Philip Ariès e Georges Duby

La Vita Privata - DallíImpero Romano allíanno mille

Laterza, Bari 1986

1.

Come ho scritto nella recensione de La nuova storia, gli autori che fanno capo a questa corrente metodologica hanno rinnovato profondamente le prospettive del lavoro storico, scoprendo e esplorando campi fino allora insondati. Uno di questi è per l'appunto la vita privata.

In passato non erano certo mancati tentativi da parte di storici tradizionali d'illuminare questo'aspetto, così apparentemente secondario rispetto alla storia politica e pubblica. Libri sui costumi, le abitudini, l'abbigliamento, la dieta, le abitazioni, i rapporti familiari dei greci, dei romani, degli etruschi sono sempre esistiti. Densi di notizie, essi però avevano un taglio aneddotico atto a soddisfare la curiosità dei lettori.

L'impresa avviata dagli storici francesi, consegnata a cinque volumi, di cui quello in questione è il primo, è molto più ambiziosa. Nella Prefazione, G. Duby la illustra in maniera esauriente:

"In tutti i tempi e dappertutto nel vocabolario si è espresso il contrasto, chiaramente avvertito dal senso comune, che oppone il privato al pubblico, aperto al popolo come comunità e sottoposto all'autorità dei suoi magistrati. Un'area particolare, nettamente delimitata, è assegnata a questa parte dell'esistenza che in tutte le lingue è detta privata; una zona d'immunità, offerta al raccoglimento, al riposo, dove ognuno può abbandonare le armi e le difese d cui conviene munirsi quando si avventura nello spazio pubblico; una zona in cui ci si distende, ci si mette a proprio agio, per così dire "in pantofole", liberi dalla corazza di ostentazione che ci assicura protezione all'esterno. Questo luogo è familiare. E' domestico. E' anche segreto. Nel privato è racchiuso ciò che si possiede di più prezioso, che appartiene solo a noi; ciò che non riguarda gli altri; che è vietato divulgare e mettere in mostra perché troppo diverso da quelle apparenze che l'onore esige si salvino in pubblico.

Naturalmente inserita dentro la dimora, chiusa sotto chiave e cintata, la vita familiare si presenta dunque come fosse murata. Tuttavia, da una parte e dall'altra di questo "muro" di cui le borghesie del diciannovesimo secolo intesero difendere con tutte le loro forze l'integrità, costantemente s'impegnano delle battaglie. Verso l'esterno, il potere privato deve sostenere gli assalti del potere pubblico. Dall'altro della barriera, deve contenere le aspirazioni degli individui all'indipendenza, poiché il recinto accoglie un gruppo, una formazione sociale complessa dove le inuguaglianze, le contraddizioni, sembrano addirittura al colmo, con un urto più sensibile rispetto all'esterno del potere degli uomini con quello delle donne, di quello dei vecchi con quello dei giovani, e del potere dei padroni con lo spirito ribelle dei servi.

Dal medioevo in poi, tutto il movimento della nostra cultura ha portato questo doppio conflitto ad acutizzarsi sempre di più. Il consolidarsi dello Stato ha reso le sue intrusioni più aggressive e penetranti, mentre l'aprirsi delle iniziative economiche, il venir meno dei rituali collettivi, l'interiorizzazione degli atteggiamenti religiosi tendevano a promuovere, a liberare la persona, aiutavano a rafforzare, al di fuori della famiglia e della casa, altri gruppi di convivenza, portando così ad una diversificazione dello spazio privato. Questo, un po' alla volta, e in un primo tempo nelle città e nelle borgate, venne a dividersi per gli uomini in tre parti: la dimora, dove restava confinata l'esistenza femminile; delle aree di attività anch'esse privatizzate: il laboratorio, la bottega, l'ufficio, l'officina; e, infine, degli ambienti favorevoli alla complicità e agli svaghi maschili come il caffè o il club.

L'ambizione di questi cinque volumi è precisamente di render percettibili questi mutamenti, lenti o precipitosi, che nel corso del tempo hanno caratterizzato la nozione e gli aspetti della vita privata…

Fattosi più avvertito in questa mobilità che associa in permanenza la continuità con la novità, il lettore si sentirà meno disorientato davanti all'evoluzione che si sotto i suoi occhi e il cui ritmo, rendendosi più celere, poco o molto lo turba. Non vede forse intristire, tra la casa e il luogo di lavoro, gli spazi intermedi della socievolezza privata? Non assiste alla rapida e sconvolgente scomparsa della distinzione tra maschile e femminile, che la storia ci mostra fortemente ancorata alla distinzione tra esterno e interno, tra il pubblico e il privato? Non si rende conto che oggi urge ingegnarsi per salvaguardare l'essenza stessa della persona, poiché il folgorante progresso delle tecniche sviluppa, mandando in rovina le ultime difese della vita privata, quelle forme di controllo statale che, se non ci si badasse, ridurrebbero ben presto l'individuo a non essere più altro che un numero in seno a un'immensa e terrificante banca di dati?" (pp V - VII)

Duby, da storico marxista, sottolinea la dialettica conflittuale tra privato e pubblico e, all'interno del privato, tra le generazioni, l'uomo e la donna, i genitori e i figli. Si tratta di certo di un aspetto centrale dei cinque volumi. Ma ce n'è almeno un altro, ancora più difficile da ricostruire: quello "ideologico", vale a dire il modo in cui i soggetti privati sentivano, pensavano e agivano, vale a dire l'atteggiamento verso il corpo e la sessualità, la salute, la malattia, la morte, la pratica degli affetti e dei sentimenti (comprese le ambivalenze), le credenze, le opinioni, le superstizioni, il rapporto con la religione e con l'aldilà, ecc.

Associato all'altro, quest'aspetto dà all'opera il carattere di uno studio di antropologia comparata, sia pure nel tempo e all'interno di una stessa civiltà.

2.

L'interesse di questo tipo di approccio si può ricavare enucleando dal volume che, essendo composto, come gli altri quattro, di saggi affidati a vari autori, è inevitabilmente eterogeneo, alcune tematiche centrali, le cui conseguenze, in una certa misura, sono vive ancora nel nostro mondo.

Nel primo capitolo, dedicata all'Impero romano (Dal ventre materno al testamento), l'aspetto più interessante riguarda il rapporto tra la generazione dei padri e quella dei figli.

La parabola evolutiva privata di un cittadino romano dalla nascita alla morte è dominata dal potere del padre sul figlio. Tale potere è comprovato da vari fatti. Il primo è il diritto assegnato al padre di riconoscere come figlio il neonato partorito dalla moglie prendendolo tra le braccia e alzandolo al cielo. Quest'atto rituale equivaleva alla nostra iscrizione all'anagrafe. In caso contrario, il neonato era destinato ad essere esposto, vale a dire gettato in strada, con la conseguenza di essere appropriato da qualcuno come schiavo o, più spesso, di morire di fame o divorato dai cani. Questa pratica infanticida, piuttosto diffusa, e sorprendente, in quanto non riscontrabile per esempio presso popolazioni coeve e "barbare" come i Germani, riconosceva molteplici motivi, il più frequente tra i quali eraquello patrimoniale. Molti bambini sono eliminati per non diminuire i diritti ereditari già acquisiti da altri figli o, più frequentemente, perché illegittimi. Insomma, "la voce del sangue a Roma parlava ben poco; ciò che faceva sentire di più la sua voce era il nome di famiglia" (p. 6).

Il secondo fatto è il mantenersi di una totale subordinazione giuridica del figlio al padre anche al di là del compimento della maggiore età. Un figlio adulto con il padre ancora vivente non solo non aveva alcun potere sul patrimonio familiare; in tutti gli atti burocratici della vita civile le sue decisioni erano vincolate all'approvazione e alla firma paterna. La paternità romana si estendeva insomma sotto forma di tutela sul figlio sino alla morte del padre. In breve, "la situazione di un adulto il cui padre è in vita è insopportabile" (p 20). In conseguenza di questa condizione di minorità permanente e di oppressione, "non ci si meraviglierà dell'ossessione del parricidio e della sua relativa frequenza: era un grave delitto che aveva spiegazioni ragionevoli, non un sorprendente fatto freudiano" (p. 21).

Il terzo, sconcertante fatto è il diritto assegnato al padre, in seguito ad un comportamento filiale da quegli giudicato come grave, di punire il figlio anche con la morte. Questo diritto, che risulta essere stato praticato sin dagli esordi, si estingue solo nell'età di Augusto allorché s'imbatte nell'indignazione pubblica.

Questa situazione complessiva di patriarcato totale è importante non solo perché, sia pure modificandosi per tanti aspetti, si è perpetuata sino all'800. Essa consente di spiegare anche l'impatto particolare che il Cristianesimo ha avuto sulla società romana. Certo, il Cristianesimo ha trovato la via spianata dallo stoicismo. Ma lo stoicismo è stato sempre e solo una filosofia dei dotti, di un'assoluta minoranza. Il Cristianesimo, invece, ha catturato, oltre ai dotti, anche le masse. In nome di che? Del fatto di proporre un rapporto tra gli esseri umani incentrato sulla fraternità, sull'uguaglianza e sulla subordinazione ad un unico Padre, quello celeste. Il significato eversivo di questo nuovo modo di definire l'uomo in rapporto ad una società gerarchica, patriarcale e classista non può essere pienamente apprezzato oggi, dato che il valore della pari dignità è stato acquisito, almeno formalmente, dal pensiero liberale.

A quest'aspetto occorre aggiungerne un altro di natura socio-economica. La gerarchia sociale romana è incentrata sul censo. La ricchezza, che permette di vivere senza lavorare, è una virtù: "L'Antichità celebrava la condizione di chi vive di rendita con la stessa spudoratezza con cui l'Ancien Régime considererà dei pezzenti quelli che non appartengono alla nobiltà" (p. 85). Il Cristianesimo originario è comunistico: l'accesso alla comunità è subordinato alla spoliazione dei beni a favore di un bene comune che solo successivamente sarà appropriato dalla Chiesa.

E', insomma, in nome della pari dignità, della fraternità e dell'uguaglianza che il Cristianesimo si diffonde e giunge a prevalere sull'Impero romano.

3.

Il secondo capitolo, dedicato alla Tarda Antichità, dal regno di Marco Aurelio (161-180) a quello di Giustiniano (527-565), analizza le trasformazioni della vita privata avvenute in seguito all'egemonia culturale conseguita dal Cristianesimo. La trasformazione in assoluto più importante riguarda il superamento della scissione, intrinseca alla società romana, tra un élite di dotti, filosofi, saggi e un popolo abbandonato a se stesso, preda dell'irrazionalità e dei vizi: "La "democratizzazione" sorprendentemente rapida della"controcultura" elitaria dei filosofi da parte dei capi della Chiesa cristiana è la rivoluzione più profonda della tarda antichità. Chiunque legga gli scritti cristiani o studi i papiri cristiani […] deve riconoscere che le opere dei filosofi, per quanto probabilmente ignorate dalla media dei notabili delle città, si erano andate sedimentando, tramite la predicazione e la speculazione cristiana, in un profondo strato di idee morali correnti tra migliaia di persone umili" (pp. 183-184). Questo processo di evangelizzazione delle masse, che corrisponde ad una vera e propria civilizzazione, è il fatto inconfutabile cui si richiamano ancora oggi coloro che difendono le radici cristiane della società europea. Di fatto, l'evangelizzazione diffonde tra il popolo valori assolutamente nuovi: la solidarietà, il superamento dell'egoismo in nome dell'appartenenza comunitaria, la "semplicità di cuore", che implica l'onestà interiore e la schiettezza, la fedeltà reciproca, la disciplina interiore rivolta a frenare le passioni, l'identificazione con i poveri e gli esseri vulnerabili, bisognosi di aiuto.

Su questo sfondo sostanzialmente positivo, si definisce però anche una nuova morale sessuale destinata ad incidere profondamente e, per alcuni aspetti, negativamente sulla cultura occidentale. Tale morale comporta l'assoggettamento della sessualità al fine procreativo, l'identificazione del piacere come una dimensione peccaminosa, la proposizione della continenza e dell'astinenza come virtù.

La morale sessuale cristiana si edifica su di una base dottrinaria molto precaria. I testi evangelici a riguardo sono appena allusivi. Per capire la genesi storica di tale morale, occorre tenere conto di alcune circostanze storiche.

Prima dell'avvento del Cristianesimo a Roma, e quindi nella sua fase di diffusione orientale, il problema che si pose alla Chiesa nascente era quello d'impedire che la confluenza di neofiti provenienti in gran parte dalla religione orfica trasformasse il banchetto evangelico in un rito orgiastico. Le rampogne contenute in alcune lettere di S. Paolo sono, a riguardo, esplicite.

Il contatto con la cultura romana, indifferente, come si è visto, nei confronti dei neonati e sostanzialmente licenziosa, ha prodotto il radicalizzarsi del riferimento alla sacralità della vita e di un orientamento sessuofobico. La diversità del cristiano rispetto al pagano si configurava essenzialmente nella capacità di tenere a freno la pulsione sessuale, egoistica, e di mortificarla in nome della fratellanza. Valida all'interno del matrimonio che, in opposizione alla cultura romana, doveva essere finalizzato alla procreazione e caratterizzato da una certa continenza, questa capacità s'imponeva sotto forma di virtù ai vedovi e alle vedove, ai quali era vietato risposarsi. La condizione di vedovanza era considerata una prova cui Dio sottoponeva il credente e che, orientandolo a rinunciare ai piaceri della carne, lo rendeva disponibile per dedicare le sue energie e il suo tempo al servizio della Comunità ecclesiale.

In quest'ottica di differenziazione culturale, sulla scorta dell'insegnamento paolino, i campioni della cristianità erano coloro che - sacerdoti e vescovi - fornivano la prova di potersi affrancare per sempre dai vincoli della carne. Il celibato ecclesiastico era il contrassegno dell'uomo nuovo cristiano, dedito esclusivamente a Dio e ai fratelli. Per capire il significato di questo radicalismo morale, occorre tenere conto non solo del confronto con la morale pagana, ma anche dell'esigenza di differenziare definitivamente il cristianesimo dal giudaismo, che riconosceva ai rabbini il diritto di mettere su famiglia.

Su questo sfondo, la morale sessuale cristiana, nei primi secoli, per influenza del monachesimo e di S. Agostino, assume una connotazione sempre più rigida. L'affrancamento dalla concupiscenza della carne, ritenuta colpevole del peccato originale, diventa una vera e propria ossessione. La sessualità giunge a configurarsi come una "tara" universale e primigenia, la lotta contro la quale diventa lo strumento primario della salvezza.

Il contatto con le popolazioni barbariche nel corso dell'Alto Medioevo impone alla morale sessuale cristiana un ulteriore salto di qualità, che porta a concepire il matrimonio come indissolubile e, per chi non riusciva a rinunciare del tutto ai desideri carnali, come un porto sicuro per stare al riparo dalle tentazioni del mondo.

4.

Il libro descrive sostanzialmente il passaggio dalla civiltà pagana a quella cristiana sotto il profilo privato, vale a dire di un nuovo modo di sentire, di pensare e di agire che fa leva sull'attribuzione all'uomo di un'anima immortale, sul legame di fraternità tra gli esseri umani, fondato sulla comune origine divina, su una percezione drammatica del corpo come fucina di passioni che possono compromettere la salvezza, ecc. Investendo la sfera della soggettività, questo passaggio è lento e non immune da contraddizioni. Sotterraneamente, la cultura pagana persiste a lungo e i suoi residui sembrano quasi giustificare la presenza nella natura umana di germi maligni. La trascendenza alla fine si afferma come orizzonte proprio dell'esperienza umana. Essa però continua a convivere con una rivendicazione mondana che rappresenterà la matrice dell'avvento della civiltà borghese.

Aprile 2004