il suo sforzo allo sforzo di coloro che con me e intorno a me, in questa casa delle «Annales» clic noi fondammo concordi nel 1929, hanno ripreso il lavoro per spingerlo più avanti, non avrebbe forse sentito il bisogno ‑ mi domando ‑ di aggiungere a tutto quel che ha detto, e detto tanto esattamente, qualche precisazione complementare? Ma si tratta poi di complemento?

In realtà, il grande problema, il problema capitale che si pone a noi oggi (e ripeto che io parlo qui solo come esperto di storia, non come filosofo, dato che non sono affatto tale; ripeto che tutto l'interesse di queste pagine sta, secondo me, nell'informare correttamente i nostri amici filosofi sul modo in cui qualcuno di noi, nella Francia del 1949, concepisce il lavoro dello storico e, in modo generale, la funzione e l'avvenire della storia), il grande problema è quello dell'organizzazione.

Bisogna dire della storia? La parola è equivoca, e ciò costituirebbe una ragione di più per fare a meno dei suoi servigi, se fosse possibile coniare un termine migliore; ma quale'? Essa ha in ogni modo due significati. Significa a un tempo una scienza e il contenuto di questa scienza. Mi si dirà che in genere le cose stanno sempre così. Ma con minori conseguenze, forse, e minor insistenza. Ora, nei nostri libri o libretti metodologici si tratta per lo più della scienza in quanto meccanismo intellettuale. Del contenuto e della necessità di inventariare e poi di organizzare, nulla o quasi.

I nostri trattati di metodologia si limitano assai spesso a distinguere le operazioni della mente umana nel momento in cui si applica alla trattazione della materia storica. Logici da poco, i loro autori si ostinano a riscrivere perpetuamente una specie di logica superficiale e scolastica della storia. Così, quasi tutti concordano nel dirci: lo storico stabilisce innanzi tutto i fatti: atto I. Dopo di ciò, li mette in opera: atto II. Seguono due sviluppi: stabilire i fatti, significa...; mettere i fatti in opera, significa... Non dico male di questo. Solo che tutto ciò non mi insegna niente. E a tali analisi mancano parecchie cose: prima di tutto, quello che cerca, o deve, o dovrebbe cercare lo storico. «L'arte è un gran disegno, e non ce n'è affatto in un vaso»: Così, quando avevo quindici anni, Brunetière pretendeva di liquidare Bernard Palissy e le sue Rustiques figulines. Per conto mio, non voglio liquidare nessuno. Ma, semplicemente, mi infastidisce che la storia non abbia affatto un disegno, ch'essa sia rimasta ai ritrovamenti casuali di Magendie (il che ci riporta indietro, a prima di Claude Bernard): < Io mi aggiro là in mezzo, come un rigattiere, e ad ogni passo trovo qualcosa d'interessante da mettere nella mia gerla». Al che Dastre replicava: «Quando non si sa che cosa si cerca, non si sa che cosa si trova». E la storia è ancora ai tempi di Magendie...

Ancora. Questi libri, queste guide per principianti parlano di fatti per pagine e pagine. Stabilire fatti, mettere in opera i fatti stabiliti. Ma che cosa intendono per «fatti»? Come concepiscono il fatto storico? Ci si accorge ben presto che, per la maggior parte di loro, esso rimane un dato'. Un dato bruto. Ch'esso venga costruito in realtà da loro stessi, senza che se ne vogliano render conto, rifiutano di pensarlo. Conservano ancora, nel 1949, una specie di rispetto superstizioso per il fatto, una specie di feticismo del fatto, cosa davvero singolare e anacronistica. Lo scienziato «che pone l'occhio sulla lente del microscopio» e al cui sguardo i fatti balzano immediatamente, netti e ben ripuliti, vorrei dire, probanti a volontà, secondo la metafora cara ai nostri maestri d'altri tempi, già cinquant'anni fa mi divertiva, perché in fin dei conti io avevo «posto l'occhio sulla lente» e avevo osservato che i fatti rivelati dal microscopio del laboratorio di istologia, in cui mi recavo per fare visita ad alcuni amici, non si apprendevano Così facilmente, neppure quando si sapeva che cosa si cercava: questo non era il mio caso, bensì quello dei miei ospiti, che udivo discutere per ore su questa o quella interpretazione possibile; e i miei ospiti avevano trascorso parecchio tempo nel fare le loro «preparazioni», nel colorarle, il che escludeva il concetto del «dato di fatto». Ma questo «scienziato» della famosa metafora temo proprio che, se gode ancora di credito presso qualcuno, ciò avvenga presso gli storici. Oh, certo, tutti son pronti a protestare: «Noi non crediamo più che...» Ma ciò avviene proprio sotto l'imperio, e soltanto sotto l'imperio di quel complesso sentimento che la Chiesa chiama «rispetto umano». Perché, uditeli dire: «E’ un fatto!» e osservateli quando brandiscono fra due dita i loro fatti, come il gioielliere impostore che fa ammirare al cliente una pietra falsa: ne resterete edificati.

Inutile insistere qui su questo aspetto delle cose: ciò che lo storico si sgomenta di sentire affermare, è da tempo acquisito da parte del filosofo. Ma ritorno al mio dire. È impossibile modificare lo schema dei manuali, codificando il modo di procedere dello storico. E’ possibile correggerlo, complicarlo, trasporlo. Aggiungere alle operazioni che abbiamo descritte operazioni d'altro tipo. È possibile. Ma non basta. Non è quel che più importa, oggi. Aggirarsi alla cieca, non già nel dedalo del corpo umano, ma nell'ammasso formidabile di nozioni e difatti che compongono la storia, secondo l'altro significato di questa parola, rappresenta un tipo di esercizio, cui lo storico deve rinunziare. E’ urgente.

Dire in che modo, nei particolari, sarò dispensato dal farlo in questa sede, nei limiti di un articolo che è, innanzi tutto, d'informazione. Sarebbe necessario un libro, e .‑ penso ‑ un libro collettivo. Ma, in fin dei conti, già i segni precursori preannunziano l'aurora del nuovo giorno.

Ieri una tesi veramente notevole, sostenuta in Sorbona, una tesi su La Méditerranée et le monde méditerranéen à l'époque de Philippe II (due personaggi d'ineguale grandezza, e non è certo il secondo ad avere la precedenza sul primo, il che già costituisce una grande novità), ‑ ieri la tesi di Fernand Braudel ci portava un piano affatto nuovo e, in un certo senso, rivoluzionario. Risoluto a ricollocare i grandi disegni della politica spagnola, nel senso più lato della parola «politica», nel loro quadro storico e geografico naturale, Braudel ha studiato prima di tutto le forze permanenti che operano sulle volontà umane, che gravano su di esse senza che se ne rendano conto, che le piegano in questa o in quella direzione: tutta un'analisi, non ancora mai tentata, di quel che rappresenta come forza‑guida canalizzatrice, contrastante anche e frenante o, al contrario, esaltante, acceleratrice del gioco delle forze umane, quello che con una parola pronunziata negligentemente chiamiamo il Mediterraneo. Dopo di che, nella seconda parte, si fa appello alle forze particolari, animate però da una certa costanza, alle forze impersonali e collettive, ma, in questo caso, datate e per Così dire, cercate in quanto sono strettamente quelle che agiscono nel Cinquecento, nella seconda metà del Cinquecento, ossia nello spazio di tempo ricoperto dal regno di Filippo II di Spagna. Parte terza: gli avvenimenti. Il flutto tumultuoso, ribollente e confuso dei fatti. Spesso calamitati dalle forze permanenti che sono state studiate nel primo volume, influenzati e diretti dalle forze stabili enumerate nella seconda parte; ma su di loro scherza il caso, il caso ricama sul canovaccio delle concatenazioni le sue variazioni più brillanti e impreviste.

Uno schema audace, ma semplice: senza rumore, senza fracasso, senza dichiarazioni magniloquenti, né professioni di fede presuntuose, questo libro costituisce un manifesto. Un segno. E, non esito a dire, una data. Non si potrà accusare il suo autore di filosofeggiare, il che significa, in bocca a uno storico, non inganniamoci, il delitto capitale: il suo libro, il suo grosso libro, che soltanto la crisi editoriale e i prezzi tipografici proibitivi hanno impedito d'essere almeno il doppio per volume e sostanza di quello che è attualmente, il suo libro è una meraviglia dell'erudizione. Rappresenta quindici anni di lavoro ininterrotto, di ricerche perseguite in tutti gli archivi, in tutte le biblioteche storiche di qualche importanza nel mondo mediterraneo e nel mondo iberico. Tanto più probante e più esemplare, dunque. Ma non dico, né lo dirà Fernand Braudel: il problema è risolto. Il problema di organizzare in funzione della loro presumibile importanza il caos degli avvenimenti. Di mettere un poco d'ordine nella congerie confusa e indistinta delle nozioni e dei fatti, delle costanti, delle coerenze e delle contingenze che fanno richiamo alla storia con esigenza critica e discriminativa. Il problema non è risolto. Ma è finalmente posto per sempre sul terreno della realtà.

Il libro di Fernand Braudel è il libro di un solo uomo. Una tesi, cioè il capolavoro artigiano richiesto dalla corporazione universitaria a tutti coloro che intendono diventare maestri. Quantunque l'autore di questo capolavoro sia un sostenitore deciso del lavoro collettivo, ha ben dovuto piegarsi ai regolamenti che, ancora per lungo tempo, non riconosceranno alcuna virtù probante all'organizzazione, alla concezione, all'esecuzione di un lavoro del genere. Ma si rifletta: quanto la pratica di indagini collettive da parte degli storici non permetterebbe di facilitare quell'organizzazione della storia che ci preoccupa?

E’ la funzione feconda dell'ipotesi resa visibile a tutti per mezzo di risultati indiscutibili. Anzi, grazie al risparmio di tempo, di denaro, e anche di sforzi, rappresentato dal lavoro collettivo, è la funzione della storia stessa, che viene resa visibile, bruscamente, sensibilmente, a coloro che si ostinano a non vedere in essa se non un puro gioco di curiosità gratuita, un divertimento mnemonico, e, diciamolo pure, un divertimento senza conseguenze.

Oggi, anche in un paese dotato di una buona scuola storica, è già molto se appaiono, in media ogni anno, quattro o cinque lavori originali di storia, relativamente nuovi nel loro disegno, e i cui autori si siano proposti qualcosa di diverso che di dimostrare la conoscenza e il rispetto delle regole della loro professione. O anche, il desiderio di sollecitare la curiosità di un pubblico ghiotto di letture «storiche» che costino poca fatica. Ora, questi quattro o cinque lavori trattano argomenti assai lontani fra loro nel tempo e nello spazio. Dedicati ‑ tanto per immaginare ‑ uno a un culto antico, l'altro a un problema di tecnica medievale; questo allo studio di una rivoluzione monetaria nel Rinascimento, quello all'analisi della struttura sociale di un grande paese nel secolo xix, stuzzicano la curiosità. Fanno dire dei loro autori: «Come sono ingegnosi!» E delle loro conclusioni: «Come son nuove!» Divertono Così la curiosità di alcuni lettori intelligenti, che hanno la fortuna, piuttosto rara, d'essere ben consigliati da un amico storico dallo spirito novatore: «Leggete questo, mio caro amico, e anche quest'altro...»

Questo è tutto, ed è già molto, senz'altro. Ma in fin dei conti queste pubblicazioni in ordine sparso, poco numerose, poco note, quasi confidenziali, sono certo insufficienti per far sentire a tutti, vigorosamente, la presenza della storia ‑ come tutti avvertono, penso, la presenza della matematica, della chimica o della biologia nella vita quotidiana.

Provatevi invece a immaginare che nel corso di un anno o due si pubblichino i capitoli successivi di una decina o di una dozzina di inchieste ben condotte, su argomenti che tocchino direttamente l'uomo colto, su argomenti che evidentemente gli appaiano di grande importanza per la sua vita, per la condotta dei suoi affari, per le decisioni d'ordine politico o culturale che deve prendere: inchieste convergenti, concepite insieme, promosse simultaneamente in modo che un importante fenomeno di circolazione monetaria ‑ penso ‑ o di trasporti, o di popolamento, o di psicologia collettiva venga studiato, con lo stesso spirito, o in civiltà lontane nel tempo, o in civiltà separate nello spazio da grandi distanze: tutte le idee che il pubblico può avere a proposito della storia saranno mutate. E non udremo più voci candide o cordiali dire, con un divertimento un po' irritante: «Voi, che siete uno storico, dovreste sapermelo dire: qual è la data (Iella morte di papa Anacleto? o del sultano Mahmud?» Non ci si inganni: è questo il maggior problema, nonostante le apparenze. Non saranno le esortazioni provenienti dall'esterno; non saranno le lezioni di filosofi, gli avvertimenti di storici precursori, a provocare nello stesso mondo degli storici un mutamento di spirito e di atteggiamento, e a suscitare, quindi, quella profonda trasformazione della storia che in un paese come il nostro è resa tanto difficile dalle tradizioni universitarie. Sono necessari colpi ripetuti. Un pungolamento dell'uomo moderno da parte della storia: una storia efficace, che divenga presente alla coscienza di tutti. In un primo tempo si leveranno esclamazioni. Si canzonerà. Poi, si rifletterà. E allora si potrà entrare nel gioco, e vincerlo.

Si capirà, dunque, perché attribuissi tanta importanza, poco fa, all'idea del lavoro collettivo nella storia. L'uomo comune non comprenderà la funzione, l'importanza, la portata della storia se non riceverà, e nella misura in cui riceverà, non la lezione dei dottori, ma quella dei risultati.

Quale funzione, quale portata, quale importanza? Ultimo punto sul quale desidererei attirare l'attenzione ‑ di là dal libro di Marc Bloch ‑ per concludere. Invero, si può dire che non affrontiamo mai questi problemi. So bene che di qui è partito Marc Bloch: «Papà, spiegami a che cosa serve la storia?» E lo ha spiegato. Ma restando forse un po' troppo entro i limiti della tecnica storica. Rifiutando di penetrare in quell'inesplorata terra di nessuno in cui lo storico ritiene di non aver niente da fare, e dove il filosofo, o il sociologo pensano che tocchi soltanto allo storico arrischiarsi...

Si rievochi dinanzi al nostro sguardo il susseguirsi veramente infinito delle generazioni che hanno preceduto la nostra, da quando un essere suscettibile di rispondere alla definizione di «homo sapiens» è arrivato a costituire una delle nervature di quell'immenso ventaglio di forme viventi che la natura nella sua fecondità dispiega e allarga progressivamente: quel ventaglio, la cui immagine sostituisce sempre phi fra noi la vecchia immagine della retta continua, cara ai nostri padri, di un'evoluzione che, dagli animali all'uomo, si giudicava tendesse un unico e integro filo. Dietro ognuno di noi, quale portentoso susseguirsi di accoppiamenti, di stupri, di unioni brutali o normali: tale da dar le vertigini! E la memoria della specie per quanto tempo ne conserva la memoria? Ma, anche, quante esperienze! Quante partecipazioni a società fantasticamente diverse le une dalle altre! Quanti marchi impressi sui nostri avi immediati e su noi stessi da sistemi d'idee e di credenze, da «istituzioni», nel senso sociologico della parola, che con le loro brusche riapparizioni, il loro sorprendente riaffiorare, ci meravigliano a volte, e ci meraviglierebbero anche di più e più spesso, se ci applicassimo meglio all'osservazione di noi stessi da questo punto di vista. Ma un istinto ce ne distrae. Un istinto ci avverte di non lasciarci ipnotizzare, sedurre, assorbire da questo passato. Un istinto ci dice che dimenticare è una necessità per i gruppi, per le società che vogliono vivere. Poter vivere. Non lasciarsi schiacciare dal formidabile ammasso, dal cumulo inumano difatti ereditati. Dall'irresistibile pressione dei morti che schiaccerebbe i vivi, laminando sotto il suo peso il sottile strato del presente, fino a sottrargli ogni forza di resistenza...

Che cosa hanno fatto, da un punto di vista storiografico, le società umane per schivare il pericolo? Certe, quelle meno sviluppate, meno esigenti da un punto di vista mentale, hanno lasciato precipitare tutto nel vortice dell'oblio. Lasciamole alla loro miseria. Ma le altre? Hanno adottato due soluzioni. A proposito delle quali, beninteso, non sappiamo niente di preciso. Chi trova, dunque, modo di studiare queste miserie?

Le società tradizionali hanno sistemato, una volta per tutte, in forma ufficiale e pragmatica il loro passato. Hanno proiettato, dietro l'immagine che davano a se stesse della loro vita presente, dei suoi fini collettivi, delle virtù necessarie per attuarli, una specie di prefigurazione di questa realtà: semplificata, ma in qualche modo ingrandita e parata della maestà, dell'incomparabile autorità di una tradizione, cui la religione conferisce un carattere augusto e sacro. E’ necessario ricordare che nessuna ricerca sistematica sinora è stata condotta, tutta in una volta, su questo enorme problema della tradizione? E necessario ricordare che questo costituirebbe precisamente, o meglio che questo costituirà un giorno un bel tema di ricerca collettiva organizzata e concordata, quando la storia sarà divenuta capace d'abbracciare problemi tanto vasti? Allora saranno dissipati infiniti errori. E, prima di tutto, quello che pretende immutabile ciò che non fa che cambiare: perché, in fin dei conti, a che valgono quei grossi volumi intitolati «Storia del diritto consuetudinario» di questa o di quella provincia? Quel che rimane immutato non ha storia? Di tanto in tanto uno studioso accorto solleva un lembo del velo. Ci sono le pagine di Granet, tanto notevoli, che corrispondono perfettamente allo schizzo che ho dato or ora, sulla sistdnazione da parte dei Cinesi della loro tradizione storica. Ci sono le pagine, altrettanto notevoli, di Dumézil, che smontano il meccanismo della storia ufficiale di Roma. Ma tutto questo non ci dà lo studio sulla tradizione di cui avremmo bisogno.

C'è la tradizione. C'è la storia: che risponde in fin dei conti allo stesso bisogno, sia o no, questo bisogno, cosciente. La storia costituisce un mezzo di organizzare il passato per impedirgli di gravar troppo sulle spalle degli uomini. Ma indubbiamente la storia ‑ lo dicevo prima ‑ non si rassegna a ignorare, e quindi s'ingegna ad accrescere sempre phi la massa dei fatti «storici» di cui dispone la nostra civiltà per scrivere la storia. Eppure, in questo non c'è contraddizione. Perché la storia non presenta agli uomini una collezione di fatti isolati: organizza questi fatti. Li spiega, e, per spiegarli, ne fa delle serie alle quali non presta la medesima attenzione. Perché, lo voglia o no, essa raccoglie sistematicamente, classificando e raggruppando i fatti passati, in funzione dei suoi bisogni presenti. Solo in funzione della vita essa interroga la morte.

Si vorrà pensare a questo? Da anni ed anni dormivano in casse, in armadi, nelle torri di castelli trasformate in fondi d'archivio, documenti e documenti che consentivano di scrivere la storia economica dell'umanità. Lettera morta. Nessuno pensava a scuotere la polvere da quelle vecchie pergamene e da quelle vecchie carte. Soltanto quando le nostre società hanno cominciato a dare alle preoccupazioni d'ordine economico la stessa importanza che prima davano ad altre preoccupazioni, gli storici hanno cominciato a scuotere la polvere di su le filze, che nessuno aveva pensato fino allora capaci di offrire un qualsiasi interesse. Un nuovo orientamento della nostra società ha provocato una serie di lavori che sarebbero potuti nascere, senza ostacoli, un secolo, un secolo e mezzo prima. La contropartita?

E’ data dalla storia genealogica. Così in auge quando la struttura sociale esigeva in qualche modo, nei nostri paesi occidentali, che lo fosse, ha cessato praticamente di esistere dopo che la qualità di figli del proprio padre (quando ciò non comporti un'eredità di beni economici, che non ha nulla a che vedere con il beneficio di una «nascita», nel senso che la parola aveva sotto l'antico regime) ha cessato d'avere l'importanza di un tempo per coloro che erano «nati». Mi pare che questo esempio sia particolarmente probante.

Organizzare il passato in funzione del presente: tale si potrebbe definire la funzione sociale della storia. Ma nessuno ha studiato neppure questo aspetto della nostra attività. Si è fatta la teoria della storia. Non se n'è fatta la sociologia. Certamente, non sarebbe possibile improvvisarla. Ma questa rassegna di ciò che a un gruppo di storici francesi che lavorano verso la metà del secolo XX pare sia la storia, questa rassegna sarebbe, credo, gravemente incompleta, se non si tratteggiasse dietro il bell'ordinamento dei nostri schizzi metodologici questo aspetto piuttosto inquietante forse delle attività storiche osservate senza pregiudizi né compiacimento. Con tutte le conseguenze che ne derivano. In particolare, per quel che riguarda, una volta di più, questo problema dell'obiettività, che noi non vogliamo porre come teorici o come filosofi: ma si tratta della nostra pratica, che lo pone in modo nuovo. E forse imprevisto.

Si vorrà certamente scusare l'aspetto sommario di questa breve escursione attraverso quelle che si potrebbero definire le «zone‑pilota» della storia. Impossibile spingersi oltre. Non per mancanza di spazio o di tempo, ma perché non è lecito imporre dall'esterno direzioni profetiche a una disciplina che sta organizzandosi, o riorganizzandosi. Lasciamole fare le sue esperienze. Le sue scuole. Non cerchiamo di tracciarle preventivamente programmi didattici che forse l'imbarazzerebbero, la infastidirebbero nel suo cammino e sarebbero prontamente smentiti dai fatti. Pensiamo al vecchio impiegato della stazione di Saint‑Lazare: sapeva, con un'approssimazione di due o tre decine, quanti biglietti per Chatou doveva preparare la domenica. Ma noi non sappiamo se proprio noi saremo nel numero, nel grande numero costante di coloro che la prossima domenica si presenteranno allo sportello. Possiamo parlare della tendenza generale della storia verso altri fini, verso altre conquiste. Ma del particolare, dei suoi successi o insuccessi, sarà la vita a parlare.

Rio de Janeiro, 20 luglio 1949.