Ivan Illich

Per una storia dei bisogni


Introduzione alla lettura

Questo saggio è una sintesi eccellente del pensiero di Illich sulla tecnocrazia e sugli effetti passivizzanti, invalidanti e alienanti che essa consegue sui cittadini laddove essa investe i settori dell’istruzione, delle cure mediche e dell’uso dell’energia.

Nonostante siano passati 30 anni, le critiche di Illich conservano un’attualità incalzante perché il mondo globalizzato è ancora preda del modello di sviluppo tecnologico proprio dell’Occidente. I danni – economici, culturali, psicologici e ecologici – che tale modello è destinato inesorabilmente a produrre superata una soglia critica entro la quale esso sembra accrescere il benessere delle persone, sono, dunque, destinati a diffondersi epidemicamente, e a portare, come già sta accadendo, sull’orlo della catastrofe ecologica, antropologica e culturale.

Il pensiero di Illich, radicalmente umanitarista, è incentrato sulla libertà, sull’autonomia e sulla creatività degli esseri umani, soprattutto laddove essi sono legati da forme comunitaristiche di esistenza. E’ un pensiero utopistico, perché esso fa riferimento a potenzialità, a diritti e a bisogni che solo raramente, nel corso della storia, gli uomini sono stati in grado di utilizzare.

Facendosi carico di tali bisogni e trasformandoli in diritti, la tecnocrazia sembra rispondere ad esigenze profondamente radicate nell’anima umana. In realtà, come Illich dimostra, essa è la peggiore delle dittature che si siano mai date.

Indice

Introduzione

 

LA DISOCCUPAZIONE UTILE E I SUOI NEMICI PROFESSIONALI

Gli effetti menomanti della supremazia del mercato

Servizi professionali menomanti

Alcune distinzioni riabilitanti

Il diritto alla disoccupazione utile

Nuove strategie delle professioni

L'ethos post-professionale


SUPERARE I PAESI SVILUPPATI


INVECE DELL'ISTRUZIONE

Il programma occulto

I fondamenti reconditi dell'educazione

La mano invisibile in un mercato dell'istruzione

La contraddittorietà delle scuole come strumento di progresso tecnocratico

Ricuperare la responsabilità di insegnare e imparare

Una nuova tecnologia, non una nuova educazione

“Povertà” autodeterminata


BISOGNI Dl TANTALO

L'effetto negativo del progresso

Rimedi contraddittori

Nemesi industriale

La “hubris” di Tantalo

Il ricupero della salute


ENERGIA ED EQUITA’

La crisi energetica

L'industrializzazione del traffico

L'immaginazione intontita dalla velocità

Trasferimento netto di vita

L'inefficacia dell'accelerazione

Il monopolio radicale dell'industria

La soglia sfuggente

I gradi della mobilità autoalimentata

Motori dominanti e motori ausiliari

Sottoattrezzatura, sovrasviluppo e tecnologia matura


Introduzione

I cinque saggi qui raccolti rispecchiano un decennio di riflessioni sul modo di produzione industriale. Durante questo periodo mi sono soprattutto occupato dei processi attraverso i quali una crescente dipendenza da beni e servizi prodotti in serie elimina a poco a poco le condizioni necessarie per una vita conviviale. Ciascun saggio, nell'esaminare un settore diverso della crescita economica, dimostra una regola generale: i valori d'uso vengono ineluttabilmente distrutti quando il modo di produzione industriale raggiunge quel predominio che io ho chiamato “monopolio radicale”. Nell'assieme i saggi descrivono in che modo la crescita industriale produce la versione moderna della povertà.

Questo tipo di povertà fa la sua apparizione quando l'intensità della dipendenza dal mercato arriva a una certa soglia. Sul piano soggettivo, essa è quello stato di opulenza frustrante che s'ingenera nelle persone menomate da una schiacciante soggezione alle ricchezze della produttività industriale. Essa non fa altro che privare le sue vittime della libertà e del potere di agire autonomamente, di vivere in maniera creativa; le riduce a sopravvivere grazie al fatto di essere inserite in relazioni di mercato. Questo nuovo tipo d'impotenza, proprio perché vissuta a livello così profondo, difficilmente riesce a trovare espressione. Siamo testimoni di una trasformazione appena percettibile del linguaggio corrente, per cui verbi che una volta indicavano azioni intese a procurare una soddisfazione vengono sostituiti da sostantivi che indicano prodotti di serie destinati a un mero consumo passivo: “imparare”, per esempio, diventa “acquisto di un titolo di studio”. Traspare da questo un profondo cambiamento dell'immagine che gli individui e la società si fanno di se stessi. E non è solo il profano che fa fatica a descrivere con precisione ciò che avverte. L'economista di professione non sa riconoscere quella povertà che i suoi strumenti convenzionali non sono in grado di rilevare. Il nuovo fattore di mutazione dell'impoverimento continua tuttavia a diffondersi. L'incapacità, peculiarmente moderna, di usare in modo autonomo le doti personali, la vita comunitaria e le risorse ambientali infetta ogni aspetto della vita in cui una merce escogitata da professionisti sia riuscita a soppiantare un valore d'uso plasmato da una cultura. Viene così soppressa la possibilità di conoscere una soddisfazione personale e sociale al di fuori del mercato. Io sono povero, per esempio, una volta che per il fatto di abitare a Los Angeles o di lavorare al trentacinquesimo piano abbia perduto il valore d'uso delle mie gambe.

Questa nuova povertà generatrice d'impotenza non va confusa col divario tra i consumi dei ricchi e dei poveri, sempre maggiore in un mondo in cui i bisogni fondamentali sono sempre più determinati dai prodotti industriali. Tale divario è la forma che la povertà tradizionale assume in una società industriale, e che i termini convenzionali della lotta di classe adeguatamente mettono in luce e riducono. Distinguo altresì la povertà di tipo moderno dai prezzi gravosi imposti dalle “esternalità” che gli accresciuti livelli di produzione rigettano nell'ambiente. E’ chiaro che questi tipi di inquinamento, di tensione e di carichi fiscali sono ripartiti in maniera ineguale, e che in maniera altrettanto ineguale sono distribuite le difese da tali depredazioni. Ma, come i nuovi divari in fatto di accesso, anche queste iniquità dei costi sociali sono aspetti della povertà industrializzata per i quali è possibile trovare indicatori economici e verifiche oggettive. Non è così invece per l'impotenza industrializzata, che colpisce indifferentemente ricchi e poveri. Dove regna questo tipo di povertà, è impedito o criminalizzato qualsiasi modo di vivere che non dipenda da un consumo di merci. Fare a meno di consumare diventa impossibile, non soltanto per il consumatore medio ma persino per il povero. A nulla servono tutte le varie forme di assistenza sociale. La libertà di progettare e farsi a modo proprio la propria casa è soppressa, sostituita dalla fornitura burocratica di alloggi standardizzati, negli Stati Uniti come a Cuba o in Svezia. L'organizzazione dell'impiego, della manodopera qualificata, delle risorse edilizie, i regolamenti, i requisiti necessari per ottenere credito dalle banche, tutto porta a considerare l'abitazione come una merce anziché un'attività. Che poi questa merce sia fornita da un imprenditore privato o da un apparato, il risultato concreto è sempre lo stesso: l'impotenza del cittadino, la nostra forma, specificatamente moderna, di povertà.

Ovunque si posi l'ombra della crescita economica, noi diventiamo inutili se non abbiamo un impiego o se non siamo impegnati a consumare; il tentativo di costruirsi una casa o di mettere a posto un osso senza ricorrere agli specialisti debitamente patentati è considerato una bizzarria anarchica. Perdiamo di vista le nostre risorse, perdiamo il controllo sulle condizioni ambientali che le rendono utilizzabili, perdiamo il gusto di affrontare con fiducia le difficoltà esterne e le ansie interiori. Porterò l'esempio di come nascono oggi i bambini nel Messico: partorire senza assistenza professionale è divenuta una cosa impensabile per le donne i cui mariti hanno un impiego regolare e che possono perciò accedere ai servizi sociali, per marginali o inconsistenti che questi siano. Esse si muovono ormai in ambienti dove la produzione di bambini rispecchia fedelmente i modelli della produzione industriale. Tuttavia le loro sorelle che vivono nei quartieri dei poveri o nei villaggi degli isolati si sentono ancora perfettamente capaci di partorire sulle loro stuoie, senza sapere che rischiano una moderna imputazione di negligenza colposa nei confronti dei propri bambini. Man mano però che i modelli di parto promossi dai professionisti arrivano anche a queste donne indipendenti, vengono distrutti il desiderio, la capacità e le condizioni di un comportamento autonomo.

In una società industriale avanzata, la modernizzazione della povertà vuol dire che la gente non è più in grado di riconoscere l'evidenza quando non sia attestata da un professionista, sia egli un meteorologo televisivo o un educatore; che un disturbo organico diventa intollerabilmente minaccioso se non è medicalizzato mettendosi nelle mani di un terapista; che non si hanno più relazioni con gli amici e col prossimo se non si dispone di veicoli per coprire la distanza che ci separa da loro (e che è creata prima di tutto dai veicoli stessi). Insomma veniamo a trovarci, per la maggior parte del tempo, senza contatti con il nostro mondo, senza possibilità di vedere coloro per i quali lavoriamo, senza alcuna sintonia con ciò che sentiamo.

Su invito di André Schiffrin, il mio editore statunitense, ho scelto questi cinque saggi che espongono e sviluppano miei ragionamenti su questi temi. Pubblicandoli, intendo chiudere un decennio di lezioni e di scritti su quella creazione di miti controproducenti che è latente in tutte le attuali operazioni industriali.

Il primo saggio è un poscritto al mio libro La convivialità (Mondadori, Milano 1974). Rispecchia i cambiamenti avvenuti nel decennio trascorso, sia nella realtà economica sia nel mio modo d'intenderla. Parte dalla convinzione che si è avuto un aumento piuttosto notevole dei poteri non tecnici, cioè rituali e simbolici, dei nostri maggiori sistemi tecnologici e burocratici, con una corrispondente diminuzione della loro efficacia scientifica, tecnica e strumentale. Nel 1968 era ancora abbastanza facile liquidare ogni resistenza organizzata dei profani al dominio del professionismo come un mero ripiegamento su fantasie romantiche, oscurantiste o snobistiche. La valutazione che io facevo allora dei sistemi tecnologici, guardando le cose dal basso e a lume di buon senso, appariva infantile o reazionaria ai leader politici dell'attivismo civico e ai professionisti “radicali” che accampavano il diritto alla tutela dei poveri in virtù dei loro specifici saperi. La riorganizzazione della società industriale intorno a bisogni, problemi e soluzioni definiti da professionisti era ancora il criterio di valore comunemente accettato, implicito in sistemi ideologici, politici e giuridici che per altro verso erano in netta e talora violenta opposizione tra loro.

Il quadro ora è cambiato. Oggi, simbolo di competenza tecnica avanzata e illuminata è la comunità, il quartiere, il gruppo di cittadini che, fiduciosi nelle proprie forze, si dedicano ad analizzare sistematicamente e di conseguenza a ridicolizzare i «bisogni», i «problemi» e le “soluzioni” definiti sulle loro teste dagli agenti delle istituzioni professionali. Negli anni sessanta l'opposizione dei profani ai provvedimenti pubblici basati sulle opinioni degli “esperti” pareva ancora fanatismo antiscientifico. Oggi la fiducia dei profani nelle scelte politiche basate su tali opinioni è ridotta al minimo. Sono migliaia ormai coloro che fanno le proprie valutazioni e s'impegnano, con molti sacrifici, in un'azione civica sottratta a qualunque tutela professionale, procurandosi le informazioni scientifiche di cui hanno bisogno con sforzi personali e autonomi. Rischiando a volte la pelle, la libertà e la rispettabilità, esprimono un nuovo e più maturo atteggiamento scientifico. Sanno, per esempio, che la qualità e la quantità delle prove tecniche bastanti per dire di no alle centrali nucleari, alla moltiplicazione delle unità di cura intensiva, all'istruzione obbligatoria, al controllo fetale a mezzo monitor, alla psicochirurgia, alle cure con elettroshock o all'ingegneria genetica sono tali che il profano può recepirle e utilizzarle.

Dieci anni fa la scolarizzazione obbligatoria era ancora protetta da potenti tabù. Oggi i suoi difensori sono quasi esclusivamente fra gli insegnanti, che ne dipendono per l'impiego, oppure tra gli ideologi marxisti che difendono i detentori di sapere professionali in una fantomatica battaglia contro la borghesia d'avanguardia. Dieci anni fa i miti circa l'efficacia delle istituzioni sanitarie moderne erano ancora incontestati. Quasi tutti i testi di economia recepivano la convinzione che l'attesa di vita degli adulti fosse in aumento, che la cura del cancro procrastinasse la morte, che la disponibilità di medici avesse come risultato un più alto tasso di sopravvivenza infantile. Da allora a oggi, la gente ha “scoperto” ciò che le statistiche demografiche avevano sempre mostrato: che l'attesa di vita degli adulti non è cambiata in misura socialmente significativa nel corso delle ultime generazioni; che nella maggior parte dei paesi ricchi è oggi inferiore a quella del tempo dei nostri nonni, e persino a quella che si registra in molti paesi poveri. Dieci anni fa era ancora un obiettivo prestigioso l'accesso universale alla scuola postsecondaria, all'istruzione per gli adulti, alla medicina preventiva, alle autostrade, a un villaggio globale imperniato sull'elettrodomestico. Oggi i grandi rituali mitopoietici organizzati intorno all'istruzione, ai trasporti, all'assistenza sanitaria e all'urbanizzazione sono stati in parte demistificati. Non sono stati però ancora abrogati.

Il secondo saggio è il testo di un discorso che tenni nel 1969 alla Canadian Foreign Policy Association. E' una critica del Rapporto Pearson, documento che intendeva segnare la conclusione del primo cosiddetto «decennio dello sviluppo» e l'inizio del secondo. Vi richiamavo l'attenzione sull'esasperante condizione d'impotenza inflitta ai poveri nei paesi che più hanno beneficiato dell'importazione di quei servizi pubblici di cui le nazioni ricche vanno fiere.

Gli ultimi tre saggi concernono quel tipo di paralisi sociale e politica che nei paesi industrializzati rende invalidi non soltanto i poveri ma la stragrande maggioranza della popolazione. Vi si descrive come si produca la povertà di tipo moderno sulla scia dell'espansione economica, facendo particolare riferimento a tre settori dai quali ho imparato molte cose durante questo decennio: i trasporti, l'istruzione e l'assistenza sanitaria.

I costi occulti e gli accresciuti divari nei consumi sono aspetti certamente importanti della nuova povertà, ma io guardo soprattutto a un altro elemento concomitante della modernizzazione: il processo per cui non c'è pressoché nessuno che non veda erosa la propria autonomia, spenta la propria capacità di soddisfazione, appiattita la propria esperienza e frustrati i propri bisogni. Ho esaminato, per esempio, gli ostacoli che nell'intera società si oppongono alla presenza reciproca e che sono inevitabili effetti collaterali di un tipo di trasporto ad alta intensità di energia. Ho voluto definire i limiti di potenza dei veicoli a motore equamente usati per accrescere le possibilità di contatto tra le persone. Ho ovviamente constatato che le alte velocità impongono necessariamente un'impari distribuzione dei fastidi, del rumore, dell'inquinamento, nonché del godimento dei privilegi. Ma non è su questo che ho posto l'accento. Il mio discorso si accentra sulle «internalità» negative della modernità: l'accelerazione che fa sprecare tempo, l'assistenza sanitaria che produce malati, l'istruzione che istupidisce. La distribuzione ineguale dei benefici surrogati o l'ineguale imposizione delle loro «esternalità» negative non sono che corollari della mia tesi di fondo. M'interessano in questi saggi le conseguenze dirette e specifiche della povertà modernizzata, la capacità dell’uomo di sopportarle e il modo per sfuggire alla nuova miseria.

Durante questi ultimi anni ho ritenuto necessario sottoporre a un riesame continuo la relazione tra la natura degli strumenti e il concetto di giustizia che prevale nella società che li adopera. Ho dovuto constatare come la libertà declini laddove i diritti sono formulati dagli “esperti”. Ho avuto modo di misurare che cosa comporta il cambio tra gli strumenti nuovi che spingono ad aumentare la produzione di merci, e quelli altrettanto moderni che permettono di generare valori col loro uso; tra il diritto a merci prodotte su scala di massa e il livello di libertà che permette un'espressione personale soddisfacente e creativa; tra l'impiego pagato e la disoccupazione utile. E in tutti gli aspetti di questa sostituzione della gestione eteronoma all'attività autonoma, mi accorgo quanto sia difficile recuperare un linguaggio che ci permetta di porre l'accento su quest'ultima. Come i lettori ai quali intendo rivolgermi, sono un così convinto e impegnato sostenitore d'un accesso radicalmente equo ai beni, ai diritti e ai posti di lavoro che mi sembra quasi superfluo insistere sulla nostra battaglia per questo aspetto della giustizia. Trovo molto più importante, e più difficile, affrontare il suo complemento, la politica della convivialità. Uso questo termine nell'accezione tecnica che gli ho dato in La convivialità, intendendo cioè la lotta per un'equa distribuzione della libertà di generare valori d'uso, e per una strumentazione di tale libertà che sia ottenuta mettendo al primo posto assoluto la produzione di quei beni e servizi industriali e professionali che conferiscano ai meno avvantaggiati il massimo potere di generare valori nell'uso.

Un indirizzo politico nuovo, conviviale, si fonda sulla convinzione che in una società moderna tanto la ricchezza quanto i posti di lavoro possono essere condivisi equamente e goduti nella libertà solo ponendo loro dei limiti mediante un processo politico. Forme eccessive di ricchezze e impieghi formali prolungati, per quanto ben distribuiti, distruggono le condizioni sociali, culturali e ambientali di un'eguale libertà produttiva. I bit e i watt - che qui vogliono dire, rispettivamente, le unità di informazione e di energia - se forniti sotto forma d'un qualunque prodotto di serie in quantità che superino una certa soglia-limite, diventano inevitabilmente ricchezza depauperante. La ricchezza o è troppo rara per poter essere spartita o distrugge la libertà e le libertà dei più deboli. In ognuno di questi cinque saggi, ho cercato di dare un contributo al processo politico che deve portare i cittadini a riconoscere le soglie socialmente cruciali dell'arricchimento e a tradurle in tetti o limiti validi per l'intera società.

 

La disoccupazione utile e i suoi nemici professionali

Questo saggio sulla sostituzione delle merci ai valori d'uso nella società moderna è stato scritto nel 1977. John McKnight e Lee Hoinacki mi sono stati d'aiuto a chiarirmi le idee. Sono anche debitore verso William Leiss che, in “The Limits to Satisfaction” (Toronto 1976), si è occupato della correlazione tra bisogni e merci nell'era moderna.

Cinquant'anni fa, quasi tutte le parole che uno udiva erano rivolte personalmente a lui come individuo o a qualcun altro che gli stava vicino. Solo in certe circostanze lo toccavano in quanto membro indifferenziato di una massa a scuola o in chiesa, a un comizio o al circo. Le parole erano per lo più come lettere scritte a mano e sigillate, non come il ciarpame che inquina ora le nostre poste. Oggi le parole rivolte all'attenzione di una sola persona sono divenute rare. Produzioni standardizzate di immagini, idee, sensazioni e opinioni, confezionate e distribuite attraverso i media, aggrediscono la nostra sensibilità con ritmo incessante. Due fatti sono ormai evidenti: 1) ciò che sta avvenendo nel linguaggio ricalca il modello di una sempre più ampia serie di rapporti bisogno/soddisfazione; 2) questa sostituzione di merce industriale manipolante ai mezzi conviviali sta avendo luogo su scala veramente universale, e viene inesorabilmente assimilando tra loro l'insegnante newyorkese e il membro della comune cinese, lo scolaretto bantù e il sergente brasiliano.

In questo saggio, che è un poscritto a La convivialità, mi propongo tre cose: 1) descrivere il carattere che assume una società ad alta intensità di merci e mercato, nella quale l'abbondanza stessa delle merci paralizza la creazione autonoma di valori d'uso; 2) evidenziare il ruolo occulto che le professioni svolgono in tale società col modellarne i bisogni; 3) smascherare certe illusioni e proporre alcune strategie per spezzare quel potere professionale che perpetua la dipendenza dal mercato.


Gli effetti menomanti della supremazia del mercato

Il vocabolo crisi indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i paesi diventano casi critici. Crisi, la parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire “scelta” o “punto di svolta”, ora sta a significare: “Guidatore, dacci dentro!”. Evoca cioè una minaccia sinistra, ma contenibile mediante un sovrappiù di denaro, di manodopera e di tecnica gestionale. Le cure intensive per moribondi, la tutela burocratica per le vittime della discriminazione, la fissazione nucleare per i divoratori di energia sono, a questo riguardo, risposte tipiche. Così intesa, la crisi torna sempre a vantaggio degli amministratori e dei commissari, e specialmente di quei recuperatori che si mantengono con i sottoprodotti della crescita di ieri: gli educatori che campano sull'alienazione della società, i medici che prosperano grazie ai tipi di lavoro e di tempo libero che hanno distrutto la salute, i politici che ingrassano sulla distribuzione di un'assistenza finanziata in primo luogo dagli stessi assistiti. La crisi intesa come necessità di accelerare non solo mette più potenza a disposizione del conducente, e fa stringere ancora di più la cintura di sicurezza dei passeggeri; ma giustifica anche la rapina dello spazio, del tempo e delle risorse, a beneficio delle ruote motorizzate e a detrimento delle persone che vorrebbero servirsi delle proprie gambe.

Ma “crisi” non ha necessariamente questo significato. Non comporta necessariamente una corsa precipitosa verso l'escalation del controllo. Può invece indicare l'attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all'improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa. Ed è questa la crisi, nel senso appunto di scelta, di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero.

In pochi decenni il mondo si è amalgamato. Le reazioni degli uomini agli eventi quotidiani si sono standardizzate. Le lingue e le divinità possono ancora apparire differenti, ma ogni giorno altra gente si aggrega a quell'enorme maggioranza che marcia al ritmo della medesima megamacchina. Il gesto del braccio verso l'interruttore accanto alla porta ha soppiantato le decine di modi in cui si accendevano un tempo fuochi, candele e lanterne. In dieci anni il numero degli utenti di interruttori si è triplicato; sciacquone e carta igienica sono diventati condizioni essenziali per poter andare di corpo. Per un numero sempre maggiore di persone l'illuminazione non fornita da reti ad alto voltaggio e l'igiene senza carta velina significano povertà. Aumentano le aspettative, mentre declinano rapidamente la fiducia speranzosa nelle proprie capacità e l'interesse per gli altri.

Ora striduli ora soporiferi, i media penetrano a forza ella comune, nel villaggio, nell'azienda, nella scuola. I suoni prodotti dagli autori e dagli annunciatori di testi programmati stravolgono di giorno in giorno le parole della lingua viva facendone tanti blocchi di frasario per messaggi prefabbricati. Oggi solo chi è tagliato fuori dal mondo oppure l'anticonformista ricco e ben protetto può far giocare i propri bambini in un ambiente dov'essi sentano parlare persone anziché divi, annunciatori o istruttori. In ogni parte del mondo si vede dilagare quella disciplinata acquiescenza che caratterizza lo spettatore, il paziente e il cliente. Aumenta rapidamente la standardizzazione del comportamento umano.

E’ dunque chiaro che non c'è quasi alcuna comunità al mondo cui non si ponga esattamente la medesima scelta cruciale: o continuare ad essere mere cifre nella folla condizionata che è sospinta verso una sempre maggiore dipendenza (ed essere così costretti a feroci lotte per strappare la propria razione di droga), o trovare quel coraggio che è l'unica possibilità di salvezza in una situazione di panico: il coraggio di restare fermi e di guardarsi attorno alla ricerca di una via di scampo diversa da quella su cui tutti si precipitano perché c'è scritto “uscita”. Molti però, quando gli si dice che tanto i boliviani quanto i canadesi o gli ungheresi si trovano tutti dinanzi alla stessa scelta di fondo, non solo si infastidiscono, ma si indignano. L'idea appare loro non soltanto ridicola, ma insultante. Non riescono a scorgere l'identica degradazione, di forma nuova e acuta, che sta sotto la fame dell'indio dell'Altipiano, la nevrosi dell'operaio di Amsterdam e la cinica corruzione del burocrate di Varsavia.

In tutte le società lo sviluppo ha avuto il medesimo effetto: ognuno si è trovato irretito in una nuova trama di dipendenza nei confronti di prodotti sfornati dal medesimo tipo di macchine: fabbriche, cliniche, studi televisivi, istituti di ricerca. Per appagare questa dipendenza bisogna continuare a produrre le stesse cose in quantità maggiori: beni standardizzati, concepiti e realizzati ad uso di un futuro consumatore già addestrato dall'agente del produttore ad aver bisogno di ciò che gli viene offerto. Questi prodotti, siano essi beni tangibili o servizi intangibili, costituiscono la produzione industriale. Il valore monetario che si attribuisce loro in quanto merci è determinato, in proporzioni variabili, dallo Stato e dal mercato. Culture differenti diventano così scialbi residui di stili d'azione tradizionali, relitti sbiaditi in un unico deserto di dimensioni planetarie, una terra arida devastata dal macchinario che serve a produrre e consumare. Sulle rive della Senna come su quelle del Niger, le donne hanno disimparato ad allattare, perché ora quella sostanza bianca la si compra in drogheria. (In Francia, grazie ai maggiori stanziamenti per la tutela del consumatore, è meno velenosa che nel Mali.) Certo, un maggior numero di bambini beve oggi latte di mucca; ma tanto nei paesi ricchi quanto in quelli poveri il seno materno si inaridisce.

Il consumatore dipendente nasce allorquando il neonato piange perché vuole il biberon; quando l'organismo è addestrato a reclamare il latte del droghiere e a distogliersi dal seno, che così non svolge più la propria funzione. L'attività umana autonoma e creativa, indispensabile a far fiorire l'universo umano, si atrofizza. I tetti di assicelle e di stoppie, di tegole e di ardesia, vengono soppiantati dal calcestruzzo per i pochi, dalla plastica ondulata per i più. Né le giungle e le paludi né le prevenzioni ideologiche hanno impedito che i poveri e i socialisti si lanciassero a capofitto nelle autostrade dei ricchi, le quali portano al mondo in cui gli economisti prendono il posto dei preti. La zecca annulla tutti i tesori e gli idoli locali.

La moneta svaluta quello che non può misurare. La crisi, dunque, è la stessa per tutti: si tratta di scegliere tra una maggiore o una minore dipendenza dalle merci industriali. Maggiore vorrà dire la distruzione rapida e totale di culture generatrici di attività di sussistenza soddisfacenti. Minore vorrà dire una variegata fioritura di valori d'uso entro culture moderne intensamente attive. Per i ricchi come per i poveri là scelta è sostanzialmente la stessa, anche se è difficile da immaginare per chi è già abituato a vivere nel supermercato - una struttura che solo il nome differenzia da una clinica per infermi di mente.

L'attuale società industriale organizza la vita in funzione delle merci. Le nostre società ad alta intensità di mercato misurano il progresso materiale dall'aumento di volume e di varietà delle merci prodotte. E sull'esempio di questo settore, noi misuriamo il progresso sociale dal modo in cui è distribuito l'accesso a tali merci. La scienza economica è diventata un'attività propagandistica volta a favorire la supremazia delle grandi industrie produttrici di beni di consumo. Il socialismo è stato svilito a lotta contro la disparità nella distribuzione, e l'economia del benessere ha identificato il bene pubblico con l'abbondanza - l'abbondanza umiliante di cui gode il povero negli ospedali, nelle prigioni e nei manicomi degli Stati Uniti.

Indifferente a ogni scambio che non sia contrassegnato da un prezzo monetario, la società industriale ha creato un paesaggio urbano inadatto a persone che non divorino ogni giorno in metalli e carburanti l'equivalente del proprio peso, un mondo nel quale la costante necessità di difendersi dalle conseguenze indesiderate di un numero maggiore di cose e di controlli ha portato alla luce nuovi filoni di discriminazione, di impotenza e di frustrazione. Il movimento ecologico, influenzato dal sistema, sinora non ha fatto che rafforzare questa tendenza: ha infatti preso ai difetti della tecnologia industriale e, nei casi migliori, lo sfruttamento privato della produzione industriale. Ha contestato il depauperamento delle risorse naturali, i danni dell'inquinamento e i trasferimenti netti di potere. Ma anche quando si assegni un prezzo alla degradazione dell'ambiente e alle perdite causate dalla nocività o si calcoli il costo della polarizzazione, non si è ancora detto in modo chiaro che la divisione del lavoro, la moltiplicazione delle merci e la dipendenza da esse hanno forzosamente sostituito con confezioni standardizzate quasi tutte le cose che la gente un tempo faceva da sé o fabbricava con le proprie mani.

Ormai da due decenni muore ogni anno una cinquantina di lingue; una metà di quelle che ancora si parlavano nel .1950 sopravvive soltanto come argomento di tesi di laurea. E le lingue che ancora restano per testimoniare l'incomparabile varietà dei modi di vedere il mondo, di servirsene e di goderne, paiono oggi sempre più simili. La coscienza è ovunque colonizzata da etichette importate. Eppure anche quelli che si preoccupano per la varietà culturale e genetica che va perduta o per la moltiplicazione degli isotopi a lungo effetto, non badano al depauperamento irreversibile delle capacità, delle storie e dei gusti. E questa progressiva sostituzione dei beni e servizi industriali ai valori utili ma non negoziabili è stata l'obbiettivo comune di gruppi e regimi politici per tutto il resto violentemente antagonistici.

In tal modo, zone della nostra vita sempre più vaste subiscono trasformazioni tali che la vita stessa finisce per dipendere quasi esclusivamente dal consumo di merci vendute sul mercato mondiale. Gli Stati Uniti corrompono i propri agricoltori per fornire grano a un regime che gioca sempre più la propria legittimità sul tavolo degli approvvigionamenti di cereali. Naturalmente i due regimi destinano proprie risorse seguendo metodi differenti: basandosi gli uni sulla saggezza del meccanismo dei prezzi, gli altri su quella dei pianificatori. Ma il contrasto politico che oppone i fautori dei due diversi metodi di ripartizione maschera appena lo spietato disprezzo, comune agli uni e agli altri, per la libertà e la dignità della persona.

La politica nel campo energetico è un buon esempio della sostanziale identità di vedute fra i sostenitori del sistema industriale, si presentino essi con l'etichetta di socialisti o di capitalisti. A parte forse la Cambogia, sulla quale non ho notizie, non esiste gruppo di governo o d'opposizione socialista che riesca ad immaginare un auspicabile futuro basato su un consumo d'energia pro capite inferiore a quello oggi prevalente in Europa. Tutti i partiti politici esistenti ritengono necessaria una produzione ad alta intensità d'energia - magari con disciplina cinese - senza capire che la società da essa derivante negherà ancora di più alla gente il libero uso dei propri arti. Qui le auto private, là gli autobus pubblici, scacceranno le biciclette dalla strada. Tutti i governi vogliono una forza produttiva ad alta intensità di occupazione, ma sono restii a riconoscere che gli impieghi possono anche distruggere il valore d'uso del tempo libero. Tutti insistono perché si arrivi a una definizione professionale, più completa e oggettiva, dei bisogni della gente, ma sono insensibili all’espropriazione della vita che ne consegue.

Sul finire del Medioevo la straordinaria semplicità della teoria eliocentrica veniva usata come argomento per screditare la nuova astronomia. La sua eleganza era considerata ingenuità. Nella nostra epoca non sono certo rare le teorie imperniate sul valore d'uso e capaci di analizzare i costi sociali generati dalle economie ortodosse. Le propongono dozzine di outsiders, che le identificano spesso con la tecnologia radicale, con l'ecologia, con i modi di vita comunitari, con la piccola dimensione, con la bellezza. Come pretesto per non prenderle in considerazione, si oppone ad esse, ingigantendolo, il frequente insuccesso degli esperimenti tentati di persona dai loro fautori. Come l'inquisitore della leggenda si rifiutava di guardare nel telescopio di Galileo, così molti economisti odierni si rifiutano di prendere in considerazione un'analisi che potrebbe spostare il centro convenzionale del loro sistema economico. I nuovi sistemi analitici ci obbligherebbero a riconoscere l'ovvio: che in una cultura la quale voglia offrire un programma di vita soddisfacente alla maggioranza dei propri membri, la generazione di valori d'uso non negoziabili deve necessariamente occupare un posto centrale. Le culture sono programmi per attività, non per aziende. La società industriale distrugge questo centro inquinandolo col prodotto programmato dalle imprese, pubbliche o private, e degradando ciò che la gente può fare da sé o fabbricare per proprio conto. La conseguenza è che le società si sono trasformate in giganteschi giochi a somma zero, in sistemi di distribuzione monolitici nei quali il guadagno dell'uno diventa perdita o peso per l'altro, mentre la vera soddisfazione è negata a entrambi.

Strada facendo sono state distrutte innumerevoli serie di infrastrutture all'interno delle quali la gente s'arrabattava, giocava, mangiava, stringeva amicizie, faceva l'amore. Sono bastati un paio di decenni di cosiddetto sviluppo per smantellare modelli tradizionali di cultura dalla Manciuria al Montenegro. Prima, quei modelli permettevano alla gente di soddisfare quasi tutti i propri bisogni in un contesto di sussistenza; dopo, la plastica ha sostituito la ceramica, le bevande gassate l'acqua, il Valium la camomilla, i microsolchi le chitarre. In tutto il corso della storia la più sicura spia dei momenti brutti era la percentuale di cibo che bisognava comprare; i periodi buoni erano quelli in cui la maggior parte delle famiglie ricavava quasi tutto il proprio nutrimento da ciò che coltivava direttamente o che otteneva per mezzo di scambi in natura e doni. Sino alla fine del Settecento, il novantanove per cento del cibo che si consumava nel mondo era prodotto entro la cerchia del territorio che il consumatore poteva vedere dal campanile della chiesa o dal minareto. Le molteplici ordinanze che cercavano di porre limiti al numero dei polli e dei maiali allevati entro le mura delle città Ci ricordano che, tranne poche grandi aree urbane, anche negli agglomerati cittadini si produceva più della metà del cibo che si mangiava. Negli Stati Uniti, prima della seconda guerra mondiale, meno del quattro per cento di tutti i prodotti alimentari che si consumavano in una regione veniva importato dall'esterno, e queste importazioni erano in buona parte limitate alle undici città che superavano allora i due milioni di abitanti. Oggi, il quaranta per cento della popolazione sopravvive solo grazie all'esistenza dei mercati interregionali. Un futuro in cui la circolazione mondiale dei beni e dei capitali fosse drasticamente ridotta è oggi altrettanto sconveniente da evocare quanto un mondo moderno in cui gente attiva adoperi moderni strumenti conviviali per creare un'abbondanza di valori d'uso che la liberi dal consumismo. Questa reazione rispecchia l'idea che le attività utili con le quali la gente esprime e soddisfa i propri bisogni possano essere indefinitamente sostituite da beni o servizi standardizzati.

Al di là di una certa soglia, il moltiplicarsi delle merci induce impotenza, genera l'incapacità di coltivare cibo, di cantare, di costruire. La fatica e il piacere della condizione umana diventano un privilegio snobistico riservato a pochi ricchi. Al tempo in cui Kennedy varò l'Alleanza per il progresso, c'erano ad Acatzingo, come in quasi tutti i villaggi del Messico, quattro gruppi di musicanti; suonavano in cambio di qualche bicchiere, e servivano gli ottocento abitanti. Oggi giradischi e radio collegati ad altoparlanti strozzano i talenti locali. Ogni tanto, per nostalgia, si fa una colletta e in occasione di qualche festa si fa venire dall'Università un complesso di studenti fuori corso a cantare le vecchie canzoni.

Il giorno in cui nel Venezuela fu approvata la legge che sancisce il diritto di ogni cittadino a ottenere quella merce che si chiama “alloggio”, i tre quarti delle famiglie scoprirono che le abitazioni che esse stesse si erano costruite andavano considerate catapecchie. Inoltre - e qui sta il guaio era ormai pregiudicata la possibilità di far da soli:non era più lecito tirar su una casa senza aver prima presentato un progetto disegnato da un architetto laureato. I materiali di scarto e di recupero che sino allora a Caracas venivano utilizzati come eccellenti materiali da costruzione, crearono a questo punto un problema di eliminazione dei rifiuti solidi. Oggi l'uomo che si fa il proprio “alloggio” è malvisto come un deviante che si rifiuta di collaborare con il gruppo di pressione locale per l'assegnazione di unità abitative prodotte in serie. Sono inoltre venuti fuori innumerevoli regolamenti che bollano come illegale o addirittura delittuosa la sua ingegnosità. E’ un esempio che mostra come i poveri sono i primi a soffrire quando un nuovo tipo di merce interviene a castrare una delle attività tradizionali di sussistenza. La disoccupazione utile del povero che non ha un impiego è sacrificata all'espansione del mercato del lavoro. Il farsi la casa come attività intrapresa di propria scelta, al pari di qualunque altra libertà d'impiegare utilmente il tempo lasciato libero dal lavoro, diventa così privilegio esclusivo di qualche deviante, spesso del ricco ozioso.

La dipendenza dall'abbondanza castrante, una volta radicata in una cultura, genera la “povertà modernizzata”. Si tratta d'una forma di disvalore che non può non accompagnarsi alla proliferazione delle merci. Questa disutilità crescente della produzione industriale di massa è sfuggita all'attenzione degli economisti perché non è rilevabile con i loro strumenti di misura, e a quella dei servizi sociali perché non può essere oggetto di “ricerca operativa”. Gli economisti non dispongono di alcun mezzo efficace per comprendere nei loro calcoli la perdita che subisce l'intera società quando resta priva d'un tipo di soddisfazione che non ha un equivalente commerciale; sicché gli economisti si potrebbero oggi definire come i membri di una confraternita aperta soltanto a coloro che, nello svolgimento del lavoro professionale, danno prova d'una ben addestrata cecità sociale nei riguardi del più importante fenomeno di sostituzione che stia avvenendo nei sistemi contemporanei, d'Oriente come d'Occidente: il declino della capacità personale di agire e di fare, che è il prezzo pagato per ogni sovrappiù di abbondanza di prodotti.

Finché la povertà di tipo moderno ha colpito soprattutto gli indigenti, la sua esistenza e, a maggior ragione, la sua natura, sono state ignorate, persino a livello di conversazione. Man mano che lo sviluppo o, se si preferisce, la modernizzazione toccava i poveri - cioè coloro che fin lì erano riusciti a sopravvivere nonostante che fossero esclusi dall'economia di mercato - li si costringeva sistematicamente a far dipendere la propria sopravvivenza dall'inserimento in un sistema commerciale che, per loro, significava sempre e necessariamente ricevere gli scarti del mercato. Gli indios di Oaxaca, che prima erano sempre stati respinti dalle scuole, ora sono obbligati ad andarci, perché possano “guadagnarsi” un titolo di studio che rappresenta l'esatta misura della loro inferiorità rispetto alla popolazione urbana. Inoltre - e di nuovo è questo il guaio - senza quel pezzo di carta non possono trovar lavoro neanche nell'edilizia. La modernizzazione dei “bisogni”non fa che aggiungere nuovi motivi di discriminazione a danno dei poveri.

Ormai però la povertà modernizzata è esperienza comune a tutti, fuorché a coloro che sono tanto ricchi da potersi appartare nel lusso. Man mano che i diversi campi dell'esistenza vengono uno dopo l'altro assoggettati a merci offerte secondo un piano, pochi di noi riescono a sottrarsi a una ricorrente sensazione di dipendenza impotente. Il consumatore medio americano è bombardato ogni giorno da un centinaio di annunci pubblicitari, e reagisce a molti di essi - più spesso di quanto non si creda - negativamente. Persino la clientela facoltosa, ad ogni nuovo prodotto che acquista, fa una nuova esperienza di disutilità. Sospetta di aver comprato una cosa di dubbio valore, che presto forse si rivelerà inutile o addirittura pericolosa, e che richiede una schiera di accessori ancor più costosi. La clientela facoltosa allora si organizza: di solito comincia col chiedere un controllo sulla qualità, e non di rado riesce a mettere al bando certi prodotti. Sull'altro versante della società, la popolazione povera si “stacca” dai servizi e dalle “tutele”: South Chicago rifiuta l'assistenza sociale, il Kentucky respinge i libri di testo... Ricchi e poveri non sono molto lontani dal rendersi conto lucidamente che ogni ulteriore sviluppo d'una cultura ad alta intensità di merci porta con sé una nuova forma di ricchezza frustrante. E chi sta meglio economicamente comincia a intuire che nei poveri si rispecchia il suo stesso destino, anche se per ora i segni di questa consapevolezza non sono andati al di là d'una sorta di romanticismo.

L'ideologia che fa coincidere il progresso con l'abbondanza non è ristretta ai paesi ricchi. E presente, e degrada le attività non negoziabili, anche in zone dove fino a tempi recenti la maggioranza dei bisogni veniva ancora soddisfatta con un modo di vita basato sulla sussistenza. I cinesi, per esempio, coerentemente con la loro tradizione, parevano intenzionati e capaci di definire in maniera diversa il progresso tecnico, di optare per la bicicletta anziché per il jet. Quando promuovevano l'autodeterminazione locale, sembravano considerarla una meta degna di gente inventiva, più che un mezzo per la difesa nazionale. Ma nel 1977 la loro propaganda inneggiava alla capacità industriale cinese di fornire più assistenza medica, più istruzione, più case, più benessere generale - a un costo più basso. Non si attribuisce ormai che una funzione puramente tattica, e transitoria, alle erbe che il “medico scalzo” porta nel sacco e ai metodi di produzione ad alta intensità di lavoro. Come in altre parti del mondo, anche qui la produzione di beni eteronoma - cioè eterodiretta -, programmata per categorie di consumatori anonimi, suscita aspettative irrealistiche e alla lunga frustranti. Inevitabilmente, inoltre, questo processo corrompe la fiducia della gente nelle capacità autonome proprie e del prossimo, capacità sempre impreviste e ogni volta sorprendenti. La Cina, da questo punto di vista, non è che l'ultimo esempio di modernizzazione all'occidentale, ottenuta cioè con la soggezione intensiva al mercato: un fenomeno che devasta le società tradizionali come non ci è mai riuscito nessun “culto del cargo”, neanche nelle sue forme estreme più irrazionali.

Nelle società tradizionali come in quelle moderne, in un tempo assai breve è avvenuto un mutamento importante: sono radicalmente cambiati i mezzi intesi a soddisfare i bisogni. Il motore ha fiaccato il muscolo, la scuola ha spento la curiosità individuale fiduciosa nelle proprie forze. Di conseguenza, tanto i bisogni quanto i desideri hanno assunto caratteristiche senza precedenti nella storia. Per la prima volta i bisogni coincidono quasi esclusivamente con delle merci. Finché la maggioranza della gente non disponeva che delle gambe per andare dove voleva, protestava se veniva ostacolata la sua libertà di spostarsi. Ora che dipende invece dai mezzi di trasporto, rivendica non la libertà ma il diritto di divorare chilometri a bordo d'un veicolo. E man mano che un sempre maggior numero di veicoli assicura questo “diritto” a un sempre maggior numero di persone, la libertà di camminare si svaluta, eclissata dall'esistenza ditale diritto. I desideri della stragrande maggioranza della gente si uniformano, e non si riesce neanche più a immaginare che sia possibile liberarsi dalla condizione universale di passeggeri, cioè di godere la libertà dell'uomo moderno, in un mondo moderno, di muoversi autonomamente.

Questa situazione, che è ormai di una rigida interdipendenza tra bisogni e mercato, viene legittimata appellandosi al giudizio di una élite di specialisti il cui sapere, per sua stessa natura, non è di dominio comune. Gli economisti tanto di destra quanto di sinistra garantiscono al pubblico che un aumento dei posti di lavoro dipende da una maggiore disponibilità di energia; gli educatori lo persuadono che la legge, l'ordine e la produttività dipendono da un maggior grado d'istruzione; i ginecologi assicurano che la qualità della vita infantile dipende dalla loro partécipazione ai parti. Pertanto, finché non verrà tolta l'immunità a queste élites che legittimano il binomio merce-soddisfazione, non sarà possibile contestare efficacemente il quasi universale affermarsi dell'intensità di mercato nelle economie del mondo.

Un buon esempio, a illustrazione di questo, me lo ha dato una donna raccontandomi la nascita del suo terzo figlio. Istruita dall'esperienza dei primi due parti, affrontava il terzo con tutta serenità: sapeva “cosa succede” e conosceva le proprie reazioni. Entrata in ospedale, sentendo arrivare il bambino chiamò l'infermiera. Ma questa, anziché aiutarla, afferrò un panno sterilizzato e si mise a premere la testa del bambino cercando di farlo “rientrare”, e intanto ordinava alla madre di smetterla di spingere perché “il dottor Levy non è ancora arrivato”.

Ciò che occorre in questo momento è la decisione pubblica, l'azione politica, non l'affidamento agli specialisti. Le società moderne, ricche o povere che siano, possono scegliere tra due strade opposte. Possono produrre un nuovo campionario di merci - magari più sicure, meno dispendiose, più facilmente ripartibili - e intensificare così ulteriormente la loro dipendenza dai beni di consumo. Oppure possono affrontare in un modo completamente nuovo il rapporto tra bisogni e soddisfazioni. In altre parole possono o conservare le loro economie ad alta intensità di mercato, modificando soltanto le caratteristiche tecniche del prodotto, o ridurre la loro dipendenza dalle merci. La seconda soluzione comporta l'avventura di immaginare e costruire strutture nuove in cui gli individui e le comunità possano elaborare un diverso tipo di attrezzatura moderna; scopo di questa nuova organizzazione dovrebb'essere quello di permettere alla gente di modellare e soddisfare direttamente e personalmente una crescente porzione dei propri bisogni.

La prima soluzione significherebbe continuare a identificare il progresso tecnico con la moltiplicazione delle merci. Gli alti burocrati di convinzioni egualitarie e i tecnocrati dell'assistenza sarebbero concordi nell'invitare all'austerità: raccomanderebbero di passare dai beni di cui non tutti ovviamente possono fruire, per esempio gli aerei a reazione, alle cosiddette attrezzature “sociali” come gli autobus; di distribuire in maniera più equa le decrescenti ore di occupazione disponibili e di limitare severamente la settimana lavorativa a una ventina di ore di presenza sul posto di lavoro; di destinare la nuova risorsa del tempo lasciato libero dall'impiego a corsi obbligatori di riqualificazione o a un servizio volontario sui modelli di Mao, Castro o Kennedy. Questa nuova fase della società industriale, per quanto socialista, efficiente e razionale, darebbe luogo a una nuova civiltà nella quale la soddisfazione dei desideri sarebbe declassata all'appagamento ripetitivo di bisogni ascritti, mediante prodotti standardizzati. Nel caso migliore, tale tipo di società produrrebbe minori quantitativi di beni e di servizi, li distribuirebbe più equamente e susciterebbe meno invidie. La partecipazione simbolica del popolo alle decisioni da prendere potrebbe passare dal savio acquirente del mercato al compunto ascoltatore delle assemblee politiche. L'impatto della produzione sull'ambiente potrebbe venire ammorbidito. Con ritmo assai più rapido dei beni di consumo crescerebbero sicuramente i servizi, specie le varie forme di controllo sociale. Già oggi si spendono somme enormi nell'industria dell'oracolo per permettere ai profeti governativi di sputare scenari “alternativi” diretti a puntellare la scelta di cui stiamo parlando. Particolare interessante, molti di costoro sono già arrivati a concludere che il costo dei controlli sociali necessari per imporre l'austerità in una società ecologicamente accettabile, ma pur sempre imperniata sulla produzione standardizzata, sarebbe insostenibile.

La seconda delle due scelte possibili metterebbe fine al dominio assoluto del prodotto standard e promuoverebbe un'etica austera diretta a favorire un'attività soddisfacente da parte dei più. Se nella prima alternativa austerità significherebbe sottomissione di ognuno agli ukase dei managers nell'interesse d'una maggiore produttività istituzionale, nella seconda l'austerità sarebbe quella virtù sociale per cui la gente riconosce e fissa dei limiti al potere che ognuno può rivendicare sugli strumenti, tanto per la propria soddisfazione quanto per servire gli altri. Questa austerità conviviale sollecita la società a proteggere il valore d’uso personale contro l’arricchimento mutilante. Protette dalla perniciosa opulenza, sorgerebbero molteplici culture differenziate, tutte moderne e tutte propizie ad un impiego diffuso degli strumenti moderni. L'austerità conviviale delimita infatti in tal modo l'utilizzazione degli strumenti, che la proprietà di questi perderebbe gran parte del suo potere attuale. Che le biciclette appartengano qui alla comunità e lì a chi le adopera non muta la natura essenzialmente conviviale della bicicletta come strumento. I beni di questo tipo continuerebbero a essere prodotti, in gran parte, con metodi industriali, ma sarebbe diverso il modo di considerarli e di apprezzarli. Oggi le merci sono principalmente degli articoli che rispondono direttamente a dei bisogni creati da coloro che le hanno progettate. Nella seconda soluzione, invece, il loro prezzo deriverebbe dal fatto di essere o materiali grezzi o strumenti che permettono alla gente di generare valori d'uso assicurando la sussistenza delle rispettive comunità.

Ovviamente questa scelta comporta una rivoluzione copernicana nella nostra concezione dei valori. Oggi noi mettiamo al centro del nostro sistema economico i beni di consumo e i servizi professionali, e gli specialisti pongono in relazione i nostri bisogni esclusivamente con tale centro. Viceversa l'inversione sociale che qui si contempla porrebbe al centro i valori d'uso creati e personalmente promossi dalla gente. È vero che gli uomini sono arrivati a non credersi più capaci di modellare i propri desideri. La discriminazione che in tutto il mondo colpisce l'autodidatta ha infirmato la fiducia di molti nella capacità di determinare i propri bisogni e i propri fini. Ma la stessa discriminazione ha anche suscitato e rafforzato una molteplicità di minoranze insofferenti di questa insidiosa spoliazione.


Servizi professionali menomanti

Queste minoranze già si rendono conto che, come tutte le forme di vita culturale autoctona, esse sono minacciate dai megastrumenti che espropriano sistematicamente le condizioni ambientali propizie all'autonomia individuale e di gruppo. Perciò, senza far chiasso, decidono di difendere l'utilità dei loro corpi, delle loro memorie e dei loro talenti. Poichè il rapido moltiplicarsi dei bisogni attribuiti genera forme di dipendenza sempre nuove e sempre nuove categorie di povertà modernizzata, le odierne società industriali stanno diventando dei conglomerati interdipendenti di clientele, degli insiemi di maggioranze, contrassegnate da stigmate burocratiche. In questa massa di cittadini paralizzati dai mezzi di trasporto, resi insonni dagli orari, avvelenati dalla terapia ormonica, ammutoliti dagli altoparlanti, intossicati dagli alimenti, alcuni costituiscono minoranze organizzate e attive. Per ora questi gruppi hanno appena cominciato a formarsi e ad unirsi per esprimere pubblicamente il loro dissenso; ma soggettivamente sono pronti a chiudere un'epoca. Solo che un'epoca non è veramente liquidata se non quando ha avuto un nome. lo propongo di chiamare quest'ultimo quarto di secolo: l'Era delle professioni menomanti. Scelgo questa denominazione perché è impegnativa per chi la usa. Mette infatti in luce le funzioni antisociali svolte dai fornitori meno contestati: gli educatori, i medici, gli specialisti di assistenza sociale, gli scienziati. Nello stesso tempo mette sotto accusa la passività dei cittadini che si sono sottomessi come clienti a questa poliedrica schiavitù. Parlare del potere delle professioni menomanti significa costringere le loro vittime (lo studente a vita, il 'caso' ginecologico, il consumatore) a riconoscere la propria connivenza con i rispettivi gestori. Definendo gli anni Sessanta l’apogeo del “solutore di problemi”, si evidenzia nello stesso tempo la tronfia presunzione delle nostre élites universitarie e l'avida dabbenaggine delle loro vittime.

Ma non basta smascherare e denunciare i fabbricanti dell'immaginazione sociale e dei valori culturali: definendo l'ultimo venticinquennio l'Era della dominazione professionale, si vuol fare qualcosa di più, si vuole proporre una strategia. E’ necessario infatti andare al di là di una diversa distribuzione, fatta dagli esperti, di merci dispendiose, irrazionali e paralizzanti, al di là del marchio di garanzia del professionismo radicale, al di là della saggezza convenzionale degli odierni “uomini in gamba”. Questa strategia esige né più né meno che lo smascheramento dell'ethos professionale. La credibilità dell'esperto, sia scienziato, terapista o manager, è il tallone d'Achille del sistema industriale. E quindi soltanto quelle iniziative civiche e quelle tecnologie radicali che si oppongano direttamente all'insinuante dominio delle professioni menomanti aprono la via al libero esercizio di competenze non gerarchiche, basate sulla comunità. La fine dell'attuale ethos professionale è condizione necessaria perché emerga un nuovo rapporto tra i bisogni, gli strumenti contemporanei e la soddisfazione degli individui. E il primo passo in questa direzione è un atteggiamento scettico e privo di deferenza, da parte del cittadino, nei confronti dello specialista. La ricostruzione della società ha inizio quando i cittadini cominciano a dubitare.

Quando affermo che l'analisi del potere professionale è la chiave per ricostruire la società, mi viene solitamente obiettato che è uno sbaglio pericoloso individuare in tale fenomeno il nodo della guarigione dal sistema industriale. L'organizzazione del sistema educativo, di quello sanitario, della pianificazione, non rispecchia forse la distribuzione del potere e del privilegio di un'élite capitalistica? Non è da irresponsabili minare la fiducia dell'uomo della strada nel suo insegnante, nel suo medico, nel suo economista, tutta gente dotata di preparazione scientifica, proprio nel momento in cui i poveri hanno bisogno di tali protettori preparati per ottenere accesso alla scuola, alla clinica, all'istituto specializzato? L'atto d'accusa contro il sistema industriale non dovrebbe piuttosto essere rivolto contro i dividendi degli azionisti delle ditte farmaceutiche o contro le tangenti dei sensali del potere appartenenti alle nuove élites? Perché guastare i rapporti di mutua dipendenza tra clienti e fornitori professionali, specie considerando che sempre più spesso gli uni e gli altri fanno parte della medesima classe sociale? Non è pura perversità denigrare proprio coloro che sudando hanno acquisito conoscenze che li rendono capaci di riconoscere i nostri bisogni di benessere e di soddisfarli? E d'altra parte non andrebbe fatta una distinzione per i leaders professionali del radicalismo socialista, che sono i più adatti a svolgere il compito ormai incombente di definire e soddisfare i bisogni “reali” in una società egualitaria? Anche se espressi in forma interrogativa, sono questi gli argomenti che il più delle volte si adducono per scoraggiare e screditare un'analisi pubblica degli effetti menomanti prodotti dai sistemi industriali di assistenza che s'imperniano sui servizi. Tali effetti sono sostanzialmente identici e palesemente inevitabili, qualunque sia la bandiera politica che li copre. Essi annientano l'autonomia degli uomini costringendoli - mediante modificazioni delle leggi, dell'ambiente e delle strutture sociali - a diventare consumatori di assistenza. Queste domande retoriche esprimono solo una frenetica difesa dei propri privilegi da parte delle “élites del sapere” le quali perderebbero forse qualche introito ma acquisterebbero sicuramente maggiore prestigio e potere se, in una nuova forma decentrata di economia ad alta intensità di mercato, si rendesse meno ineguale la dipendenza dalle loro prestazioni.

Un'altra obiezione che viene mossa alla critica del potere professionale si fonda su un grosso equivoco. Essa parte dall'assunto che il nodo principale da analizzare sia la complessa macchina della difesa, che costituirebbe il centro di ogni società burocratico-industriale. Il ragionamento che partendo da questa base viene sviluppato identifica nelle forze di sicurezza il motore che starebbe dietro all'odierna universale irreggimentazione dei popoli in un esercito di sudditi del mercato. I principali creatori di bisogni sarebbero quelle burocrazie armate che esistono da quando, durante il regno di Luigi XIII, Richelieu istituì la prima polizia di mestiere: cioè quegli organismi professionali che oggi si occupano degli armamenti, dello spionaggio e della propaganda. Da Hiroshima in poi, questi 'servizi' sembrano avere un peso determinante nella ricerca, nella progettazione e nell'occupazione. Essi poggiano su fondamenta civili, quali la scolarizzazione per inculcare la disciplina, l'educazione al consumo per indurre il gusto dello spreco, l'assuefazione alle velocità violente, l'ingegneria biologica per imparare a sopravvivere in un rifugio di dimensioni planetarie, la dipendenza uniforme da reazioni distribuite da benevoli furieri. Questa corrente di pensiero vede nella sicurezza nazionale il generatore dei modelli di produzione della società, e considera gran parte dell'economia civile un derivato o un presupposto di quella militare.

Se valesse un ragionamento costruito su questi concetti, quale società potrebbe fare a meno del nucleare, per quanto tossica, opprimente e controproducente possa essere un'ulteriore sovrabbondanza di energia? Come potrebbe uno Stato assillato dalla difesa tollerare la formazione di gruppi di cittadini malcontenti che boicottino i circuiti di consumo e rivendichino la libertà di sussistere sulla sola base dei valori d'uso, in un'atmosfera di austerità soddisfacente e gioiosa? Una società militarizzata non si affretterebbe forse a prendere provvedimenti contro tali disertori del bisogno, a bollarli come traditori e ad esporli, se possibile, non soltanto al disprezzo ma al ridicolo? Una società impostata sulla difesa non soffocherebbe forse simili esempi che porterebbero a una modernità non violenta, proprio nel momento in cui si richiede una politica alla Mao, di decentramento della produzione delle merci e un consumo più razionale, più equo, più vigilato dai professionisti?

Il ragionamento in questione attribuisce indebitamente all'apparato militare l'origine della violenza nello Stato industriale. Che l'aggressività e la distruttività delle società industriali siano da imputare alle esigenze militari è un'idea ingannevole che va denunciata. Se davvero i militari si fossero in qualche modo impadroniti del sistema industriale, se avessero sottratto al controllo dei civili le varie sfere di iniziativa e d'azione sociale, lo stadio attuale della politica perseguita dai militari avrebbe allora toccato un punto da cui non si torna più indietro, almeno nel senso che non resterebbe alcuna possibilità di riforme civili. Così del resto ragionano i capi militari brasiliani più intelligenti, i quali vedono nelle forze annate l'unica legittima salvaguardia di un pacifico sviluppo industriale per tutto il resto del secolo.

Ma non è affatto così. Lo stato industriale moderno non è un prodotto dell'esercito. Piuttosto l'esercito è uno dei sintomi del suo orientamento globale e costante. Non c'è dubbio che l'odierno tipo di organizzazione industriale può esser fatto risalire ad antecedenti militari dell'epoca napoleonica. Non c'è dubbio che l'istruzione obbligatoria per i figli dei contadini avviata negli anni Cinquanta del secolo scorso, l'assistenza sanitaria per il proletariato industriale che inizia negli anni Cinquanta dello stesso secolo, lo sviluppo delle reti di comunicazione che si ha dal 1860 in poi, non diversamente dalla maggior parte delle forme di standardizzazione industriale, sono tutte strategie originariamente introdotte nelle società moderne per esigenze militari e che solo in un secondo tempo sono state considerate forme rispettabili di pacifico progresso civile. Ma il fatto che i sistemi sanitario, scolastico e assistenziale abbiano avuto bisogno di una motivazione militare per diventare legge non significa che non fossero perfettamente coerenti con la spinta fondamentale dello sviluppo industriale che, in realtà, non è mai stato non violento, pacifico o rispettoso della persona umana.

Oggi è più facile rendersene conto. Prima di tutto perché, da quando c'è il Polaris, non è più possibile distinguere tra eserciti da tempo di pace ed eserciti da tempo di guerra; e poi perché da quando si è dichiarata guerra alla povertà anche la pace percorre il sentiero di guerra. Oggi le società industriali sono costantemente e totalmente mobilitate; sono organizzate in funzione di perenni stati di emergenza; non c e uno dei loro settori che non sia intersecato da molteplici strategie; i campi di battaglia della salute, dell'istruzione, dell'assistenza e dell'“uguaglianza compensatoria” sono cosparsi di vittime e coperti di macerie; l'esercizio delle libertà civiche viene frequentemente sospeso per condurre campagne contro i mali sempre nuovi che si continuano a scoprire; ogni anno si individua un nuovo gruppo di popolazione di frontiera che occorre proteggere o guarire da qualche nuova malattia, da qualche forma d'ignoranza prima sconosciuta. I bisogni fondamentali che vengono modellati e indotti da tutti gli organismi professionali sono bisogni di difesa da mali.

I professori e i sociologi che oggi cercano di imputare ai militari la distruttività delle società sovraproduttrici di merci tentano, in maniera molto goffa, di arrestare l'erosione della propria legittimità. Sostenendo che è colpa dei militari se il sistema industriale diventa frustrante e rovinoso, essi distraggono l'attenzione dal carattere profondamente distruttivo proprio della società ad alta intensità di mercato, che sospinge i suoi cittadini alle guerre attuali.Tanto a coloro che cercano di difendere la propria autonomia di professionisti dalla maturità dei cittadini, quanto a coloro che vorrebbero far passare il professionista come una vittima dello Stato militarizzato, si deve rispondere con una scelta: quella della direzione nella quale i cittadini liberi vogliono avviarsi per superare la crisi mondiale.

Le illusioni che hanno permesso alle professioni di arrogarsi il ruolo di arbitri dei bisogni sono ormai sempre più evidenti al senso comune. I metodi seguiti nel settore dei servizi sono spesso percepiti per ciò che in effetti sono coperte di Linus, tranquillanti, rituali, che celano alla massa dei fornitori-consumatori l'antinomia tra l'ideale in nome del quale viene fornito il servizio e la realtà che da questo stesso servizio viene creata. Le scuole, che promettono istruzione eguale per tutti, generano una meritocrazia inegualmente degradante e una dipendenza a vita da ulteriori interventi didattici; i veicoli costringono ognuno a fuggire in avanti. Ma il pubblico non ha ancora ben chiaro qual è la scelta che l'attende. Da una parte, la tutela degli specialisti potrebbe sfociare in fedi politiche obbligatorie (con le correlative versioni di un nuovo fascismo); dall'altra, le esperienze dei cittadini potrebbero metter fine alla nostra hubris, liquidandola come un'ennesima manifestazione storica di follie neoprometeiche ma sostanzialmente effimere. Una scelta consapevole richiede che si esamini il ruolo specifico che hanno avuto le professioni nel determinare chi in quest'epoca ha ottenuto cosa, da chi e perché.

Per vedere chiaro il punto a cui siamo, immaginiamo i bambini che presto giocheranno tra le macerie delle università, degli Hilton e degli ospedali. In questi castelli professionali convertiti in cattedrali, eretti per proteggerci dall'ignoranza, dal disagio, dalla sofferenza e dalla morte, i bambini di domani rappresenteranno nei loro giochi le illusioni della nostra Era delle professioni, così come dinanzi ai castelli e alle cattedrali del passato noi evochiamo le crociate dei cavalieri contro il turco e il peccato nell'Era della fede. E mescoleranno il birignao che oggi infesta la nostra lingua con gli arcaismi ereditati dalle storie di briganti e di cowboy. Già li sento chiamarsi tra loro presidente e sottosegretario piuttosto che capo e sceriffo. Naturalmente gli adulti allora arrossiranno quando gli scapperà qualche termine della lingua creola manageriale, tipo policy-making, pianificazione sociale o problemsolving.

L'Era delle professioni sarà ricordata come il periodo nel quale la politica si estinse e gli elettori, guidati dai professori, affidavano ai tecnocrati il potere di legiferare sui bisogni, l'autorità di stabilire chi avesse bisogno e di che, e il monopolio dei mezzi con i quali soddisfare tali bisogni. Sarà ricordata anche come l'Era della scolarizzazione, nella quale gli uomini venivano addestrati per un terzo della vita ad accumulare bisogni su prescrizione e negli altri due terzi costituivano la clientela di prestigiosi spacciatori che alimentavano i loro vizi. Sarà ricordata come l'epoca nella quale viaggiare per diporto voleva dire muoversi in gregge per andare a sbirciare degli stranieri; in cui la vita intima voleva dire esercitarsi a raggiungere l'orgasmo sotto la guida di Masters e Johnson; in cui esprimere un'opinione voleva dire ripetere a pappagallo il discorso trasmesso la sera prima dalla tv; in cui votare significava dire di sì al piazzista che prometteva una dose maggiore della solita merce.

I futuri studenti saranno sconcertati dalle assente differenze tra i sistemi scolastico, carcerario, sanitario e dei trasporti del mondo capitalista e di quello socialista, quanto lo sono gli studenti d'oggi dalle differenze tra la giustificazione per le opere e la giustificazione per fede che dividevano le sette cristiane al tempo della Riforma. Scopriranno anche che, nei paesi poveri e in quelli socialisti, in capo a dieci anni i bibliotecari, i chirurghi e i progettisti di supermercati finivano col tenere gli stessi cataloghi, usare gli stessi apparecchi e disegnare gli stessi ambienti che i loro colleghi dei paesi ricchi avevano cominciato a tenere, usare e disegnare all'inizio del decennio. Gli archeologi periodizzeranno il nostro tempo sulla base non di cocci ma di mode professionali, rispecchiate dalle tendenze in auge nelle pubblicazioni dell'UNESCO.

Sarebbe pretenzioso voler predire se una tale epoca, in cui i bisogni erano modellati da pianificazioni professionali, sarà ricordata con un sorriso o con una maledizione. Mi auguro, ovviamente, che venga ricordata come la sera in cui papà andò a prendersi una sbornia, dissipò le sostanze familiari e costrinse i suoi figli a ripartire da zero. Ma disgraziatamente è più probabile che passi alla storia come l'epoca nella quale la frenetica caccia di un'intera generazione alla ricchezza depauperante rese alienabili tutte le libertà e la politica, dopo essersi ridotta a lamentela organizzata degli assistiti, fu definitivamente soffocata dal potere totalitario degli specialisti.

Di un fatto bisogna anzitutto rendersi conto: i corpi professionali che presiedono oggi alla creazione, aggiudicazione e soddisfazione dei bisogni costituiscono un nuovo tipo di cartello. Se non si tiene presente questo fatto, è impossibile aggirare le difese che essi vengono preparando. Già vediamo infatti il nuovo biocrate occultarsi dietro la maschera amabile del medico d'una volta; il comportamento aggressivo del pedocrate viene minimizzato come semplice eccesso di zelo o ingenuità dell'insegnante impegnato; il direttore del personale, equipaggiato con tutto un armamentario psicologico, si camuffa da capoccia vecchio stile. I nuovi specialisti, che di solito provvedono a bisogni umani che la loro specialità ha creato, tendono ad atteggiarsi ad amanti del prossimo che forniscono una qualche forma di assistenza. Arroccati più saldamente d'una burocrazia bizantina, internazionali più d'una chiesa universale, stabili più di qualunque sindacato, possiedono competenze più vaste di quelle di qualsiasi sciamano ed esercitano sulla propria clientela un controllo più stretto di quello della mafia.

I nuovi specialisti organizzati, come prima cosa, non vanno considerati alla stessa stregua dei membri di un racket. Gli educatori, per esempio, oggi dicono alla società che cosa si deve imparare e hanno il potere di vanificare ciò che si è appreso fuori della scuola; questa sorta di monopolio, che li mette in grado d'impedirti di far compere altrove e di fabbricarti in casa la tua grappa, a prima vista sembra corrispondere alla definizione che il dizionario dà del racket. Ma il racket consiste nell'assicurarsi a fine di lucro il monopolio di un prodotto essenziale, controllandone il circuito di distribuzione. Invece gli educatori e i medici e gli assistenti sociali d'oggi - come un tempo i preti e gli avvocati - si arrogano il potere legale di creare quel bisogno che, sempre per legge, soltanto loro saranno autorizzati a soddisfare. Lo Stato contemporaneo diventa così una holding di imprese le quali consentono l'esercizio di mansioni di cui sono al tempo stesso creatrici e garanti.

Il controllo legale della prestazione d'opera ha assunto nel tempo una molteplicità di forme: i soldati di ventura si rifiutavano di combattere finché non ottenevano licenza di saccheggio; le donne organizzate da Lisistrata per imporre la pace si astenevano dai rapporti coniugali; i medici di Coo si impegnavano sotto giuramento a trasmetterei segreti del mestiere soltanto ai propri figli; le corporazioni stabilivano il corso di studi, le preghiere, gli esami, i pellegrinaggi e le penitenze per cui doveva passare Hans Sachs prima d'essere autorizzato a calzare i propri concittadini. Nei paesi capitalisti i sindacati cercano di controllare l'occupazione, gli orari e le paghe. Tutte queste associazioni di mestiere sono mezzi con cui degli specialisti cercano di determinare in che modo il loro genere di lavoro dev'essere fatto e da chi. Ma nessuno di tali specialisti è “professionista” nel senso in cui lo sono oggi, poniamo, i medici. Le attuali professioni dominanti, di cui quella medica è l'esempio più cospicuo e doloroso, vanno molto più in là: esse decidono che cosa si deve fare, a chi, e in che modo la faccenda deve essere gestita. Si arrogano un sapere speciale, incomunicabile, per quanto concerne non solo lo stato delle cose e quello che occorre fare, ma anche le ragioni che rendono indispensabili le loro prestazioni. Un commerciante ti vende la merce che ha in magazzino. I membri di una corporazione garantiscono la qualità di ciò che fanno. Certi artigiani confezionano il loro prodotto sulle tue misure o a tuo gusto. I professionisti invece ti dicono di che cosa tu hai bisogno. Si arrogano il potere di prescrivere. Non si limitano a reclamizzare ciò che è buono, ma decretano ciò che è giusto e doveroso. L'elemento che caratterizza il professionista non è né il reddito, né la lunga preparazione, né la delicatezza dei compiti, né la stima sociale. Il reddito può essere basso o divorato dalle tasse; la preparazione può essere compressa in poche settimane anziché richiedere anni; la stima può non essere superiore a quella della professione più antica. Ciò che conta è l'autorità, di cui il professionista è investito, di definire “cliente” una persona, di determinare i bisogni e di rilasciarle una prescrizione che le assegna un nuovo ruolo sociale. A differenza dei ciarlatani d'una volta, il professionista odierno non è uno che vende ciò che si potrebbe avere gratis, ma uno che decide quello che va venduto e che non va dato gratuitamente.

Un'ulteriore differenza tra il potere delle professioni e quello di altre attività è che il potere professionale emana da una fonte diversa. Un sindacato, una corporazione, una banda impongono il rispetto dei propri diritti e interessi con lo sciopero, il ricatto o l'aperta violenza. Una professione invece, al pari di un clero, ha potere per concessione di una élite di cui puntella gli interessi. Come un clero assicura la salvezza a chi si mette al seguito del re unto, così una professione interpreta, tutela e garantisce uno speciale interesse terreno ai seguaci dei moderni sovrani. Il potere professionale è una forma specializzata del privilegio di prescrivere ciò che è giusto per i terzi e di cui essi hanno perciò bisogno. E la fonte del prestigio e del controllo nel quadro dello Stato industriale. Ovviamente questo tipo di potere poteva nascere soltanto in società dove la stessa appartenenza all'élite è legittimata, se non acquisita, dalla condizione professionale: una società dove alle élites governanti si attribuisce una obiettività unica nel suo genere, quella di definire il rango morale di una carenza. Esso è perfettamente congruo con un'epoca nella quale persino l'accesso al parlamento, ossia alla camera della gente comune, è riservato di fatto a coloro che possiedono un titolo di studio adeguato, ottenuto accumulando capitali di sapere in qualche istituto d'istruzione superiore. L'autonomia professionale e la licenza di stabilire i bisogni di una società sono le logiche forme che l'oligarchia assume in una cultura politica dove all'attestato di censo si sono sostituiti i certificati di patrimonio di sapere rilasciati dalle scuole. Il potere che le professioni conferiscono all'opera dei loro membri è dunque distinto sia per portata che per origine.

Da qualche tempo, inoltre, il potere professionale ha avuto un tale incremento che ormai il medesimo nome sta ad indicare due realtà completamente diverse. L'odierno biocrate, per esempio, esercita e sperimenta al riparo di qualunque analisi critica indossando i panni del vecchio medico di famiglia. Il medico girovago divenne il dottore in medicina quando lasciò allo speziale il commercio dei farmaci tenendo per sé il potere di prescriverli. In quel momento, unendo tre ruoli in un'unica persona, acquisì una nuova, triplice forma di autorità: l'autorità sapienziale di chi consiglia, insegna e guida; l'autorità morale, che rende non soltanto utile ma doverosa l'accettazione della sua sapienza; e l'autorità carismatica, che consente al medico di invocare un interesse supremo dei suoi clienti, più importante non solo della coscienza, ma a volte persino della ragion di Stato. Questo genere di medico esiste ancora, ma nel sistema sanitario moderno è ormai una sopravvivenza del passato. Molto più frequente, oggi, è un nuovo tipo di tecnico della salute. Costui si occupa sempre più di “casi” anziché di persone; s'interessa del dettaglio che può scorgere nel caso più che del disturbo dell’individuo; tutela l'interesse della società più che quello della persona. Le tre forme di autorità che, nell'era liberale, il singolo medico aveva riunito in sé nella cura del paziente, sono ora rivendicate dalla corporazione professionale in nome e al servizio dello Stato. L'ente medico si attribuisce ormai una missione sociale.

Da professione liberale che era, nell'ultimo quarto di secolo la medicina è divenuta una professione dominante conquistando il potere di stabilire quello che è un bisogno sanitario della generalità degli uomini. Gli specialisti della salute hanno oggi, come corporazione, l'autorità di decidere quali cure debbano essere dispensate alla collettività. Non è più il singolo professionista che imputa un “bisogno” al singolo cliente, ma un corpo costituito che imputa un bisogno a intere categorie di persone e che rivendica quindi il mandato di sottoporre a esami tutta quanta la popolazione per individuare tutti coloro che <appartengono al gruppo dei suoi potenziali pazienti. E ciò che accade nel campo della salute corrisponde esattamente a quanto avviene in altri settori. Nuovi sapienti continuano a emulare il fornitore di assistenza terapeutica. Gli educatori, gli assistenti sociali, i militari, gli urbanisti, i giudici, i poliziotti e altri dello stesso stampo ce l'hanno evidentemente già fatta: godono infatti di ampia autonomia nella creazione degli strumenti diagnostici con i quali catturare poi la clientela da curare. Decine di altri creatori di bisogni si provano anche loro: banchieri internazionali “diagnosticano” i mali di un paese africano e lo inducono poi a ingoiare la medicina prescritta, anche a rischio della vita del “paziente”; specialisti della sicurezza valutano il grado di rischio del lealismo del cittadino e finiscono col distruggere la sua sfera privata; persino gli accalappiacani si spacciano per specialisti della prevenzione contro gli animali nocivi e si arrogano il diritto di vita e di morte sui cani randagi. Il solo modo di arrestare l'escalation dei bisogni è una denuncia radicale, politica, delle illusioni che legittimano il dominio delle professioni.

Parecchie professioni si sono talmente consolidate che non solo tengono sotto tutela il cittadino divenuto cliente, ma determinano la forma del suo mondo, divenuto un ospedale. La lingua nella quale egli si esprime, il suo modo di concepire i diritti e le libertà, la sua coscienza dei bisogni recano tutti l'impronta dell'egemonia delle professioni.

La differenza tra l'artigiano, il membro d'una professione liberale e il nuovo tecnocrate risulta chiara mettendo a confronto le tipiche reazioni suscitate dalla decisione di non attenersi ai rispettivi pareri. Se non seguivi il consiglio dell'artigiano, eri uno stupido. Se non ascoltavi il parere del libero professionista, incorrevi nella riprovazione della società. Oggi, invece, è alla professione o all'autorità pubblica che si darà colpa se tu ti sottrai alle cure che hanno deciso di dispensarti il legale, l'insegnante, il chirurgo o lo psicanalista. Con la scusa di soddisfare i bisogni in maniera migliore e più equa, il professionista dei servizi si è tramutato in un filantropo militante. Il dietologo prescrive la “giusta” formula per il neonato, lo psichiatra il “giusto” antidepressivo, e il maestro di scuola - oggi investito dei più ampi poteri dell’“educatore” - si sente autorizzato a frapporre il suo metodo fra te e qualunque cosa tu abbia voglia d'imparare. Ogni nuova specialità nella produzione dei servizi si afferma nel momento in cui il pubblico adotta, e la legge avalla, una nuova concezione di “ciò che non dovrebbe esistere”. L'istituzione scolastica si è sviluppata nel corso di una crociata moralistica contro l'analfabetismo, una volta che l'analfabetismo era stato definito un male. Le cliniche di maternità si sono moltiplicate per porre fine ai parti in casa, ritenuti perniciosi.

I professionisti rivendicano il monopolio della definizione della devianza e dei rimedi necessari. Gli avvocati, per esempio (gli esempi che porto possono valere in misura diversa nei diversi paesi: ma la tendenza di fondo è dappertutto uguale), affermano di essere i soli ad avere la competenza e il diritto legale di assistere chi vuole divorziare. Se escogiti un sistema per divorziare senza assistenza, ti cacci in un guaio: se non sei avvocato, puoi essere chiamato a rispondere di esercizio abusivo della professione; se lo sei, rischi la radiazione dall'ordine per comportamento antiprofessionale. I professionisti vantano inoltre una scienza segreta circa la natura umana e le sue debolezze, scienza che soltanto a loro spetta di applicare. I becchini per esempio, negli Stati Uniti, hanno posto in essere una professione non perché ora si chiamino impresari di pompe funebri, o perché è richiesto un diploma per esercitare la loro attività, o perché le loro prestazioni sono diventate molto care, e neppure perché si sono sbarazzati dell'odore appiccicato al loro mestiere facendo eleggere uno di loro presidente del Lion's Club: costituiscono una professione, dominante e menomante, dal momento in cui hanno acquistato il potere di far bloccare dalla polizia un funerale se il morto non è stato imbalsamato e chiuso nella bara da loro. In qualunque campo si possa immaginare un bisogno umano, le nuove professioni menomanti si erigono a tutori esclusivi del bene pubblico.

La trasformazione di una professione liberale in professione dominante equivale all'istituzione di una chiesa ufficiale di Stato. I medici tramutati in biocrati, gli insegnanti divenuti gnoseocrati, gli impresari di pompe funebri assurti a tanatocrati sono assai più simili a ordini ecclesiastici mantenuti dallo Stato che a corporazioni di mestiere. Il professionista, in quanto maestro che insegna ciò ch'è conforme all'ortodossia scientifica del momento, rappresenta un teologo. In quanto imprenditore morale, fa la stessa parte del prete: crea il bisogno della propria mediazione. In quanto soccorritore militante, svolge il ruolo del missionario e bracca il diseredato. In quanto inquisitore, mette fuori legge l'eretico: impone la propria soluzione al recalcitrante che non vuole ammettere di essere un problema. Questa molteplice investitura che si accompagna al compito di alleviare uno specifico inconveniente della condizione umana fa di ogni professione qualcosa di analogo a un culto ufficiale. Perciò l'accettazione pubblica delle professioni dominanti costituisce un fatto essenzialmente politico. La nuova professione crea una nuova gerarchia, nuovi clienti e nuovi esclusi, come pure una nuova pressione sul bilancio. Ma oltre a ciò, ad ogni nuovo riconoscimento d'una legittimità professionale le funzioni politiche di legiferare, giudicare e governare perdono qualcosa del loro specifico carattere e della loro indipendenza. La gestione della cosa pubblica passa dagli uguali eletti dal profano alle mani di una élite autoinvestitasi del proprio mandato.

Quando la medicina, or non è molto, ha esorbitato dai suoi limiti liberali, ha invaso il campo legislativo stabilendo delle norme di diritto pubblico, che hanno efficacia obbligatoria erga omnes. I medici avevano sempre definito che cosa fosse da considerare malattia; oggigiorno la medicina dominante decide quali malattie la società non deve tollerare. La medicina ha invaso i palazzi di giustizia. I medici avevano sempre accertato chi era malato; la medicina dominante invece marchia coloro che devono essere sottoposti a trattamento. I medici dell'età liberale prescrivevano una cura; la medicina dominante possiede poteri pubblici di correzione: decide che cosa bisogna fare dei malati o ai malati. In una democrazia deve derivare dai cittadini il potere di fare le leggi, di attuarle e di amministrare la giustizia; con l'ascesa delle professioni costituite in chiese, questo controllo dei cittadini sui poteri fondamentali è venuto a restringersi, a indebolirsi, e in certi casi a cadere del tutto. Il governo esercitato da un'assemblea che basi le proprie deliberazioni sui giudizi pronunciati da tali professioni può essere un governo per il popolo, ma mai del popolo. Non, stiamo qui a indagare con quali propositi si è arrivati a questo indebolimento della supremazia politica; basterà rilevare come una condizione necessaria di tale sovvertimento stia proprio nella squalifica dell'opinione dei profani ad opera dei corpi professionali.

Le libertà civiche riposano sul principio che esclude il “sentito dire” dal novero delle prove sulle quali si basano le decisioni pubbliche. Fondamento comune di tutte le norme vincolanti è ciò che ognuno può vedere con i propri occhi e interpretare con la propria testa. Le opinioni, le credenze, le deduzioni o convincimenti non debbono prevalere sulla testimonianza oculare, mai. Le élites degli specialisti sono riuscite a diventare professioni dominanti solo perché questo principio è stato a poco a poco intaccato e infine ribaltato. Oggi, nei parlamenti come nei tribunali, la regola che vieta le dimostrazioni per sentito dire è di fatto sospesa, non applicandosi alle opinioni espresse dai membri di queste élites che si accreditano da se stesse.

Si badi però a non confondere l'utilizzazione pubblica di un concreto sapere specialistico con quello che è invece l'esercizio di un giudizio normativo da parte di un corpo costituito. Quando un artigiano, per esempio un armaiolo, veniva chiamato in tribunale come perito per mettere i giudici a parte dei segreti del suo mestiere, procedeva sotto i loro occhi a una dimostrazione pratica: faceva vedere loro che quel certo proiettile era stato sparato da quella determinata pistola. Oggi la maggioranza degli esperti svolge un ruolo diverso. Il professionista dominante presenta ai giudici o ai parlamentari non una prova concreta o una dimostrazione specialistica, ma un'opinione iniziatica sua e dei suoi colleghi. Impone la sospensione della norma che vieta di basarsi sul sentito dire, e inevitabilmente scalza la sovranità del diritto. Il potere democratico ne è così ineluttabilmente sminuito.

Le professioni non sarebbero mai diventate dominanti e menomanti se la gente non fosse stata pronta a sentire come una carenza ciò che l'esperto le attribuiva come “bisogno”. Il rapporto di dipendenza reciproca che lega l'uno all'altra, come tutore a pupillo, non si riesce ormai più a scorgere perché oscurato dalla corruzione della lingua. Certe buone vecchie parole si sono trasformate in etichette, che indicano a quali specialisti compete la tutela sulla casa, sulla bottega, sul negozio e sullo spazio o sull'aria che li separa. La lingua, il più fondamentale dei beni comuni, è contaminata da contorti fili gergali, ognuno manovrato da una professione. L'espropriazione delle parole, l'impoverimento del lessico quotidiano e la sua degradazione a terminologia burocratica corrispondono, in modo ancor più intimamente avvilente, a quella particolare forma di degradazione ambientale che toglie agli uomini la capacità di sentirsi utili se non hanno un impiego retribuito. Finché non si presterà maggiore attenzione ai pervertimenti di vocabolario dietro cui si nasconde il dominio delle professioni, è quasi inutile proporre riforme di legge, di comportamenti e di modelli intese a restringere tale dominio.

Quando io ho imparato a parlare, non esistevano altri “problemi” fuorché quelli di matematica o di scacchi; le “soluzioni” erano saline o legali, e “bisogno” era per lo più usato in forma verbale. Espressioni come “ho un problema” oppure “ho un bisogno” suonavano alquanto bislacche. Quand'ero adolescente, e mentre Hitler elaborava “soluzioni”, si diffusero anche i “problemi sociali”. Varietà sempre nuove di “bambini con problemi” venivano scoperte tra i poveri man mano che gli assistenti sociali imparavano a marchiare le loro prede e a standardizzarne i “bisogni”. Il bisogno, inteso come sostantivo,fu la biada che fece espandere le professioni fino a instaurarne il dominio. La povertà si venne modernizzando. Da esperienza, i managers la tradussero in misura. I poveri divennero i “bisognosi”.

Durante la seconda metà della mia vita, l'essere “bisognosi” acquisì rispettabilità. I bisogni calcolabili e imputabili salirono di grado nella scala sociale. “Aver bisogno” cessò di essere un segno di povertà. Il reddito originò nuove categorie di bisogni. I pedocrati alla dottor Spock, i sessuocrati alla Lewis Comfort e i volgarizzatori di Ralph Nader che col pretesto di tutelare i consumatori stimolano il consumo, addestrarono i profani a procacciarsi soluzioni per i problemi che imparavano a inventarsi seguendo le istruzioni professionali. Le università abilitarono i laureati a scalare vette sempre più aree per piantarvi e coltivarvi sempre più nuove specie di bisogni ibridati. Aumentarono le prescrizioni e si ridussero le capacità. In medicina, per esempio, vennero prescritti prodotti farmacologicamente sempre più attivi, mentre la gente perdeva la voglia e la capacità di affrontare un'indisposizione o anche un semplice malessere. Nei supermercati americani, dove si calcola che compaiano annualmente circa 1500 prodotti nuovi, meno del venti per cento di essi sopravvive per più di un anno sugli scaffali, mentre gli altri si rivelano invendibili, legati a mode effimere, rischiosi o non remunerativi, o subito superati da nuovi articoli; ragion per cui i consumatori sono sempre più indotti a cèrcare la guida dei professionisti della “difesa del consumatore”.

Il rapido ricambio dei prodotti, inoltre, rende i desideri vacui e informi. Sicché, paradossalmente, un forte consumo di massa derivato da bisogni indotti genera nel consumatore una crescente indifferenza al desiderio specifico, vissuto. Sempre di più i bisogni sono creati dallo slogan pubblicitario e dagli acquisti fatti su prescrizione del funzionario, dell'estetista, del ginecologo e di decine di altri diagnosti. Il bisogno di essere istruiti sul modo di aver bisogno - mediante la pubblicità, prescrizione o la discussione guidata nel collettivo o nella comune - compare in ogni cultura in cui le decisioni e gli atti non sono più la risultante di una esperienza personale del soddisfacimento, e il consumatore flessibile non può che sostituire i bisogni sentiti con bisogni appresi. Man mano che si progredisce nell'arte d'imparare a provare bisogni, la capacità di modellare i propri desideri in funzione di una personale ricerca di soddisfazione diventa una prerogativa rara, propria della gente molto ricca o di quella più diseredata. Poiché d'altra parte i bisogni vengono incessantemente suddivisi in componenti sempre più piccole, ognuna gestita da un apposito specialista, diviene difficile per il consumatore integrare le disparate offerte dei suoi diversi tutori in una totalità che abbia senso, che possa essere desiderata con piena cognizione di causa e ottenuta con piacere. Dall'alimentazione all'istruzione, dall'armonia coniugale all'inserimento sociale, dalla dietetica alla meditazione, dall'aggiornamento al riciclaggio, consulenti, esperti e altri personaggi del genere sono pronti a cogliere ogni nuova possibilità di gestire la gente e a offrire i loro prodotti prefabbricati per appagare ogni bisogno parcellizzato.

Usato come sostantivo, “bisogno” è la riproduzione su scala individuale di un modello professionale; è la copia in plastica della matrice nella quale i professionisti fondono i loro prodotti; è la forma pubblicitaria che assume il favo nel quale si generano i consumatori. Ignorare i propri bisogni o dubitarne è diventato un comportamento sociale inammissibile. Buon cittadino è colui che attribuisce a se stesso bisogni standardizzati, con tanta convinzione da soffocare ogni altro possibile desiderio e, a maggior ragione, ogni eventuale idea di rinuncia.

Quando sono nato io, prima che Stalin, Hitler e Roosevelt salissero al potere, soltanto i ricchi, gli ipocondriaci e gli appartenenti ad alcune categorie d'élite affermavano d'aver bisogno di assistenza medica quando avevano qualche linea di febbre. I medici di allora, a questo riguardo, non disponevano di rimedi molto diversi da quelli delle nonne. La prima mutazione dei bisogni, in medicina, si ebbe coni sulfamidici e gli antibiotici. Mentre si potevano ormai stroncare le infezioni in modo semplice ed efficace, i farmaci idonei furono sempre più soggetti a prescrizione medica. I medici ebbero il monopolio dell'assegnazione del ruolo di malato. Chi non si sentiva bene doveva andare dal medico a farsi etichettare con il nome di una malattia, che legittimava la sua inclusione nella minoranza dei cosiddetti malati: individui esentati dal lavoro, autorizzati a ricevere assistenza, sottoposti agli ordini del medico e tenuti a guarire per tornare ad essere utili. Paradossalmente, proprio mentre la tecnica farmacologica - analisi e medicinali - diventava talmente automatica e poco costosa che si sarebbe potuto fare a meno del medico, la società emanava leggi e regolamenti di polizia intesi a limitare il libero uso di quei procedimenti che la scienza aveva semplificato e a riservarli esclusivamente ai professionisti.

La seconda mutazione dei bisogni avvenne quando i malati cessarono di essere una minoranza. Oggi sono ben pochi coloro che riescono a scansare a lungo la prestazioni mediche. In Italia come negli Stati Uniti, in Francia o in Belgio, un cittadino su due è sorvegliato contemporaneamente da vari specialisti della salute, che lo curano, lo consigliano o, come minimo, lo tengono sotto osservazione. L'oggetto di questa assistenza specialistica è il più delle volte uno stato dei denti, dell'utero, del sistema nervoso, della pressione sanguigna o dell'attività ormonica di cui il “paziente” non patisce. Sicché oggi non sono più i pazienti a costituire la minoranza, ma quei devianti che in qualche modo restano fuori da tutte le classi di pazienti. Compongono tale minoranza i poveri, i contadini, gli immigrati recenti e vari altri che, talvolta di propria volontà, si sottraggono agli obblighi del servizio sanitario. Ancora una ventina d'anni fa “non vedere mai un medico” era segno di salute normale, che si presumeva buona; oggi una simile condizione di non paziente denota miseria o dissenso. E cambiata persino la figura dell'ipocondriaco. Il medico degli anni '40 definiva con questo termine colui che bussava continuamente alla porta del suo studio, il malato immaginario. I medici d'oggi invece indicano col medesimo nome la minoranza che li fugge: gli ipocondriaci sono i sani immaginari. Essere inseriti in un sistema professionale come clienti a vita non è più uno stigma che separa gli individui menomati dalla massa dei cittadini. Viviamo in una società organizzata in funzione delle maggioranze devianti e dei loro custodi. Essere attivo cliente di parecchi professionisti ti dà un posto ben definito in quel regno dei consumatori intorno al quale ruota la nostra società. Trasformandosi da professione liberale consultiva in professione dominante e menomante, la medicina ha così incommensurabilmente accresciuto il numero dei bisognosi.

A questo punto critico, i bisogni attribuiti subiscono una terza mutazione. Si saldano in quello che gli esperti chiamano un problema multidisciplinare, il quale perciò richiede una soluzione multiprofessionale. Prima la proliferazione delle merci, ciascuna tendente a diventare una necessità, ha efficacemente addestrato il consumatore a provare bisogni a comando. Poi la graduale parcellizzazione dei bisogni in spezzoni sempre più piccoli e distinti ha portato il cliente a dipendere dal giudizio dell'esperto per poter miscelare i propri bisogni in un insieme significativo. Ne offre un buon esempio l'industria dell'automobile. Dalla fine degli anni '60 il numero degli accessori facoltativi reclamizzati come necessari per “personalizzare” una Ford di serie è immensamente cresciuto; ma contrariamente a quel che si aspetterebbe il cliente, questa paccottiglia “opzionale” viene in realtà montata sulla catena di montaggio dello stabilimento di Detroit, e all'acquirente del Montana non resta che scegliere tra i pochi modelli già completi di tutto che vengono spediti a caso:se vuole la decappottabile deve prenderla con i sedili verdi che detesta, mentre se per le sue conquiste non può fare a meno dei sedili in finto leopardo deve adattarsi a una berlina col tetto rigido foderato in stoffa scozzese.

Infine il cliente viene educato ad aver bisogno delle prestazioni di un'intera équipe per poter ricevere un'“assistenza soddisfacente”, come dicono i suoi tutori. E ciò che accade quando i servizi professionali si rivolgono individualmente al singolo consumatore, allo scopo di migliorarne lo stato. Sono tanti ormai coloro che passano l'intera esistenza in un dedalo di terapie che secondo i servizi assistenziali dovrebbero servire a migliorare la loro vita. Più si sviluppa l'economia dei servizi, meno tempo resta all'individuo per consumare l'assistenza pedagogica, medica, sociale, ecc. La scarsità di tempo potrebbe diventare presto il principale ostacolo al consumo dei servizi prescritti dai professionisti e spesso pagati dalla collettività. E una scarsità che comincia a manifestarsi assai presto. Già nella scuola materna il bambino viene preso in carico da tutto un gruppo di specialisti: l'allergista, il foniatra, il pediatra, lo psicologo dell'infanzia, l'assistente sociale, l'esperto di educazione psicomotoria, la maestra. Costituendo questa équipe pedocratica, i numerosi e vari professionisti tentano di dividèrsi quel tempo che è diventato il principale limite all'attribuzione di ulteriori bisogni. Per l'adulto, il luogo dove si concentra la somministrazione dei servizi è il posto di lavoro: dal direttore del personale a quello della formazione, dallo psicologo al medico all'assistente sociale al produttore di assicurazioni, tutti questi specialisti trovano più redditizio spartirsi di comune accordo il tempo del lavoratore che disputarselo singolarmente. Un cittadino senza bisogni sarebbe fortemente sospetto. La gente ha bisogno d'un impiego, si dice, per l'assistenza che garantisce prima ancora che per i soldi. Sparisce la comunità, sostituita da una nuova placenta composta di tubi che erogano assistenza professionale. Sottoposta a cure intensive permanenti, la vita si paralizza.


Alcune distinzioni riabilitanti

La menomazione che, con l'egemonia delle professioni, colpisce il cittadino è consolidata dalla potenza dell'illusione. Le speranze di salvezza un tempo riposte nelle credenze religiose cedono il posto a una fiduciosa attesa nei confronti dello Stato, supremo dispensatore di servizi professionali. Ognuno dei molteplici cleri accampa la propria competenza a definire le difficoltà della gente in termini di specifici problemi risolvibili attraverso una qualche prestazione di servizi. Nel momento in cui si riconosce tale pretesa, il profano è legittimato ad accettare docilmente le carenze che gli vengono imputate, e il suo mondo si trasforma in una cassa di risonanza dei bisogni. Il soddisfacimento delle scelte autonomamente definite e perseguite viene sacrificato all'appagamento di bisogni indotti.

Basta osservare il profilo delle nostre città per vedervi riflesso questo dominio dei bisogni fabbricati e amministrati: giganteschi edifici adibiti a servizi proféssionali incombono su masse di persone che fanno la spola tra l'uno e l'altro in un ininterrotto pellegrinaggio alle nuove cattedrali della salute, dell'istruzione e dell'esistenza. Le case “sane” in queste città, sono quegli appartamenti asettici dove uno non può né nascere né star malato né morire decentemente. Il vicino soccorrevole è una specie in via di estinzione, come il medico disposto a far visite a domicilio.

Spariscono i luoghi di lavoro propizi all'apprendistato, sostituiti da opachi dedali di corridoi dove l'accesso è consentito solo ai dipendenti che portino appuntato al bavero della giacca il proprio “documento d'identità aziendale” in plastica. La città di questa popolazione tramutata in soggetto di assistenza è un mondo dove tutto è organizzato in funzione della erogazione di servizi.

La dipendenza dai bisogni imputabili, che è ormai predominante fra i popoli ricchi e che esercita un fascino paralizzante sui poveri, sarebbe sicuramente irreversibile se tra gli uomini e i “bisogni” ad essi attribuiti esistesse una reale corrispondenza. Ma non è così. Al di là d'un certo grado d'intensità, la medicina produce impotenza e malattia; l'istruzione diventa il massimo generatore di una divisione menomante del lavoro; i sistemi di trasporto veloce trasformano gli abitanti delle città in passeggeri per circa un sesto delle loro ore di veglia, e per un altro sesto in forzati che lavorano per pagare Agnelli, la Esso e la società delle autostrade. La soglia oltre la quale la medicina, l'istruzione e i trasporti diventano strumenti controproducenti è stata raggiunta in tutti i paesi del mondo che abbiano un livello di reddito pro capite almeno pari a quello di Cuba. In tutti questi paesi, contrariamente alle illusioni diffuse dalle ideologie ortodosse, vuoi d'Occidente vuoi d'Oriente, tale controproduttività specifica non ha nulla a che fare con il tipo di scuola, di veicolo o di organizzazione sanitaria attualmente in uso si sviluppa infatti ogni volta che, nel processo di produzione, l'intensità di capitale supera una certa soglia critica.

Le nostre principali istituzioni hanno acquisito il misterioso potere di ribaltare le finalità per le quali erano state originariamente concepite e sono finanziate. Sotto la guida delle professioni più prestigiose, i nostri strumenti istituzionali ottengono come loro principale prodotto una paradossale controproduttività: la sistematica menomazione dei cittadini/Una città imperniata sullo scorrimento a motore diventa inadatta per le gambe, e non c'è aumento del numero delle ruote che possa rimediare alla forzata immobilità degli arti, resi paralitici. Il sovrappiù di merci e di servizi paralizza l'azione autonoma. Non ne deriva però soltanto una perdita secca delle soddisfazioni non compatibili con l'era industriale: l'incapacità di produrre valori d'uso finisce col rendere inefficaci e controindicati gli stessi prodotti che avrebbero dovuto surrogarli. L'automobile, il sistema sanitario, la scuola, il management si tramutano allora in perniciose nocività per il consumatore e non arrecano più alcun beneficio se non a chi fornisce i servizi.

Perché allora non ci si ribella a questo moto di deriva della società industriale avanzata, che la porta a compattarsi in un unico sistema di erogazione di servizi? La spiegazione principale sta nel potere, che tale sistema possiede, di generare illusioni. Oltre a compiere atti concreti sui corpi e sulle menti, le istituzioni professionalizzate funzionano anche come potenti rituali, generatori di fede nelle cose che i loro gestori promettono. Oltre a insegnare a Pierino a leggere, le scuole gli insegnano anche che imparare dai professori è “meglio” e che, senza l'obbligo scolastico, i poveri leggerebbero meno libri. Oltre a servire come mezzo di locomozione, l'autobus, non meno dell'auto privata, rimodella l'ambiente e bandisce l'uso delle gambe. Oltre ad aiutare a evadere il fisco, i consulenti legali inculcano l'idea che le leggi risolvano i problemi. Una parte sempre crescente delle funzioni svolte dalle nostre maggiori istituzioni consiste nel coltivare e rafforzare tre specie di illusioni, per effetto delle quali il cittadino si tramuta in un cliente che attende la propria salvezza unicamente dall'opera degli esperti.

La prima illusione asservitrice è l'idea che l'uomo nasca per consumare e che possa raggiungere qualunque scopo acquistando beni e servizi. Questa illusione deriva da una coltivata cecità riguardo all'importanza che hanno i valori d'uso nel quadro di una economia. In nessuno dei modelli economici oggi seguiti è prevista una variabile che tenga conto dei valori d'uso non negoziabili, e neanche una variabile che consideri il perenne apporto della natura. E tuttavia non c’è sistema economico che non crollerebbe di colpo qualora la produzione dei valori d'uso si contraesse oltre un certo limite: per esempio se le faccende domestiche fossero svolte dietro retribuzione o se si facesse l'amore soltanto a pagamento. Ciò che la gente compie o fabbrica senza alcuna intenzione o possibilità di farne commercio è altrettanto incommensurabile e inestimabile per il mantenimento di un sistema economico quanto l'ossigeno che essa respira.

L'illusione che i modelli economici possano ignorare i valori d'uso nasce dalla convinzione che quelle attività che noi designiamo con verbi intransitivi si possono sostituire indefinitamente con dei prodotti predisposti da istituzioni e che si indicano con un sostantivo: “l'istruzione”al posto di “io apprendo”, “l'assistenza sanitaria” per “io guarisco”, “i trasporti” per “io mi muovo”, .”la televisione” per “io mi diverto”.

La confusione tra valori personali e valori standardizzati si è diffusa in quasi tutti i campi. Sotto l'impero delle professioni, i valori d'uso si dissolvono, diventano obsoleti e finiscono col perdere il loro carattere specifico. L'amore e l'assistenza istituzionale appaiono concetti interscambiabili. Dieci anni di concreta conduzione di un podere, gettati in un frullatore pedagogico, risultano equivalenti a un diploma d'istituto tecnico. Cose raccolte a caso e nate nella libertà della strada vengono aggiunte a titolo di “esperienza educativa” a quelle versate nella testa degli allievi. Sembra che i contabili del sapere non si rendano conto che le due cose, come l'olio e l'acqua, si mescolano solo finché le emulsiona la tipica mentalità dell'“educatore”. Ma se noi per primi non fossimo affascinati da questa sorta di avida credenza, le bande degli zelanti creatori di bisogni non potrebbero continuare a tartassarci e a profondere le nostre risorse nei loro esperimenti, nelle loro reti e nelle altre loro miracolose soluzioni.

L'utilità delle merci, ovvero dei beni e servizi di serie, è soggetta a due limiti intrinseci, che non vanno confusi tra loro. Un limite è che prima o poi le code bloccheranno il funzionamento di ogni sistema che genera bisogni a ritmo più rapido dei prodotti destinati ad appagarli; l'altro è che prima o poi la dipendenza dalle merci condizionerà in tal modo i bisogni da paralizzare ogni capacità di produzione autonoma nel campo in questione. L'utilità delle merci ha cioè i suoi limiti nella congestione e nella paralisi. Entrambe sono risultati del supersviluppo in qualunque campo di produzione, ma di tipo molto diverso fra loro. La congestione, che mostra sino a che punto le merci possano diventare d'impaccio a se stesse, spiega perché l'auto privata non è più di alcuna utilità per spostarsi in Manhattan; però non spiega perché la gente si ammazzi dal lavoro per pagare le rate e i premi d'assicurazione per automobili che non servono a spostarla. E ancora meno la congestione, da sola, spiega perché la gente arrivi a dipendere dai veicoli in misura tale da finire paralizzata e non saper più usare le proprie gambe.

Se la gente diventa prigioniera di un'accelerazione che consuma tempo, di un'istruzione che inebetisce e di una medicina che rovina la salute è perché, oltre una certa soglia d'intensità, la dipendenza da una lista di beni industriali e di servizi professionali distrugge le potenzialità umane, in una maniera tutta specifica. Solo fino a un certo punto le merci possono sostituire ciò che la gente compie o fabbrica per conto proprio. Solo entro certi limiti i valori di scambio possono rimpiazzare soddisfacentemente i valori d'uso. Al di là di tale soglia, ogni ulteriore produzione di merci arreca beneficio solo al produttore professionale - che ne imputa il bisogno al consumatore - mentre lascia il consumatore stordito e disorientato, anche se più fornito. Il piacere che si prova non nel mero pagamento ma nella soddisfazione di un bisogno è connesso in misura significativa al ricordo di un'azione personale autonoma; esistono dei limiti oltre i quali la proliferazione delle merci altera nel consumatore proprio questa facoltà di realizzarsi agendo.

Nel ricevere unicamente prodotti bell'e fatti, che non lasciano alcun margine di azione da parte sua, il consumatore non può che restarne paralizzato. La misura del benessere di una società non è mai pertanto un'espressione algebrica nella quale i due modi di produzione, l'autonomo e l'eteronomo, si equivalgono, bensì sempre un equilibrio che si ha quando i valori d'uso e le merci si combinano in fruttuosa sinergia. Solo fino a un certo punto la produzione eteronoma di una merce può valorizzare e integrare la realizzazione autonoma del fine personale corrispondente; superato tale punto, la sinergia tra i due modi di produzione si rivolge paradossalmente contro lo scopo a cui miravano sia il valore d'uso che la merce. E un fatto, questo, che talvolta non viene percepito perché il movimento ecologico, nella sua principale espressione, tende a far perdere di vista il punto.

L'opposizione alle centrali nucleari, per esempio, è stata generalmente motivata col pericolo delle radiazioni o col rischio di una eccessiva concentrazione di potere nelle mani dei tecnocrati: ma ben di rado, finora, si è osato criticarle per il loro apporto alla già eccessiva quantità di energia disponibile. Misconoscendo il fatto che tale sovrabbondanza di energia è socialmente distruttiva in quanto paralizza l'azione dell'uomo, si continua a reclamare una produzione energetica semplicemente diversa anziché, come si dovrebbe, minore. Allo stesso modo sono ancora largamente ignorati gli inesorabili limiti alla crescita che sono insiti in qualunque ente erogatore di servizi; eppure dovrebbe essere ormai evidente che l'istituzionalizzazione della cura della salute tende a trasformare le persone in marionette malate e che l'educazione a vita non può che generare una cultura buona per gente programmata. L'ecologia potrà fornire un punto di riferimento nel cammino verso una forma di modernità vivibile solo quando ci si renderà conto che un ambiente modellato dall'uomo in funzione delle merci riduce a tal punto le reattività dell’individuo che le merci stesse perdono qualsiasi valore come mezzo di soddisfazione personale. Senza questa consapevolezza, può accadere che grazie a una tecnologia industriale più pulita e meno aggressiva si raggiungano livelli di opulenza frustrante oggi inconcepibili.

Sarebbe sbagliato attribuire la controproduttività essenzialmente alle “esternalità” dello sviluppo economico, quali il depauperamento delle risorse, l'inquinamento e le varie forme di congestione. Ciò significherebbe confondere la congestione, per cui le cose si intralciano fra loro, con la paralisi della persona che non può più esercitare la propria autonomia in un ambiente fatto per le cose. La ragione fondamentale, per cui un'elevata intensità di mercato porta inesorabilmente alla controproduttività, va vista nel tipo di monopolio che le merci esercitano sulla formazione dei bisogni umani. Tale monopolio supera di gran lunga ciò che s'intende di solito con questo termine. Un monopolio commerciale si limita ad imporre al mercato una determinata marca di whisky o di automobili. Un cartello industriale può restringe re ulteriormente la libertà, per esempio appropriandosi di tutti i mezzi di trasporto collettivo per favorire lo sviluppo della motorizzazione privata, come fece la Generai Motors comprando i tram di Los Angeles. Al primo si può sfuggire bevendo rum, al secondo girando in bicicletta. Tutt'altra cosa è invece quello che io definisco col termine “monopolio radicale”, e che consiste nella sostituzione di un prodotto industriale o di un servizio professionale a una attività utile cui la gente si dedica o vorrebbe dedicarsi. Un monopolio radicale paralizza l'attività autonoma, a vantaggio della prestazione professionale. Più i veicoli dislocano la gente, più diventa necessario l'intervento di regolatori del traffico e più la gente perde la facoltà di tornarsene a casa a piedi. Quand'anche i motori fossero alimentati con energia solare e i veicoli fossero fatti d'aria, questo monopolio radicale continuerebbe a sussistere essendo inseparabile dalla circolazione ad alta velocità. Più a lungo una persona resta sotto la cappa del sistema educativo, meno avrà tempo e voglia di curiosare e di riflettere criticamente. In qualunque campo, a un certo punto l'abbondanza dei beni offerti al consumo rende l'ambiente così inadatto all'azione personale che l'eventuale sinergia tra i valori d'uso e le merci diventa negativa. Si instaura allora una controproduttività paradossale, specifica. E questo il termine col quale io definisco tutti i casi in cui l'impotenza conseguente alla sostituzione di un valore d'uso con una merce tramuta quest'ultima in un disvalore ai fini di quella soddisfazione che dovrebbe fornire.

L'uomo cessa di essere riconoscibile come tale quando non è più in grado di dar forma ai propri bisogni mediante l'uso più o meno abile degli strumenti che gli sono forniti dalla sua cultura. Per tutto il corso della storia, questi strumenti sono stati per lo più attrezzi ad alta intensità di lavoro, adoperabili per procurare soddisfazione a chi se ne serviva, e che venivano impiegati per una produzione domestica; solo marginalmente le pale e i martelli venivano usati per altri scopi, quali potevano essere la costruzione di una piramide, la fabbricazione di un sovrappiù destinato allo scambio di doni, o, ancor meno di frequente, la produzione di beni da vendere. Le occasioni di ricavare profitti erano limitate; si lavorava soprattutto per creare valori d'uso non destinati allo scambio. Ma il progresso tecnologico è stato tenacemente applicato alla realizzazione di un tutt'altro tipo di strumento: uno strumento volto in primo luogo a produrre merci vendibili.

Si cominciò con la rivoluzione industriale, quando la nuova tecnologia ridusse il lavoratore al robot chapliniano di Tempi moderni. In questa prima fase, però, il modo di produzione industriale non arrivava ancora a paralizzare la gente fuori del luogo di lavoro. Gli uomini e le donne d'oggi, invece, che ormai dipendono quasi in tutto dalla distribuzione di frammenti standardizzati prodotti mediante strumenti azionati da altra gente anonima, non trovano più nell'uso degli strumenti quella soddisfazione diretta, personale, che ha stimolato l'evoluzione dell'umanità e delle sue culture. Mentre i loro bisogni e i loro consumi si sono moltiplicati di molte volte rispetto al passato, è diventata rara fra loro la soddisfazione nel maneggio degli strumenti, ed essi non vivono più quella vita in funzione della quale ha preso forma il loro organismo. Nel migliore dei casi sono ridotti a sopravvivere, pur se circondati di sfarzo. Il corso della loro esistenza è diventato una catena di bisogni, di volta in volta saziati al fine di suscitare nuovi bisogni e la necessità di appagarli. Con questa riduzione dell'uomo a consumatore passivo, si finisce col perdere persino il senso della differenza fra il vivere e il sopravvivere. Al gusto della vita si sostituisce la scommessa dell'assicurazione, la trepida attesa di razioni e terapie. In un simile ambiente diventa facile dimenticare che soddisfazione e gioia possono aversi solo sin quando, nel proseguimento di un fine, vitalità personale e provvidenze tecniche restino in equilibrio.

L'idea che gli strumenti di cui si servono le istituzioni di mercato possono distruggere impunemente le condizioni che permettono l'uso personale di mezzi conviviali è una illusione, che riesce a soffocare ogni “vitalità” presentando il progresso tecnologico come un fatto che autorizza e impone un sempre maggior dominio delle professioni. Questa illusione induce a credere che gli strumenti, per acquisire efficacia nel perseguimento di un fine specifico, non possano che diventare sempre più complessi e arcani, come per esempio le cabine di guida degli aerei o le gru. Si pensa perciò che gli strumenti moderni richiedano necessariamente operatori speciali, dotati d'un elevatissimo addestramento, e che soltanto in questi operatori si possa riporre piena fiducia. In realtà, di solito è vero proprio il contrario, e per forza. Quanto più le tecniche si moltiplicano è accrescono la loro specificità, tanto meno complessa diventa, spesso, la valutazione che presiede al loro impiego. La fiducia del cliente, sulla quale si fondava l'autonomia del libero professionista come anche dell'artigiano, neppure essa è più richiesta. Per quanti passi avanti la medicina abbia fatto, rispetto al totale degli atti medici sono soltanto una minuscola frazione quelli che richiedono, a una persona di media intelligenza, una preparazione particolarmente sviluppata. Da un punto di vista sociale, il titolo di “progresso tecnico” dovrebbe essere riservato ai casi in cui nuovi strumenti accrescano la capacità e l'efficienza di una più vasta massa di persone, e in particolare permettano una più autonoma produzione di valori d'uso.

Il monopolio professionale che si estende sulla nuova tecnologia non è affatto inevitabile. Le grandi invenzioni dell'ultimo secolo, quali i nuovi metalli, i cuscinetti a sfera, certi materiali da costruzione, l'elettronica, certi procedimenti di analisi e certi medicamenti, sono suscettibili di accrescere il potere di entrambi i modi di produzione, di quello eteronomo come di quello autonomo. Di fatto però la nuova tecnologia non è stata per lo più incorporata nella strumentazione conviviale, ma in confezioni e in complessi istituzionali. Messa pressoché costantemente al servizio della produzione industriale, grazie alla sua indubbia capacità di recare vantaggio a chi la gestisce la tecnologia ha consentito ai professionisti di instaurare un monopolio radicale. La controproduttività indotta dalla paralisi nella produzione di valori d'uso trova incremento in questo modo di concepire il progresso tecnologico.

Non esiste alcun “imperativo tecnologico” che, di per sé, imponga che i cuscinetti a sfera vengano impiegati nei veicoli a motore o che l'elettronica venga usata per controllare il funzionamento del cervello. Le istituzioni in cui si traducono il traffico ad alta velocità o la tutela della salute mentale non sono conseguenze necessarie del cuscinetto a sfere o del circuito elettronico; le loro funzioni sono determinate dai bisogni che si presume dovrebbero soddisfare: bisogni che, in grandissima misura, sono definiti, imputati e rafforzati dalle professioni menomanti. E questo un punto che sembra sfuggire ai giovani turchi radicali attivi nelle professioni allorché essi giustificano la propria fedeltà alle istituzioni presentandosi come sacerdoti investiti dal popolo della missione di addomesticare il progresso tecnologico.

La medesima soggezione a tale idea del progresso fa sì che la progettazione sia intesa soprattutto come un contributo all'efficienza delle istituzioni. Alla ricerca scientifica si destinano abbondanti finanziamenti, ma solo se può essere applicata a scopi militari o se serve a consolidare il dominio professionale. Le leghe metalliche che permettono di fabbricare biciclette più robuste e leggere sono un frutto indiretto di studi orientati alla produzione di aviogetti più veloci e di armi più micidiali. Ma i risultati della ricerca si riversano quasi esclusivamente sull'attrezzatura industriale, sicché macchine già enormi diventano ancora più complesse e imperscrutabili per il profano. Da questo orientamento cui si ispirano scienziati e tecnici esce rafforzata una tendenza già pesante: i bisogni che richiedono un'attività autonoma vengono misconosciuti, mentre si moltiplicano quelli che comportano l'acquisto di merci. Gli strumenti conviviali che facilitano il godimento individuale dei valori d'uso - e che richiedono poca o punta supervisione amministrativa, medica o poliziesca - non trovano più posto che ai due estremi: nella maggior parte del mondo, ormai, le due sole categorie di persone che vanno in bicicletta sono i lavoratori poveri dell'Asia e gli studenti e i professori dei paesi ricchi. Forse senza rendersi conto della propria fortuna, gli uni e gli altri si godono la libertà da questa seconda illusione.

Da qualche tempo, certi gruppi di professionisti, alcuni enti governativi e organizzazioni internazionali si sono messi a studiare, elaborare e caldeggiare una tecnologia intermedia, su piccola scala. Si potrebbe pensare che questi sforzi siano volti a eliminare le più smaccate sconcezze dell'imperativo tecnologico. Ma, in grandissima parte, questa nuova tecnologia intesa a consentire che la gente faccia da sé nel campo della salute, dell'istruzione, della costruzione delle case, non è che un diverso modello di offerta di merci ad alta intensità di dipendenza. Si chiede per esempio agli esperti di progettare un nuovo tipo di armadietto per medicinali che permetta alle famiglie di seguire le direttive impartite dal medico via telefono. Si insegna alle donne a esaminarsi da sole il seno al fine di dar lavoro al chirurgo. Ai cubani si danno ferie pagate perché possano montarsi in proprio le case prefabbricate prodotte in serie dall'industria. L'allettante prestigio dei prodotti professionali finisce, man mano che si abbassa il loro costo, col rendere ricchi e poveri sempre più simili tra loro. Tanto i boliviani quanto gli svedesi si sentono ugualmente arretrati, diseredati e sfruttati nella misura in cui imparano senza la supervisione di professori, stanno in buona salute senza il check-up di un medico e si muovono senza l'ausilio di una stampella motorizzata.

La terza illusione menomante consiste nell'affidare agli esperti l'incarico di fissare un limite alla crescita. Si suppone che intere popolazioni, socialmente condizionate a provare bisogni a comando, non attendano altro che di sentirsi dire di che cosa non hanno bisogno. Gli stessi agenti multinazionali che per una generazione hanno imposto ai ricchi come ai poveri un modello internazionale di contabilità, di deodorante, di consumo d'energia, patrocinano ora il Club di Roma. Docilmente l'Unesco si accoda e addestra specialisti nell'imputazione di bisogni su scala regionale. Così, in nome del loro presunto bene,i ricchi vengono programmati a sobbarcarsi nei propri paesi un dominio professionale più costoso, e a riconoscere ai poveri bisogni di tipo più economico e frugale. I più intelligenti dei nuovi professionisti sanno benissimo che la penuria crescente porterà a una sempre maggiore accentuazione dei controlli sui bisogni: non a caso l'impiego più prestigioso, oggigiorno, è la pianificazione centralizzata del decentramento ottimale della produzione. Ma il fatto di cui ancora non ci si rénde conto è che attendersi la salvezza da una limitazione decretata dai professionisti significa far confusione tra libertà e diritti.

In ognuna delle sette regioni in cui l'Onu ha diviso il mondo si sta, addestrando un nuovo clero destinato a predicare il particolare stile d'austerità disegnato dai nuovi progettisti di bisogni. Specialisti in “presa di coscienza” battono le comunità locali incitando la gente a raggiungere gli obiettivi di produzione decentrata che le sono stati assegnati. Mungere la capretta di famiglia era una libertà fino a quando una pianificazione più spietata non ne ha fatto un dovere, per contribuire al PNL.

La sinergia tra produzione autonoma e produzione eteronoma si rispecchia nell'equilibrio che una società mantiene tra libertà e diritti. Le libertà proteggono i valori d'uso come i diritti tutelano l'accesso alle merci. E come le merci possono distruggere la possibilità di creare valori d'uso e tramutarsi in ricchezza depauperante, così la definizione professionale dei diritti può soffocare le libertà e instaurare una tirannide che seppellisce la gente sotto i suoi diritti.

La confusione appare particolarmente evidente se pensiamo agli esperti della salute. La salute comprende due aspetti: libertà e diritti. Essa designa quella zona di autonomia entro la quale una persona governa i propri stati biologici e le condizioni del proprio ambiente immediato. In parole povere, la salute s'identifica con il grado di libertà vissuta. Di conseguenza, coloro che si occupano del bene pubblico dovrebbero adoperarsi a garantire un'equa distribuzione della salute come libertà, che a sua volta dipende da condizioni ambientali realizzabili soltanto con interventi politici organizzati. Oltre una certa soglia d'intensità, l'assistenza sanitaria professionale, per equamente distribuita che sia, non può che soffocare la salute in quanto libertà. In questo senso fondamentalmente la cura della salute è una questione di adeguata salvaguardia della libertà.

Un siffatto concetto della salute implica, è evidente, un rispetto di principio delle libertà inalienabili. Per ben comprendere questo punto, occorre distinguere chiaramente tra libertà civile e diritti civili. La libertà di agire senza che l'autorità frapponga ostacoli ha una portata più vasta dei diritti civili che lo Stato può promulgare per garantire a ognuno uguali possibilità di ottenere certi beni e servizi.

Di regola le libertà civili non costringono gli altri ad agire secondo i desideri di terzi. Io sono libero di parlare e di rendere pubbliche le mie opinioni, ma nessun giornale è obbligato a stamparle e nessuno dei miei concittadini è tenuto a leggerle. Io sono libero di dipingere la bellezza così come pare a me, ma nessun museo ha l'obbligo di comprare i miei quadri. Contemporaneamente però lo Stato, quale garante della libertà, può emanare ed emana leggi che proteggano quell'uguaglianza dei diritti senza la quale i suoi membri non potrebbero godere delle proprie libertà. Tali diritti danno un senso e una realtà all'uguaglianza, mentre le libertà danno possibilità e forme alla libertà. Un modo sicuro per sopprimere le libertà di parlare, d'imparare, di guarire, di curare, è quello di delimitarle trasformando i diritti civili in doveri civili. La terza illusione consiste appunto nel credere che la rivendicazione pubblica dei diritti porti senz'altro a salvaguardare le libertà. Di fatto, quanto più una società affida ai professionisti l'autorità legale di definire i diritti, tanto più le libertà dei cittadini si dissolvono.


Il diritto alla disoccupazione utile

Attualmente ogni nuovo bisogno convalidato dalle professioni si traduce prima o poi in un diritto. Tale diritto, una volta che sotto la pressione politica trova riconoscimento nella legge, dà luogo a nuove occupazioni e nuovi prodotti. Ogni nuovo prodotto degrada un'attività con la quale la gente era stata fin allora capace di cavarsela da sola; ogni nuovo impiego rende illegittimo un lavoro sin lì svolto da non-occupati. Il potere delle professioni di stabilire che cosa sia bene, giusto e da fare distorce nell’uomo “comune” il desiderio, la voglia e la capacità di vivere secondo le proprie possibilità.

Quando tutti gli studenti attualmente iscritti nelle facoltà di giurisprudenza degli Stati Uniti si saranno laureati, il numero degli esperti di diritto statunitensi aumenterà del 50 per cento circa. Al servizio nazionale di assistenza sanitaria si affiancherà un analogo servizio di assistenza legale, man mano che l'assicurazione contro i procedimenti giudiziari diventerà indispensabile quanto lo è ora quella contro le malattie. E una volta stabilito il diritto del cittadino a un avvocato, comporre un litigio all'osteria sarà considerato retrogrado e antisociale come lo è adesso partorire in casa. Già ora il diritto riconosciuto a ogni cittadino di Detroit di vivere in un appartamento dove l'impianto elettrico sia stato installato da professionisti trasforma in trasgressore della legge chiunque si permetta di montare da sé una presa. La perdita progressiva di tutta una serie di libertà d'essere utili altrove che in un “posto di lavoro”, o al di fuori del controllo professionale, anche se non ha un nome è una delle esperienze più penose che s'accompagnano alla povertà modernizzata.

Il privilegio più significativo d'una condizione sociale elevata potrebbe ormai identificarsi in qualche resto della libertà, sempre più negata alla maggioranza, di essere utili senza avere un impiego. A furia di insistervi, il diritto del cittadino a essere assistito e approvvigionato si è quasi tramutato in diritto delle industrie e delle professioni a prendere la gente sotto la propria tutela, a rifornirla del loro prodotto e a eliminare, con le loro prestazioni, quelle condizioni ambientali che rendono utili le attività non inquadrabili in una “occupazione”. Si è così riusciti a paralizzare, per il momento, ogni lotta per un'equa distribuzione del tempo e della possibilità di essere utili a sé e agli altri al di fuori di un impiego o del servizio militare. Il lavoro che si svolge al di fuori del «posto» retribuito è malvisto quando non ignorato. L'attività autonoma minaccia il livello dell'occupazione, genera devianza e falsa il PNL: è quindi improprio chiamarla “lavoro”. Lavoro non vuol più dire sforzo o fatica, ma è quell'arcano fattore che, congiungendosi col capitale investito in un impianto, lo rende produttivo. Non significa più la creazione di un valore percepito come tale dal lavoratore, ma più che altro un impiego, cioè un rapporto sociale. Non avere un impiego significa passare il tempo in un triste ozio, e non essere liberi di fare cose utili a sé o al proprio vicino. La donna attiva che manda avanti la casa, alleva i propri figli ed eventualmente ha cura di quelli degli altri è distinta dalla donna che lavora, ancorché il prodotto di tale lavoro possa essere inutile o dannoso. L'attività, gli sforzi, le realizzazioni, i servizi che si esplicano al di fuori di un lavoro gerarchico e che non sono misurabili secondo standard professionali costituiscono una minaccia per una società ad alta intensità di merci: la creazione di valori d'uso sottratti a un calcolo preciso pone infatti un limite non soltanto al bisogno di ulteriori merci, ma anche ai posti di lavoro che producono tali merci e alle buste-paga occorrenti per acquistarle.

Ciò che conta in una società ad alta intensità di mercato non è lo sforzo rivolto a produrre qualcosa che piaccia, o il piacere che deriva da tale sforzo, ma l'accoppiamento della forza lavoro col capitale. Ciò che conta non è il conseguimento della soddisfazione che procura l'agire, ma la collocazione nel rapporto sociale che presiede alla produzione, cioè l'impiego, il posto, la carica, l'ufficio. Nel Medioevo, quando non c'era salvezza al di fuori della Chiesa, riusciva arduo ai teologi spiegare come si regolasse Iddio con i pagani di costumi manifestamente virtuosi o santi; allo stesso modo nella società odierna nessuno sforzo è produttivo se non è fatto su ordine di un. capo, e gli economisti non riescono a dar conto della palese utilità della gente che non agisce sotto il controllo di un'azienda, di un'organizzazione di volontari o di un campo di lavoro. Il lavoro non è produttivo, rispettabile, degno di un cittadino se non quando è programmato, diretto e controllato da un rappresentante delle professioni, il quale garantisca che risponde in forma standardizzata a un bisogno riconosciuto. In una società industriale avanzata diventa quasi impossibile cercare o anche soltanto immaginare di fare a meno di un impiego per dedicarsi a un lavoro autonomo e utile. L'infrastruttura della società è combinata in maniera tale che solo l'impiego dà accesso agli strumenti di produzione, e questo monopolio della produzione di merci sulla creazione di valori d'uso non fa che consolidarsi quando la gestione passa allo Stato. Solo. con un certificato di abilitazione puoi insegnare a un bambino; solo in una clinica puoi rimettere a posto una gamba rotta. Il lavoro domestico, l'artigianato, l'agricoltura di sussistenza, la tecnologia radicale, il mutuo insegnamento ecc. sono degradati ad attività per gli oziosi, per gli improduttivi, per i più diseredati o per i più ricchi. La società che promuove un intensa dipendenza dalle merci tramuta così i suoi disoccupati in poveri o in assistiti. Nel 1945 per ogni americano mantenuto dalla previdenza sociale c'erano 35 lavoratori attivi; nel 1977, erano 3,2 i lavoratori occupati cui toccava mantenere uno di questi pensionati, dipendente a sua volta da una quantità di enti assistenziali che sarebbe stata inimmaginabile ai tempi di suo nonno.

Ormai il carattere di una società e della sua cultura dipenderà dalla condizione dei suoi non-occupati: saranno essi i cittadini produttivi più rappresentativi o saranno degli assistiti? Ancora una volta la scelta (la crisi) appare chiara: la società industriale avanzata può proseguire sulla scia del sogno integralista degli anni '60: sempre più simile a una holding, può degenerare in un sistema di distribuzione che assegna parsimoniosamente un volume di beni e di posti in costante diminuzione e che addestra i suoi membri a consumi più standardizzati e a lavori più inutili. E l'orientamento cui si ispirano le linee politiche della maggior parte dei governi, dalla Germania alla Cina, sia pure con una differenza di fondo nella gradazione:quanto più infatti il paese è ricco, tanto più sembra urgente contingentare l'accesso agli impieghi e impedire l'attività utile dei non-occupati suscettibile di recare pregiudizio all'occupazione. Ovviamente è altrettanto possibile il contrario: cioè una società moderna nella quale i lavoratori frustrati si organizzino per proteggere la libertà di essere utili senza partecipare alle attività che danno luogo alla produzione di merci. Ma, ancora una volta, questa alternativa sociale presuppone, da parte dell'uomo comune, una competenza nuova, razionale e cinica nei riguardi dell'imputazione professionale dei bisogni.


Nuove strategie delle professioni

Il potere delle professioni è oggi messo in indubbio pericolo dalla crescente evidenza della loro controproduttività. La gente incomincia ad accorgersi che la loro egemonia la spoglia del proprio diritto d'intervento nella cosa pubblica. Il potere simbolico degli esperti che, col definire i bisogni, isteriliscono le capacità personali, è oggi considerato più pericoloso della loro potenza tecnica, che si limita a provvedere ai bisogni ch'essi creano. Contemporaneamente, da più parti si sente invocare una legislazione che ci porti in una nuova era non più dominata dall'ethos professionale: si chiede che il sistema delle abilitazioni, oggi rilasciate dagli ordini professionali o dall’amministrazione, venga sostituito con una investitura civica elettiva, più che essere semplicemente ritoccato con l'inclusione di rappresentanti dei consumatori negli organi che concedono le abilitazioni; si chiede un ammorbidimento delle prescrizioni vigenti nelle farmacie, nelle scuole e in altri pretenziosi supermercati; si chiede che vengano tutelate le libertà produttive; si chiede che sia riconosciuto il diritto di esercitare senza licenza; si chiedono strutture di servizio pubbliche che aiutino il cliente a valutare le prestazioni a pagamento dei professionisti privati. Di fronte a queste minacce le principali istituzioni professionali ricorrono, ciascuna a suo modo, a tre fondamentali strategie per arginare l'erosione della loro legittimità e del loro potere.

Il primo indirizzo strategico è rappresentato dal Club di Roma. La Fiat, la Ford, la Volkswagen pagano economisti, ecologi e sociologi perché stabiliscano da quali produzioni le industrie dovrebbero astenersi affinché il sistema industriale funzioni meglio e si rafforzi. Analogamente i medici del Club di Coo suggeriscono di rinunciare alla chirurgia, alle radiazioni e alla chemioterapia nella cura della maggior parte dei tumori, dato che di solito questi interventi non fanno che acuire e prolungare le sofferenze senza tuttavia accrescere la speranza di vita del malato. Avvocati e dentisti promettono di vigilare come non mai sulla competenza, sulla correttezza e sulle parcelle dei propri colleghi.

Una variante di questo indirizzo si osserva in certi singoli professionisti o gruppi organizzati che, in America, contestano l'ordine degli avvocati, quello dei medici e talaltre potenze intermediarie del sistema. Costoro si. proclamano radicali perché 1) danno ai consumatori consigli che contrastano con gli interessi della maggioranza dei colleghi, 2) istruiscono i profani sul modo di comportarsi nei consigli d'amministrazione degli ospedali, delle università, degli enti di vigilanza, 3) hanno talvolta occasione di testimoniare, davanti a commissioni parlamentari, sull’inutilità di questa o quella misura proposta dalle professioni e richiesta dal pubblico. Per esempio, in una provincia del Canada occidentale un (gruppo di medici ha presentato una relazione su una ventina di interventi sanitari per i quali l'assemblea legislativa era orientata a stanziare maggiori fondi; si trattava di interventi costosi, e i medici hanno fatto rilevare che per di più erano anche assai dolorosi, che molti presentavano pericoli e che di nessuno di essi era provata l'efficacia. Nell'occasione l'assemblea non ha voluto seguire il parere di questi medici “illuminati”, col risultato che il loro insuccesso, provvisoriamente, avvalora la credenza nella necessità di una tutela professionale dalla hubris professionale.

Il fatto che una professione eserciti una vigilanza di polizia sui propri membri è senz'altro utile per smascherare l'incompetenza smaccata, il macellaio o il puro ciarlatano. Ma come è stato ampiamente dimostrato, la cosiddetta autodisciplina protegge gli inetti e cementa i vincoli di dipendenza del pubblico dalle loro prestazioni. Il medico “critico”, l'avvocato “radicale”, l'architetto dedito alla creazione di quartieri autogestiti, sono professionisti che attirano clienti soffiandoli ai colleghi meno attenti di loro all'andamento della moda. All'inizio le professioni liberali convinsero il pubblico della necessità delle loro prestazioni promettendo di aver cura della scolarizzazione, della formazione morale o dell'addestramento sul lavoro dei profani più poveri. In seguito, divenute dominanti, le professioni si sono arrogate il pieno diritto di guidare il pubblico, e di menomarlo ancora di più, organizzandosi in clubs che ostentano la più acuta consapevolezza dei vincoli ecologici, economici e sociali. Questo atteggiamento, se frena l'espansione del settore professionale, rafforza la soggezione del pubblico all'interno di esso. L'idea che i professionisti abbiano un diritto di servire il pubblico è dunque d'origine recentissima. La loro lotta per affermare e legittimare tale diritto corporativo è una delle minacce più pesanti che gravino sulla nostra società.

La seconda strategia mira a organizzare e coordinare l'insieme delle prestazioni professionali in una maniera, si afferma, più aderente alla natura poliedrica dei problemi umani. Questa tendenza cerca altresì di applicare nozioni mutuate dall'analisi dei sistemi e dalla ricerca operazionale allo scopo di fornire soluzioni globali valide per interi paesi. Che cosa ciò significhi nella pratica lo si è potuto vedere in Canada. Quattro anni fa il ministro canadese della sanità promosse una campagna diretta a convincere l'opinione pubblica che un aumento della spesa per i medici non avrebbe assolutamente inciso sui tassi nazionali di malattia e di mortalità. Mise in rilievo che i decessi prematuri erano per la stragrande maggioranza dovuti a tre fattori: incidenti, soprattutto automobilistici; affezioni cardiache e cancro polmonare, che i medici notoriamente non sono in grado di guarire; e suicidi e omicidi, fenomeni che esulano dall'ambito medico. Il ministro auspicava perciò un ridimensionamento delle prestazioni mediche e la ricerca di nuovi metodi per affrontare il problema della salute. Il compito di proteggere, ristabilire o consolare coloro che sono resi infermi dalle deleterie condizioni ambientali e di vita tipiche del Canada odierno venne allora assunto da tutta una serie di professioni vecchie e nuove. Gli architetti scoprirono la missione di migliorare la salute dei canadesi; la sorveglianza sui cani randagi risultò essere un problema interdipartimentale, che richiedeva nuovi specialisti. Una nuova articolata biocrazia sottopose ad ancor più intenso controllo gli organismi dei canadesi, con una sistematicità che la vecchia iatrocrazia sarebbe stata incapace d'immaginare. Lo slogan “Meglio spender soldi per star bene che per pagare il medico quando si sta male” si può ormai riconoscere per quello che è: il richiamo di nuove meretrici che vogliono attirare su di sé il denaro dei clienti.

Di una dinamica dello stesso tipo offre un esempio la pratica della medicina negli Stati Uniti. Qui l'attuazione di un sistema coordinato per la cura della salute divora somme sempre più gigantesche senza peraltro dimostrarsi particolarmente efficace. Nel 1950 un lavoratore medio destinava annualmente all'assistenza sanitaria professionale meno di due settimane del proprio salario; nel 1976 il rapporto era salito aggirandosi tra le cinque e le sette settimane di retribuzione: quando si compra una nuova Ford si spende di più per l'igiene dei lavoratori che per il metallo incorporato nell'auto. Tuttavia, malgrado tanti provvedimenti e tante spese, la speranza di vita della popolazione maschile adulta non è aumentata in misura apprezzabile nel corso degli ultimi cento anni. Essa è inferiore a quella di molti paesi poveri e negli ultimi venti anni non ha fatto che diminuire, lentamente ma costantemente.

Là dove il tasso di malattia è cambiato in meglio, il miglioramento è dovuto soprattutto all'adozione di un modo di vivere più sano, specie sotto l'aspetto dell'alimentazione. In piccola misura, anche le vaccinazioni e il ricorso automatico a rimedi semplici come gli antibiotici, i contraccettivi e gli aspiratori Carman hanno contribuito alla diminuzione di certi stati morbosi. Ma questi interventi non comportano la necessità di prestazioni professionali. Non è attaccandosi ancora di più alla professione medica che la gente può star meglio in salute, e tuttavia molti medici cosiddetti “radicali” invocano proprio una più estesa biocrazia. Non si rendono conto, evidentemente, che pretendere di “risolvere i problemi” della gente in maniera più “razionale” significa agire al suo posto, spogliarla della decisione, sia pure nell'intento di assicurare una presunta maggiore uguaglianza.

La terza strategia intesa a far sopravvivere le professioni dominanti è la più recente delle mode radicali. Mentre i profeti degli anni '60 sul limitare dell'Abbondanza vaticinavano un mirabile Sviluppo, questi fabbricanti di miti predicano l'autoassistenza del cliente professionalizzato.

Soltanto negli Stati Uniti, tra il 1965 e il 1976 sono usciti circa 2700 libri che insegnano come essere pazienti di se stessi in modo da aver bisogno del medico solo quando per lui ne valga la pena. Alcuni testi consigliano un vero e proprio corso di addestramento all'automedicazione e vorrebbero che solo chi avesse superato il relativo esame finale fosse autorizzato a comprare aspirina e a somministrarla ai propri bambini. Altri testi propongono che i pazienti professionalizzati beneficino di tariffe preferenziali negli ospedali e di sconti sui premi d'assicurazione. Soltanto alle donne fornite di abilitazione a partorire in casa dovrebbe essere concesso di mettere al mondo i loro figli fuori d'un ospedale (anche perché, al caso, queste madri professioniste potrebbero rispondere esse stesse, di fronte alla legge, di eventuali incidenti dovuti a negligenza). Secondo una proposta “radicale” che mi è capitato di vedere, questa abilitazione al parto dovrebbe essere rilasciata da una commissione composta non da medici bensì da femministe.

Sotto l'insegna dell'autoassistenza c'è il sogno professionale di radicare in profondità qualunque gerarchia di bisogni. Chi attualmente lo promuove è la nuova tribù degli esperti in autoassistenza, che hanno preso il posto degli esperti in sviluppo degli anni '60. Il loro obiettivo è la professionalizzazione universale del cliente. Gli esperti americani dell'edilizia che lo scorso autunno hanno invaso Città del Messico sono un buon esempio di questa nuova crociata. Un paio d'anni fa un professore d'architettura di Boston venne a passare le vacanze in Messico, e un mio amico messicano lo portò a vedere la nuova città che, in poco più d'un decennio, è cresciuta dietro l'aeroporto della capitale. Questa comunità, che prima era un piccolo agglomerato di capanne, si è improvvisamente sviluppata fino a contare tre volte più abitanti di Cambridge del Massachusetts. Il mio amico, pure lui architetto, voleva mostrare al collega i mille esempi dell'ingegnosità contadina in fatto di disegni, strutture, e utilizzazione dei rifiuti, tutti esempi non contemplati nei manuali e quindi non derivati da essi. Naturalmente, alla vista di quelle brillanti invenzioni con cui dei dilettanti sono riusciti a far funzionare una borgata di due milioni di abitanti, il collega bostoniano scattò centinaia di rullini di pellicola. Le fotografie furono debitamente studiate a Cambridge; e l'anno non era ancora finito che già specialisti statunitensi appena sfornati dai corsi di architettura comunitaria si affaccendavano a insegnare alla gente di Ciudad Netzahualcoyotl quali fossero i suoi problemi, i suoi bisogni e le relative soluzioni.


L'ethos post-professionale

L'opposto della carenza, del bisogno e della povertà definiti col metro delle professioni è la sussistenza di tipo moderno. Il termine “economia di sussistenza” è oggi generalmente usato per indicare una forma di sopravvivenza di gruppo che è marginale quanto alla dipendenza dal mercato, e nella quale la gente produce ciò che utilizza per mezzo di strumenti tradizionali e nel quadro di un'organizzazione sociale ereditata che spesso, tramandandosi, non subisce alcuna revisione. Io propongo di recuperare questo termine in un senso moderno, chiamando “sussistenza moderna” il modo di vita predominante in un'economia post-industriale in cui la gente sia riuscita a ridurre la propria dipendenza dal mercato, e ci sia arrivata proteggendo - con mezzi politici - una infrastruttura dove le tecniche e gli strumenti servano in primo luogo a creare valori d'uso non quantificati né quantificabili dai fabbricanti professionali di bisogni. Ho sviluppato altrove (nel libro La convivialità) una teoria di questi strumenti, proponendo di chiamare “strumento conviviale” ogni attrezzatura orientata verso la produzione di valori d'uso. E ho anche mostrato come l'inverso della progressiva povertà modernizzata sia un'austerità conviviale risultante da una scelta politica che salvaguardi la libertà e l'equità nell'uso ditali strumenti.

Riattrezzare la società contemporanea con strumenti conviviali e non più industriali comporta uno spostamento d'accento nella nostra lotta per la giustizia sociale; comporta una subordinazione, in forme da trovare, della giustizia distributiva alla giustizia partecipativa. In una società industriale, gli individui sono educati alla massima specializzazione. Diventano impotenti a formulare o a soddisfare i propri bisogni. Dipendono, quanto ai beni di consumo, da gestori che firmano la prescrizione per loro. Il diritto alla diagnosi del bisogno, alla prescrizione della terapia e, in genere, alla distribuzione dei beni predomina nell’etica come nella politica e nella legislazione. Questo primato riconosciuto al diritto di vedersi attribuire delle necessità riduce a un fragile lusso la liberà di imparare, di guarire, di muoversi autonomamente. In una società conviviale avverrebbe il contrario. La tutela dell'equità nell’esercizio delle libertà personali sarebbe la preoccupazione dominante di una società fondata su una tecnologia radicale, dove la scienza e la tecnica fossero poste al servizio di una più efficace creazione di valore d'uso. Ovviamente una simile libertà non avrebbe alcun senso se non fosse basata su un uguale diritto di accesso alle materie prime, agli strumenti e ai servizi comuni. Come il cibo, il combustibile, l'aria pura o lo spazio vitale, così gli attrezzi o i posti di lavoro non possono essere distribuiti equamente se non razionandoli senza riguardo per i bisogni attribuiti, cioè stabilendo un uguale limite massimo per giovani e vecchi, per l'handicappato come per il presidente. Una società improntata alla tutela di una uguale disponibilità di strumenti moderni ed efficaci per l'esercizio delle libertà produttive non può esistere se i beni e le risorse su cui poggia l'esercizio ditali libertà non sono ugualmente ripartite fra tutti.

 

Superare i paesi sviluppati

E’ il testo di una conferenza tenuta nell'estate del 1968 al convegno di Kuchiching della Canadian Foreign Policy Association. Non l'ho ritoccato neanche là dove oggi userei un linguaggio diverso o porrei un diverso accento. Sta a ricordare da quali posizioni di partenza si è venuto evolvendo il mio pensiero.

E’ comune oggi la richiesta che i paesi ricchi convertano la loro macchina bellica in un programma per lo sviluppo del Terzo Mondo. Nella parte più povera della terra, che comprende i quattro quinti dell'umanità, si registra un incremento demografico incontrollato mentre il consumo pro capite segna un netto declino. Questo duplice fenomeno, crescita della popolazione e calo del consumo, costituisce una minaccia per i paesi industrializzati, i quali sono però ancora in tempo a reagire destinando alla pacificazione economica dei paesi poveri le somme che oggi stanziano per la difesa militare. Il che potrebbe nondimeno produrre una desolazione irreversibile, perché gli aratri dei ricchi possono fare tanto male quanto le loro spade. I camion degli Stati Uniti possono provocare danni più duraturi dei loro carri armati. E’ più facile creare una domanda di massa dei primi che dei secondi. Soltanto una minoranza ha bisogno di armi pesanti, mentre sono maggioranza coloro che possono trovarsi a dipendere da irrealistici livelli di offerta di certi tipi di macchine produttive quali gli autocarri moderni. Una volta che il Terzo Mondo sia divenuto un mercato di massa per i beni, i prodotti e i processi che i ricchi progettano in funzione di se stessi, lo scarto fra la domanda di queste produzioni occidentali e la loro effettiva offerta non potrà che accrescersi indefinitamente. L'auto di famiglia non può condurre i poveri nell'età del jet, come non è il sistema scolastico che possa fornire loro l'istruzione, né il frigorifero domestico che possa assicurare loro una sana alimentazione.

E' evidente che in America Latina soltanto un individuo su diecimila può permettersi di avere una Cadillac, di farsi un'operazione al cuore o di arrivare al dottorato. Questa angustia degli obiettivi di sviluppo non ci fa però disperare della sorte del Terzo Mondo, per una ragione che è semplice: non siamo ancora arrivati a credere che una Cadillac sia necessaria per un buon trasporto, che l'operazione al cuore sia una cura sanitaria normale, o che il dottorato sia un requisito indispensabile di un'istruzione accettabile. Siamo anzi fermamente convinti che in Perù l'importazione delle Cadillac dovrebbe essere pesantemente tassata; che a Bogotà una clinica per il trapianto degli organi sarebbe uno scandaloso giocattolo che servirebbe solo a giustificare una maggiore concentrazione di medici nella città, e che il betatrone esorbita dalle attrezzature didattiche dell'università di San Paolo.

Purtroppo non è invece evidente per tutti che la maggioranza dei latino-americani - non solo della nostra generazione ma anche della prossima e di quella successiva - non può permettersi nessuna specie di automobile, nessun genere di ospedalizzazione, e neanche un sistema di scuole elementari. Noi reprimiamo la nostra consapevolezza di questa palese realtà perché non sopportiamo di ammettere che la nostra immaginazione si trova stretta in un angolo.

La potenza delle istituzioni da noi create è così persuasiva da plasmare non soltanto le nostre scelte ma persino il nostro senso del possibile. Abbiamo dimenticato come si possa parlare di un trasporto moderno che non si basi sull'automobile e sull'aeroplano. Il nostro modo di concepire una cura moderna della salute pone l'accento sulla capacità di prolungare la vita dei malati senza scampo. Non siamo più in grado di pensare a un'istruzione migliore se non in termini di scuole più complesse e di insegnanti addestrati con tirocini sempre più lunghi. Gli orizzonti della nostra inventività sono dominati da enormi istituzioni che producono servizi costosi.

Abbiamo incarnato nelle istituzioni la nostra visione del mondo, e ora ne siamo prigionieri. Fabbriche, mezzi d'informazione, ospedali, governi, scuole approntano beni e servizi confezionati in modo da contenere la nostra visione del mondo. Noi - i ricchi - intendiamo per progresso l'espansione di questi enti. Intendiamo per accrescimento della mobilità il lusso e la sicurezza ammanniti dalla General Motors o dalla Boeing. Intendiamo per miglioramento dello stato di salute generale una maggiore disponibilità di medici e di ospedali, che somministrano insieme salute e sofferenza protratta. Siamo arrivati a identificare il nostro bisogno d'imparare di più con la richiesta di una relegazione sempre più lunga nelle aule scolastiche. In altre parole, abbiamo messo in un unico pacco l'istruzione, il servizio di custodia, l'acquisto d'un titolo valido per l'impiego, il diritto elettorale, e abbiamo avvolto tutte queste cose con l'educazione alle virtù cristiane, liberali oppure comuniste.

In meno di un secolo la società industriale ha modellato soluzioni brevettate per i bisogni umani fondamentali e ci ha portato a credere che il Creatore abbia dato ai bisogni dell'uomo la forma di domande dei prodotti da noi inventati. Questo vale per la Russia come per il Giappone la comunità atlantica. Il consumatore viene abituato all'obsolescenza, cioè a restar fedele ai medesimi produttori che continueranno a dargli sostanzialmente gli stessi pacchi di merci con qualche differenza di qualità o in nuovi involucri.

Le società industrializzate possono ben fornire siffatte confezioni alla maggioranza dei propri membri, ma ciò non dimostra che siano società sane o economicamente equilibrate o che promuovano la vita. E vero il contrario. Quanto più il cittadino è ammaestrato a consumare beni e servizi confezionati, tanto meno sembra capace di plasmare il proprio ambiente. Esaurisce le sue energie e le sue disponibilità finanziarie nel procurarsi modelli sempre più aggiornati delle medesime merci, e l'ambiente diventa un derivato delle sue abitudini consumistiche.

La composizione dei “pacchi” di cui sto parlando è la causa principale degli alti costi che comporta l'appagamento dei bisogni fondamentali. Finché ognuno avrà “bisogno” d'una propria auto, le nostre città dovranno sopportare ingorghi di traffico sempre più lunghi e adottare rimedi assurdamente costosi per alleviarli. Finché salute vorrà dire massimo prolungamento della sopravvivenza, i nostri malati riceveranno interventi chirurgici sempre più straordinari più le droghe necessarie per lenire le sofferenze che ne conseguono. Finché vorremo usare le scuole per togliere i bambini dai piedi dei loro genitori o per tenerli lontani dalla strada e fuori dalla forza lavoro, la nostra gioventù sarà trattenuta in uno stato di scolarizzazione interminabile e avrà bisogno di crescenti incentivi per sopportare la prova.

Ora i paesi ricchi impongono a quelli poveri una camicia di forza di ingorghi stradali, di degenze ospedaliere e di aule scolastiche che, per convenzione internazionale, chiamano “sviluppo”. La parte del mondo ricca, scolarizzata e vecchia cerca di mettere in comune i suoi discutibili privilegi appioppando al Terzo Mondo le proprie soluzioni precostituite. Si creano ingorghi del traffico a San Paolo mentre un milione di brasiliani del Nord-Est fuggono la siccità facendo ottocento chilometri a piedi. Presso là Clinica di chirurgia speciale di New York i medici latino-americani fanno una pratica che poi applicheranno a pochissime persone, mentre la dissenteria amebica rimane endemica nei tuguri dove vive il novanta per cento della popolazione. Una minuscola minoranza riceve nell'America del Nord un'istruzione scientifica avanzata, non di rado a spese dei rispettivi governi. Quelli che poi eventualmente tornano in Bolivia, diventano scadenti professori di materie pretenziose a La Paz o a Cochabamba. I ricchi esportano solo versioni sorpassate dei loro modelli standard.

Un buon esempio di ben intenzionato impegno in favore del sottosviluppo è l'Alleanza per il Progresso. Contrariamente alle sue parole d'ordine, ha avuto successo... come alleanza per il progresso delle classi consumatrici e per l'addomesticamento delle masse latino-americane. Ha segnato un grande passo avanti nel processo che ha modernizzato i modelli di consumo della borghesia sudamericana integrandola nella cultura egemonica della metropoli settentrionale. Al tempo stesso ha modernizzato le aspirazioni della maggioranza dei cittadini e concentrato la loro domanda su prodotti non disponibili.

Ogni automobile che il Brasile mette su strada nega a cinquanta persone la possibilità di un buon trasporto in autobus. Ogni frigo messo sul mercato riduce le possibilità di dotare di un impianto di refrigerazione la comunità. Ogni dollaro speso in America Latina per medici e ospedali costa - per dirla con Jorge de Ahumada, il brillante economista cileno - cento vite umane: tante infatti se ne sarebbero potute salvare se fosse stato speso per un buon impianto di potabilizzazione dell'acqua. Ogni dollaro destinato alle scuole significa ulteriori privilegi per i pochi a scapito dei più; al massimo, accresce il numero di coloro che, prima di smettere di frequentare, hanno imparato che chi resiste più a lungo si guadagna il diritto a un potere, un reddito e un prestigio maggiori. Questo tipo di scuola non fa che insegnare allo scolarizzato la superiorità di chi è scolarizzato ancora di più.

Tutti i paesi dell'America Latina sono freneticamente intenti a sviluppare i propri sistemi scolastici. Non c'è paese che oggi destini all'istruzione - cioè alla scolarizzazione - meno dell'equivalente del 18 per cento del gettito tributario, e parecchi paesi arrivano a spendere quasi il doppio, Ma nonostante questi enormi investimenti, nessun paese è sinora riuscito ad assicurare cinque anni completi di istruzione a più d'un terzo della popolazione; il divario tra la domanda e l'offerta di scolarizzazione cresce in proporzione geometrica. E ciò che vale per le scuole, vale anche per i prodotti di quasi tutte le istituzioni coinvolte in questo processo di modernizzazione del Terzo Mondo.

I continui perfezionamenti tecnologici che vengono apportati a certi prodotti già affermati sul mercato si traducono spesso in un vantaggio per il produttore assai più che per il consumatore. La complessità crescente dei procedimenti produttivi fa sì che solo i grandi produttori siano in grado di sostituire in continuazione i modelli superati, mentre la domanda del consumatore tende a concentrarsi sui miglioramenti marginali del prodotto senza alcun riguardo per gli effetti collaterali concomitanti, cioè prezzi più alti, minore durata, utilità più limitata, maggiore onerosità delle riparazioni. Si pensi alla molteplicità d'uso di un apriscatole normale in confronto all'apriscatole elettrico che, quando funziona, apre soltanto certi tipi di scatole, e costa cento volte di più.

Lo stesso discorso vale per una macchina agricola come per i titoli di studio. L'agricoltore del Texas può anche convincersi d'aver bisogno di un veicolo a quattro ruote indipendenti che possa fare i centodieci all'ora in autostrada, sia munito di un tergicristallo elettrico e possa essere sostituito con un nuovo modello nel giro di un anno o due. Ma la maggior parte degli agricoltori del mondo non sa che farsene di simili velocità, non ha mai aspirato a comodità del genere e non ha l'assillo dell'obsolescenza; ha invece bisogno di un mezzo di trasporto a basso prezzo, in un mondo dove il tempo non si misura in denaro, dove basta un tergicristallo manuale e dove un attrezzo pesante dovrebbe durare oltre una generazione. Questo asino meccanico richiede una progettazione e una struttura completamente diverse rispetto a quello che viene prodotto per il mercato statunitense. Ma un veicolo del genere non è in produzione.

In quasi tutto il Sud America c'è bisogno di personale paramedico che possa agire per periodi indefiniti senza la supervisione di un dottore in medicina. Ma invece di mettere in piedi un sistema atto a preparare ostetriche e guaritori ambulanti in grado di usare un arsenale medico limitatissimo lavorando autonomamente, le università latino-americane aprono ogni anno una nuova scuola di specializzazione infermieristica da cui escono professionisti idonei a funzionare soltanto in un ospedale e farmacisti che sanno solo come incrementare lo smercio di medicinali sempre più pericolosi.

Il mondo sta arrivando a un vicolo cieco in cui convergono due processi diversi: un numero sempre maggiore di uomini ha sempre minori possibilità di fare scelte fondamentali. L'aumento della popolazione, largamente reclamizzato, suscita il panico; la diminuzione delle possibilità di scelta provoca angoscia ma viene costantemente trascurata. Mentre l'esplosione demografica opprime l'immaginazione, il progressivo atrofizzarsi della fantasia sociale viene razionalizzato considerandolo effetto d'una maggiore possibilità di scelta tra marche differenti. I due processi convergono verso un punto morto: l'esplosione demografica fornisce un maggior numero di consumatori per tutto quanto, dai cibi ai contraccettivi, mentre la nostra immaginazione rattrappita non riesce a concepire altri modi di soddisfare le loro richieste che non siano le confezioni attualmente in vendita nelle società modello.

Mi soffermerò prima sull'uno e poi sull'altro di questi due fattori che, a mio avviso, sono le due coordinate che ci permettono di definire il sottosviluppo.

In quasi tutti i paesi del Terzo Mondo come cresce la popolazione così cresce la borghesia. I redditi, i consumi e il benessere della classe media sono in ascesa mentre si allarga il divario tra questo ceto e la massa della popolazione. Anche dove il consumo pro capite è in aumento, la maggioranza della gente ha meno cibo oggi che nel 1945, meno cure effettive in caso di malattia, meno lavoro significante e meno protezione. Ciò deriva in parte dalla polarizzazione dei consumi e in parte dal collasso della cultura e della famiglia tradizionali. Nel 1969 c e più gente affamata, sofferente e abbandonata di quanta non ce ne fosse alla fine della seconda guerra mondiale, non solo in cifra assoluta ma anche in percentuale della popolazione terrestre.

Queste conseguenze concrete del sottosviluppo sono diffuse; ma il sottosviluppo è anche uno stato d'animo, e capire che è uno stato d'animo, una forma di coscienza, è il problema cruciale. Abbiamo sottosviluppo come stato d'animo quando i bisogni di massa si convertono in richiesta di nuove marche di soluzioni confezionate, perennemente inaccessibili alla maggioranza. Il sottosviluppo inteso in questo senso si sta rapidamente estendendo anche nei paesi dove pure è in aumento la disponibilità di aule scolastiche, calorie, automobili e cliniche. I gruppi dirigenti di questi paesi allestiscono servizi che sono stati concepiti per una cultura opulenta: una volta monopolizzata in questa maniera la domanda, essi non potranno mai soddisfare i bisogni della maggioranza.

Il sottosviluppo come forma di coscienza è un risultato estremo di quella che possiamo chiamare, nel linguaggio sia marxiano sia freudiano, Verdinglichung, o reificazione. Intendo per reificazione il coagularsi della percezione dei bisogni reali nella domanda di prodotti fabbricati in serie. Intendo la traduzione della sete in bisogno di una CocaCola. Si arriva a questo tipo di reificazione con la manipolazione dei bisogni umani primari da parte delle gigantesche organizzazioni burocratiche che sono riuscite a dominare l'immaginazione dei potenziali consumatori.

Mi si consenta di ritornare sull'esempio preso dal campo dell'istruzione. L'intenso sviluppo della scolarizzazione porta a una identificazione tra frequenza scolastica e istruzione, talmente stretta che nel linguaggio quotidiano i due termini diventano interscambiabili. Una volta che l'immaginazione di tutto un popolo sia stata “scolarizzata”, vale a dire ammaestrata a credere che l'istruzione sia monopolio della scuola, allora si può anche tassare l'analfabeta per permettere ai figli dei ricchi di frequentare gratuitamente la scuola media superiore e l'università.

Il sottosviluppo è frutto dei crescenti livelli in aspirazione che si raggiungono con il marketing intensivo dei prodotti “brevettati”. In questo senso il sottosviluppo dinamico ora in atto è esattamente l'opposto di ciò che per me è l'educazione: ossia la capacità di percepire nuovi livelli del potenziale umano, e l'uso delle proprie facoltà creative a vantaggio della vita. Il sottosviluppo, ad ogni modo, implica la resa della coscienza sociale a soluzioni preconfezionate.

Spesso il processo attraverso cui la promozione dei prodotti “stranieri” accentua il sottosviluppo viene inteso nei modi più superficiali. La stessa persona che s'indigna vedendo uno stabilimento della Coca-Cola in una bidonville dell'America Latina, spesso è orgogliosa della nuova scuola normale che sta sorgendo lì accanto. Non sopporta quel segno tangibile di una “licenza” esclusiva straniera attribuita a una bibita, al posto della quale preferirebbe vedere qualche “Cola-Mex”; ma non ha dubbi sulla necessità di imporre - a qualunque costo - la scolarizzazione ai propri connazionali, senza rendersi conto dell'invisibile licenza in forza della quale questo istituto è profondamente incastrato nel mercato mondiale.

Alcuni anni fa ho visto degli operai che alzavano un cartello di venti metri della Coca-Cola in una pianura deserta del Mexquital; una grave siccità accompagnata da carestia aveva da poco devastato l'altopiano messicano; colui che mi dava alloggio, un indiano povero di Ixmiquilpan, stava terminando di offrire ai suoi ospiti un bicchierino da tequila della costosa acqua zuccherata nera. Rivedendo la scena mi viene ancora rabbia; ma mi sento ribollire il sangue molto di più quando ricordo le riunioni dell'Unesco nelle quali burocrati ben intenzionati e ben pagati discutevano seriamente sui programmi scolastici dell'America Latina, o quando penso ai discorsi di certi fervidi progressisti impegnati a dimostrare la necessità di un maggior numero di scuole.

La frode perpetrata dai piazzisti delle scuole è meno evidente ma assai più sostanziale dell'affare concluso dal compiaciuto rappresentante della Coca-Cola o della Ford, perché l'uomo di scuola avvezza la gente a una droga molto più impegnativa. Frequentare la scuola elementare non è un lusso innocuo, ma assomiglia piuttosto all'abitudine dell'indio delle Ande di masticare coca, che aggioga il lavoratore al padrone.

Quanto più elevata è la dose di scolarizzazione che un individuo ha ricevuto, tanto più lo staccarsene ha su di lui un effetto depressivo. Chi abbandona la scuola al settimo anno sente la propria inferiorità molto più acutamente di colui che l'abbandona al terzo. Le scuole del Terzo Mondo somministrano il loro oppio con assai maggiore efficacia delle chiese di altre epoche. Man mano che la mentalità di una società si scolarizza, gli individui non riescono più a credere nella possibilità di vivere senza essere inferiori ad altri. Man mano che la maggioranza si sposta dalla campagna alla città, all'inferiorità ereditaria del peon subentra l'inferiorità di chi ha abbandonato prematuramente la scuola ed è considerato personalmente responsabile del proprio fallimento. Le scuole razionalizzano l'origine divina della stratificazione sociale assai più rigorosamente di quanto abbiano mai fatto le chiese.

Sino a oggi nessun paese dell'America Latina ha dichiarato trasgressori della legge i giovani che consumano meno d'una certa quantità di Coca-Cola o di automobili, mentre tutti i paesi dell'America Latina hanno approvato leggi le quali stabiliscono che chi smette anzitempo di andare a scuola è un cittadino che non adempie ai propri obblighi giuridici. Recentemente il governo brasiliano ha quasi raddoppiato il numero degli anni durante i quali la frequenza scolastica è obbligatoria e gratuita per legge. D'ora in avanti ogni ragazzo brasiliano che abbandona la scuola a meno di sedici anni si sentirà rimproverare per tutta la vita di non aver approfittato d'un privilegio imposto dalla legge. Questo provvedimento è stato preso in un paese dove neanche i più ottimisti riuscivano a prevedere quando sarebbe stato possibile assicurare un simile livello di scolarizzazione anche soltanto al 25 per cento dei giovani. L'adozione dei modelli di scolarizzazione internazionali condanna per sempre la stragrande maggioranza dei latino-americani alla marginalità o all'esclusione dalla vita sociale: in una parola, al sottosviluppo.

La traduzione degli obiettivi sociali in livelli di consumo non è un fenomeno limitato a qualche paese soltanto, bensì attraversa tutte le frontiere culturali, ideologiche e geografiche. Non c'è nazione che oggi non miri a impiantare proprie fabbriche d'auto, proprie scuole normali e proprie facoltà di medicina - che per lo più, quando va bene, sono mediocri imitazioni di modelli stranieri, soprattutto americani.

Il Terzo Mondo ha bisogno di rivoluzionare profonda mente le proprie istituzioni. Le rivoluzioni avvenute nel corso dell'ultima generazione sono state soprattutto politiche. Un nuovo gruppo di uomini con un nuovo arsenale di giustificazioni ideologiche ha preso il potere per amministrare sostanzialmente le stesse istituzioni scolastiche, sanitarie, commerciali, nell'interesse di una nuova massa di clienti. Poiché le istituzioni non hanno subito alcun mutamento radicale, la nuova massa di clienti ha pressappoco le stesse dimensioni di quella precedentemente servita. Lo si vede chiaramente nel caso dell'istruzione. I costi della scolarizzazione per allievo sono oggi confrontabili dappertutto, poiché i criteri usati per valutare la qualità delle scuole tendono a essere internazionalmente i medesimi. L'accesso all'istruzione sostenuta dal denaro pubblico, identificato con l'accesso alla scuola, dipende ovunque dal reddito pro capite. (Paesi come la Cina e il Vietnam del Nord potrebbero costituire eccezioni significative.)

In tutto il Terzo Mondo le istituzioni moderne sono clamorosamente inefficaci rispetto ai fini egualitari per i quali vengono copiate e riprodotte. Ma fin quando l'immaginazione sociale della maggioranza non verrà distrutta dal fatto di fissarsi su queste istituzioni, c’è più speranza di impostare una rivoluzione istituzionale nel Terzo Mondo che nei paesi ricchi. Di qui l'urgenza di elaborare funzionanti alternative alle soluzioni “moderne”.

Il sottosviluppo sta per diventare cronico in molti paesi. La rivoluzione di cui parlo deve quindi iniziare prima che ciò accada. Ancora una volta è l'istruzione a offrirci un esempio adatto: si ha sottosviluppo cronico dell'istruzione quando la domanda di scolarizzazione diventa così diffusa da tradursi, in sede politica, in una richiesta unanime di concentrare tutte le risorse educative sul sistema scolastico. A questo punto non è più possibile scindere l'istruzione dalla scolarizzazione.

La sola alternativa praticabile a un crescente aggravamento del sottosviluppo sta in una risposta ai bisogni fondamentali che sia pianificata come obiettivo a lungo termine in funzione di aree che avranno sempre una struttura di capitale differente. E’ più facile parlare di alternative alle istituzioni, ai servizi e ai prodotti esistenti che definirle con precisione. Non mi propongo né di descrivere un'utopia né di elaborare scenari di un futuro diverso. Dobbiamo accontentarci di portare esempi che suggeriscano alcuni degli indirizzi che la ricerca dovrebbe prendere.

Qualche esempio lo abbiamo già dato. Gli autobus sono una alternativa alla moltitudine delle automobili private. I veicoli progettati per trasporto lento su terreni accidentati sono un'alternativa ai camion di serie. La potabilizzazione dell'acqua è un'alternativa ai costosi interventi chirurgici. I lavoratori sanitari sono un'alternativa ai medici e alle infermiere. Un impianto per la conservazione dei generi alimentari della comunità è un'alternativa ai dispendiosi elettrodomestici da cucina. E si potrebbero citare decine di altri esempi. Perché, mettiamo, non considerare il camminare un'alternativa a lungo termine alla locomozione motorizzata e non studiare le esigenze che l'urbanista sarebbe chiamato a soddisfare? E perché non si potrebbe standardizzare la costruzione delle case, prefabbricarne gli elementi e obbligare ogni cittadino a imparare in un anno di servizio pubblico come costruirsi un'abitazione conforme ai requisiti igienici?Nel campo dell'istruzione è più difficile suggerire alternative, anche perché negli ultimi tempi le scuole si sono praticamente accaparrate tutte le risorse disponibili in fatto di impegno ideale, immaginazione e denaro. Ma anche qui si può indicare in quale direzione dovrebbe muoversi la ricerca.

Attualmente si concepisce la scolarizzazione come una graduata e programmata presenza in aula di bambini, per un migliaio di ore annue e per una serie ininterrotta di anni. I paesi dell'America Latina, in media, possono fornire a ogni cittadino da otto a trenta mesi di siffatto servizio. Perché invece non rendere obbligatori un mese o due all'anno per tutti i cittadini al di sotto dei trent'anni? Oggi i soldi si spendono in gran parte per i bambini, ma a un adulto si può insegnare a leggere in un decimo del tempo e a un costo dieci volte inferiore. Nel caso dell'adulto, inoltre, l'investimento rende un profitto immediato, sia che il risultato più importante della sua alfabetizzazione venga visto in una nuova capacità di discernimento, una maggior coscienza politica e un atteggiamento più responsabile riguardo alla crescita e al futuro della propria famiglia, sia che si miri a ottenere una maggiore produttività. Il profitto anzi è doppio, perché l'adulto può contribuire non solo all'istruzione dei propri figli, ma anche a quella di altri adulti. Eppure, nonostante questi vantaggi, i programmi per la lotta contro l'analfabetismo ottengono poco o punto sostegno in America Latina, poiché le scuole hanno diritto di prelazione su tutte le risorse pubbliche. Non solo, ma questi programmi sono stati spietatamente soppressi nei paesi in cui l'appoggio dei militari ha permesso all'oligarchia feudale o industriale di fare a meno della precedente maschera di benevolenza.

Un'altra possibilità è più difficile da definire perché non esiste ancora alcun esempio che si possa addurre al riguardo. Non possiamo perciò che immaginare quest'altra alternativa, consistente nel distribuire l'uso delle risorse pubbliche destinate all'istruzione in modo da dare un minimo di possibilità a ogni cittadino. L'istruzione diventerà una preoccupazione politica della maggioranza degli elettori solo quando ognuno di essi avrà una precisa consapevolezza delle risorse didattiche che gli sono dovute, nonché qualche idea su come rivendicarle. Si potrebbe immaginare una sorta di “Dichiarazione universale dei diritti sulle assegnazioni dello Stato”, che divida le risorse pubbliche destinate all'istruzione per il numero dei bambini in età scolare e garantisca che chi a sette, otto o nove anni non abbia approfittato di questo credito, all'età di dieci anni trovi sempre a propria disposizione gli assegni accumulati.

Cosa assicurerebbe l'esiguo credito d'istruzione che una repubblica dell'America Latina sarebbe in grado di offrire ai propri ragazzi? Quasi tutta quell'attrezzatura base di libri, immagini, cubi, giochi e giocattoli, totalmente assente dalle case degli autentici poveri, che permette al bambino borghese di apprendere l'alfabeto, i colori, le forme e altre categorie di cose e di esperienze che condizionano il suo sviluppo educativo. La scelta tra questi oggetti e la scuola è ovvia; ma purtroppo il povero, il solo per il quale essa realmente si ponga, non è mai messo in condizione di esercitarla.

Definire delle alternative ai prodotti e alle istituzioni che ora occupano il campo è difficile, non solo, come ho cercato di dimostrare, perché tali prodotti e istituzioni improntano il nostro modo di vedere la realtà stessa, ma anche perché la progettazione di possibilità nuove esige una concentrazione di volontà e di intelligenza superiore a quella che si ha di solito per caso. Questa concentrazione di volontà e d'intelligenza intesa a risolvere particolari problemi, quale che sia la loro natura, ci siamo abituati nel corso dell'ultimo secolo a chiamarla ricerca.

Devo però precisare quale è il tipo di ricerca di cui sto parlando. Non mi riferisco alla ricerca pura nei campi della fisica, dell'ingegneria, della genetica, della medicina o dell'apprendimento. L'opera di uomini come F.H.C. Crick, Jean Piaget, Murray Gell-Mann si ripercuoterà su altri campi della scienza ampliando i nostri orizzonti. Il bisogno che questi uomini hanno di laboratori, biblioteche e collaboratori specializzati fa sì che essi si radunino nelle poche capitali mondiali della ricerca. La loro ricerca può fornire una base per lavorare in modo nuovo su qualunque prodotto o quasi.

Non sto neanche parlando dei miliardi di dollari che s'investono ogni anno nella ricerca applicata, perché questo denaro viene in gran parte destinato dalle istituzioni esistenti al perfezionamento e alla promozione dei rispettivi prodotti. Ricerca applicata significa denaro speso per rendere gli aerei più veloci e gli aeroporti più sicuri; perché i medicinali diventino più specifici e potenti e i medici più capaci di controllarne i micidiali effetti secondari; per ammannire più grossi “pacchi” di sapere nelle aule scolastiche; per amministrare con metodi nuovi le grandi burocrazie. E il tipo di ricerca che in qualche modo dobbiamo riuscire a controbattere se vogliamo avere la possibilità di trovare alternative di fondo all'automobile, all'ospedale, alla scuola e alle tante altre cosiddette “attrezzature evidentemente necessarie alla vita moderna”.

Ho in mente un tipo di ricerca differente, e particolarmente difficile, che sinora è stato generalmente trascurato, per ragioni ovvie. Chiedo una ricerca sulle alternative ai prodotti che oggi dominano il mercato: agli ospedali e alle professioni dedite non a guarire ma a tenere in vita il malato; alle scuole e a quel processo di confezionamento che rifiuta l'istruzione a chi non ha l'età giusta, a chi non ha seguito il ciclo prescritto, a chi non ha trascorso in aula un numero sufficiente di ore consecutive, a chi non intende pagare il proprio sapere con la sottomissione a sorveglianza, esami e diplomi o con l'addottrinamento nei valori dell'élite dominante.

Questa controricerca sulle alternative sostanziali alle attuali soluzioni preconfezionate è assolutamente necessaria se si vuole che i paesi poveri abbiano un futuro degno d'essere vissuto. Essa si distingue da quasi tutto il lavoro che si è fatto in nome dell'“anno 2000”, perché in gran parte tale lavoro si propone di ottenere radicali mutamenti nelle strutture sociali mediante semplici aggiustamenti organizzativi di una tecnologia già avanzata. La controricerca di cui io parlo deve invece avere tra i suoi presupposti la persistente carenza di capitali del Terzo Mondo.

Le difficoltà di una simile ricerca sono evidenti. Il ricercatore deve per prima cosa dubitare di ciò che appare a tutti ovvio. Deve in secondo luogo convincere i detentori del potere decisionale ad agire contro i propri interessi a breve, o forzarli a farlo. Deve infine sopravvivere come individuo in un mondo ch'egli cerca di cambiare radicalmente, tanto che i suoi simili appartenenti alla minoranza privilegiata 16 considerano un distruttore delle basi stesse sulle quali tutti poggiamo. Egli sa che se avrà successo nella sua ricerca a beneficio dei poveri, potrà persino accadere che le società tecnicamente avanzate invidino quelle “povere” che sposeranno la sua visione.

Coloro che elaborano piani di sviluppo, vivano essi nel Nord o nel Sud America, in Russia o in Israele, seguono tutti una stessa regola: definiscono lo sviluppo e ne fissano gli obiettivi secondo modalità a loro familiari, che sono abituati a usare per soddisfare i propri bisogni, e che permettono loro di agire attraverso le istituzioni su cui hanno potere o controllo. Questa formula è fallita, non può che fallire. Non esiste al mondo abbastanza denaro perché una politica di sviluppo condotta su questa falsariga possa essere Coronata da successo, neanche se si mettessero assieme i bilanci per gli armamenti e per le ricerche spaziali delle superpotenze.

Una regola analoga seguono coloro che cercano di fare rivoluzioni politiche, specie nel Terzo Mondo. Solitamente costoro promettono di rendere accessibili a tutti i cittadini i privilegi consueti degli attuali gruppi dominanti, come le scuole e l'assistenza ospedaliera; e basano questa vana promessa sulla convinzione che un cambiamento del regime politico permetterà di espandere a sufficienza le istituzioni che producono tali privilegi. Le promesse e le parole d'ordine dei rivoluzionari sono perciò altrettanto minacciate dalla controricerca che io auspico quanto il mercato dei produttori ora dominanti.

In Vietnam un popolo in bicicletta e armato di canne di bambù appuntite ha bloccato il più progredito apparato di ricerca e di produzione che sia mai stato concepito. Noi dobbiamo cercare la via della sopravvivenza in un Terzo Mondo nel quale l'ingegnosità umana possa battere in modo pacifico la potenza meccanizzata. L'unica maniera per invertire la disastrosa tendenza a un crescente sottosviluppo, per difficile che sia, è di imparare a ridere delle soluzioni comunemente accettate così da modificare le domande che le rendono necessarie. Soltanto gli uomini liberi possono cambiare idea e avere sorprese; e se non esistono uomini completamente liberi, alcuni sono certo più libertà di altri.

 

Invece dell'istruzione

Verso la fine degli anni '60 tenni al Centro intercultural de documentaciòn (CIDOC) di Cuernavaca, Messico, una serie di seminari sul monopolio del modo di produzione industriale e sulle alternative concettuali adatte a un'epoca post-industriale. Il primo settore industriale che analizzai fu il sistema scolastico e il suo presunto prodotto, l'istruzione. Sette saggi che scrissi in quel periodo furono riuniti in volume nel 1971 col titolo Descolarizzare la società (trad. it. Mondadori 1972). Dal modo in cui il libro fu accolto mi accorsi che la mia descrizione delle funzioni latenti involontarie della scuola obbligatoria (il “programma occulto” della scolarizzazione) veniva usata impropriamente non soltanto dai fautori delle cosiddette “scuole libere” ma, ancor più, da maestri di scuola anelanti a trasformarsi in educatori degli adulti.

Il saggio che segue è stato scritto a metà del 1971. Vi ribadisco che l'alternativa alla dipendenza di una società dalle proprie scuole non sta nell'escogitazione di nuovi espedienti per far imparare alla gente ciò che secondo gli esperti essa ha bisogno di sa pere; bensì nella creazione di un rapporto radicalmente nuovo tra gli esseri umani e il loro ambiente. Una società tesa al raggiungimento di alti livelli di sapere diffuso e di rapporti personali, libera e insieme critica, non può esistere se non si pone dei limiti pedagogicamente motivati alla propria crescita istituzionale e industriale.

Abbiamo cercato per generazioni di migliorare il mondo fornendo una quantità sempre maggiore di scolarizzazione, ma sinora lo sforzo non è andato a buon fine. Abbiamo invece scoperto che obbligare tutti i bambini ad arrampicarsi per una scala scolastica senza fine non serve a promuovere l'uguaglianza ma favorisce fatalmente colui che parte per primo, in migliori condizioni di salute o più preparato; che l'istruzione forzosa spegne nella maggioranza delle persone la voglia di imparare per proprio conto; e che il sapere trattato come merce, elargito in confezioni e considerato come proprietà privata, una volta acquisito, non può che essere sempre scarso.

Ci si è improvvisamente resi conto che l'istruzione pubblica attuata mediante la scolarizzazione obbligatoria ha perso ogni legittimità sociale, pedagogica ed economica. Pertanto, i critici del sistema scolastico propongono ora rimedi energici ed eterodossi che vanno dal progetto dei “buoni-studio”, che permetterebbe a ognuno di procurarsi l'istruzione che preferisce sul mercato libero, al passaggio della responsabilità dell'istruzione dalla scuola ai media e all'addestramento sul lavoro. Alcuni sostengono che la scuola dovrà perdere il suo carattere di istituzione ufficiale dello Stato come l’ha perso la Chiesa nel corso degli ultimi due secoli. Altri riformatori propongono di sostituire la scuola universale con vari altri sistemi che, a loro parere, assicurerebbero a tutti una migliore preparazione alla vita propria di una società moderna. Queste proposte di nuove istituzioni educative si possono grosso modo raggruppare in tre categorie: la riforma dell'aula scolastica all'interno del sistema scolastico; la disseminazione di libere aule scolastiche in tutta la società; la trasformazione di tutta la società in un'unica immensa aula scolastica. Ma queste tre prospettive - l'aula riformata, l'aula libera e l'aula universale - rappresentano in realtà tre momenti di un progetto di escalation educativa nel quale ogni fase minaccia un controllo sociale più sottile e più penetrante della precedente.

Io credo che l'abolizione dell'istituzione scolastica sia divenuta inevitabile e che tale fine di un'illusione dovrebbe colmarci di speranza. Ma credo anche che alla fine dell'“era della scolarizzazione” potrebbe seguire l'era di una scuola globale che solo per il nome si differenzierebbe da un manicomio globale o da un carcere globale, e dove istruzione, correzione e adattamento diverrebbero sinonimi. Credo quindi che lo sfacelo della scuola ci debba far guardare al di là della sua fine imminente per valutare quelle che sono le alternative fondamentali in questo campo. Esistono due possibilità: si possono realizzare nuovi tremendi congegni educativi volti a inculcare l'accettazione di un mondo che si viene facendo sempre più opaco e proibitivo per l'uomo, oppure si possono porre le condizioni per un'era nella quale la tecnologia venga usata per rendere la società più semplice e trasparente, si che tutti gli uomini possano tornare a conoscere i fatti e ad adoperare gli strumenti che plasmano la loro vita. Possiamo, in altri termini, disistituzionalizzare la scuola oppure descolarizzare la cultura.


Il programma occulto

Per vedere con chiarezza le alternative che abbiamo di fronte, dobbiamo anzitutto distinguere l'apprendimento dalla scolarizzazione, ossia discernere quello che è il fine umanistico dell'insegnante dall'effetto che esercita l'invariante struttura della scuola. Tale struttura invisibile consiste in un sistematico insegnamento che sfugge a qualunque controllo del docente come dell'autorità scolastica. Trasmette ineluttabilmente un messaggio: che solo grazie alla scolarizzazione un individuo può prepararsi a vivere da adulto nella società, che ciò che non si insegna a scuola vale poco e che ciò che si apprende fuori della scuola non merita d'essere conosciuto. Io lo chiamo programma occulto perché, nel sistema scolastico, esso costituisce la cornice immutabile entro la quale avvengono tutti i mutamenti dei programmi visibili.

Il programma occulto è sempre il medesimo in qualunque scuola e luogo. Esige che tutti i bambini di una certa età si riuniscano in gruppi di una trentina, sottoposti all'autorità di un insegnante ufficialmente abilitato, per 500, 1000 o più ore l'anno. Che il programma esplicito sia rivolto a inculcare i principi del fascismo, del liberalismo, del cattolicesimo, del socialismo o della liberazione non ha importanza, purché all'istituzione sia riconosciuto il potere di stabilire quali attività siano da considerare “istruzione” legittima. Non importa che scopo della scuola sia quello di produrre cittadini sovietici oppure statunitensi, dei meccanici oppure dei medici, purché non si possa essere a pieno titolo cittadino o medico senza aver preso un diploma. Non fa differenza dove avvengano le riunioni - in un'autofficina, in un'assemblea legislativa o in un ospedale - purché valga il principio della frequenza.

La cosa essenziale nel programma occulto è che gli studenti imparino che l'istruzione ha valore se acquisita a scuola attraverso un processo di consumo graduato; che la misura del successo che l'individuo avrà nel mondo dipende dalla quantità di sapere che avrà acquistato; e che imparare cose sul mondo è più importante che impararle dal mondo. L'imposizione di questo programma occulto nell'ambito di un piano scolastico distingue la scolarizzazione da qualsiasi altra forma di istruzione pianificata. Tutti i sistemi scolastici del mondo hanno caratteristiche comuni distinte da quello che è il loro prodotto istituzionale, e tali caratteristiche sono frutto del loro comune programma occulto.

Bisogna rendersi conto chiaramente che il programma occulto trasforma l'apprendimento da attività in merce, il cui mercato è monopolizzato dalla scuola. Il nome che noi diamo a questa merce è “istruzione”, un prodotto quantificabile e cumulativo di una istituzione progettata da professionisti e chiamata scuola, e il cui valore può essere misurato in base alla durata e al costo dell'applicazione allo studente di un procedimento (il programma occulto). L'insegnante provvisto di laurea ha diritto a uno stipendio superiore a quello di chi ha meno ore di credito universitario, indipendentemente dall'attinenza del suo titolo con il compito d'insegnare.

In tutti i paesi “scolarizzati” il sapere è considerato la dote più necessaria per sopravvivere, ma anche una forma di valuta più liquida del rublo o del dollaro. Gli scritti di Karl Marx ci hanno reso familiare l'alienazione dell’operaio dal proprio lavoro nella società divisa in classi; è ormai tempo di riconoscere quello che è lo straniamento dell'uomo dal proprio sapere, quando quest'ultimo diventa il prodotto di un servizio professionale e l'uomo il suo consumatore.

Quanta più istruzione un individuo consuma, tanto maggiore è il “patrimonio di sapere” che acquista e tanto più in alto egli sale nella gerarchia dei capitalisti di sapere. L'istruzione determina così una nuova struttura classista in una società dove ai grandi consumatori di sapere - cioè a quelli che hanno acquisito più grossi patrimoni di sapere - si riconosce un più alto valore per la società stessa. Nel portafoglio del capitale umano di una società essi rappresentano titoli di tutto riposo, ed è a loro che si riserva l'accesso agli strumenti di produzione più potenti o più rari.

Il programma occulto, dunque, definisce e misura qual è l'istruzione e a quale livello di produttività il suo consumatore ha diritto. E l'elemento che serve a razionalizzare la crescente correlazione tra posti di lavoro e privilegi connessi, che presso certe società si traducono in reddito personale e presso altre in diritto a servizi che fanno risparmiare tempo, a un'ulteriore istruzione o a prestigio. (Un aspetto, questo, di particolare importanza ove si consideri che, come ha dimostrato fra gli altri lo studio di Ivar Berg, non esiste alcuna corrispondenza tra scolarizzazione e competenza professionale). L'idea di far passare ogni individuo per una serie di fasi di “illuminazione” affonda le sue radici nell'alchimia, la Grande Arte del tardo Medioevo. Jan Amos Comenio (1592-1670), il vescovo moravo pedagogista e sostenitore dell'ideale della “pansofia”, è a ragione considerato uno dei padri della scuola moderna. Fu tra i primi a proporre da sette a dodici classi di istruzione obbligatoria. Nella sua Didactica magna definiva le scuole meccanismi “per insegnare qualunque cosa a chiunque” e abbozzò il progetto di una catena di montaggio per la produzione di sapere, che a suo avviso avrebbe consentito di ottenere un'istruzione migliore e più a buon mercato e reso possibile a tutti l'accesso alla piena umanità. Ma Comenio non fu solo un precursore degli specialisti in efficienza; era anche alchimista, e si servì del linguaggio tecnico della sua arte per spiegare i principi dell'educazione dei fanciulli. Gli alchimisti pretendevano di raffinare i metalli vili facendone passare le essenze distillate per sette successivi stadi di sublimazione, nell'intento di tramutarli in oro a beneficio proprio e del mondo intero.

Naturalmente, per quanti tentativi facessero, non ci riuscirono mai; ma ogni volta la loro “scienza” trovava nuove spiegazioni dell'insuccesso, e così ci riprovavano ancora.

La pedagogia apri un capitolo nuovo nella storia dell’Ars Magna. L'educazione divenne la ricerca di un processo alchimistico atto a produrre un nuovo tipo d'uomo che fosse capace di integrarsi con l'ambiente creato dalla magia della scienza. Ma per quanto tempo una generazione trascorresse nelle scuole, la maggioranza risultava sempre refrattaria a “illuminarsi” in virtù di questo processo e bisognava scartarla in quanto inidonea a vivere in un mondo fatto dall'uomo.

I riformatori dell'istruzione i quali ammettono il fallimento delle scuole si dividono in tre gruppi. I più rispettabili sono sicuramente i grandi maestri dell'alchimia, che promettono scuole migliori. I più seducenti sono i maghi popolari, che promettono di fare di ogni cucina un laboratorio alchimistico. I più sinistri sono i nuovi architetti, dell'universo, che vogliono trasformare il mondo intero in un enorme tempio del sapere.

Spiccano, tra i maestri dell'alchimia odierni, certi direttori di ricerca stipendiati o sponsorizzati dalle grandi fondazioni, i quali ritengono che le scuole, solo che si riuscisse a migliorarle in qualche modo, anche sul piano economico diverrebbero più funzionanti delle dissestate scuole attuali, e nello stesso tempo potrebbero vendere un più ampio assortimenti di servizi. Quelli che si occupano soprattutto dei programmi li giudicano sorpassati o incongrui: ed ecco allora che li si arricchisce con nuovi corsi preconfezionati sulla cultura africana, sull'imperialismo statunitense, sul movimento di liberazione della donna, sull'inquinamento, sulla società dei consumi. L'apprendimento passivo è sbagliato - e non c'è dubbio che lo sia -: ed ecco che si concede graziosamente agli studenti di decidere che cosa e in che modo vogliono che gli si insegni. Le scuole sono prigioni: dunque si autorizzano i presidi a consentire lezioni all'aperto, spostando i banchi in qualche strada di Harlem all'uopo recintata. Viene di moda l'educazione all'autocoscienza, e subito si introduce in classe la terapia di gruppo. La scuola che avrebbe dovuto insegnare qualunque cosa a chiunque diventa così dispensatrice di tutte le cose a tutti i bambini.

Altri critici sono convinti che le scuole non sanno mettere a frutto la scienza moderna. Alcuni rilevano infatti che con un'adeguata somministrazione di farmaci diventerebbe molto più semplice per l'istruttore il compito di normalizzare la condotta del bambino. Altri vorrebbero trasformare la scuola in una palestra di giochi educativi. Altri ancora elettrificherebbero le aule. Se sono discepoli alla buona di McLuhan, si limitano a voler sostituire lavagne e libri di testo con happenings multimediali; se invece seguono Skinner, garantiscono di saper modificare i comportamenti molto più efficacemente degli insegnanti vecchio stile.

La maggior parte di queste innovazioni non manca, certo, di avere qualche buon effetto. Nelle scuole sperimentali l'assenteismo è diminuito. Col decentramento delle responsabilità di gestione i genitori hanno maggiormente la sensazione di partecipare. I ragazzi che dall'insegnante vengono assegnati a un'attività di tirocinio esterno si rivelano spesso più bravi di quelli che rimangono in classe. Certi bambini newyorkesi grazie al laboratorio linguistico fanno indubbi progressi nella conoscenza dello spagnolo, preferendo di gran lunga giocare con i tasti di un registratore che conversare con i loro coetanei portoricani. Tutti questi miglioramenti non possono però che restare entro limiti ristretti, dato che non toccano in alcun modo il programma occulto.

Certi riformatori vorrebbero slegarsi dal programma occulto delle scuole pubbliche, ma ben di rado ci riescono. Le scuole libere che generano altre scuole libere creano solo un miraggio di libertà, anche se la catena della frequenza è spesso interrotta da lunghi periodi di ozio. La frequenza ottenuta con mezzi di seduzione inculca il bisogno di cura scolastica in modo più persuasivo della frequenza riluttante imposta dalle autorità. L'insegnante permissivo che trasforma l'aula in un ambiente ovattato è facile che tenda i propri allievi incapaci di sopravvivere una volta lasciata la scuola.

L'apprendimento, in queste scuole, continua spesso a essere la solita acquisizione di abilità socialmente apprezzate, ancorché definite in questo caso dal consenso di una comunità invece che dai decreti di un'autorità scolastica centrale. Il nuovo presbitero non è che un ingrandimento del vecchio prete.

Le scuole libere, per essere veramente tali, devono soddisfare due condizioni. Primo, devono essere condotte in modo da impedire che si reintroduca il programma occulto costituito dalla frequenza graduata e da “studenti” che studiano ai piedi di “insegnanti”. Cosa ancor più importante, devono offrire una struttura entro la quale tutti i partecipanti, personale della scuola e allievi, possano liberarsi dai postulati reconditi di una società scolarizzata. La prima condizione figura spesso tra gli obiettivi di una scuola libera; quanto alla seconda, solo raramente se ne ha coscienza ed è difficile che venga posta come obiettivo di una scuola libera.


I fondamenti reconditi dell'educazione

E utile distinguere tra il programma occulto, di cui ho già parlato, e i fondamenti reconditi della scolarizzazione. Il programma occulto è un rituale che può essere considerato l'iniziazione ufficiale al mondo moderno, istituzionalizzata attraverso la scuola. Scopo di questo rituale è nascondere a chi vi partecipa le contraddizioni tra il mito di una società egualitaria e la realtà divisa in classi che esso sancisce. Una volta riconosciuti come tali, i rituali perdono il loro potere, ed è questo che ora comincia ad accadere alla scuola. Nel cerimoniale della scolarizzazione trovano però espressione anche certi postulati fondamentali riguardo al crescere - i fondamenti reconditi - che facilmente potrebbero uscire rafforzati da quanto fanno le scuole libere.

A prima vista ogni generalizzazione nei riguardi delle scuole libere parrebbe avventata. Specialmente negli Stati Uniti, nel Canada e nella Germania del 1971, esse sono i mille fiori di una nuova primavera. Qualche considerazione generale si può invece fare su quelle iniziative sperimentali che si presentano come istituzioni educative. Ma prima conviene esaminare un poco più a fondo il rapporto tra scolarizzazione e educazione.

Spesso si dimentica che il termine “educazione” è di conio recente. Fino alla vigilia della Riforma non lo si conosceva. Di educazione dei fanciulli si parla per la prima volta in lingua francese in un documento del 1498. Era l'anno in cui Erasmo si stabilì a Oxford, Savonarola venne bruciato sul rogo a Firenze e Dùrer incise l'Apocalisse, che con tanta potenza ci comunica il senso di sfacelo incombente sulla fine del Medioevo. In inglese il termine comparve per la prima volta nel 1530, l'anno in cui Enrico VIII ripudiò Caterina d'Aragona e la Chiesa luterana si separò da Roma alla Dieta di Augusta. Nei paesi di lingua spagnola dovette trascorrere ancora un secolo prima che la parola e il concetto divenissero noti:nel 1632 Lope de Vega parla della “educazione” come di una novità. Quell'anno l'Università di San Marcos di Lima celebrava il suo sessantesimo anniversario. Centri d'istruzione esistevano gia prima che il termine “educazione” entrasse nell'uso; ma vi si “leggevano” i classici o il diritto, non si veniva educati alla vita.

Nel XVI secolo, al centro delle dispute teologiche c'era il bisogno universale di “giustificazione”. Questo concetto forniva un fondamento razionale alla politica e offriva la scusa per massacri su vasta scala. Spaccatasi la Chiesa, fu possibile sostenere opinioni largamente divergenti riguardo alla misura in cui gli uomini nascevano peccatori, corrotti e predestinati. Ma all'inizio del secolo XVII cominciò ad affermarsi un nuovo consenso, questa volta intorno all'idea che l'uomo nascesse inidoneo alla società e tale rimanesse se non gli si forniva una “educazione”. L'educazione venne così a indicare l'opposto dell’attitudine vitale. Venne a indicare un processo, anziché la semplice conoscenza dei fatti e la capacità di adoperare gli strumenti che danno forma alla vita concreta dell’uomo. L'educazione si identificò con una merce immateriale che andava prodotta a beneficio di tutti, e a tutti dispensata nella stessa maniera in cui prima la Chiesa visibile dispensava la grazia invisibile. La giustificazione al cospetto della società divenne la prima esigenza dell'uomo, che viene al mondo in una condizione di stupidità analoga al peccato originale.

La scolarizzazione e l'educazione sono correlate tra loro come la Chiesa e la religione o, in termini più generali, come il rito e il mito. Il rito ha creato e sorregge il mito; è mitopoietico, e il mito genera il programma mediante il quale si perpetua. Come concetto che designa tutta quanta una categoria di giustificazione sociale, l'“educazione” è un'idea di cui (al di fuori della teologia cristiana) non esiste alcun equivalente specifico in altre culture. E la produzione dell'educazione mediante il processo di scolarizzazione differenzia le scuole da tutti gli altri istituti d'istruzione esistenti in altre epoche. E questo che va capito, se si vuole cogliere il punto debole della maggioranza delle cosiddette scuole libere, non strutturate o indipendenti.

Per andare al di là della semplice riforma dell'aula, una scuola libera deve evitare di far proprio il programma occulto della scolarizzazione di cui ho parlato. La scuola libera ideale cerca di fornire istruzione e, contemporaneamente, di impedire che essa serva a istituire o legittimare una struttura classista, che divenga argomento per commisurare l'allievo a qualche parametro astratto, e che lo reprima, lo controlli, lo ridimensioni. Ma fin quando la scuola libera cercherà di fornire una istruzione o educazione “generale”, non potrà andare al di là di quelli che sono postulati reconditi dell'educazione.

Uno di questi postulati è la “sindrome dell'immigrazione”, come la chiama Peter Schrag, la quale ci porta a trattare tutti come se fossero dei nuovi venuti che debbono subire un processo di naturalizzazione. Solo i consumatori di sapere che siano muniti di regolare diploma possono ottenere la cittadinanza. Gli uomini non nascono uguali, ma lo diventano grazie al periodo di gestazione che trascorrono nel corpo dell'Alma Mater. Bisogna guidarli a staccarsi dal loro ambiente naturale e farli passare attraverso un utero sociale dove si formino quanto basta per divenire idonei alla vita quotidiana. Questa funzione le scuole libere spesso la svolgono meglio delle scuole di tipo meno attraente.

Gli istituti d'istruzione liberi hanno anche un'altra caratteristica in comune con quelli meno liberi: spersonalizzano la responsabilità dell'educazione. Pongono un'istituzione in loco parentis. Perpetuano l'idea che l'insegnamento, quando non avvenga all'interno della famiglia, spetti a un ente, del quale il singolo insegnante non è che un rappresentante. Persino la famiglia, in una società scolarizzata, si riduce a un “ente di acculturazione”. Gli istituti liberi che assumono insegnanti allo scopo di attuare il piano educativo collegialmente elaborato dai rispettivi comitati di direzione sono strumenti di spersonalizzazione degli autentici rapporti umani.

Certo, ci sono molte scuole libere che operano senza ricorrere a insegnanti forniti di titolo legale. Così facendo, esse costituiscono una seria minaccia per i sindacati degli insegnanti; ma non rappresentano minaccia alcuna per la struttura professionale della società. Una scuola dove la direzione affida a persone di sua fiducia l'incarico di attuare il proprio disegno scolastico, anche se tali persone non abbiano alcun diploma, abilitazione o tessera sindacale, non contesta affatto la legittimità della professione d'insegnante, così come una maitresse che agisca in un paese dove per operare legalmente è richiesta una licenza della polizia, non contesta la legittimità sociale della più antica professione del mondo per il fatto di metter su un bordello privato.

Nella grandissima maggioranza, coloro che insegnano nelle scuole libere non hanno alcuna possibilità di insegnare per conto proprio. Essi eseguono il compito collegialmente assegnato all'insegnamento per conto della direzione, la funzione meno trasparente dell'insegnamento per conto degli allievi, la funzione più mistica dell'insegnamento per conto della “società” in generale. La prova migliore è che di regola gli insegnanti delle scuole libere dedicano ancor più tempo dei loro colleghi professionisti a riunioni di comitati in cui si progetta come la scuola dovrebbe educare. E sono queste interminabili riunioni che spingono molti generosi insegnanti, allorché si rendono conto della loro illusione, a passare prima dalle scuole pubbliche a quelle libere e poi ad andarsene anche da queste.

Tutti gli istituti d'istruzione proclamano che loro scopo è quello di formare i giovani in funzione di qualcosa, in vista del futuro. Ma non li lasciano liberi di dedicarsi a tale compito finché non abbiano acquisito un alto grado di assuefazione al modo di essere degli anziani: formazione per la vita, anziché nella vita quotidiana. Queste poche scuole libere sanno evitarlo. Nondimeno esse sono tra i centri più importanti da cui 5 irradierà un nuovo stile di vita: non tanto per l'effetto che avranno i giovani che ne verranno fuori, quanto perché gli anziani forniti di crismi ufficiali appartengono spesso a una minoranza radicale e la loro preoccupazione per il modo in cui crescono i figli li rafforza nel nuovo stile.


La mano invisibile in un mercato dell'istruzione

La categoria più pericolosa, tra i riformatori dell'istruzione, e' costituita da coloro i quali affermano che in un mercato libero il sapere si potrebbe produrre e distribuire molto più efficacemente che in un mercato monopolizzato dalla scuola. Costoro rilevano che è facile apprendere un'arte da un modello della medesima quando il discente è realmente interessato ad acquisirla, che un sistema di assegni individuali potrebbe conferire un più uguale potere d'acquisto in materia d'istruzione, e chiedono che vengano tenute accuratamente distinte tutte quelle procedure che servono a misurare e certificare il sapere acquisito. Tutto ciò mi pare ovvio; ma sarebbe un errore credere che la creazione di un mercato libero del sapere costituirebbe un 'alternativa radicale.

Indubbiamente la creazione di un mercato libero sopprimerebbe quello che ho chiamato il programma occulto dell'attuale sistema scolastico, cioè la frequenza imposta a determinate età lungo un corso graduato. Così pure, un mercato libero darebbe a tutta prima l'impressione dì contrastare quelli che ho chiamato i fondamenti reconditi di una società scolarizzata: la “sindrome dell'immigrazione”, il monopolio istituzionale dell'insegnamento e il rituale dell'iniziazione lineare. Ma nello stesso tempo un mercato libero dell'istruzione fornirebbe all'alchimista infinite mani invisibili per sistemare ciascun individuo nelle molteplici anguste caselle che una tecnocrazia più complessa è in grado di predisporre.

Decenni di fede nella scolarizzazione hanno tramutato il sapere in una merce, un prodotto commerciabile di tipo speciale. Oggi lo si considera un bene di prima necessità e, contemporaneamente, la moneta più preziosa di una società. (La trasformazione del sapere in merce si rispecchia in una parallela trasformazione del linguaggio. Parole che un tempo avevano funzione di verbi stanno diventando sostantivi che indicano possesso. Sino a non molto tempo fa “abitare”, “imparare”, “guarire” designavano delle attività: oggi si riferiscono di solito a delle merci o a dei servizi da fornire. Parliamo di industria edilizia, di prestazione di assistenza medica; nessuno pensa più che la gente sia in grado di farsi una casa o di guarire per proprio conto. In una società cosiffatta si finisce per credere che i servizi professionali siano più preziosi della cura personale. Invece d'imparare ad assistere la nonna, l'adolescente impara a picchettare l'ospedale che non vuole accoglierla). Questo atteggiamento potrebbe facilmente sopravvivere ad una abrogazione della scuola, come in America l'appartenenza a una chiesa continuò ad essere un requisito per accedere a una carica pubblica anche molto tempo dopo l'approvazione del Primo Emendamento. E ancor più evidente che un'abolizione dell'istituzione scolastica potrebbe benissimo lasciar sussistere le batterie di esami che misurano i complessi “pacchi” di sapere, e, con esse, la pulsione a obbligare ognuno ad acquisirne un determinato quantitativo. La misurazione scientifica del valore di ogni persona e il sogno alchimistico della “educabilità di tutti alla piena umanità” verrebbero così finalmente a coincidere. Sotto le sembianze di un mercato libero, il villaggio globale si tramuterebbe in un gigantesco utero dove dei pedagoghi-terapisti controllerebbero la complessa placenta da cui trarrebbe alimento ogni essere umano.

Attualmente le scuole limitano all'aula la competenza dell'insegnante. Impediscono che egli accampi pretese sull’intera vita di un uomo. La fine della scuola abbatterebbe questo limite e darebbe una parvenza di legittimità alla perpetua usurpazione pedagogica dell'intimità di ogni individuo. Darebbe il via a una mischia per il “sapere”su un mercato libero, che sfocerebbe nel paradosso di una democrazia volgare anche se apparentemente egualitaria.

Le scuole non sono affatto le sole o più efficienti istituzioni che pretendano di tradurre conoscenze, comprensioni e sapienza in tratti comportamentali la cui misura apre le porte del prestigio e del potere. Né sono le prime istituzioni di cui ci si è serviti per convertire l'istruzione nell'acquisto di particolari diritti. Il sistema cinese del mandarinato, per esempio, è stato per secoli uno stabile ed efficace incentivo all'istruzione, a beneficio di una classe relativamente aperta i cui privilegi dipendevano dal possesso di un sapere misurabile. La promozione al rango di dotto non conferiva automaticamente il diritto ai posti maggiormente ambiti, ma forniva un biglietto per la pubblica lotteria nella quale si sorteggiavano le cariche tra i detentori del titolo di mandarino. Prima di cominciare a far guerre con le potenze europee, la Cina non aveva mai avuto scuole, e tanto meno università. Per tremila anni fu l'accertamento del sapere misurabile acquisito individualmente ciò che permise all'impero cinese - unico Stato nazionale che non abbia avuto né una vera chiesa né un sistema scolastico - di selezionare la propria élite di governo senza creare una vasta aristocrazia ereditaria. L'accesso a questa élite era aperto ai familiari dell'imperatore e a tutti coloro che superavano le prove di accertamento.

Voltaire e i suoi contemporanei elogiavano il sistema cinese di promozione mediante prove d'istruzione; e nel 1791 in Francia, per l'accesso all'amministrazione pubblica, furono istituiti degli appositi esami, successivamente aboliti da Napoleone. Sarebbe affascinante immaginare cosa sarebbe successo se per propagare gli ideali della Rivoluzione si fosse scelto il sistema del mandarinato anziché quello scolastico, che inevitabilmente dette sostegno al nazionalismo e alla disciplina militare. Nella realtà dei fatti, Napoleone rafforzò la scuola di tipo politecnico, residenziale. Il modello gesuitico della promozione rituale per gradi, all'interno di una istituzione chiusa, prevalse sul sistema del mandarinato e fu il metodo preferito dalle società occidentali per conferire legittimità alle proprie élites. I presidi divennero gli abati di una catena mondiale di monasteri dove ognuno s'affaccendava ad accumulare il sapere richiesto per entrare nel sempre obsolescente paradiso in terra.

Come i calvinisti soppressero i monasteri per poi trasformare tutta Ginevra in un unico convento, così noi dobbiamo temere che la soppressione della scuola possa dar luogo a un'unica fabbrica mondiale del sapere. A meno di rivedere il concetto di istruzione o sapere, l'abolizione della scuola non potrebbe che portare a un accoppiamento tra il sistema del mandarinato - che distingue l'istruzione dalla certificazione - e una società impegnata a somministrare terapie a ogni uomo finché non sia maturo per l'età dorata.

La contraddittorietà delle scuole come strumento di progresso tecnocratico

L'educazione in funzione di una società fondata sul consumo equivale alla formazione del consumatore. La riforma dell'aula, l'abbattimento delle pareti dell'aula, la diffusione dell'aula sono modi diversi di formare consumatori di merci soggette a invecchiare. La sopravvivenza d'una società nella quale le tecnocrazie possono dare definizioni sempre nuove della felicità umana identificandola con il consumo del loro prodotto più recente, è legata alle istituzioni educative (dalle scuole agli annunci pubblicitari) che traducono l'istruzione in controllo sociale.

Nei paesi ricchi, come gli Stati Uniti, il Canada o l'Unione Sovietica, gli enormi investimenti destinati alla scolarizzazione rendono quanto mai evidenti quelle che sono le contraddizioni istituzionali del progresso tecnocratico. In quei paesi la difesa ideologica del progresso illimitato poggia sull'assunto che gli effetti egualizzanti di una scolarizzazione senza fine possono controbilanciare le conseguenze disegualizzanti della costante obsolescenza. La legittimità della stessa società industriale viene a dipendere dalla credibilità delle scuole, quale che sia il partito al potere, liberale o comunista. E ovvio che, in tali circostanze, il pubblico cerchi avidamente libri come il rapporto di Charles Silberman alla Commissione Carnegie, pubblicato col titolo La crisi nell'aula (New York 1970). Questo tipo di ricerca ispira fiducia per la solida documentazione su cui basa il suo processo alla scuola attuale, ma su una linea del genere gli insignificanti tentativi di salvare il sistema correggendone i difetti più vistosi possono solo creare una nuova ondata di vane aspettative.

Né l'alchimia né la magia né la muratoria sono in grado di risolvere il problema dell'attuale crisi, che non sta “nell'aula” ma nell'istruzione. Occorre descolarizzare la nostra visione del mondo, e per arrivare a questo dobbiamo riconoscere il carattere illegittimo e religioso dell'impresa scolastica in se stessa. La sua hubris sta nel proposito di fare dell'uomo un essere sociale sottoponendolo à un trattamento entro un processo predeterminato.

Per coloro che condividono l'ethos tecnocratico, tutto ciò che è tecnicamente possibile deve essere messo a disposizione almeno di alcune poche persone, che lo vogliano o no. La privazione e la conseguente frustrazione della maggioranza non contano. Se la cobaltoterapia è possibile, la città di Tegucigalpa deve averne l'apparecchiatura in ognuno dei suoi due ospedali maggiori, a un costo che sarebbe sufficiente per liberare dai parassiti una parte notevole di tutta la popolazione dell'Honduras. Visto che si possono raggiungere velocità supersoniche, qualcuno deve viaggiare a queste velocità. Essendo ormai concepibile il volo su Marte, bisogna trovare una giustificazione razionale per farlo apparire necessario. Nell'ethos tecnocratico la povertà si modernizza: non soltanto alcune alternative un tempo esistenti vengono precluse da nuovi monopoli, ma la carenza dei beni di prima necessità viene estesa e aggravata da un crescente divario tra i servizi tecnologicamente realizzabili e quelli effettivamente disponibili per la maggioranza.

Quando un insegnante fa proprio questo ethos tecnocratico, si trasforma in “educatore”. Si comporta allora come se l'istruzione fosse un'impresa tecnologica intesa a render l'uomo atto a qualunque ambiente venga creato dal “progresso scientifico”. Sembra non accorgersi del fatto evidente che la continua obsolescenza di tutte le merci comporta un prezzo elevato: il costo crescente dell'istruirei cittadini a prenderne nozione. Sembra dimenticare che la continua crescita del costo degli strumenti di produzione è pagata a caro prezzo sul piano dell'istruzione: diminuisce infatti l'intensità del fattore lavoro nell'economia,e l'apprendimento sul lavoro diventa impossibile o tutt'al più un privilegio di pochi. In tutto il mondo il costo dell'educare gli uomini in funzione della società cresce più in fretta della produttività globale, e sono sempre di meno coloro che si sentono intelligentemente corresponsabili del bene pubblico.

Ogni incremento della spesa per la scuola rende ovunque macroscopica la futilità della scolarizzazione. Paradossalmente sono i poveri le prime vittime dello sviluppo scolastico. Nello Stato dell'Ontario la Commissione Wright ha dovuto riferire al governo che l'istruzione post-secondaria rappresenta, inevitabilmente e senza rimedio, una tassazione sproporzionata dei poveri per un servizio di cui godranno sempre soprattutto i ricchi.

L'esperienza conferma queste predizioni. Sono parecchi decenni ormai che nell'Unione Sovietica un sistema di quote favorisce l'ammissione all'università dei figli di operai a scapito dei figli di laureati; ciò nonostante, questi ultimi sono proporzionalmente assai più numerosi tra i laureandi russi che tra quelli statunitensi.

Nei paesi poveri, le scuole razionalizzano il ritardo economico di tutta quanta una nazione. La maggioranza dei cittadini è esclusa dagli scarsi mezzi moderni di produzione e di consumo, ma aspira a entrare nell'economia dalla porta della scuola. La legittimazione della gerarchia del privilegio e del potere, un tempo affidata al lignaggio, all'eredità, al favore del re o del papa, alla spietatezza negli affari o sul campo di battaglia, è passata a una forma di capitalismo più sottile: cioè all'istituto gerarchico ma liberale dell'istruzione obbligatoria, che autorizza colui che è ben scolarizzato a considerare colpevole chi resta indietro nel consumo di sapere in quanto dispone di un titolo inferiore. Questa razionalizzazione dell'ineguaglianza non può tuttavia mai quadrare con i fatti, e ai regimi populisti riesce sempre più difficile mascherare il conflitto tra l'ideale conclamato e la realtà.

Per dieci anni la Cuba di Castro ha profuso grandi energie nell'istruzione popolare a ritmo accelerato, utilizzando il materiale umano disponibile, senza il consueto rispetto per le credenziali professionali. Gli spettacolosi successi conseguiti inizialmente da questa campagna, specie nella riduzione dell'analfabetismo, sono stati addotti a prova che il lento tasso di crescita degli altri sistemi scolastici latino-americani sarebbe dovuto alla corruzione, al militarismo e al carattere capitalistico, di mercato, degli ordinamenti economici. Ma ora la logica della scolarizzazione gerarchica comincia a valere anche per Fidel e per il suo tentativo di produrre l'Uomo nuovo mediante la scuola. Pur se gli studenti passano metà dell'anno nelle piantagioni di canna da zucchero e aderiscono senza riserve agli ideali egualitari del companero Fidel, ogni anno la scuola produce un nuovo scaglione di sussiegosi consumatori di sapere pronti a passare a più alti livelli di consumo. E anche Castro si scontra con la dimostrazione evidente che il sistema scolastico non ce la farà mai a sfornare abbastanza personale tecnico. I diplomati che vanno a occupare i nuovi impieghi distruggono con il loro conservatorismo i risultati ottenuti dai quadri sforniti di titolo di studio che avevano raggiunto le loro posizioni addestrandosi sul lavoro. Non è certo agli insegnanti che si può addossare la colpa dei fallimenti di un governo rivoluzionario il quale insiste a perseguire la capitalizzazione istituzionale della forza lavoro attraverso un “programma occulto” che è fatto apposta per produrre una borghesia universale.

L'8 marzo 1971 una decisione della Corte suprema degli Stati Uniti ha aperto la strada ad una contestazione anche con mezzi legali della legittimità del programma occulto su cui si fonda il sistema d'istruzione americano. Esprimendo l'opinione unanime della Corte sul caso “Griggs e altri contro la Duke Power Company”, il suo presidente Warren E. Burger ha affermato che “diplomi ed esami sono servitori utili, ma il Congresso ha sancito il ragionevole principio che non devono diventare padroni della realtà”. Il presidente interpretava in tal modo quella che era stata l'intenzione del Congresso nella sezione della Legge sui diritti civili del 1964 dedicata all'uguaglianza delle possibilità; e su questa base ha stabilito che qualunque titolo di studio richiesto ai candidati a un impiego, e qualunque esame cui li si sottoponga, deve “misurare l'uomo in funzione dell'impiego” e non “l'uomo in astratto”. L'onere di provare che i requisiti scolastici siano “una misura ragionevole della prestazione lavorativa richiesta” spetta al datore di lavoro. Con questa decisione, la Corte ha inteso vietare l'uso di diplomi ed esami come strumenti di discriminazione razziale; ma il ragionamento del presidente vale per qualsiasi caso in cui si subordini l'occupazione al possesso di un pedigree scolastico. Sarà arduo per gli imprenditori sostenere che la scolarizzazione sia un requisito indispensabile per accedere a un’posto di lavoro; è facile infatti dimostrare che tale pretesa è necessariamente antidemocratica perché comporta un'inevitabile discriminazione. La Great Training Robbery, la grande rapina dell'istruzione, così efficacemente denunciata da Ivar Berg, è ormai destinata a subire continue contestazioni da parte di studenti, imprenditori e contribuenti.


Ricuperare la responsabilità di insegnare e imparare

Una rivoluzione contro queste forme di privilegio e di potere che si basano sul possesso di un titolo ufficiale di studio deve partire da un modo diverso di concepire l'apprendimento. Ciò vuol dire, soprattutto, intendere in maniera diversa la responsabilità di insegnare e di imparare. Il sapere può essere definito merce solo se lo si considera come il risultato di un'impresa istituzionale o come la realizzazione di obiettivi istituzionali. Se si ricupera il senso della responsabilità personale di ciò che s'impara o s insegna, diventa possibile spezzare questo incantesimo e 'colmare il distacco tra l'istruzione e la vita.

Ricuperare il potere d'imparare o d'insegnare significa che l'insegnante il quale si azzarda a intromettersi negli affari privati di un'altra persona si assume anche la responsabilità dei risultati. Parimenti, lo studente che si espone all'influenza di un insegnante deve assumersi la responsabilità della propria istruzione. In questo quadro le istituzioni educative - se proprio sono necessarie - si configurano idealmente come dei centri di servizi dove uno possa trovare l'ambiente a lui adatto e avere accesso a un pianoforte, a un forno, a dischi, libri o diapositive. Le scuole, le stazioni televisive, i teatri e via dicendo sono concepiti principalmente in funzione di un loro uso da parte dei professionisti. Descolarizzare la società significa anzitutto negare lo statuto professionale di quella che è la seconda tra le più antiche professioni del mondo, cioè l'insegnamento. L'abilitazione di Stato degli insegnanti costituisce oggi un'indebita restrizione del diritto alla libertà di parola, così come la struttura corporativa e le pretese professionali del giornalismo costituiscono un'indebita restrizione del diritto alla libertà di stampa. Le norme che impongono l'obbligo di frequenza sono in contrasto con la libertà di riunione. La descolarizzazione della società non è altro che una mutazione culturale, mediante la quale un popolo ricupera l'uso effettivo delle proprie libertà costituzionali: è la libertà di apprendere e di insegnare esercitata da uomini che sanno di essere nati liberi, non che vengono educati alla libertà. La maggior parte della gente impara, il più delle volte, quando fa qualcosa che le piace; la maggior parte della gente è curiosa e vuole trovare un significato in tutto ciò con cui viene a contatto; e la maggior parte della gente è capace di rapporti personali autentici con gli altri, quando non sia ottenebrata da un lavoro disumano o spenta dalla scolarizzazione.

Il fatto che nei paesi ricchi la gente non impari molto per conto proprio non è prova del contrario; è piuttosto conseguenza del vivere in un ambiente dal quale, paradossalmente, non si può imparare molto proprio perché è così rigidamente programmato. Gli individui sono costantemente frustrati dalla struttura della società contemporanea, dove i fatti sulla cui base si prendono le decisioni sono diventati quanto mai sfuggenti. Si vive in un ambiente dove gli strumenti utilizzabili per scopi creativi sono ormai articoli di lusso, un ambiente dove i canali di comunicazione sono fatti per permettere a pochi di parlare ai molti.


Una nuova tecnologia, non una nuova educazione

Negli anni di Kennedy venne fuori una tipica immagine che, attraverso gli scritti di Kenneth Boulding, ha ottenuto largo credito nel pensiero economico: il patrimonio di sapere. Questo prezioso bene sociale sarebbe costituito dall'accrezione cumulativa degli escrementi mentali prodotti dagli individui migliori e più svegli. Si è cioè immaginato, al posto dei mucchi di terra o d'oro dei precedenti capitalismi, un “capitale” anale. Lo custodiscono, anziché i banchieri e gli speculatori, gli scienziati e gli specialisti nell'immagazzinamento e ricupero dell'informazione. Crescendo fino a raggiungere una massa critica, questa accumulazione produce interesse. Un, tipo particolare di esperto in marketing, chiamato “educatore”, distribuisce tale ricchezza incanalandola verso coloro che godono del privilegio di poter accedere ai piani alti di quélla borsa internazionale del sapere che va sotto il nome di “scuola”. Qui, costoro acquistano dei titoli di possesso di sapere, che accrescono il valore sociale del detentore. In certe società questo valore si traduce principalmente in incremento del reddito personale, mentre nelle società dove il capitale di sapere è considerato troppo prezioso per finire come proprietà privata, il valore si traduce in potere, rango e privilegi. Questo singolare trattamento è razionalizzato con le pompose onoranze che si tributano ai custodi di tale patrimonio ogni volta che lo destinano a un nuovo uso.

Questa concezione influisce anche sul nostro modo di pensare lo sviluppo della tecnologia moderna. Un mito contemporaneo vorrebbe farci credere che la sensazione di impotenza oggi avvertita dalla maggioranza della gente sia l'effetto di una tecnologia che non può fare a meno di creare sistemi giganteschi. Ma non è la tecnologia a rendere giganteschi i sistemi, immensamente potenti gli strumenti, unidirezionali i canali di comunicazione: al contrario, se adeguatamente controllata, la tecnologia potrebbe fornire a tutti la capacità di comprendere meglio il proprio ambiente e di plasmarlo con le proprie mani, e consentirebbe a ciascuno una pienezza di intercomunicazione quale non è mai stata possibile prima d'ora. Questo uso alternativo della tecnologia è anche l'alternativa centrale nel campo dell'istruzione.

Per crescere, una persona ha anzitutto bisogno di poter accedere a cose, a luoghi, a processi, a eventi e a documenti. Ha bisogno di vedere, di toccare, di armeggiare, di cogliere tutto ciò che un ambiente significante contiene. Oggi questa possibilità d'accesso è in gran parte preclusa. Divenuto una merce, il sapere ha acquisito le protezioni della proprietà privata, e un principio inteso a salvaguardare l'intimità personale è diventato argomento per escludere da certi fatti chi non possieda le credenziali appropriate. Nelle scuole gli insegnanti tengono per sé il sapere, a meno che non coincida con il programma della giornata. I media informano, ma tolgono di mezzo tutto ciò che ritengono inopportuno riprodurre. L'informazione è sigillata in linguaggi speciali, e insegnanti specializzati si guadagnano da vivere ritraducendola. I brevetti sono diritto riservato delle aziende, i segreti competenza delle burocrazie, e il potere di escludere gli altri dalle riserve private - siano esse cabine di guida, uffici legali, depositi di rottami o cliniche - è gelosamente custodito da professioni, istituzioni, nazioni. Né la struttura politica né quella professionale delle nostre società, d'Oriente come d'Occidente, resisterebbero alla perdita del potere di escludere intere classi della popolazione da fatti di cui queste potrebbero utilmente avvalersi. L'accesso ai fatti che io auspico va ben oltre la veridicità delle etichette: deve consistere nel contatto con la realtà, mentre da un messaggio pubblicitario noi esigiamo soltanto che non ci inganni. L'accesso alla realtà è un'alternativa di fondo a un sistema che invece pretende di insegnarla.

Abolire il diritto al segreto di gruppo - anche laddove le professioni sostengono che la segretezza giova al bene comune - è, come si vedrà tra poco, un obiettivo politico assai più radicale della tradizionale richiesta di trasferire alla collettività la proprietà o il controllo degli strumenti di produzione. La socializzazione degli strumenti non accompagnata da un'effettiva socializzazione del know-how necessario per il loro uso tende a porre il capitalista di sapere nella posizione prima occupata dal finanziere. L'unico titolo su cui il tecnocrate fonda il suo potere è il patrimonio da lui posseduto in qualche settore della conoscenza ristretto e segreto, e il miglior modo per salvaguardarne il valore è una grossa organizzazione ad alta intensità di capitale che renda estremamente arduo l'accesso al know-how.

Al discente interessato non occorre molto tempo per apprendere pressoché tutte le abilità di cui voglia servirsi. Questo noi tendiamo a dimenticarlo, in una società dove non c'è campo il cui ingresso non sia monopolizzato da docenti di professione, che perciò tacciano di ciarlataneria l'insegnamento impartito da persone prive di titolo formale. Poche abilità meccaniche impiegate nell'industria o nella ricerca sono così impegnative, complesse e pericolose come la guida di un'auto, che la maggioranza della gente impara presto da un suo pari. Non tutti hanno una inclinazione per la logica superiore, ma quelli che l'hanno fanno progressi rapidi se vengono precocemente allenati a fare giochi matematici. A Cuernavaca un ragazzo su venti è in grado di battermi a Whiff'n' Proof dopo una quindicina di giorni dacché ha cominciato a impararlo. Al nostro centro CIDOC nel giro di quattro mesi tutti gli adulti motivati, tranne una minuscola percentuale, riuscivano a imparare lo spagnolo abbastanza per svolgere attività universitaria in questa lingua.

Un primo passo per consentire l'accesso alle abilità potrebbe consistere nel fornire vari incentivi agli individui già esperti che fossero disposti a mettere in comune il proprio sapere. Inevitabilmente ciò andrebbe contro gli interessi delle corporazioni, delle professioni e dei sindacati. Tuttavia un apprendistato multiplo è affascinante:offre a ognuno la possibilità d'imparare qualcosa in pressoché tutti i campi. Non c e motivo per cui una persona non dovrebbe associare in sé la capacità di guidare un veicolo, di riparare un telefono o un gabinetto, di assistere una partoriente e di fare del disegno architettonico. I gruppi che difendono interessi particolari nonché i loro disciplinati clienti sosterranno naturalmente che il pubblico ha bisogno d'esser tutelato da una garanzia professionale; ma è un discorso che viene ormai regolarmente contestato dalle varie associazioni per la protezione del consumatore. Molto più sul serio dobbiamo invece prendere l'obiezione che alla socializzazione radicale delle abilità viene mossa dagli economisti, e cioè che democratizzando il sapere brevetti, tecniche e via dicendo - si scoraggerebbe il “progresso”. E un'obiezione che si può superare solo mettendo in luce il tasso di crescita delle diseconomie futili che sono generate da tutti i sistemi d'istruzione esistenti.

La possibilità di accedere alle persone disposte a spartire le proprie abilità non basta a garantire l'apprendimento. Tale possibilità è infatti limitata non solo dal monopolio che i programmi scolastici da una parte e i sindacati dall'altra esercitano rispettivamente sui contenuti e sulle modalità dell'istruzione, ma anche da una tecnologia di penuria. Le abilità che oggi contano di più riguardano l'uso di strumenti che sono di per sé rari. Tali strumenti producono beni o rendono servizi che tutti vorrebbero ma di cui pochi soltanto possono fruire, e solo un numero limitato di persone è in grado di usarli. Sulla totalità degli individui affetti da una data malattia soltanto pochi privilegiati beneficiano dei frutti di una tecnologia medica sofisticata, e sono ancora meno i medici che acquisiscono la capacità di servirsene.

Tuttavia i medesimi frutti della ricerca medica hanno dato luogo a un'attrezzatura essenziale che oggi permette, per esempio, ai soldati di sanità di ottenere in condizioni di emergenza, con solo qualche mese d'addestramento, risultati che un medico a pieno titolo non avrebbe neppure immaginato durante la seconda guerra mondiale. A un livello ancora più semplice, qualsiasi giovane contadina sarebbe oggi in grado di diagnosticare e curare la maggior parte delle malattie infettive se i professionisti della scienza medica preparassero dosi e istruzioni specifiche per una determinata area geografica.

Come si ricava da tutti questi esempi, già delle considerazioni educative sono sufficienti per esigere un radicale ridimensionamento della struttura professionale che oggi ostacola il rapporto tra il ricercatore e la maggioranza della gente che vuole accedere alla scienza. Se si prestasse ascolto a questa richiesta, tutti gli uomini potrebbero imparare a usare gli strumenti di ieri, resi più efficaci e durevoli dalla scienza d'oggi, per creare il mondo di domani.

Purtroppo, quella che prevale oggi è la tendenza esattamente opposta. Conosco una zona costiera dell'America meridionale dove la maggior parte della popolazione si guadagna da vivere praticando la pesca su piccole barche.

Il motore fuoribordo è senza dubbio lo strumento che ha cambiato nel modo più drastico la vita di questi pescatori. Ma nella zona da me studiata, il cinquanta per cento dei fuoribordo acquistati tra il 1945 e il 1950 funziona ancora grazie a continui aggiusti, mentre il cinquanta per cento dei fuori bordo acquistati nel 1965 non va più perché questi ultimi sono stati fabbricati in modo da non poter essere riparati. Il progresso tecnologico fornisce alla maggioranza congegni che essa non può permettersi, mentre la priva degli strumenti più semplici di cui ha bisogno.

Il cemento armato, i metalli e le materie plastiche che si usano nell'edilizia hanno fatto grandi progressi dagli anni '40 e dovrebbero offrire a un maggior numero di persone la possibilità di costruirsi la propria casa. Ma mentre nel 1948 più del 30 per cento delle case unifamiliari degli Stati Uniti erano state fabbricate dal loro proprietario, alla fine degli anni '60 la percentuale dei costruttori in proprio era scesa a meno del 20 per cento.

La caduta del livello delle capacità dovuta al cosiddetto sviluppo economico è ancor più visibile nell'America Latina. Qui la maggioranza della gente continua a costruirsi la propria casa dalle fondamenta al tetto. Spesso usa il fango in forma di mattoni e la paglia per la copertura, materiali d'insuperata utilità in un clima umido, caldo e ventoso. Altrove si ricava un'abitazione da cartoni, fusti di benzina e altri rifiuti industriali. Invece di fornire alla gente delle attrezzature semplici e dei componenti fortemente standardizzati, durevoli e facili da riparare, tutti i governi si sono messi a produrre in serie edifici a basso costo. E chiaro che nessun paese può permettersi di fornire unità d'abitazione moderne e soddisfacenti alla maggioranza della sua popolazione; e tuttavia non c'è paese dove questa politica non stia rendendo progressivamente più difficile per la maggioranza l'acquisizione delle conoscenze e delle capacità di cui essa avrebbe bisogno per costruirsi da sola delle case migliori.


“Povertà” autodeterminata

Considerazioni educative ci permettono di formulare una seconda caratteristica fondamentale che ogni società postindustriale dovrebbe avere: un corredo di attrezzatura di base che per sua stessa natura controbilanci il dominio tecnocratico. Per ragioni educative, dobbiamo mirare verso una società dove il sapere scientifico sia incorporato in strumenti e componenti che possano essere adoperati, per scopi dotati di senso, in unità abbastanza piccole perché siano alla portata di tutti. Soltanto simili strumenti possono socializzare l'accesso alle abilità. Soltanto simili strumenti consentono associazioni temporanee tra coloro che vogliono adoperarli per occasioni specifiche. Soltanto simili strumenti lasciano emergere progetti specifici nell'atto del loro uso, come sa ogni bricoleur. Solo combinando entrambe le condizioni di cui finora ho parlato, l'accesso garantito ai fatti e una limitata potenza della maggior parte degli strumenti, si può concepire un'economia di sussistenza capace di incorporare in sé i frutti della scienza moderna.

Nei paesi poveri, lo sviluppo di una cosiffatta economia scientifica di sussistenza andrebbe senza alcun dubbio a vantaggio della stragrande maggioranza della gente. E anche per i paesi ricchi essa è l'unica alternativa al progressivo aggravarsi dell'inquinamento, dello sfruttamento, dell'opacità. Ma come abbiamo già visto, non si può detronizzare il Prodotto Nazionale Lordo senza sovvertire al tempo stesso l'Educazione Nazionale Lorda, solitamente concepita come capitalizzazione di forza lavoro. Non può esistere un'economia egualitaria in una società dove sono le scuole a conferire il diritto di produrre.

La realizzabilità di un'economia di sussistenza moderna non dipende da nuove invenzioni scientifiche. Dipende soprattutto dal fatto che una società sia capace di concordare limitazioni fondamentali, autodeterminate, antiburocratiche e antitecnocratiche.

Queste autolimitazioni sociali possono assumere varie forme, ma non possono funzionare se non attengono alle dimensioni fondamentali della vita. (La decisione del Congresso degli Stati Uniti di non realizzare l'aereo da trasporto supersonico è uno dei passi più incoraggianti nella direzione giusta.) La loro sostanza dovrebbe essere costituita da cose molto semplici, pienamente comprensibili e valutabili da ogni persona di buon senso (ne sono un buon esempio le questioni in gioco nella controversia del supersonico). Tutte le limitazioni di questo tipo dovrebbero favorire uno stabile ed eguale godimento del sapere scientifico. I francesi dicono che ci vogliono mille anni perché un contadino impari ad accudire una mucca; ma basterebbe meno di due generazioni per aiutare tutti gli abitanti dell'America Latina o dell'Africa a usare e riparare fuori-bordo, autoveicoli semplici, pompe, cassette di medicinali e betoniere, solo che non se ne cambiasse il modello ogni pochi anni. E poiché una vita ricca di godimento è una vita di rapporti costantemente significativi con gli altri in un ambiente significativo, l'eguaglianza di godimento non può che tradursi in eguaglianza di educazione.

Per il momento, un consenso generale sull'austerità è difficile da immaginare. La ragione che di solito si dà per spiegare l'impotenza della maggioranza è formulata in termini di classi politiche o economiche; ciò che di solito non si comprende è che la nuova struttura di classe di una società scolarizzata è ancora più potentemente dominata da taluni interessi costituiti. Certo, un'organizzazione imperialistica e capitalistica della società genera una struttura sociale entro la quale una minoranza è in grado di esercitare un'influenza sproporzionata sull'opinione della maggioranza. Ma in una società tecnocratica il potere d'una minoranza di capitalisti del sapere può impedire che si formi un'autentica opinione pubblica controllando le capacità scientifiche e i mezzi di comunicazione. Le garanzie costituzionali delle libertà di parola, di stampa e di riunione intendevano assicurare il governo del popolo. L'elettronica, i moderni procedimenti di fotocomposizione e di stampa in offset, i calcolatori che operano in tempo reale, i telefoni offrono in teoria un'attrezzatura che potrebbe dare a quelle libertà un senso del tutto nuovo. Ma purtroppo questi strumenti vengono impiegati nei media moderni per accrescere il potere, proprio dei banchieri del sapere, di convogliare i loro programmi preconfezionati, tramite catene internazionali, verso un maggior numero di persone, anziché essere usati per incrementare delle vere reti capaci di offrire eguali occasioni d'incontro fra i membri della maggioranza.

La descolarizzazione della cultura e della struttura sociale richiede che la tecnologia venga usata in modo da consentire una politica partecipativa. Solo sulla base di un accordo della maggioranza si possono fissare limiti alla segretezza e alla crescente potenza, senza ricorrere a una dittatura. Abbiamo bisogno di un ambiente nuovo in cui si possa crescere senza essere divisi in classi: altrimenti avremo uno splendido mondo nuovo in cui saremo tutti educati dal Grande Fratello.

 

Bisogni di Tantalo

Questo saggio riproduce il testo di una conferenza che tenni all'inizio del 1947 all'Università di Edimburgo sotto gli auspici della Enciclopedia Britannica. Scopo della conferenza era di esaminare, attraverso lo specchio della medicina, quali possibilità di scelta rimangono a una collettività paralizzata nella morsa dei propri strumenti. Descrivendo l'evidente potere patogeno del sistema medico, attiravo l'attenzione sugli effetti paradossalmente controproducenti di una cultura, quale la nostra, tutta imperniata sulle merci. Ho poi sviluppato il tema in tre versioni successive di un libro, Nemesi medica: l'espropriazione della salute (Londra 1974; Parigi 1975; New York 1976 e trad. ital. Mondadori 1977). Riporto qui la conferenza di Edimburgo nella speranza che serva a ricordare ai lettori di Nemesi medica che, occupandosi di medicina, l'autore intendeva illustrare con un esempio l'inversione politica e istituzionale dell'odierna società industriale in genere.

Nell'ultimo decennio l'istituzione medica è divenuta una grave minaccia per la salute. Le depressioni, le infezioni, le menomazioni e le disfunzioni originate dai suoi interventi causano ormai più sofferenze che non tutti gli incidenti del traffico e gli infortuni sul lavoro. Soltanto i danni organici provocati dagli alimenti di produzione industriale possono competere con la patologia indotta dai medici. Oltre a ciò, la professione medica fomenta la malattia puntellando una società malsana che non solo conserva industrialmente i suoi minorati ma allèva clienti per il terapista con metodo cibernetico. Infine, le cosiddette professioni sanitarie hanno un potere patogeno indiretto, un effetto che nega strutturalmente la salute. Trasformano la sofferenza, la malattia e la morte da impegno personale in problema tecnico, espropriando così la gente d'ogni capacità di misurarsi autonomamente con la propria condizione umana.


L'effetto negativo del progresso

Quest'ultimo effetto negativo del progresso sanitario trascende qualunque iatrogenesi tecnica; supera la somma dell'imperizia protetta, della negligenza amministrativa e dell'insensibilità professionale, contro le quali diventa sempre più difficile ottenere una riparazione giudiziaria; ha radici più profonde della squilibrata distribuzione delle risorse alla quale si cerca di ovviare con rimedi politici; è più globale di tutte le malattie derivate dagli esperimenti e dagli sbagli dei medici. L'espropriazione professionale della cura della salute è il punto d'arrivo di uno sforzo tecnico incontrollato; dà luogo a una gestione eteronoma della vita ad alti livelli di cattiva salute ed è sentita come un orrore di tipo nuovo che io chiamo nemesi medica.

Durante l'ultimo ventennio, negli Stati Uniti l'indice generale dei prezzi è salito di circa il 74 per cento; il costo delle cure mediche è invece cresciuto del 330 per cento. Mentre la spesa pubblica per l'assistenza sanitaria si è duplicata, gli esborsi personali per i servizi medici sono aumentati di tre volte e di diciotto il costo delle assicurazioni private. Dal 1950 il costo degli ospedali pubblici è salito del 500 per cento; nei maggiori di essi le rette per i ricoveri sono cresciute ancora più in fretta, triplicandosi in Otto anni. Le spese d'amministrazione si sono moltiplicate per sette, i costi di laboratorio per cinque. Un letto d'ospedale costa oggi 65.000 dollari, due terzi dei quali assorbiti da attrezzature meccaniche che nel giro di dieci anni o anche meno saranno fuori uso o superflue. Eppure, in questo stesso periodo d'inflazione senza precedenti, la speranza di vita dei maschi adulti americani si è ridotta.

In Inghilterra, il Servizio sanitario nazionale ha avuto un analogo tasso d'inflazione dei costi, pur avendo evitato alcuni dei più clamorosi errori di spesa che suscitano critiche in America. La speranza di vita degli inglesi non è ancora diminuita, ma si registra un aumento delle malattie croniche tra gli uomini di mezza età, come già era avvenuto un decennio prima negli Stati Uniti. Nell'Unione Sovietica, durante lo stesso periodo il numero dei medici e dei giorni di ospedalizzazione pro capite si è triplicato. In Cina, dopo un breve idillio con la sprofessionalizzazione moderna, il sistema medico-tecnologico è recentemente cresciuto ancora più in fretta. Il ritmo col quale la gente arriva a dipendere dai medici sembra non avere alcun rapporto con le diverse forme di governo. Questi andamenti non indicano utilità marginali decrescenti: sono un esempio di economia della dipendenza, nella quale le disutilità marginali aumentano al crescere degli investimenti. Ma, di per sé, la dipendenza non è ancora nemesi.

Negli Stati Uniti i prodotti che agiscono sul sistema nervoso centrale sono il settore più dinamico del mercato farmaceutico, e costituiscono il 31 per cento del fatturato totale. Negli ultimi vent'anni il consumo pro capite degli alcolici è salito del 23 per cento, quello degli oppiacei illegali del 50 per cento circa, quello dei tranquillanti prescritti del 290 per cento. Secondo alcuni questo fenomeno è dovuto ai particolare modo in cui i medici americani si tengono aggiornati durante tutta la loro attività:nel 1970 le case farmaceutiche degli Stati Uniti hanno speso in pubblicità 4500 dollari a medico per toccare i 350.000 dottori che esercitano la professione. Sorprendentemente, il consumo pro capite dei tranquillanti è in relazione con il reddito personale in ogni parte del mondo, anche se in molti paesi il costo della “informazione scientifica” del medico non è compreso nel prezzo del farmaco. Ma per quanto grave possa essere la crescente dipendenza dai medici e dai farmaci, essa è soltanto un sintomo della nemesi.

La medicina non può far molto per i mali che si accompagnano alla senescenza. Non può guarire le malattie cardiovascolari, la maggior parte dei tumori, l'artrite, la sclerosi multipla o la cirrosi avanzata. Qualcuno dei malanni di cui soffrono gli anziani può essere talvolta alleviato. Di massima, le cure dei vecchi che comportano un intervento professionale non soltanto aggravano le loro sofferenze ma, se l'intervento riesce, le protraggono. Sorprende quindi la quantità delle risorse che si spendono per curare la vecchiaia. Solo il 10 per cento della popolazione degli Stati Uniti è di età superiore a sessantacinque anni, ma a questa minoranza va il 28 per cento della spesa per l'assistenza sanitaria. Rispetto al resto della popolazione i vecchi stanno aumentando a un tasso del 3 per cento, mentre il costo pro capite della loro assistenza cresce nella misura del 6 per cento. La gerontologia si sta appropriando del Prodotto Nazionale Lordo. Questa squilibrata allocazione di energie umane, mezzi e attenzione sociale non potrà che generare sofferenze indicibili man mano che aumenteranno le richieste e si esauriranno le risorse.

Tuttavia si tratta solo di un sintomo, e la nemesi trascende anche lo spreco rituale.

Da quando Nixon e Breznev firmarono l'accordo di cooperazione scientifica per l'assoggettamento dello spazio, del cancro e del mal di cuore, le unità di trattamento intensivo delle malattie coronariche sono diventate simboli di progresso pacifico e motivi per aumentare le tasse. Esse richiedono tre volte più attrezzature e cinque volte più personale di quanto occorra per il trattamento normale; negli Stati Uniti il 12 per cento delle infermiere diplomate è addetto a queste unità coronariche. Sono inoltre l'esempio di cosa vuoi dire appropriazione indebita gestita a livello professionale: le indagini statistiche su vasta scala che mettono a confronto i risultati del trattamento di malati in queste unità con quelli della cura domiciliare di casi analoghi non hanno sinora dimostrato che la nuova tecnica abbia portato alcun vantaggio. Si potrebbe dire che il valore terapeutico delle stazioni di controllo cardiaco sia uguale a quello dei voli spaziali: presentati alla televisione, sia questi che quelle fungono come una sorta di danza della pioggia per milioni di persone che imparano in tal modo a fare affidamento sulla scienza e a non prendersi più cura di se stesse.

Mi è capitato di trovarmi sia a Rio de Janeiro sia a Lima mentre vi passava in tournée (il dottor Christiaan Barnard. Sia in Brasile sia in Perù egli riuscì a riempire per due volte nello stesso giorno il massimo stadio calcistico di folle che acclamavano istericamente la sua macabra capacità di scambiare cuori umani. Poco tempo dopo, appresi da testimonianze ben documentate che la polizia brasiliana è stata la prima al mondo a usare nelle camere di tortura apparecchi per prolungare la vita. Quando il compito di assistere o di guarire passa alle organizzazioni o alle macchine, è inevitabile che la terapia diventi un( rituale incentrato sulla morte. Ma la nemesi trascende anche il sacrificio umano.


Rimedi contraddittori

La prevenzione della malattia mediante l'intervento di terzi professionisti è diventata una moda. La sua domanda cresce. Donne incinte, bambini sani, operai, vecchi, tutti si sottopongono a periodici check-up e a esami diagnostici sempre più complessi. Per questa via, ci si rafforza nella convinzione di essere macchine la cui durata dipende da un piano sociale. Le risultanze d'un paio di dozzine di studi attestano che questi esami non hanno alcuna influenza sull'andamento della mortalità e della morbilità. In realtà essi trasformano persone sane in pazienti angosciati, e i rischi per la salute che si accompagnano a queste campagne di diagnosi automatizzata sopravanzano i benefici teorici. Per ironia della sorte, i disturbi asintomatici gravi che si possono scoprire soltanto con questo tipo d'indagine sono spesso malattie inguaribili, nelle quali una cura precoce aggrava la condizione patologica del paziente. Ma la nemesi trascende anche la tortura terminale.

Fino a un certo punto, la medicina moderna si è occupata di ingegneria terapeutica: ha cioè elaborato strategie d'intervento chirurgico, chimico o comportamentistico nella vita delle persone che sono o potrebbero diventare malate. Ma da quando s'è visto che questo genere d'interventi non guadagna efficacia per il fatto di costare sempre di più, e' venuto in primo piano un nuovo tipo di ingegneria della salute. I sistemi sanitari tendono oggi alla medicina preventiva, oltre che curativa. Si propongono servizi orientati verso una gestione ambientale della salute. L'ossessione dell'immunità cede il passo all'incubo dell'igiene. Man mano che il sistema di assistenza sanitaria perde colpi non riuscendo a soddisfare le richieste che gli vengono rivolte, certi stati che oggi sono classificati come malattie rischiano di essere presto definiti devianza criminale. All'intervento medico imposto potrebbero far seguito l'autocritica e la rieducazione obbligatorie. La convergenza dell'ingegneria igienica individuale e di quella ambientale fa pendere oggi sull'umanità la minaccia di un'epidemia di nuovo tipo, in cui diventano parte integrante del flagello gli stessi rimedi, che si ritorcono sistematicamente contro il loro scopo. Questa sinergia patogena delle funzioni tecniche e delle funzioni non tecniche della medicina è ciò che io chiamo nemesi igienica o medica, una nemesi che riduce l'uomo nella condizione di Tantalo.


Nemesi industriale

Da sempre, una gran parte della sofferenza è opera dell’uomo: la storia non fa che registrare asservimento e sfruttamento. I suoi documenti ci parlano di guerre, e delle devastazioni, delle carestie e delle pestilenze venute al loro seguito. La guerra tra popoli e classi è stata sinora il principale strumento con cui l'uomo ha programmato e prodotto miseria. L'uomo è dunque l'unico animale la cui evoluzione sia stata condizionata da una duplice necessità di adattamento: se non soccombeva agli elementi naturali, doveva fare i conti con lo sfruttamento e la prepotenza dei propri simili. Per poter condurre questa lotta su due fronti, l'uomo ha sostituito agli istinti il carattere( e la cultura. Di un terzo fronte esposto a catastrofi si è avuta coscienza sin dai tempi di Omero, ma i comuni( mortali erano ritenuti esenti da questo pericolo. Nemesi, come i greci chiamavano la minaccia incombente da questa terza direzione, era il destino che attendeva i pochi eroi che incorrevano nella gelosia degli dei. L'uomo cresceva e moriva lottando con la natura e con il prossimo; soltanto l'élite sfidava i limiti che la natura aveva posto all'uomo.

Prometeo non era “Ognuno”, ma un deviante. Mosso da pleonexia, da cupidigia estrema, egli oltrepassò le barriere della condizione umana. Nella sua hubris, o presunzione smisurata, sottrasse il fuoco al cielo e attirò quindi Nemesi su di sé. Fu incatenato a una rupe del monte Caucaso, dove un'aquila gli divorava il fegato e gli dei, guaritori spietati, lo tenevano in vita tornando ogni notte a trapiantarglielo. L'incontro con Nemesi fece di questo eroe classico un simbolo imperituro dell'ineluttabile vendetta cosmica. Fu preso ad argomento di tragedie epiche, ma non certo a modello per le aspirazioni quotidiane. Oggi Nemesi è invece endemica; è il contraccolpo del progresso. Si è paradossalmente diffusa dappertutto di pari passo col diritto di voto, con la scolarizzazione, con l'accelerazione meccanica, con l'assistenza medica. “Ognuno”è incorso nella gelosia degli dei. Per sopravvivere, la specie deve imparare a battersi su questa terza frontiera.

La massima parte della sofferenza provocata dall'uomo è oggi il prodotto secondario di iniziative che in origine miravano a proteggere il comune mortale nella sua lotta contro l'inclemenza dell'ambiente e le crudeli ingiustizie inflitte dalle élites. La fonte principale del dolore, della menomazione e della morte è oggi un tormento procurato, anche se non intenzionale. I disturbi più diffusi, l'impotenza e l'ingiustizia sono effetti collaterali di strategie finalizzate al progresso. Nemesi è ormai così universalmente presente che la si crede parte integrante della condizione umana. Un'idea comune a tutte le etiche precedenti era che il campo aperto all'azione umana fosse rigorosamente circoscritto; la techné era un misurato tributo alla necessità, non la strada per realizzare qualsivoglia impresa decisa dall'uomo. La disperata incapacità dell'uomo contemporaneo di immaginare un'alternativa all'aggressione industriale ai danni della condizione umana fa parte della maledizione di cui egli è vittima.

Quando si tenta di ridurre la nemesi a un semplice processo politico o biologico si rende vana qualsiasi diagnosi dell'attuale crisi istituzionale. Ogni analisi dei cosiddetti limiti dello sviluppo diventa futile se riduce la nemesi a una minaccia affrontabile sui due fronti tradizionali. La nemesi non perde il suo carattere specifico solo perché ha assunto un volto industriale. Non si può capire la crisi della società industriale se non si distingue tra l'aggressione a scopo di sfruttamento operata da una classe a danno di un'altra, e la rovina ineluttabile che è intrinseca a ogni tentativo smisurato di trasformare la condizione umana. E impossibile comprendere la situazione nella quale ci troviamo se non si distingue tra la violenza prodotta dall'uomo e la distruttiva gelosia del cosmo: tra la soggezione dell'uomo all'uomo e l'asservimento dell'uomo ai suoi dei, che sono, inutile dirlo, i suoi mezzi di produzione. La nemesi non è riducibile a un problema di competenza degli ingegneri o degli organizzatori politici.

La scolarizzazione, i trasporti, il sistema giuridico, la agricoltura moderna, la medicina sono altrettanti esempi di come agisce la frustrazione procurata. Una volta superato un certo limite, la degradazione del sapere a mero risultato di un insegnamento predeterminato innesca inevitabilmente, a tutto danno della maggioranza povera, un nuovo tipo d'impotenza a un nuovo tipo di struttura di classe discriminante. Tutte le forme di istruzione obbligatoria programmata recano impliciti questi effetti collaterali, qualunque sia la somma di denaro, di buona volontà, di impegno politico e di idealismo pedagogico che si profonde nell'operazione: tanto che si riempia il mondo di aule, quanto che lo si trasformi in un'unica aula.

Quando l'energia impiegata per l'accelerazione di una qualsiasi persona circolante sale al di sopra di un certo livello, l'industria del trasporto immobilizza e asservisce la maggioranza dei passeggeri anonimi offrendo soltanto discutibili vantaggi marginali a una élite olimpica. Nessuna nuova specie di combustibile, di tecnologia o di controllo pubblico può impedire a una società sempre più mobilizzata di produrre sempre maggiori dosi di disturbo, di paralisi e di iniquità.

Quando l'investimento di capitali nell'agricoltura e nell’industria alimentare sale al di sopra di un certo livello, non può che aversi malnutrizione dappertutto; l'illusione dei “piani verdi” rode il fegato del consumatore più efficacemente dell'aquila di Zeus; e non c e ingegneria biologica che possa impedirlo.

Quando la produzione e l'erogazione di assistenza medica vanno al di sopra di un certo limite, generano più mali di quanti ne riescono a guarire. La previdenza sociale garantisce una sopravvivenza dolorosa più democraticamente e più efficacemente degli dei più spietati.

Il progresso ha comportato il pagamento d'uno scotto che non si può chiamare prezzo. L'esborso iniziale era indicato sul cartellino e si può esprimere in termini misurabili. Il resto da versare a rate con gli interessi composti matura sotto varie forme di sofferenza che trascendono il concetto di “prezzo”. Ha cacciato società intere in una prigione per debitori, dove la crescente tortura cui è soggetta la maggioranza sopraffà e annulla ogni eventuale beneficio che possa ancora andare a un'esigua minoranza.

Il contadino che prima si tesseva i propri panni, si costruiva la casa, si fabbricava i propri strumenti di lavoro e che oggi passa a comprare abiti bell'e fatti, solai precompressi e trattori, non riesce più a sentirsi soddisfatto finché non dà il proprio contributo alla nemesi mondiale. Il suo vicino che cerca ancora di tirare avanti con i tessuti,le abitazioni e i modi di produzione tradizionali non riesce più a vivere in un mondo dove ormai imperversa la nemesi industriale. E questo duplice legame il punto su cui vorrei far luce. La cupidigia esasperata e la cieca baldanza non più limitate agli eroi; nella società industrializzata fanno parte dei doveri sociali di “Ognuno”. Nell'accedere all'economia di mercato contemporanea, di solito per la via della scuola, il cittadino si unisce al coro che evoca la nemesi; ma si unisce anche a un'orda di furie scatenata contro coloro che restano fuori del sistema. I cosiddetti partecipanti marginali, che non entrano del tutto nell'economia di mercato, si trovano privati dei mezzi tradizionali per far fronte alla natura e al prossimo.

A un certo punto della crescita delle nostre grandi istituzioni, i rispettivi clienti cominciano a pagare un prezzo di giorno in giorno più alto per continuare a consumare, malgrado sia chiaro che ne ricaveranno inevitabilmente maggiori sofferenze. A questo punto dello sviluppo il comportamento nella società corrisponde a quello che si rileva di solito nei drogati. Il calo dei benefici è niente in confronto all'aumento delle disutilità marginali. L'Homo oeconomicus si tramuta in Homo religiosus. Le sue aspettative diventano sovrumane. Lo scotto dello sviluppo economico non soltanto eccede il prezzo al quale fu acquistato, ma supera anche il danno complessivo arrecato dalla natura e dal prossimo. Nemesi classica puniva l'abuso sconsiderato di un privilegio; la nemesi industrializzata castiga la supina partecipazione alla società.

Guerra e fame, pestilenza e morte improvvisa, tortura e follia rimangono compagne dell'uomo, ma sono ora fuse in una nuova Gestalt dalla nemesi che le sovrasta. Quanto più una comunità è economicamente progredita, tanto maggiore è la parte che la nemesi industriale ha nelle soffèrenze, nelle discriminazioni e nella morte che colpiscono i suoi membri. Diremmo perciò che lo studio sistematico del carattere particolare della nemesi dovrebb'essere il pimo tema di ricerca per coloro che si occupano di curare, guarire e consolare.

La nemesi industriale è conseguenza di procedimenti decisionali che generano inevitabilmente disavventure controintuitive. E conseguenza d'uno stile di gestione che rimane un rompicapo per programmatori. Fin quando le si descrive con i termini della scienza e dell'economia, queste disavventure restano delle singolari sorprese. Il linguaggio per studiare la nemesi industriale è ancora da creare; dev'essere in grado di descrivere le contraddizioni intrinseche ai processi mentali di una società che apprezzava la verifica operazionale più dell'evidenza intuitiva.


La “hubrys” di Tantalo

La nemesi medica è solo una delle tante “disavventure controintuitive” tipiche della società industriale. E il frutto mostruoso di un particolarissimo sogno della ragione, cioè la hubris che rende simili a Tantalo. Tantalo era un re famoso che gli dei un giorno invitarono sull'Olimpo a un loro banchetto; ma dalla mensa divina egli rubò l'ambrosia, la pozione che dava l'immortalità, e per castigo fu precipitato nell'Ade e condannato a soffrire in eterno fame e sete. Quando Tantalo si china verso il ruscello nel quale è immerso, l'acqua si ritira, e quando cerca di cogliere la frutta che gli pende sul capo, i rami si allontanano. Un etologo direbbe che la nemesi igienica lo ha programmato per un comportamento controintuitivo obbligato.

La brama di ambrosia ha oggi contagiato i comuni mortali. L'ottimismo scientifico e quello politico hanno insieme contribuito a propagarla. Per sostenerla, si è costituito un corpo di sacerdoti di Tantalo, che promette un miglioramento medico illimitato della salute umana. I membri di questa congregazione si dicono discepoli di Asclepio il guaritore, ma in realtà sono spacciatori di ambrosia. La gente si rivolge a loro perché la sua vita migliori, sia prolungata, resa compatibile con le macchine e capace di resistere a ogni sorta di accelerazione, di alterazione e di tensione. Per tutto risultato, la salute è divenuta scarsa al punto che l'uomo comune la fa dipendere dal consumo di ambrosia.

L'umanità si è evoluta solo perché ogni suo membro è venuto al mondo protetto da una serie di bozzoli, visibili e invisibili. Ognuno conosceva il grembo dal quale era uscito e si orientava con le stelle sotto le quali era nato. Per essere uomo e diventarlo, l'individuo della nostra specie doveva scoprire il proprio destino nel corso della sua particolare lotta con la natura e con i vicini. In questa lotta era solo, ma le armi, le regole e lo stile gli erano dati dalla cultura in cui cresceva. Le culture si evolvevano, ciascuna secondo la propria vitalità; e con le culture crescevano le persone, ognuna imparando a sopravvivere entro un bozzolo comune. Ogni cultura era la somma delle regole grazie alle quali l'individuo si conciliava con la sofferenza, la malattia e la morte, le interpretava e provava compassione per gli altri, soggetti alle medesime minacce. Ogni cultura creava i miti, i rituali, i tabù e le norme etiche necessari per far fronte alla fragilità della vita.

La civiltà medica cosmopolita nega che l'uomo abbia bisogno di accettare questi mali. E concepita e organizzata al fine di sopprimere la sofferenza, eliminare la malattia e lottare contro la morte. Sono obiettivi nuovi, che non si erano mai posti alla vita sociale e che sono antitetici a tutte quante le culture che la civiltà medica incontra quando la si scaraventa addosso ai cosiddetti poveri come parte integrante del loro progresso economico.

L'effetto di negazione della salute esercitato dalla civiltà medica è quindi altrettanto forte nei paesi ricchi quanto in quelli poveri, anche se a questi ultimi vengono spesso risparmiati alcuni dei suoi aspetti più sinistri.


La soppressione della sofferenza

Perché un vissuto diventi sofferenza nel senso pieno del termine, bisogna che si inquadri in una cultura. Proprio perché ogni cultura fornisce un suo modo di soffrire, la cultura è una forma particolare di salute. L'atto di soffrire è trasformato dalla cultura in un interrogativo che può essere espresso e condiviso.

Con l'avvento della civiltà medica, alla capacità di soffrire modellata dalla cultura si sostituisce una crescente richiesta, da parte del singolo, di una gestione istituzionale della propria sofferenza. Una miriade di sentimenti diversi, espressione ognuno di un qualche tipo di forza d'animo, si riduce esclusivamente a pressione politica, esercitata da consumatori di anestesia. La sofferenza diventa una delle voci di un elenco di rivendicazioni. Il risultato è un nuovo genere di orrore. Concettualmente è ancora sofferenza, ma l'effetto sulle nostre emozioni di questo inedito dolore opaco, impersonale e privo di valore, è qualcosa di completamente nuovo.

In tal modo, per l'uomo industriale, la sofferenza suscita ormai solo una domanda tecnica: cosa devo per curare o fare sparire questa sofferenza? Se poi essa persiste, la colpa non è dell'universo, di Dio, dei miei peccati o del diavolo, ma del sistema sanitario. La sofferenza esprime la domanda, da parte del consumatore, di maggiori prestazioni sanitarie. Diventando non necessaria, è divenuta intollerabile. Dato questo atteggiamento, oggi sembra più razionale fuggire la sofferenza che affrontarla, anche a costo della dipendenza. Sembra ragionevole eliminarla, anche a costo della salute. Sembra intelligente negare legittimità a tutte le questioni non tecniche che essa solleva, anche a costo di disarmare chi è vittima di sofferenze irriducibili. Per un po' si può asserire che la somma delle sofferenze anestetizzate, all'interno d'una società, supera quella delle sofferenze generate ex novo; ma a un certo punto insorgono crescenti disutilità marginali. La nuova sofferenza non solo è intrattabile, ma ha perso ogni referente. E diventata priva di significato, mera tortura. Solo il ricupero della volontà e capacità di soffrire può restituire sanità al dolore.


L'eliminazione della malattia

Le prestazioni mediche non hanno inciso sui tassi della mortalità globale; tutt'al più hanno spostato la sopravvivenza da una fascia all'altra della popolazione. Una ricca documentazione mostra spettacolari cambiamenti nella natura delle malattie che hanno afflitto le società occidentali negli ultimi cento anni. Dapprima l'industrializzazione esasperò le malattie infettive, che poi decrebbero. La tubercolosi non fece che aumentare per cinquanta-settantacinque anni, per poi calare prima ancora che se ne scoprisse il bacillo o che si varassero provvedimenti per combatterla. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti le subentrarono le principali sindromi da malnutrizione - rachitismo e pellagra - che raggiunsero l'apice e declinarono e furono rimpiazzate dalle malattie infantili, che a loro volta lasciarono il posto all'ulcera duodenale dei giovani. Quando questa calò, presero a infierire le epidemie moderne: le malattie coronariche, l'ipertensione, il cancro, l'artrite, il diabete e i disturbi mentali. Almeno negli Stati Uniti, i tassi di mortalità per malattie cardiache da ipertensione sembrano ora in calo. Nonostante le intense ricerche fatte, non si è riusciti ad accertare alcun nesso tra i sopraccennati mutamenti avvenuti nel quadro delle malattie e l'esercizio professionale della medicina.

La stragrande maggioranza degli interventi diagnostici e terapeutici moderni che fanno per certo più bene che, male presenta due caratteristiche: i mezzi materiali occorrenti hanno un costo irrisorio, ed è inoltre possibile predisporli in confezioni usabili personalmente o col semplice aiuto d'un familiare. Nella medicina canadese, la tecnologia che ottiene i risultati più significativi nel campo della terapia o del miglioramento della salute costa così poco che si potrebbe fornirla all'intero subcontinente indiano per la stessa cifra che oggi vi si spreca per la cosiddetta “medicina moderna”. Per altro verso, le abilità necessarie per l'impiego dei mezzi diagnostici e terapeutici più generalmente usati sono così elementari che un'attenta osservanza delle istruzioni da parte della persona stessa che si cura garantirebbe un uso più efficace e responsabile di quello che può fornire un medico.

Non c'è stato né un declino delle grandi epidemie di malattie mortali, né alcun cambiamento rilevante nella ripartizione per età della popolazione, né alcuna caduta o crescita dell'assenteismo sul lavoro, che abbia avuto un rapporto significativo con le prestazioni terapeutiche effettuate dai medici o anche con l'immunizzazione. I servizi medici non hanno né alcun merito per la longevità né alcuna colpa per la minacciosa pressione demografica. La longevità si deve molto di più alle ferrovie e alla fabbricazione sintetica dei fertilizzanti e degli insetticidi che non alle nuove medicine e siringhe. Quanto è inefficace, tanto la prestazione professionale è sempre più ricercata. Questa crescita del prestigio dei medici, ingiustificata..sotto il profilo tecnico, è spiegabile soltanto come un rituale magico, rivolto a conseguire obiettivi che per via tecnica o politica non si riesce a raggiungere. Si può contrastarla soltanto con misure legislative e con un'azione politica che favoriscano la sprofessionalizzazione della cura della salute.

Sprofessionalizzazione della medicina non vuoi dire, né si deve credere che implichi, negazione degli esperti in guarigione, della competenza, della critica reciproca o del controllo pubblico: significa combattere la mistificazione,il dominio transnazionale di un'unica ortodossia, l'esclusione dei guaritori scelti dai pazienti ma non riconosciuti dalla corporazione. Sprofessionalizzare la medicina non significa rifiutare lo stanziamento di denaro pubblico per scopi di 'cura: significa non volere che questo denaro venga speso per prescrizione e decisione dei membri della corporazione anziché sotto il controllo dei consumatori. Sprofessionalizzare non vuoi dire eliminare la medicina moderna, né ostacolare l'invenzione di una medicina nuova, né necessariamente far ritorno a programmi, riti e metodi antichi: significa che nessun professionista deve avere il potere di elargire a un qualunque suo paziente un complesso di mezzi terapeutici maggiore di quello che ciascun cittadino per proprio conto potrebbe rivendicare. Infine, sprofessionalizzare la medicina non significa perdere di vista i particolari bisogni che si hanno in momenti particolari della vita - quando si nasce, ci si rompe una gamba, ci si sposa, si partorisce, si diventa invalidi o si affronta la morte -: significa solo che la gente ha il diritto di vivere in un ambiente ospitale queste fasi salienti della propria esistenza.


La lotta contro la morte

La conseguenza estrema della nemesi medica è l'espropriazione della morte In ogni società l'immagine della morte è l'anticipazione, condizionata dalla cultura, di un evento certo di data incerta. Questa anticipazione determina una serie di norme di condotta nel corso della vita e informa la struttura di certe istituzioni. Ovunque la civiltà medica moderna sia penetrata in una cultura tradizionale, è sorta una concezione nuova della morte. Questo nuovo ideale si diffonde grazie alla tecnologia e all'ethos professionale che a essa corrisponde.

Nelle società primitive la morte è sempre concepita come l'intervento di un attore: un nemico, uno stregone, un antenato o un dio. Il Medioevo cristiano e quello islamico vedevano in ogni morte la mano di Dio. In Occidente la morte ha cominciato ad avere un proprio volto soltanto intorno al 1420. La concezione occidentale della morte, che tocca egualmente a tutti per cause naturali, è di origine piuttosto recente. Solo nell'autunno del Medioevo, infatti, la morte fa la sua apparizione sotto forma di uno scheletro dotato di un proprio potere; solo col Cinquecento gli europei cominciano a elaborare “l'arte di morir bene”. Nel corso di tre secoli successivi il nobile e il contadino, il prete e la prostituta si prepararono per tutta la vita a presiedere alla propria morte. La sporca morte, la dura morte diventa non più il fine ma la fine della vita. L'idea che la morte naturale debba sopraggiungere soltanto al termine di una vecchiaia trascorsa in buona salute non compare prima del Settecento, ed è fenomeno specificatamente borghese. La richiesta che i medici lottino contro la morte e mantengano in salute i vecchi cadenti non ha nulla a che fare con la loro capacità di fornire simili servizi: come ha dimostrato Philip Ariès, i costosi tentativi di prolungare la vita si registrano dapprima solo nell'ambiente dei banchieri, cioè di coloro che più anni passavano al banco più diventavano potenti.

Non si può comprendere appieno l'organizzazione sociale contemporanea se in essa non si vede un molteplice esorcismo di tutte le forme di mala morte. Le nostre principali istituzioni costituiscono un gigantesco schieramento difensivo rivolto, in nome dell'“umanità”, contro tutti coloro che possono essere associati con ciò che si suole intendere come ingiustizia sociale somministratrice di morte. Non soltanto le organizzazioni mediche, ma l'assistenza sociale, gli aiuti internazionali, i programmi di sviluppo sono al servizio di questa lotta. Partecipano alla crociata burocrazie ideologiche d'ogni colore. Persino alla guerra si è fatto ricorso per sancire la sconfitta dei colpevoli d'una inammissibile tolleranza nei confronti della malattia e della morte. Lo scopo di assicurare a tutti una “morte naturale” è sul punto di diventare una giustificazione suprema del controllo sociale. Sotto l'influenza dei riti medici, la morte contemporanea torna ad essere argomento per una caccia alle streghe.


Il recupero della salute

Crescenti e irreparabili danni accompagnano l'attuale espansione industriale in ogni settore. Nella medicina questi danni si configurano come iatrogenesi. La iatrogenesi può essere diretta, quando la sofferenza, la malattia e la morte sono risultato di prestazioni mediche; o indiretta, quando le politiche sanitarie rafforzano un'organizzazione industriale che danneggia la salute. Può essere strutturale, quando illusioni e comportamenti promossi dai medici restringono l'autonomia vitale della gente minandone la capacità di crescere, curarsi e invecchiare; o quando paralizza l'impegno personale stimolato dalla sofferenza, dalla menomazione, dall'angoscia.

Quasi tutti i rimedi proposti per ridurre la iatrogenesi sono interventi tecnici, che affrontano in termini terapeutici l'individuo, il gruppo, l'istituzione o l'ambiente. Questi presunti rimedi generano mali iatrogeni di secondo grado, creando nuovi pregiudizi a danno dell'autonomia del cittadino.

Gli effetti iatrogeni più profondi esercitati dalla tecnostruttura medica derivano dalle sue funzioni sociali di natura non tecnica. Le conseguenze patogene tecniche e non tecniche dell'istituzionalizzazione della medicina concorrono a generare una sofferenza di tipo nuovo: la sopravvivenza anestetizzata e solitaria in un mondo trasformato in un unico ospedale.

La nemesi medica non è suscettibile di verifica operazionale. Tanto meno può essere misurata. L'intensità con cui si avverte è proporzionale all'indipendenza, alla vitalità e alla ricchezza di relazioni che ciascuno possiede. Come concetto teorico, è una delle componenti di una teoria generale atta a spiegare le anomalie che affliggono i sistemi di assistenza sanitaria del nostro tempo. E un aspetto particolare di un fenomeno più vasto che io ho chiamato nemesi industriale, il contraccolpo della hubris industriale strutturata in istituzioni. Questa hubris consiste nell'ignorare i confini entro i quali il fenomeno rimane vitale. Oggi la ricerca è in grandissima parte finalizzata a “conquiste” irraggiungibili; quella che io ho definito controricerca è l'analisi metodica dei livelli ai quali le ripercussioni della hubris non possono che recare danno all'uomo.

Rendersi conto della nemesi che ci avvolge porta a una scelta sociale. O si valutano e si riconoscono quelli che sono i confini naturali dello sforzo umano e li si traduce in limiti fissati da una deliberazione politica; o l'alternativa all'estinzione sarà la sopravvivenza coatta in un inferno artificiale programmato.

In molti paesi il pubblico è maturo per una revisione del proprio sistema sanitario. Le frustrazioni che si sono manifestate tanto nei sistemi basati sull’iniziativa privata quanto nell'assistenza socializzata hanno finito per assomigliarsi in modo spaventoso. Le differenze tra le critiche che si sentono fare dai russi, dai francesi, dagli americani, dagli inglesi, dagli italiani sono divenute irrilevanti. Esiste però un serio pericolo che la revisione si compia all'interno delle coordinate stabilite dalle illusioni post-cartesiane. Tanto nei paesi ricchi quanto in quelli poveri la domanda di riforma dell'assistenza sanitaria nazionale è caratterizzata da una serie di richieste: un equo accesso alle merci della corporazione, uno sviluppo dell'intervento professionale e la creazione di una serie di sottoprofessioni, una maggiore veridicità nella reclamizzazione del progresso, e un controllo laico sul tempio di Tantalo. E facile che il dibattito in corso sulla crisi sanitaria venga usato per convogliare ancora più potere, prestigio e denaro verso gli ingegneri e i programmatori biomedici.

Abbiamo ancora qualche anno di tempo per evitare che il dibattito porti a rafforzare un sistema frustrante. E possibile orientare la discussione in maniera diversa, mettendo al centro di essa la nemesi. Per trovare la spiegazione della nemesi occorre infatti prendere in esame simultaneamente tanto gli aspetti tecnici della medicina quanto quelli non tecnici, che la medicina venga vista sia come industria sia come religione. La denuncia dell'aspetto di hubris istituzionale della medicina fa venire alla luce precisamente quelle illusioni personali che tengono aggiogato all'assistenza sanitaria anche chi la critica.

Il fatto di percepire e comprendere la nemesi permette così di orientarsi verso scelte politiche idonee a spezzare quel cerchio magico delle querele che oggi finiscono per ribadire la dipendenza del querelante dagli organi di programmazione e gestione della salute da lui messi sotto accusa. Il riconoscimento della nemesi può costituire la catarsi che ponga le premesse di una rivoluzione non violenta nel nostro modo di considerare il male e la sofferenza. L'alternativa a una guerra contro queste avversità è la ricerca della pace dei forti.

La salute esprime un processo di adattamento. E il risultato non dell'istinto, ma di una risposta autonoma e vitale a una realtà vissuta. Denota la capacità di adattarsi al mutare degli ambienti, di crescere e d'invecchiare, di guarire quando si sta male, di soffrire e di attendere serenamente la morte. La salute abbraccia anche il futuro, e quindi include l'angoscia e le risorse interiori per accettarla.

La fragilità, l'individualità e le connessioni dell'uomo, se vissute consapevolmente, fanno dell'esperienza del dolore, della malattia e della morte una parte integrante della sua vita. La capacità di affrontare questo trio in modo autonomo è essenziale alla sua salute. Nella misura in cui si rimette a una amministrazione tecnica della propria intimità, egli rinuncia a questa autonomia e la sua salute non può non scadere. Il vero miracolo della medicina moderna è di natura diabolica: consiste nel far sopravvivere non solo singoli individui, ma popolazioni intere, a livelli di salute personale disumanamente bassi. Che la salute non possa se non scadere col crescere della somministrazione di assistenza è una cosa imprevedibile solo per l'amministratore sanitario, proprio perché le strategie che questi persegue sono frutto della sua cecità al carattere inalienabile della salute.

Il livello della sanità pubblica corrisponde al modo in cui i mezzi e la responsabilità per far fronte alle malattie sono distribuiti fra tutta la popolazione. Questa capacità può essere potenziata ma mai surrogata dall'intervento medico sulla vita delle persone o sulle caratteristiche igieniche dell'ambiente. Le condizioni migliori per la salute le offrirà quella società che ridurrà al minimo l'intervento professionale. Quanto maggiore sarà negli individui il potenziale di adattamento autonomo a se stessi, agli altri e all'ambiente, tanto meno sarà necessaria o tollerata una gestione tecnica ditale adattamento.

Proporsi il ricupero di un atteggiamento sano nei confronti della malattia non è da luddisti né da romantici né da utopisti: è un ideale che non sarà mai realizzato del tutto, ma che, con i mezzi moderni, può essere raggiunto come mai nella storia e che deve comunque orientare le scelte politiche se non si vuole che la nemesi dilaghi.

 

Energia ed equità

La prima stesura di questo saggio apparve su “ Le Monde ” all'inizio del 1973. Nell'accettarne il testo il venerando direttore del giornale suggerì, mentre pranzavamo insieme a Parigi, un unico cambiamento: gli pareva che un'espressione tecnica poco nota come “ crisi energetica ” fosse fuori luogo nella frase iniziale d'un articolo ch'egli intendeva stampare in prima pagina. Riguardando ora il saggio, mi colpisce la rapidità con cui in appena cinque anni sono cambiati il linguaggio e i temi; ma altrettanto mi colpisce il lento e però costante aumento di coloro che si schierano in favore dell'alternativa radicale alla società industriale, cioè per la modernità conviviale a basso consumo di energia.

In questo saggio io sostengo che, in determinate circostanze, una tecnologia incorpora a tal punto i valori della società per la quale fu inventata, che questi valori finiscono col dominare in ogni società che poi applichi la medesima tecnologia. La struttura materiale dei mezzi di produzione può dunque incorporare irrimediabilmente un pregiudizio di classe. La tecnologia ad alto contenuto di energia, almeno nella sua applicazione al traffico, ne è un chiaro esempio.

Ovviamente, si tratta di una tesi che mina la legittimità di quei professionisti che monopolizzano l'esercizio di tali tecnologie. Essa riesce particolarmente sgradita a coloro che, all'interno delle professioni, cercano di servire la collettività usando la fraseologia della lotta di classe col proposito di sostituire ai “ capitalisti ”, che ora governano la politica delle istituzioni, professionisti o anche profani ma che accettino i criteri di giudizio professionali. Principalmente per influenza di questi professionisti “ radicali ”la mia tesi, dapprima accolta come una stranezza, in appena cinque anni è diventata un'eresia che attira un bombardamento di ingiurie.

La distinzione che qui viene avanzata non è tuttavia una novità. Io contrappongo degli strumenti che si possono usare per generare valori d'uso ad altri che non sono invece utilizzabili se non per produrre valori di scambio, merci. Ultimamente questa distinzione è stata rimessa in evidenza da una grande varietà di studiosi; di fatto, l'insistenza sulla necessità di un equilibrio tra strumenti conviviali e strumenti industriali è l'elemento comune che caratterizza un'emergente concordanza tra i gruppi impegnati su posizioni politiche radicali. Una magnifica guida bibliografica su questo argomento è stata pubblicata nel volume Radicai Technology (Londra e New York 1976) dai redattori di “ Undercurrents ”. Valentino Borremans ha redatto, ad uso dei bibliotecari, una guida alle pubblicazioni esistenti sugli strumenti moderni orientati verso la produzione di valori d'uso (Guide to convivial tools, vol. 130 della serie Special Reports del “ Library Journal ”, Bowker Company, New York 1979). La tesi specifica sulle soglie di energia socialmente critiche nel campo del trasporto da me esposta in questo saggio, è stata sviluppata e documentata dai colleghi Jean-Pierre Dupuy e Jean Robert in due libri che hanno scritto assieme: La trahison de l'opulence (Parigi 1976) e Les chronophages (Parigi 1978).


La crisi energetica

Da qualche tempo è venuto di moda parlare di un'imminente crisi energetica. Questo eufemismo occulta una contraddizione e consacra un'illusione. Maschera la contraddizione che è implicita nel perseguire assieme l'equità e lo sviluppo industriale; fa salva l'illusione che la potenza della macchina possa sostituire indefinitamente il lavoro dell'uomo. Per superare la contraddizione e dissolvere l'illusione, è urgente chiarire quella realtà che viene oscurata dal linguaggio della crisi: e la realtà è che elevati quanta di energia degradano le relazioni sociali con la stessa ineluttabilità con cui distruggono l'ambiente fisico.

Coloro che parlano di crisi energetica credono in una particolare idea dell'uomo e continuano a propagarla. Secondo questa concezione l'uomo nasce, e resta per tutta la vita, dipendente da schiavi che deve faticosamente imparare a dominare. Se non dispone di prigionieri, ha bisogno di macchine che compiano gran parte del suo lavoro. Si può misurare il benessere d'una società, secondo tale dottrina, dal numero degli anni che i suoi membri hanno trascorso a scuola e dal numero degli schiavi energetici che hanno così imparato a governare. Questa convinzione è comune a tutte le contrastanti ideologie economiche attualmente in voga. E’ messa in pericolo dalle evidenti iniquità, molestie e impotenze che si manifestano ovunque quando le orde voraci degli schiavi energetici superano oltre un certo rapporto il numero delle persone. La crisi energetica concentra le preoccupazioni sulla scarsità del foraggio disponibile per questi schiavi. Io preferisco chiedermi se gli uomini liberi hanno bisogno di essi.

Gli indirizzi di politica energetica che verranno adottati nel decennio in corso determineranno la portata e il carattere delle relazioni sociali che una società potrà avere nell'anno 2000. Una politica di bassi consumi di energia permette un'ampia scelta di stili di vita e di culture. Se invece una società opta per un elevato consumo di energia, le sue relazioni sociali non potranno che essere determinate dalla tecnocrazia e saranno degradanti comunque vengano etichettate, capitaliste o socialiste.

In questo momento le società, specie quelle povere, sono per lo più ancora libere di seguire nel campo dell'energia uno di questi tre indirizzi: possono identificare il benessere con un forte consumo energetico pro capite, o con il conseguimento di un'elevata efficienza nella trasformazione dell'energia, oppure ancora con il minor uso possibile di energia meccanica da parte dei membri più potenti della società. Il primo orientamento punterebbe su una gestione rigida di combustibili rari e distruttivi a vantaggio dell'industria, mentre il secondo metterebbe l'accento su una riattrezzatura dell'apparato industriale nell'interesse del risparmio termodinamico. Questi due primi atteggiamenti comportano ingenti investimenti pubblici e un accentuato controllo sociale; entrambi giustificano 1'avvento di un Leviatano computerizzato, e sono oggi contestati da più parti.

La possibilità di una terza scelta è percepita da ben pochi. Mentre si è cominciato ad accettare, come condizione per sopravvivere fisicamente, qualche limitazione ecologica al consumo energetico massimo pro capite, non si arriva ancora a vedere nell'impiego del minimo possibile di potenza il fondamento di una varietà di ordinamenti sociali che sarebbero tutti moderni quanto desiderabili. E tuttavia solo stabilendo un tetto all'uso di energia si possono ottenere rapporti sociali che siano contraddistinti da alti livelli di equità L'unica scelta attualmente trascurata è la sola che sia alla portata di ogni nazione. E’ pure la sola strategia che permetta di usare una procedura politica per porre limiti al potere anche del più motorizzato dei burocrati. La democrazia partecipativa postula una tecnologia a basso livello energetico; e solo la democrazia partecipativa crea le condizioni per una tecnologia razionale.

Ciò che in genere si perde' di vista è che l'equità e l'energia possono crescere parallelamente solo sino a un certo punto. Al di sotto di una certa soglia di watt pro capite, i motori forniscono condizioni migliori per il progresso sociale. Al di sopra di quella soglia, l'energia cresce a spese dell'equità. Ogni sovrappiù di energia significa allora un restringimento del controllo sull'energia stessa.

La diffusa convinzione che un'energia pulita e abbondante sarebbe la panacea di tutti i mali sociali è dovuta a un inganno politico, secondo cui l'equità e il consumo d'energia possono stare in correlazione all'infinito, almeno in certe condizioni politiche ideali. Vittime di questa illusione, tendiamo a ignorare qualunque limite sociale della crescita del consumo energetico. Ma se hanno ragione gli ecologi ad affermare che la potenza non metabolica è inquinante, è di fatto altrettanto inevitabile che, al di là d'una certa soglia, la potenza meccanica produca guasti. La soglia oltre la quale comincia la disgregazione sociale indotta da alti quanta di energia non coincide con quella dove la trasformazione dell'energia comincia a produrre distruzione fisica; espressa in cavalli-vapore, è sicuramente più bassa.. E’questo il fatto che va riconosciuto in via teorica perché si possa affrontare sul piano politico il problema del wattaggio pro capite che la società deve porre come limite ai propri membri.

Anche ammettendo che una potenza non inquinante sia ottenibile e in abbondanza, resta il fatto che l'impiego di energia su scala di massa agisce sulla società al pari di una droga fisicamente innocua ma assoggettante per la psiche. Una collettività può scegliere tra il Metadone e la disintossicazione, tra il restare dipendente da un'energia estranea e il liberarsene con spasmi dolorosi: ma nessuna può avere una popolazione che sia incatenata a un sempre maggior numero di schiavi energetici e che nello stesso tempo sia fatta di individui autonomamente attivi.

In altri scritti ho mostrato come, al di là d'un certo livello di PNL pro capite, il costo del controllo sociale non possa che aumentare più in fretta del prodotto globale, diventando la principale attività istituzionale all'interno di una economia. La terapia somministrata dagli educatori, dagli psichiatri e dagli assistenti sociali non può che convergere verso i medesimi obiettivi dei pianificatori, dei managers e dei venditori, e divenire complementare ai servizi degli organi di sicurezza, delle forze armate e della polizia. Qui vorrei ora indicare uno dei motivi per cui l'aumento della ricchezza impone un più accentuato controllo sociale. Sostengo che, al di là di una certa mediana del livello di energia pro capite, il sistema politico e il contesto culturale di una società non possono che degradarsi. Una volta oltrepassato il quantum critico di energia pro capite, è ineluttabile che le garanzie giuridiche dell'iniziativa personale e concreta vengano soppiantate dall'educazione agli astratti obiettivi di una burocrazia. Questo quantum segna il limite dell'ordine sociale.

Intendo qui sostenere che la tecnocrazia prevale necessariamente non appena il rapporto tra potenza meccanica ed energia metabolica oltrepassa una soglia precisa e riconoscibile. L'ordine di grandezza entro cui si trova questa soglia è in buona parte indipendente dal livello della tecnologia applicata; tuttavia, nei paesi ricchi e in quelli medio-ricchi, la sua stessa esistenza è finita nel punto cieco dell'immaginazione sociale. Tanto gli Stati Uniti quanto il Messico hanno superato questa linea di demarcazione; in entrambi i paesi, ad ogni nuova aggiunta di energia si aggravano l'ineguaglianza, l'inefficienza e l'impotenza delle persone. Benché un paese abbia un reddito pro capite di soli 500 dollari e l'altro di oltre 5000, gli enormi interessi costituiti dell’infrastruttura industriale spingono entrambi ad accrescere sempre più il consumo di energia. Una conseguenza è che sia gli ideologi statunitensi sia quelli messicani chiamano “ crisi energetica ” la loro frustrazione, ed entrambi i paesi non riescono a vedere che la minaccia di collasso sociale non deriva né da carenza di combustibile né dal modo dilapidatorio, inquinante e irrazionale con cui viene impiegata la potenza disponibile, bensì dal continuo sforzo dell'industria rivolto a ingozzare la società con quantitativi di energia che inevitabilmente degradano, depauperano e frustrano la maggioranza della gente.

Un popolo può essere altrettanto pericolosamente ipernutrito dalla potenza dei propri strumenti quanto dal contenuto calorico dei propri cibi, ma è assai più difficile riconoscere un debole nazionale per i watt che non per una dieta malsana. Il wattaggio pro capite che segna il punto critico per il benessere sociale sta entro un ordine di grandezza che è assai superiore alla quantità di cavalli-vapore nota ai quattro quinti dell'umanità e assai inferiore alla potenza controllata da chi guidi una Volkswagen. Non se ne rende conto né il sottoconsumatore né il sovraconsumatore. Né l'uno né l'altro è disposto a guardare in faccia la realtà Per quanto riguarda il primitivo, l'eliminazione della schiavitù e della fatica più ingrata dipende dall'introduzione di un'adeguata tecnologia moderna, mentre quanto al ricco l'evitare una degradazione ancor più spaventosa dipende dall'efficace riconoscimento di una soglia nel consumo energetico oltre la quale i processi tecnici cominciano a determinare le relazioni sociali. Sia dal punto di vista biologico sia da quello sociale, le calorie sono benefiche solo fin quando rimangono entro lo stretto margine che separa l'abbastanza dal troppo.

La cosiddetta crisi energetica è dunque un concetto politicamente ambiguo. L'interesse pubblico ai quanta di energia e alla distribuzione del controllo sul loro impiego può portare in due direzioni opposte. Da una parte si possono porre domande suscettibili di aprire la via a una ricostruzione politica sbloccando la ricerca di un'economia post-industriale ad alta intensità di lavoro, a basso contenuto di energia e ad alto grado di equità. Dall'altra parte l'isterico affanno per l'alimentazione delle macchine può dare un ulteriore impulso all'attuale sviluppo istituzionale a forte intensità di capitale e portarci al di là dell'ultima curva che ci separa da un Armageddon iperindustriale. La ricostruzione politica presuppone il riconoscimento del fatto che esistono dei quanta pro capite critici, superati i quali l'energia non è più controllabile per via politica. Dall'altro canto, le restrizioni ecologiche al consumo energetico globale imposte da pianificatori di mentalità industriale inclini a mantenere la produzione delle industrie a un ipotetico livello massimo non potrebbero che sfociare nell'imposizione d'una gigantesca camicia di forza all'intera società.

I paesi ricchi come gli Stati Uniti, il Giappone o la Francia potranno forse non arrivare mai al punto di soffocare tra i propri rifiuti, ma solo perché già prima queste società saranno sprofondate in un coma dell'energia socioculturale. Paesi come l'India, la Birmania e, almeno ancora per qualche tempo, la Cina hanno invece tuttora una potenza muscolare sufficiente a prevenire un infarto energetico; sarebbero in condizione di scegliere, adesso, di rimanere entro quei limiti ai quali i ricchi saranno costretti a tornare passando per la perdita completa delle loro libertà.

Scegliere un'economia a contenuto minimo di energia costringe il povero a rinunciare alle attese fantastiche e il ricco a riconoscere nei propri interessi costituiti una passività tremenda. Entrambi devono rifiutare l'immagine funesta dell'uomo come schiavista, attualmente promossa da una fame di maggiori risorse energetiche che è stimolata da motivi ideologici. Nei paesi giunti all'opulenza grazie allo sviluppo industriale, la crisi energetica serve da pretesto per aumentare il prelievo fiscale necessario per sostituire nuovi procedimenti industriali, più “ razionali ”e socialmente ancor più micidiali, a quelli resi obsoleti da una superespansione inefficiente. Per i dirigenti dei popoli non ancora dominati dal medesimo processo di industrializzazione, la crisi energetica rappresenta un imperativo storico che ordina di accentrare la produzione, l'inquinamento e il loro controllo, in un estremo tentativo di raggiungere le nazioni più potenti. Esportando la loro crisi e predicando il nuovo verbo del culto puritano dell'energia, i ricchi arrecano ai poveri ancora più danno di quanto ne arrecassero vendendogli i prodotti delle loro vecchie fabbriche. Nel momento in cui un paese povero sposa l'idea che una maggiore quantità di energia più attentamente gestita darà sempre come risultato un maggior volume di beni per più persone, quel paese si chiude nella gabbia dell'asservimento al massimo sviluppo del prodotto industriale. E’ inevitabile che i poveri perdano la possibilità di optare per una tecnologia razionale una volta deciso di modernizzare la loro povertà accrescendo la propria dipendenza dall'energia. Inevitabilmente i poveri si precludono qualunque tecnologia liberatrice e qualunque politica partecipativa allorché, insieme al massimo possibile di impieghi energetici, accettano e non possono non accettare il massimo possibile di controllo sociale.

La crisi energetica non si può superare con un sovrappiù di energia. Si può soltanto dissolverla, insieme con l'illusione che fa dipendere il benessere dal numero di schiavi energetici che un uomo ha sotto di sé. A questo scopo, è necessario identificare le soglie al di là delle quali l'energia produce guasti, e farlo attraverso un processo politico che impegni tutta la comunità nella ricerca di tali limiti. Poiché questo tipo di ricerca va in senso opposto a quella che viene svolta oggi dagli esperti e per conto delle istituzioni, io continuerò a chiamarla contro-ricerca. Essa si compone di tre fasi: in primo luogo bisogna riconoscere sul piano teorico come imperativo sociale la necessità di porre dei limiti al consumo di energia pro capite; quindi bisogna individuare la fascia entro la quale potrebbe trovarsi la grandezza critica; infine bisogna che ciascuna comunità metta in luce la somma di iniquità, di fastidio e di condizionamento che i suoi membri sono portati a tollerare per avere la soddisfazione di idolatrare potenti congegni e prender parte ai relativi riti diretti dai professionisti che ne regolano il funzionamento.

La necessità di una ricerca politica sui quanta di energia socialmente ottimali è illustrabile in maniera chiara e succinta esaminando il traffico moderno. Gli Stati Uniti investono nei veicoli tra il 25 e il 45 per cento (a seconda dei criteri di calcolo) di tutta l'energia di cui dispongono: per fabbricarli, per farli muovere e per assicurare loro un diritto di passaggio quando scorrono, quando volano e quando sono lasciati in sosta. La maggior parte di questa energia serve a spostare persone immobilizzate con delle cinghie. Al solo scopo di trasportare gente, 250 milioni di americani destinano più combustibile di quanto ne impiegano 1,3 miliardi di cinesi e di indiani per tutti i loro scopi. Quasi tutto questo combustibile viene bruciato per la danza della pioggia di un'accelerazione dissipatrice di tempo. I paesi poveri spendono meno energia pro capite, ma la percentuale dell'energia assorbita dal traffico in Messico o in Perù è probabilmente superiore a quella degli Stati Uniti, e ne beneficia una fetta più piccola della popolazione. Le dimensioni di questa faccenda permettono di dimostrare in maniera tanto facile quanto significativa, attraverso l'esempio della mobilità personale, come esistano dei quanta di energia socialmente critici.

Nella circolazione, l'energia impiegata in una determinata unità di tempo (potenza) si traduce in velocità. In questo caso, il quantum critico si configurerà come limite della velocità. Ovunque sia stato oltrepassato questo limite, è emerso il disegno essenziale della degradazione sociale dovuta a elevati quanta di energia. Ogni volta che un mezzo pubblico ha superato i 25 chilometri orari, è diminuita l'equità mentre aumentava la penuria sia di tempo che di spazio. Il trasporto a motore ha monopolizzato il traffico, bloccando il movimento alimentato dall'energia corporea (che chiamerò “ transito ”).In tutti i paesi occidentali, nel giro di cinquant'anni dall'inaugurazione della prima ferrovia, il numero dei chilometri/passeggero coperti con tutti i mezzi di trasporto si è moltiplicato per cento. Quando il rapporto tra le rispettive erogazioni di potenza ha oltrepassato un certo valore, i trasformatori meccanici di combustibili minerali hanno tolto alla gente la possibilità di usare la propria energia metabolica, costringendola a diventare consumatrice forzata di mezzi di trasporto. A questo effetto esercitato dalla velocità sull'autonomia degli individui, contribuiscono solo marginalmente le caratteristiche tecniche dei veicoli a motore oppure le persone o gli enti che di fronte alla legge risultano responsabili delle aviolinee, delle ferrovie, degli autobus o delle automobili: è l'alta velocità il fattore critico che rende socialmente distruttivo il trasporto. Una vera scelta tra indirizzi pratici e di relazioni sociali desiderabili è possibile solo laddove la velocità sia sottoposta a restrizioni. La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta1.


L'industrializzazione del traffico

Prima di esaminare come l'energia viene impiegata per lo spostamento delle persone, occorre distinguere formalmente quelle che sono le due componenti del traffico: il transito e il trasporto. Intendo per traffico qualsiasi spostamento delle persone da un luogo all'altro quando sono fuori casa; per transito, come già accennato, intendo quegli spostamenti che fanno uso dell'energia metabolica umana, e per trasporto quelli che si avvalgono di altre fonti di energia. Per l'avvenire queste fonti saranno per lo più motori, dato che gli animali fanno ormai a gara con gli uomini nel morir di fame in un mondo sovrappopolato, a meno che, come l'asino e il cammello, non si nutrano di cardi.

Appena si arriva a dipendere dal trasporto, non solo per i viaggi che durano parecchi giorni ma per gli spostamenti quotidiani, diventano acutamente palesi le contraddizioni tra la giustizia sociale e la potenza motorizzata,. tra il movimento efficace e l'alta velocità, tra la libertà personale e l'itinerario preordinato. Là dipendenza forzata dalle macchine automobili nega allora a una collettività di persone semoventi proprio quei valori che i potenziati mezzi di trasporto dovrebbero in teoria garantire.

La gente si muove bene con le proprie gambe. Questo mezzo primitivo per spostarsi apparirà, a un’analisi appena attenta, assai efficace se si fa un confronto con la sorte di chi vive nelle città moderne o nelle campagne industrializzate. E riuscirà particolarmente suggestivo quando ci si renda conto che l’americano d’oggi, in media, percorre a piedi - per lo più in tunnel, corridoi, parcheggi e supermercati tanti chilometri quanti ne percorrevano i suoi antenati. Coloro che vanno a piedi sono più o meno uguali. Chi dipende esclusivamente dalle proprie gambe, si sposta secondo lo stimolo del momento, a una velocità media di cinque o sei chilometri l'ora, in qualunque direzione e per andare in qualsiasi posto che non gli sia legalmente o materialmente precluso. Ci si aspetterebbe che ogni miglioramento di tale mobilità connaturata prodotto da una nuova tecnologia del trasporto salvaguardi quei valori e ne aggiunga degli altri, come un maggior raggio d'azione, risparmio di tempo, comodità, maggiori possibilità per i menomati. Sinora non è questo ciò che è accaduto. Anzi, lo sviluppo dell'industria del trasporto ha avuto dappertutto l'effetto opposto. Questa industria, da quando le sue macchine hanno potuto mettere dietro ogni passeggero più d'un certo numero di cavalli-vapore, ha diminuito l'eguaglianza tra gli uomini, ha vincolato la loro mobilità a una rete di percorsi disegnata con criteri industriali e ha creato una penuria di tempo d'una gravità senza precedenti. Appena la velocità dei loro veicoli varca una certa soglia, i cittadini diventano consumatori di trasporto nel giro dell'oca quotidiano che li riporta a casa, un circuito che gli uffici di statistica chiamano “ spostamento ” per distinguerlo dal vero “ viaggio ” che si ha quando il cittadino, uscendo di casa, si munisce d'uno spazzolino da denti.

Alimentare con più energia il sistema di trasporto vuol dire che ogni giorno un numero maggiore di persone si muove più velocemente su distanze superiori. Il raggio quotidiano di ognuno si estende a scapito della possibilità di imbattersi in un amico o di passare per il parco andando al lavoro. Si creano punte estreme di privilegio con l'asservimento generale. Una élite accumula distanze incalcolabili in tutta una vita di viaggi circondati da premure, mentre la maggioranza spende una fetta sempre maggiore della propria esistenza in spostamenti non voluti. Alcune poche persone viaggiano su tappeti magici fra punti remoti che la loro effimera presenza fa apparire rari e insieme allettanti, mentre tutti gli altri sono costretti a spostarsi sempre di più e sempre più in fretta sui medesimi tragitti e a perdere sempre più tempo per prepararsi a questi spostamenti e poi per riaversene.

Negli Stati Uniti i quattro quinti delle ore/persona passate sulle strade sono di gente che fa la spola tra casa, posto di lavoro e supermercato e che non sale quasi mai su un aereo; mentre i quattro quinti delle miglia percorse in volo per recarsi a congressi e in luoghi di villeggiatura sono coperti ogni anno da un costante 1,5 per cento della popolazione, di solito benestanti o gente che si tratta bene per condizionamento professionale. Quanto più veloce è il veicolo, tanto più consistente è il sussidio che riceve da una tassazione regressiva. Appena lo 0,2 per cento della popolazione degli Stati Uniti può decidere per proprio conto di viaggiare in aereo più di una volta all'anno, e pochi altri paesi possono permettersi un jet set così numeroso.

Sia lo schiavo degli spostamenti quotidiani sia il viaggiatore impenitente si trovano a dipendere dal trasporto: né l'uno né l'altro possono farne a meno. Un volo occasionale ad Acapulco o a un congresso di partito fa credere al passeggero ordinario di essere finalmente entrato nel mondo ristretto di coloro che si muovono ad alta velocità. La possibilità occasionale di trascorrere qualche ora legato con una cinghia al proprio sedile su un veicolo ultrapotente fa di lui un complice della distorsione dello spazio umano e lo induce ad accettare che la geografia del suo paese venga modellata in funzione dei veicoli anziché delle persone. L'uomo si è evoluto fisicamente e culturalmente insieme con la sua nicchia cosmica. Ciò che per gli animali non è che l'ambiente, egli ha imparato a trasformarlo in propria dimora. La sua autocoscienza richiede il complemento di uno spazio vitale e di un tempo di vita integrati dal ritmo col quale egli si muove. Se questo rapporto viene determinato dalla velocità dei veicoli anziché dal movimento delle persone, l'uomo-architetto si riduce al livello di un mero pendolare.

L'americano tipo dedica ogni anno alla propria auto più di 1600 ore: ci sta seduto, in marcia e in sosta; la parcheggia e va a prenderla; si guadagna i soldi occorrenti per l'anticipo sul prezzo d'acquisto e per le rate mensili; lavora per pagare la benzina, i pedaggi dell'autostrada, l'assicurazione, il bollo, le multe. Ogni giorno passa quattro delle sue sedici ore di veglia o per la strada o occupato a mettere insieme i mezzi che l'auto richiede. E questa cifra non comprende il tempo speso in altre occupazioni imposte dal trasporto: quello che si trascorre in ospedale, in tribunale e in garage; quello che si passa guardando alla televisione i caroselli sulle automobili, scorrendo pubblicazioni specializzate, partecipando a riunioni per l'educazione del consumatore in modo da saper fare un acquisto migliore alla prossima occasione. L'americano tipo investe queste 1600 ore per fare circa 12.000 chilometri: cioè appena sette chilometri e mezzo per ogni ora. Nei paesi dove non esiste un'industria del trasporto, la gente riesce a ottenere lo stesso risultato andando a piedi dovunque voglia, e il traffico assorbe dal 3 all'8 per cento del tempo sociale, anziché il 28 per cento. Ciò che distingue il traffico dei paesi ricchi da quello dei paesi poveri, per quanto riguarda i più, non è un maggior chilometraggio per ogni ora di vita, ma l'obbligo di consumare in forti dosi l'energia confezionata e disegualmente distribuita dall'industria del trasporto.


L'immaginazione intontita dalla velocità

Superata una certa soglia di consumo d'energia, l'industria del trasporto detta la configurazione dello spazio sociale. Le autostrade si espandono, ficcando cunei tra i vicini e spostando i campi oltre la distanza che un contadino può percorrere a piedi. Le ambulanze spingono le cliniche al di là dei pochi chilometri in cui è possibile portare in braccio un bambino malato. Il medico non viene più a casa perché i veicoli hanno fatto dell'ospedale il posto più giusto per stare malati. Basta che dei camion pesanti si arrampichino fino a un villaggio delle Ande perché sparisca una parte del mercato locale. Poi, quando nella plaza arriva la scuola media insieme con la strada asfaltata, sono sempre più numerosi i giovani che si trasferiscono in città, finché non rimane più una sola famiglia che non sogni di ricongiungersi con qualcuno, laggiù, a centinaia di chilometri, lungo la costa.

A velocità uguali corrispondono effetti ugualmente distorsivi sulla percezione dello spazio, del tempo e delle potenzialità personali, nei paesi ricchi come in quelli poveri, per differenti che possano essere le apparenze superficiali. Dappertutto l'industria del trasporto foggia un nuovo tipo d'uomo adatto alla nuova geografia e ai nuovi tempi che essa fabbrica. La differenza tra il Guatemala e il Kansas è che nell'America centrale alcune province non hanno ancora preso contatto con i veicoli e perciò non sono ancora degradate dall'asservimento a essi.

Il prodotto dell'industria del trasporto è il passeggero abituale. Costui è stato catapultato fuori del mondo in cui la gente continua a muoversi da sé, e ha perso la sensazione di stare al centro del proprio mondo. Il passeggero abituale è conscio dell'esasperante mancanza di tempo provocata dal quotidiano ricorso all'auto, al treno, all'autobus, alla metropolitana e all'ascensore, che lo costringono a percorrere in media trenta e più chilometri al giorno, spesso intersecando il proprio cammino, entro un raggio di otto chilometri. E’ stato sollevato per aria. Sia che vada in metropolitana o in jet, si sente sempre più lento e più povero di qualcun altro e pensa con rabbia ai pochi privilegiati che possono prendere delle scorciatoie riuscendo così a non subire la frustrazioni del traffico. Se è bloccato dagli orari del suo treno per pendolari, sogna un'automobile. Se è in automobile, sfinito dall'ora di punta, invidia il capitalista di velocità che corre contromano. Se deve pagarsi l'auto di tasca propria, non riesce a dimenticare che i comandanti delle flotte aziendali girano alla ditta le fatture della benzina e mettono sul conto spese le macchine prese a nolo. Il passeggero abituale è il più esasperato di tutti dalla crescente ineguaglianza, dalla penuria di tempo e dall'impotenza personale, ma non vede altra via d'uscita da questo pasticcio che non sia chiedere una dose maggiore della medesima droga: cioè più traffico con mezzi di trasporto. Aspetta la sua salvezza da innovazioni tecniche nella concezione dei veicoli e delle strade e da una diversa regolamentazione degli orari; oppure spera in una rivoluzione che crei un sistema di trasporto veloce di massa gestito dalla collettività. Né in un caso né nell'altro calcola quanto costi farsi portare in un futuro migliore. Dimentica che sarà sempre lui a pagare il conto, sotto forma di tasse o di tariffe. Trascura i costi occulti che comporta la sostituzione delle auto private con trasporti pubblici egualmente rapidi.

Il passeggero abituale non riesce ad afferrare la follia di un traffico basato in misura preponderante sul trasporto. Le sue percezioni ereditarie dello spazio, del tempo e del ritmo personale sono state deformate dall'industria. Ha perso la capacità di concepire se stesso in un ruolo che non sia quello del passeggero. Drogato dal trasporto, non ha più coscienza dei poteri fisici, psichici e sociali che i piedi di un uomo posseggono. E’ arrivato a prendere per un territorio quel paesaggio sfuggente attraverso il quale viene precipitato. Non è più capace di crearsi un proprio dominio, di dargli la propria impronta e di affermarvi la propria sovranità. Non ha più fiducia nel suo potere di ammettere altri alla propria presenza e di dividere consapevolmente con loro lo spazio. Non sa più affrontare da solo le distanze. Lasciato a se stesso, si sente immobile.

Per sentirsi sicuro in uno strano mondo in cui tanto le liaisons quanto la solitudine sono prodotti dei mezzi di trasporto, il passeggero abituale deve adottare una nuova serie di credenze e di aspettative. “Incontrarsi” significa per lui essere collegati dai veicoli. Giunge a credere che il potere politico discenda dalla portata di un sistema di trasporto o, in sua assenza, sia il risultato dell'accesso allo schermo televisivo. Ritiene che la libertà di movimento consista in un diritto alla propulsione. Crede che il livello della democrazia sia in correlazione con la potenza dei sistemi di trasporto e di comunicazione. Non ha più fede nel potere politico delle gambe e della lingua. Di conseguenza non vuol essere maggiormente libero come cittadino, ma essere meglio servito come cliente. Non tiene alla propria libertà di muoversi e di parlare alla gente, ma al suo diritto di essere caricato e di essere informato dai media. Vuole un prodotto migliore, non vuole liberarsi dall'asservimento ai prodotti. E’ dunque indispensabile ch'egli riesca a comprendere che l'accelerazione da lui ambita è frustrante e non può che portare a un ulteriore declino dell'equità, del tempo libero e dell'autonomia.


Trasferimento netto di vita

La velocità incontrollata è costosa, e sono sempre meno quelli che possono permettersela. Ad ogni incremento della velocità di un veicolo cresce il costo della propulsione e della rete stradale e - cosa più drammatica di tutte - aumenta lo spazio che il veicolo divora col suo movimento. Oltrepassata una certa soglia nel consumo di energia per i passeggeri più veloci, si crea una struttura di classe, su scala mondiale, di capitalisti di velocità. Il valore di scambio del tempo diviene dominante, rispecchiandosi anche nella lingua: il tempo si spende, si risparmia, s'investe, si spreca, s'impiega. Quando una società segna un prezzo sul tempo, tra l'equità e la velocità veicolare si stabilisce una correlazione inversa.

L'alta velocità capitalizza il tempo di poche persone a un tasso spropositato, ma paradossalmente lo fa deprezzando il tempo di tutti gli altri. A Bombay solo pochissime persone posseggono un'auto; esse possono raggiungere in una mattinata la capitale d'una provincia e fare questo tragitto una volta la settimana. Due generazioni addietro ci sarebbe voluta un'intera settimana per lo stesso viaggio, ch'era possibile solo una volta l'anno. Adesso spendono una quantità maggiore di tempo per un maggior numero di spostamenti. Ma quelle stesse poche persone, con le loro auto, scompigliano il flusso di traffico delle migliaia di biciclette e di taxi a pedali che circolano nel centro della città a una velocità effettiva tuttora superiore a quella possibile nel centro di Parigi, Londra o New York. La spesa complessiva di tempo assorbita dal trasporto in una società cresce assai più in fretta del risparmio di tempo conseguito da un'esigua minoranza nelle sue veloci escursioni. Il traffico aumenta all'infinito quando diventano disponibili mezzi di trasporto ad alta velocità. Al di là d'una soglia critica, l'output del complesso industriale costituitosi per spostare la gente costa alla società più tempo di quello che fa risparmiare. L'utilità marginale dell'aumento di velocità d'un piccolo numero di persone ha come prezzo la crescente disutilità marginale di questa accelerazione per la grande maggioranza.

Oltre una velocità critica, nessuno può risparmiare tempo senza costringere altri a perderlo. Colui che pretende un posto su un veicolo più rapido sostiene di fatto che il proprio tempo vale più di quello del passeggero di un veicolo più lento. Oltre una certa velocità, i passeggeri diventano consumatori del tempo altrui, e per mezzo dei veicoli più veloci si effettua un trasferimento netto di tempo di vita. L'entità di tale trasferimento si misura in quanta di velocità Questa corsa al tempo depreda coloro che rimangono indietro e, poiché questi sono la maggioranza, pone problemi etici d'ordine più generale della lotteria che distribuisce dialisi renali o trapianti di organi.

Oltre una certa velocità i veicoli a motore creano distanze che soltanto loro possono ridurre. Creano distanze per tutti, poi le riducono soltanto per pochi. Una nuova strada aperta nel deserto brasiliano mette la città a portata di vista, ma non di mano, della maggioranza dei contadini poveri. La nuova superstrada ingrandisce Chicago, ma risucchia chi è ben carrozzato lontano dal centro, che degenera in ghetto.

Contrariamente a quanto spesso si afferma, la velocità dell'uomo è rimasta invariata dall'età di Ciro fino a quella del vapore. Con qualunque mezzo venisse portato il messaggio, le notizie non potevano viaggiare a più di centosettanta chilometri al giorno. Né i corrieri inca, né le galee veneziane, né i cavalieri persiani, né i servizi di diligenza istituiti sotto Luigi XIV superarono mai questa barriera. I soldati, gli esploratori, i mercanti, i pellegrini percorrevano al massimo trenta chilometri al giorno. Per dirla con Valéry, Napoleone era ancora costretto al passo lento di Cesare: Napoléon va à la méme lenteur que César. L'imperatore sapeva che on mesure la prospérité publique aux comptes des diligences (“la prosperità pubblica si misura dagli incassi delle diligenze ”), ma poteva fare ben poco per sveltirle. Per andare da Parigi a Tolosa ci volevano ai tempi dei romani circa duecento ore; nel 1740, prima che si aprissero le nuove strade regie, la diligenza ce ne metteva ancora 158.Solo l'Ottocento accelerò l'uomo. Nel 1830 la durata del viaggio era scesa a 110 ore, ma con un nuovo costo: in quello stesso anno si ribaltarono in Francia 4150 diligenze, causando la morte di più di mille persone. Poi la ferrovia provocò un brusco mutamento. Nel 1855 Napoleone III sosteneva di aver toccato i 96 chilometri orari viaggiando in treno da Parigi a Marsiglia. Nel giro di una generazione la distanza media percorsa annualmente dai francesi aumentò di centotrenta volte, e la rete ferroviaria britannica raggiunse la sua massima espansione. I treni per passeggeri toccarono il costo ottimale, calcolato in termini di tempo dedicato al loro impiego e alla loro manutenzione.

Con l'ulteriore accelerazione, il trasporto cominciò a dettar legge al traffico mentre la velocità erigeva una gerarchia di destinazioni. A questo punto, ogni gruppo di destinazioni corrisponde a uno specifico livello di velocità e definisce una certa classe di passeggeri. Ogni circuito di punti terminali degrada quelli che vengono raggiunti a una media oraria inferiore. Coloro che devono spostarsi con forza propria si trovano riclassificati come emarginati e sottosviluppati. Dimmi a che velocità vai e ti dirò chi sei. Se puoi accaparrare per te le tasse che servono ad alimentare il Concorde, sei sicuramente al vertice.

Nelle ultime due generazioni, il veicolo è diventato simbolo della carriera fatta, come la scuola è diventata simbolo del vantaggio di partenza. Ad ogni nuovo livello, la concentrazione di potenza ha bisogno di trovare l'argomento che la razionalizzi. Così, per esempio, la ragione che di solito viene data a giustificazione del denaro pubblico che si spende per far percorrere a un uomo un maggiore chilometraggio annuo in minor tempo è l'ancor più grande investimento che si è già fatto per tenerlo a scuola un maggior numero di anni. Il suo valore presunto come strumento produttivo ad alto contenuto di capitale determina la tariffa alla quale viene trasportato. Oltre alla “ buona istruzione ”, anche altre etichette ideologiche possono aprire l'accesso a lussi pagati da altri. Se è vero che il Pensiero del Presidente Mao ha ora bisogno di aerei a reazione per diffondersi in Cina, questo può voler dire soltanto che per alimentare ciò che è diventata la sua rivoluzione sono necessarie due classi, una delle quali vive nella geografia delle masse, l'altra in quella dei quadri. La soppressione dei livelli di velocità intermedi ha certo reso più efficiente e razionale la concentrazione del potere nella Repubblica popolare, ma sottolinea anche che il tempo dell'uomo che si fa portare dal bufalo ha un valore diverso da quello dell'uomo che si fa trasportare in jet. Inevitabilmente, l'accelerazione concentra i cavalli-vapore sotto le natiche di alcuni pochi e aggrava la crescente penuria di tempo di cui soffre la massa degli altri aggiungendovi la sensazione di stare a rimorchio.

In generale, il fatto che la società industriale distribuisca in maniera ineguale i suoi privilegi viene difeso e dichiarato necessario con un ragionamento a due facce, la cui ipocrisia è messa apertamente in luce dall'esempio dell'accelerazione. Per un verso il privilegio viene accettato come presupposto indispensabile per determinare un miglioramento globale d'una popolazione in aumento, per un altro verso lo si esalta come strumento per elevare il tenore di vita di una minoranza indigente. Come si è visto, alla lunga l'accelerazione del trasporto non fa né l'una né l'altra cosa: genera soltanto una domanda universale di mezzi di trasporto motorizzati e crea distanze prima inimmaginabili tra i vari livelli di privilegio. Oltre un certo punto, più energia significa meno equità.


L'inefficacia dell'accelerazione

Non bisogna perdere di vista il fatto che le velocità di punta accessibili a pochi vengono pagate a un prezzo ben diverso da quello delle velocità elevate accessibili a tutti. La classificazione sociale basata sui livelli di velocità impone un trasferimento netto di potere: i poveri lavorano e pagano per restare indietro. Ma se le classi medie di una società velocistica possono anche far finta di non vedere questa discriminazione, non dovrebbero però ignorare le crescenti disutilità marginali del trasporto e la loro stessa perdita di tempo libero. Le grandi velocità per tutti comportano che ognuno abbia sempre meno tempo per sé man mano che l'intera società dedica allo spostamento della gente una quota sempre più grossa della propria disponibilità di tempo. I veicoli che corrono a una velocità superiore a quella critica non soltanto tendono a imporre ineguaglianza, ma inevitabilmente creano anche un'industria al servizio di se stessa, che nasconde un sistema di locomozione inefficiente sotto una maschera di raffinatezza tecnologica. Io intendo dimostrare che porre un limite alla velocità non è solo necessario per salvaguardare l'equità: è altresì una condizione per accrescere la distanza globale percorsa entro una società diminuendo contemporaneamente il tempo complessivo che il trasporto richiede.

Non si sa molto circa l'impatto dei veicoli sul monte-ore di cui dispongono quotidianamente gli individui e le società2. Da studi dedicati ai trasporti si ricavano dati statistici sul costo tempo/chilometro, ovvero sul valore del tempo espresso in dollari o in lunghezza dei tragitti. Ma statistiche di questo tipo non ci dicono niente riguardo ai costi occulti del trasporto: i frammenti di esistenza rosicchiati dal traffico, lo spazio divorato dai veicoli, la moltiplicazione di spostamenti resa necessaria dalla presenza dei veicoli, il tempo che va perso, direttamente o indirettamente, nel prepararsi alla locomozione. Manca inoltre una valutazione di certi costi ancor più reconditi, quali i fitti relativamente più alti che si pagano per risiedere in zone vicine alle correnti di traffico, o le spese in più che si sopportano per difendere queste zone dal rumore, dall'inquinamento e dai rischi per l'incolumità personale che hanno origine nei veicoli. La mancanza di una contabilità del tempo sociale non deve però farci credere che tale conto sia impossibile, e neanche deve impedirci di trarre conclusioni da quel poco che sappiamo.

Dalle limitate informazioni che abbiamo potuto mettere insieme risulta che in ogni parte del mondo, non appena la velocità di certi veicoli ha superato la barriera dei 25 chilometri orari, ha cominciato ad aggravarsi la penuria di tempo legata al traffico. Una volta che l'industria ha raggiunto questa soglia critica di produzione pro capite, il trasporto ha fatto dell'uomo il fantasma che conosciamo: un assente che giorno dopo giorno si sforza di raggiungere una destinazione che gli è inaccessibile con i soli suoi mezzi fisici. Oggi la gente dedica una parte cospicua della propria giornata lavorativa a guadagnarsi il denaro senza il quale non potrebbe neanche recarsi sul lavoro. Il tempo che una società spende per il trasporto aumenta in misura direttamente proporzionale alla velocità dei mezzi pubblici più rapidi. Il Giappone supera ormai gli Stati Uniti in tutti e due i campi. Il tempo di vita si riempie di attività generate dal traffico non appena i veicoli abbattono la barriera che protegge la gente dalla dislocazione e lo spazio dalla distorsione.

Che poi il veicolo che sfreccia sulla superstrada appartenga allo Stato o a un privato non fa grande differenza: comunque ogni ulteriore aumento di velocità significa un'altra frazione di tempo libero che va perduta e un sovrappiù di programmazione che si deve subire. Gli autobus consumano un terzo del carburante che le automobili bruciano per portare una sola persona per un dato tratto; le ferrovie suburbane sono fino a dieci volte più efficienti delle auto. Autobus e treni potrebbero diventare ancora più efficienti e meno inquinanti; là dove appartengono alla collettività e sono amministrati razionalmente, offrono in genere un servizio, quanto a orari e percorsi, che riduce considerevolmente le sperequazioni create dalla gestione privata o incompetente del trasporto. Ma fin quando un qualunque sistema di trasporto s'imporrà alla gente in forza di velocità di punta sottratte a ogni regolamentazione politica, alla collettività non resterà altra scelta fuorché spendere più tempo per pagare a più persone la possibilità d'essere portate da una stazione all'altra, o pagare meno tasse sicché ancor meno persone possano spostarsi in molto meno tempo su distanze molto maggiori di quanto non sia consentito alla maggioranza. L'ordine di grandezza della velocità di punta ammessa in un sistema di trasporto determina la quota del tempo sociale che l'intera collettività spende per il traffico.


Il monopolio radicale dell'industria

Per discutere fruttuosamente quale tetto sarebbe opportuno fissare alla velocità di spostamento, conviene ritornare sulla distinzione già fatta fra transito autoalimentato e trasporto motorizzato, e confrontare il contributo di ciascuno di questi componenti al totale della circolazione, che ho chiamato traffico.

Il termine “ trasporto ” sta a indicare il modo di circolazione basato su un impiego intensivo di capitale, “ transito ” quello fondato su un'alta intensità di lavoro.

Il trasporto è il prodotto di un'industria, i cui clienti sono i passeggeri. E’ una merce industriale, e quindi scarsa per definizione. Il miglioramento del trasporto avviene sempre in condizioni di scarsità, che si accentuano man mano che aumenta la velocità - e quindi il costo - del servizio. Il conflitto che nasce dall'insufficienza di trasporto tende a configurarsi come un gioco a somma zero, dove si vince solo ciò che un altro perde. Al più, tale conflitto ammette quella che è la soluzione ottimale nel “ dilemma del prigioniero ”: collaborando col carceriere, entrambi i prigionieri se la cavano con un minor tempo da passare in cella.

Il transito non è invece il prodotto di un'industria, ma l'azione indipendente dei transienti. Ha per definizione un valore d'uso, ma non necessariamente un valore di scambio. E’ una capacità innata nell'uomo e distribuita in misura più o meno uguale fra tutte le persone sane della stessa età. L'esercizio di tale capacità può subire restrizioni quando si privano certe categorie di persone della facoltà di prendere una strada diretta, o anche perché una popolazione manca di scarpe o di selciati. Il conflitto che nasce in presenza di condizioni di transito insoddisfacenti tende perciò a configurarsi come un gioco a somma non zero, alla fine del quale tutti guadagnano: non solo quelli che ottengono il diritto di attraversare una proprietà precedentemente cintata, ma anche quelli che abitano lungo la strada.

L'insieme del traffico è la somma di due modi di produzione profondamente diversi. Questi si possono rafforzare l'un l'altro armoniosamente solo nella misura in cui gli apporti autonomi vengano protetti dal prevaricare del prodotto industriale.

I danni causati dal traffico odierno sono dovuti al monopolio del trasporto. Il fascino della velocità ha ingannevolmente persuaso il passeggero ad accettare le promesse di un'industria che produce traffico ad alta intensità di capitale. Il passeggero è convinto che siano stati i veicoli ad alta velocità a farlo progredire oltre la limitata autonomia di cui godeva quando si spostava utilizzando la forza propria; ha quindi lasciato che il trasporto programmato prevalesse sull'altro modo di circolazione, il transito ad alta intensità di lavoro. Tra le conseguenze di questa concessione, la distruzione dell'ambiente fisico è quella meno deleteria; i risultati di gran lunga più amari sono le frustrazioni psichiche che si moltiplicano, le disutilità crescenti generate dall'incessante produzione, e l'iniquo trasferimento di potere che si deve subire: fenomeni che manifestano tutti una relazione distorta tra tempo e spazio. Il passeggero che consente a vivere in un mondo monopolizzato dal trasporto diventa un angosciato e forzato consumatore di distanze delle quali non può più decidere né la forma né la lunghezza.

Ogni società che imponga l'obbligo della velocità schiaccia il transito a vantaggio del trasporto. Ovunque si precludano non solo i privilegi ma anche le necessità elementari a chi non usi mezzi di trasporto ad alta velocità, si determina un accelerazione involontaria dei ritmi personali. L'industria diventa padrona del traffico quando la vita quotidiana viene a dipendere da spostamenti motorizzati.

Questo profondo dominio esercitato dall'industria del trasporto sulla mobilità naturale è una forma di monopolio assai più pesante sia del monopolio commerciale che una Fiat possa instaurare sul mercato dell'automobile, sia del monopolio politico che l'industria automobilistica possa assicurarsi a scapito delle ferrovie e delle autolinee. Considerando la sua natura occulta, il suo profondo radicamento e il suo potere di strutturare la società, io lo definisco un monopolio radicale. Un'industria esercita questo tipo di monopolio quando diventa il mezzo dominante per soddisfare bisogni che in precedenza davano luogo a una risposta personale. Il consumo obbligato di un bene di scambio ad alta potenza (il trasporto motorizzato) riduce la possibilità di godimento di un valore d'uso abbondante (l'innata capacità di transito). Il traffico offre qui l'esempio di una legge economica generale: qualunque prodotto industriale venga consumato in quantitativi pro capite eccedenti una data intensità, esercita una monopolio radicale sulla soddisfazione di un bisogno. Oltre un certo punto, la scolarizzazione obbligatoria distrugge l'ambiente adatto all'apprendimento, i sistemi di assistenza medica inaridiscono le fonti di salute non terapeutiche, il trasporto strozza il traffico.

Si comincia a istituire un monopolio radicale riordinando la società nell'interesse di coloro che consumano i quantitativi maggiori; quindi lo si impone costringendo tutti a consumare almeno la dose minima in cui il bene in questione viene prodotto. Il consumo obbligatorio assumerà un aspetto nei settori industriali dove domina l'informazione, quali l'istruzione o la medicina; e un aspetto diverso in quei settori dove i quantitativi si possono misurare in unità termiche, come la costruzione degli alloggi, l'abbigliamento o il trasporto. La confezione industriale dei valori raggiungerà un'intensità critica in punti diversi a seconda delle diverse produzioni, ma per ogni grande classe di prodotti la soglia sta in un ordine di grandezza che è identificabile per via teorica. Il fatto che sia possibile determinare teoricamente l'arco di velocità entro cui il trasporto instaura un monopolio radicale sul traffico, non significa che si possa determinare per via teorica fino a che punto questo monopolio sia sopportabile da una data società. Il fatto che sia possibile identificare un livello d'istruzione obbligatoria arrivati al quale declina la capacità d'apprendere vedendo e facendo, non permette al teorico di identificare gli specifici limiti pedagogici alla divisione del lavoro sopportabili da una cultura. Solo attraverso il processo giuridico e, soprattutto, politico si potrà pervenire a misure specifiche, anche se provvisorie, con cui la velocità o l'istruzione obbligatoria saranno concretamente sottoposte a limiti in una data società. L'ordine di grandezza dei limiti volontari è una questione politica; l'usurpazione del monopolio radicale può essere messa in evidenza dall'analisi sociale.

Un'industria non impone un monopolio radicale a tutta una società per la semplice scarsità dei beni che produce o perché elimina dal mercato la concorrenza, bensì grazie alla capacità che possiede di creare e plasmare un bisogno che essa soltanto è in grado di soddisfare.

In tutta l'America Latina le scarpe sono rare, e molti non le portano mai: camminano a piedi nudi o calzano il più vasto assortimento di ottimi sandali che esista al mondo, forniti da una varietà di artigiani, e la mancanza di scarpe non ha mai limitato in alcun modo i loro spostamenti. Ma in alcuni paesi latinoamericani la gente è stata costretta a portarle da quando chi va a piedi nudi non è ammesso a scuola, al lavoro e nei servizi pubblici: per gli insegnanti e per i funzionari di partito, non portare scarpe equivale a mostrare indifferenza per il “ progresso ”. Senza che ci sia stato alcun accordo intenzionale tra i promotori dello sviluppo nazionale e l'industria calzaturiera, in questi paesi gli scalzi sono ora esclusi da qualunque posto pubblico.

Come le scarpe, le scuole sono state rare in ogni tempo. Ma non è mai stata l'esigua minoranza privilegiata degli scolari a fare della scuola un impedimento all'acquisto del sapere. Solo quando delle leggi hanno reso le scuole obbligatorie non meno che gratuite, l'educatore ha conquistato il potere di negare possibilità d'istruzione sul lavoro al sottoconsumatore di terapie scolastiche. Solo quando la frequenza scolastica è diventata obbligatoria si è potuto imporre a tutti un ambiente artificiale sempre più complesso che non lascia posto a chi non sia scolarizzato e inserito in un programma.

Gli elementi che contengono in potenza un monopolio radicale appaiono chiarissimi nel caso del traffico. Immaginiamo che cosa accadrebbe se l'industria del trasporto potesse in qualche modo distribuire più adeguatamente il suo prodotto: un utopico sistema di trasporto rapido e gratuito per tutti porterebbe inevitabilmente a un'ulteriore espansione del dominio del traffico sulla vita umana. Come si configurerebbe questa utopia? Il traffico sarebbe organizzato esclusivamente in funzione dei mezzi di trasporto pubblici; verrebbe finanziato mediante un'imposta progressiva, calcolata in base al reddito e in base alla distanza del domicilio del contribuente dalla fermata più vicina e dal posto di lavoro; sarebbe concepito in modo da permettere a chiunque di occupare qualunque posto, secondo il principio che chi prima arriva viene servito prima: nessun diritto di precedenza verrebbe riconosciuto al turista, al medico o all'autorità. In un simile paradiso degli sciocchi tutti i passeggeri sarebbero uguali, ma anche tutti in egual misura consumatori coatti di trasporto. Ogni cittadino di questa Utopia motorizzata sarebbe egualmente privato dell'uso delle gambe ed egualmente impegnato a far proliferare le reti di trasporto.

Certi aspiranti stregoni travestiti da architetti propongono una speciosa soluzione per uscire dal paradosso della velocità. A sentir loro, l'accelerazione impone iniquità, perdite di tempo e programmazioni d'imperio solo perché la gente non abita ancora nei volumi e nelle orbite più confacenti ai veicoli. Secondo questi architetti futuristi bisognerebbe che alloggi e luoghi di lavoro fossero concentrati in grandi torri autosufficienti, collegate tra loro da rotaie per capsule superveloci. Soleri, Doxiadis, Fuller risolverebbero il problema creato dal trasporto ad alta velocità rovesciando il problema stesso sull'intero habitat umano: anziché chiedersi come preservare per gli uomini la superficie della terra, si domandano come creare le riserve indispensabili per la sopravvivenza umana su una terra che è stata ridisegnata in funzione dei prodotti industriali.


La soglia sfuggente

Paradossalmente, l'idea di una velocità massima dei trasporti ottimale per il traffico sembra bizzarra o fanatica al passeggero incallito, mentre al mulattiere appare qualcosa di simile al volo d'un uccello. Una velocità quattro o sei volte superiore a quella di un uomo a piedi è una soglia troppo bassa perché il passeggero abituale possa ritenerla degna di considerazione, e troppo alta per trasmettere il senso di un limite a quei tre quarti dell'umanità che si spostano ancora con forza propria.

Tutti coloro che progettano, finanziano o organizzano l'alloggio, il trasporto o l'istruzione altrui, appartengono alla classe dei passeggeri. La capacità ch'essi rivendicano discende dal valore che i loro committenti attribuiscono all'accelerazione. I sociologi sono capaci di spiegare in termini di informatica gli ingorghi del traffico di Calcutta e di Santiago, e gli ingegneri sono in grado di progettare ragnatele di monorotaie ispirate ad astratte nozioni di flusso del traffico. Questi programmatori credono veramente nella possibilità di risolvere i problemi con criteri industriali, sicché la soluzione reale della congestione del traffico resta fuori della loro capacità di comprensione. La fede nell'efficacia della potenza impedisce loro di scorgere l'efficacia straordinariamente maggiore che si può ottenere astenendosi dall'usarla. Gli ingegneri dei traffico debbono ancora mettere d'accordo in un unico modello simulato la mobilità della gente con quella dei veicoli.

L'ingegnere del trasporto non è in grado neanche di concepire la rinuncia alla velocità e un rallentamento inteso a permettere un flusso di traffico ottimale quanto al rapporto tempo/destinazione. Mai penserebbe di programmare il suo computer ponendo come postulato che in città un veicolo a motore non debba mai superare la velocità d'una bicicletta. L'esperto in sviluppo che dall'alto della sua Land-Rover guarda con compassione il contadino indio che porta al mercato il suo branco di maiali, non è disposto a riconoscere i vantaggi relativi dell'andare a piedi. Tende a ignorare, l'esperto, che quell'uomo ha evitato ad altri dieci abitanti del villaggio di perdere tempo per la strada, mentre l'ingegnere e tutti gli altri membri della sua famiglia, l'uno separatamente dall'altro, dedicano al trasporto una parte rilevante d'ogni loro giornata. Per chi è portato a concepire la mobilità umana in termini di progresso indefinito, non può esistere un tasso di traffico ottimale, ma solo un transitorio consenso su una determinata possibilità tecnica del trasporto.

La maggior parte dei messicani, per non parlare degli indiani e dei cinesi, si trova in una situazione opposta a quella del passeggero incallito. La soglia critica di velocità si situa completamente al di là di ciò che conoscono o si aspettano. Essi appartengono ancora alla categoria degli uomini che si spostano con forza propria. Qualcuno conserva il duraturo ricordo di un'avventura motorizzata, ma i più non sanno cosa sia viaggiare a una velocità vicina o addirittura superiore a quella critica. In due Stati messicani tipici, il Guerrero e il Chiapas, nel 1970 neppure l'uno per cento della popolazione ha percorso, anche una sola volta, più di sedici chilometri in meno di un'ora. I veicoli nei quali si stipano a volte gli abitanti di queste regioni rendono lo spostamento senza dubbio più conveniente, ma non molto più rapido che se si andasse in bicicletta. L'autobus di terza classe non separa il contadino dal suo maiale e li porta entrambi al mercato senza fargli perdere peso, ma questa esperienza di “comfort” motorizzato non dà come risultato una dipendenza da velocità distruttive.

L'ordine di grandezza in cui si colloca la soglia critica di velocità è troppo basso per essere preso sul serio dal passeggero e troppo alto per interessare il contadino. E’ perciò ovvio che non si riesca a vederlo facilmente. La proposta di fissare un limite alla velocità entro quest'ordine di grandezza si scontra con una caparbia opposizione: da un lato infatti porta allo scoperto l'intossicazione degli uomini industrializzati, schiavi di dosi d'energia sempre più forti, dall'altro chiede a chi è ancora sobrio di astenersi da qualcosa che non ha mai neanche assaggiato.

Proporre una controricerca non è solo uno scandalo, ma anche una minaccia. La semplicità mette in pericolo lo specialista, che si ritiene sia il solo a capire perché il treno dei pendolari parta proprio alle 8,15 e alle 8,41 e perché convenga usare una benzina provvista di certi additivi. Che attraverso un processo politico si possa trovare una dimensione naturale, ineludibile e che segni un limite, é un idea che non rientra nel mondo delle verità del passeggero. In lui il rispetto per specialisti che neanche conosce si è tramutato in cieca sottomissione. Se si potesse trovare una soluzione politica per i problemi creati dagli esperti nel campo del traffico, allora si potrebbe forse applicare lo stesso metodo ai problemi dell'istruzione, della medicina, dell'assetto del territorio. Se dei profani attivamente impegnati in un processo politico potessero determinare l'ordine di grandezza delle velocità veicolari ottimali per il traffico, sarebbero allora scosse le fondamenta sulle quali poggia la struttura di ogni società industriale. Proporre questa ricerca è politicamente sovversivo; mette in discussione quel sovrano consenso sulla necessità d'uno sviluppo del trasporto che permette ora ai campioni della proprietà pubblica di definirsi avversari politici dei sostenitori dell'impresa privata.


I gradi della mobilità autoalimentata

Un secolo fa venne inventato il cuscinetto a sfere. Grazie a esso, il coefficiente d'attrito si riduceva a un millesimo. Applicando un cuscinetto a sfere ben calibrato tra due pietre da macina dell'età neolitica, un uomo poteva macinare in un giorno quanto ai suoi antenati richiedeva una settimana di lavoro. Il cuscinetto a sfere rese anche possibile la bicicletta, facendo sì che la ruota - forse l'ultima delle grandi invenzioni del Neolitico - fosse finalmente utilizzabile per la mobilità autoalimentata.

L'uomo, senza l'aiuto di alcuno strumento, è capace di spostarsi con piena efficienza. Per trasportare un grammo del proprio peso per un chilometro in dieci minuti, consuma 0,75 calorie. L'uomo a piedi è una macchina termodinamica più efficiente di qualunque veicolo a motore e della maggioranza degli animali; in rapporto al suo peso, nella locomozione presta più lavoro del topo o del bue, meno lavoro del cavallo o dello storione. Con questo tasso di efficienza l'uomo si è insediato nel mondo e ne ha fatto la storia. Procedendo di questo passo le società contadine e quelle nomadi spendono rispettivamente meno del 5 e dell'8 per cento del loro tempo sociale fuori di casa o dell'accampamento.

L'uomo in bicicletta può andare tre o quattro volte più svelto del pedone, consumando però un quinto dell'energia: per portare un grammo del proprio peso per un chilometro di strada piana brucia soltanto 0,15 calorie. La bicicletta è il perfetto traduttore per accordare l'energia metabolica dell'uomo all'impedenza della locomozione. Munito di questo strumento, l'uomo supera in efficienza non solo qualunque macchina, ma anche tutti gli altri animali. Le invenzioni del cuscinetto a sfere, della ruota a raggi tangenti e del pneumatico, messe assieme, si possono paragonare solo a tre altri eventi della storia del trasporto. L'invenzione della ruota, all'alba della civiltà, tolse i pesi dalle spalle dell'uomo e li depose sulla carriola. L'invenzione, e la contemporanea applicazione, durante il Medioevo europeo, della staffa, della bardatura e del ferro di cavallo aumentò sino a cinque volte l'efficienza termodinamica del cavallo e rivoluzionò l'economia dell'Europa medievale: rese possibili arature frequenti, e quindi la rotazione delle colture agricole; mise a portata di mano del contadino campi più lontani, permettendo così ai proprietari di trasferirsi dai casali di sei famiglie ai villaggi di cento, dove potevano vivere intorno alla chiesa, alla piazza, alla prigione e, più tardi, alla scuola; favorì la coltivazione delle terre settentrionali, spostando il centro del potere nei paesi a clima freddo. La costruzione, a opera dei portoghesi del Quattrocento, delle prime navi alturiere, sotto l'egida del nascente capitalismo europeo, gettò le solide basi di una cultura e di un mercato estesi a tutto il globo.

L'invenzione del cuscinetto a sfere avviò una quarta rivoluzione. Questa differiva sia dalla rivoluzione, sostenuta dalla staffa, che aveva messo il cavaliere in groppa al proprio cavallo, sia da quella, sostenuta dal galeone, che aveva ampliato l'orizzonte dei marinai del re. Il cuscinetto a sfere aprì una vera crisi, un'autentica scelta politica: creò la possibilità di optare tra una maggiore libertà nell'equità e una maggiore velocità. Esso è infatti un ingrediente parimenti fondamentale di due nuovi tipi di locomozione, rispettivamente simboleggiati dalla bicicletta e dall'automobile. La bicicletta elevò l'automobilità dell'uomo a un nuovo ordine, oltre il quale è teoricamente impossibile progredire; al contrario, la capsula individuale di accelerazione fece sì che le società si dedicassero a un rituale di velocità progressivamente paralizzante.

L'impiego esclusivamente rituale di un congegno potenzialmente dotato di utilità non è certo un fatto nuovo. Migliaia di anni fa la ruota liberò dal suo fardello lo schiavo portatore, ma solo sul continente euroasiatico; in Messico la ruota si conosceva, ma non veniva mai adibita al trasporto: serviva esclusivamente alla costruzione di carrozze per delle divinità-giocattolo. Il tabù per le carriole vigente nell'America anteriore a Cortés non è più strano del tabù per le biciclette nel traffico d'oggi.

Non è affatto inevitabile che l'invenzione del cuscinetto a sfere continui a servire per accrescere il consumo energetico, e quindi a produrre penuria di tempo, distruzione di spazio e privilegio di classe. Se il nuovo ordine della mobilità autoalimentata reso accessibile dalla bicicletta venisse protetto dalla svalutazione, dalla paralisi e dai rischi per gli arti del ciclista, sarebbe possibile assicurare a tutti una pari mobilità ottimale e metter fine all'imposizione del massimo di privilegio e di sfruttamento. Sarebbe anche possibile controllare le strutture dell'urbanizzazione una volta che l'organizzazione dello spazio avesse come limite il potere che ha l'uomo di spostarsi in esso.

Le biciclette non sono soltanto termodinamicamente efficienti, costano anche poco. Avendo un salario assai inferiore, il cinese per comprarsi un bicicletta che gli durerà a lungo spende una frazione delle ore di lavoro che un americano dedica all'acquisto di un'auto destinata a invecchiare rapidamente. Il rapporto tra il costo dei servizi pubblici richiesti dal traffico ciclistico e il prezzo di un’infrastruttura adatta alle alte velocità, è proporzionalmente ancora minore della differenza di prezzo tra i veicoli usati nei due sistemi. Nel sistema basato sulla bicicletta, occorrono strade apposite solo in certi punti di traffico denso, e le persone che vivono lontano dalle superfici in piano non sono per questo automaticamente isolate come lo sarebbero se dipendessero dagli automezzi o dai treni. La bicicletta ha ampliato il raggio d'azione dell'uomo senza smistarlo su strade non percorribili a piedi. Dove egli non può inforcare la sua bici, può di solito spingerla.

Inoltre la bicicletta richiede poco spazio. Se ne possono parcheggiare diciotto al posto di un'auto, se ne possono spostare trenta nello spazio divorato da un'unica vettura. Per portare 40.000 persone al di là di un ponte in un'ora, ci vogliono tre corsie di una determinata larghezza se si usano treni automatizzati, quattro se ci si serve di autobus, dodici se si ricorre alle automobili, e solo due corsie se le 40.000 persone vanno da un capo all'altro pedalando in bicicletta. Di tutti questi veicoli, soltanto la bicicletta permette realmente alla gente di andare da porta a porta senza camminare. Il ciclista può raggiungere nuove destinazioni di propria scelta senza che il suo strumento crei nuovi posti a lui preclusi.

Le biciclette permettono di spostarsi più velocemente senza assorbire quantità significative di spazio, energia o tempo scarseggianti. Si può impiegare meno tempo a chilometro e tuttavia percorrere più chilometri ogni anno. Si possono godere i vantaggi delle conquiste tecnologiche senza porre indebite ipoteche sopra gli orari, l'energia e lo spazio altrui. Si diventa padroni dei propri movimenti senza impedire quelli dei propri simili. Si tratta d'uno strumento che crea soltanto domande che è in grado di soddisfare. Ogni incremento di velocità dei veicoli a motore determina nuove esigenze di spazio e di tempo: l'uso della bicicletta ha invece in sé i propri limiti. Essa permette alla gente di creare un nuovo rapporto tra il proprio spazio e il proprio tempo, tra il proprio territorio e le pulsazioni del proprio essere, senza distruggere l'equilibrio ereditario. I vantaggi del traffico moderno autoalimentato sono evidenti, e tuttavia vengono ignorati. Che il traffico migliore sia quello più veloce lo si afferma, ma non lo si è mai dimostrato. Prima di chiedere alla gente di pagare, i fautori dell'accelerazione dovrebbero cercare di esibire le prove a sostegno di quanto pretendono.

Sta ormai per concludersi un orrendo combattimento tra biciclette e motori. Nel Vietnam un esercito superindustrializzato ha cercato di domare, senza riuscire a batterlo, un popolo che si muoveva alla velocità della bicicletta. La lezione dovrebbe esser chiara. Gli eserciti ad alto contenuto di energia possono annientare popolazioni - sia quelle che difendono sia quelle contro cui vengono scatenati - ma non servono granché a un popolo che difende se stesso. Resta da vedere se i vietnamiti applicheranno all'economia di pace ciò che hanno imparato in guerra, se vorranno proteggere quei valori che hanno reso possibile la loro vittoria. E’ ahimè probabile che, in nome ,del progresso e di un maggiore impiego di energia, i vincitori finiscano per sconfiggere se stessi distruggendo quella struttura equa, razionale e autonoma cui i bombardieri americani li avevano costretti privandoli di combustibili, di motori e di strade.


Motori dominanti e motori ausiliari

Gli uomini nascono dotati di una mobilità pressappoco uguale. Questa capacità naturale di spostarsi parla a favore di un'uguale libertà per ognuno di andare dovunque voglia. I cittadini di una società fondata sul concetto di equità chiederanno che questo diritto venga tutelato contro qualunque restrizione. Per loro non dovrebbe fare alcuna differenza il mezzo con cui venga impedito l'esercizio della mobilità personale: sia tale mezzo l'incarcerazione, il vincolo a una terra, la revoca di un passaporto, oppure la relegazione in un ambiente che usurpa l'innata capacità di muoversi dell'individuo allo scopo di farne un consumat6re di trasporto. Questo diritto inalienabile alla libertà di movimento non decade sol perché la maggioranza dei nostri contemporanei si è lasciata immobilizzare da cinture di sicurezza ideologiche. La naturale capacità umana di transito è anche l'unico metro per misurare il contributo che il trasporto può dare al traffico: si ha solo tanto trasporto quanto è compatibile col transito. Resta da evidenziare come possiamo distinguere quelle forme di trasporto che menomano la capacità di muoversi da quelle che la potenziano.

Il trasporto può ridurre la circolazione in tre modi: spezzandone il flusso, creando gruppi di destinazioni isolati, e aumentando la perdita di tempo connessa al traffico. Abbiamo già visto che il fattore chiave nella relazione fra trasporto e traffico è la velocità dei veicoli. Abbiamo anche visto come, oltrepassata una certa soglia di velocità, il trasporto arriva a ostruire il traffico nei tre modi che si è detto: blocca la mobilità saturando l’ambiente di veicoli e di strade; trasforma il territorio in una piramide di circuiti reciprocamente inaccessibili, secondo i livelli di accelerazione; espropria il tempo in nome della velocità.

Se al di là di una certa soglia il trasporto ostruisce il traffico, è vero anche il contrario: al di sotto d'un certo livello di velocità, i veicoli a motore possono integrare o migliorare il traffico permettendo di fare cose che non sarebbero possibili a piedi o in bicicletta. Un sistema di trasporto ben organizzato, con velocità di punta non superiori a 40 chilometri orari, avrebbe permesso a Fix di correre dietro a Phileas Fogg intorno al mondo in meno della metà di ottanta giorni. Gli automezzi possono servire a trasportare i malati, gli zoppi, i vecchi e anche' i semplici pigri. Le teleferiche possono portare gente da una parte all'altra delle colline, senza inconvenienti purché non scaccino lo scalatore dalla sua pista. I treni possono ampliare l'ambito dei viaggi, senza ingiustizie purché ognuno abbia non soltanto una eguale possibilità di trasporto ma un eguale tempo libero per avvicinare altri. Il tempo del viaggio deve essere, per quanto possibile, quello del viaggiatore: un sistema di trasporto ottimale per il traffico si può realizzare solo nella misura in cui il trasporto motorizzato sia vincolato a delle velocità che lo facciano restare ausiliario rispetto al transito autonomo.

Porre un limite alla potenza e quindi alla velocità dei motori non basta di per sé a tutelare i più deboli dallo sfruttamento dei ricchi e dei potenti, i quali possono trovare la maniera per vivere e lavorare in posti meglio situati, viaggiare con un seguito su carrozze di lusso, riservare corsie speciali ai medici e ai membri del comitato centrale. Ma in un regime di velocità massima sufficientemente limitata, questo tipo d'ingiustizia si può contenere o persino eliminare con mezzi politici: mediante un controllo popolare sulle tasse, le strade, i veicoli e. la loro regolamentazione all'interno della comunità. In un regime che non ponga limiti alla velocità massima non c'è proprietà pubblica dei mezzi di trasporto né perfezionamento tecnico del loro controllo che basti a eliminare un crescente e disuguale sfruttamento. L'industria del trasporto è essenziale alla produzione ottimale di traffico, ma purché non eserciti il proprio monopolio radicale su quella mobilità personale che è, intrinsecamente e principalmente, un valore che si crea nell'uso.


Sottoattrezzatura, sovrasviluppo e tecnologia matura

Quelle combinazione di trasporto e transito che costituisce il traffico ci ha fornito un esempio di potenza pro capite socialmente ottimale, e della necessità di sottoporre tale potenza a limiti stabiliti per via politica. Ma il traffico sì può anche considerare come uno dei vari modelli della convergenza degli obiettivi di sviluppo su scala mondiale, e come un criterio per distinguere i paesi minoratamente sottoattrezzati da quelli distruttivamente sovraindustrializzati.

Un paese si può definire sottoattrezzato quando non è in grado di dotare ogni cittadino d'una bicicletta o di fornire come supplemento un cambio a cinque velocità a chi voglia trasportare gente pedalando. E’ sottoattrezzato se non può offrire buone strade ciclabili oppure un servizio pubblico gratuito di trasporto motorizzato (ma alla velocità delle biciclette!) per chi intende viaggiare per più di poche ore consecutive. Non esiste alcuna ragione tecnica, economica o ecologica perché in qualsiasi luogo si debba oggi tollerare una simile arretratezza. Sarebbe scandaloso se la mobilità naturale di un popolo fosse costretta suo malgrado a stagnare a un livello pre-bicicletta.

Un paese si può considerare sovraindustrializzato quando la sua vita sociale è dominata dall'industria del trasporto, che determina i privilegi di classe, accentua la penuria di tempo e lega sempre più strettamente la popolazione ai binari ch'essa le traccia.

AI di là della sottoattrezzatura e della sovraindustrializzazione, c'è posto per il mondo dell'efficacia post-industriale, dove il modo di produzione industriale è complementare ad altre forme autonome di produzione. C'è posto, in altre parole, per un mondo di maturità tecnologica. Per quanto riguarda il traffico, è il mondo di coloro che hanno triplicato le dimensioni del loro orizzonte quotidiano salendo su una bicicletta. E anche il mondo caratterizzato da una varietà di motori ausiliari disponibili per i casi in cui la bicicletta non basta più e una spinta suppletiva non limita né l'equità né la libertà. Ed è, ancora, il mondo dei lunghi viaggi: un mondo dove ogni luogo è accessibile a ogni persona, secondo il suo talento e la sua velocità, senza fretta e senza paura, per mezzo di veicoli che coprono le distanze senza far violenza alla terra che l'uomo ha calcato per centinaia di migliaia d'anni.

La sottoattrezzatura tiene la gente in uno stato di frustrazione per l'inefficienza del suo lavoro e incoraggia l'asservimento dell'uomo all'uomo. La sovraindustrializzazione asservisce le persone agli strumenti divenuti oggetto di culto, ingrassa di bit e di watt i gerarchi delle professioni e porta a tradurre l'ineguaglianza di potere in enormi divari di reddito. Impone ai rapporti di produzione di ogni società i medesimi trasferimenti netti di potere, qualunque sia la fede professata dai dirigenti e qualunque danza della pioggia o rito penitenziale essi guidino. La maturità tecnologica permette a una società di seguire una rotta libera da ambedue le forme di asservimento; attenzione però, quella rotta non è segnata sulle carte. La maturità tecnologica permette una varietà di scelte politiche e di culture. Tale varietà diminuisce, ovviamente, quando una comunità lascia che l'industria si sviluppi a scapito della produzione autonoma. Il raziocinio da solo non offre una precisa unità di misura per stabilire il livello di efficacia post-industriale e di maturità tecnologica confacente a questa o a quella società; può solo suggerire in termini dimensionali l'arco entro il quale queste caratteristiche tecnologiche devono essere comprese. Bisogna lasciare alla comunità storica impegnata nei propri processi politici il compito di decidere quando la programmazione, l'alterazione dello spazio, la penuria di tempo e l'ineguaglianza non hanno più alcun senso. Il ragionamento può cogliere nella velocità il fattore critico del traffico; combinato con la sperimentazione, può identificare l'ordine di grandezza entro il quale la velocità veicolare diventa un determinante sociopolitico. Ma non esiste genio, né esperto, né club elitario che possa fissare alla produzione industriale un limite che risulti politicamente attuabile. La necessità di questo limite come alternativa al disastro è il più forte argomento a favore della tecnologia radicale.

Il limite di velocità dei veicoli può diventare operativo solo quando rispecchia l'interesse illuminato della comunità politica. Ma ovviamente tale interesse non può neanche esprimersi in una società dove un 'unica classe monopolizza non soltanto il trasporto, ma le comunicazioni, la medicina, l'istruzione, le armi. Che questo potere lo detengano dei privati proprietari oppure i potenti managers di un industria che giuridicamente appartiene ai lavoratori, non fa differenza. Questo potere deve essere ricuperato e sottoposto all'equilibrato giudizio dell'uomo comune. La riconquista del potere inizia quando ci si rende conto che il supponente burocrate, proprio per la sua cultura da esperto, non è in grado di vedere il modo più ovvio per superare la crisi energetica, come non è stato capace di vedere la soluzione più ovvia della guerra nel Vietnam.

Dal punto in cui ci troviamo, due sono le strade per arrivare alla maturità tecnologica: una passa per la liberazione dall'opulenza, l'altra per la liberazione dalla carenza. Entrambe hanno la stessa meta, cioè una ristrutturazione sociale dello spazio che faccia continuamente sentire a ognuno che il centro del mondo è proprio lì dove egli sta, cammina e vive.

La liberazione dall'opulenza comincia nelle isole pedonali dove ora i ricchi s'incontrano tra loro. Nelle società opulente coloro che fruiscono di alte velocità sono sballottati da un'isola all'altra senz'altra compagnia fuorché quella di altri passeggeri diretti da qualche altra parte. Questa solitudine dell'abbondanza potrebbe cominciare a rompersi se a poco a poco le isole pedonali si. espandessero e la gente riprendesse a usare l'innata facoltà di muoversi intorno al luogo in cui vive. L'ambiente impoverito dell'isola pedonale potrebbe così incarnare l'inizio della ricostruzione sociale, e le persone che oggi si dicono ricche potrebbero sottrarsi alla servitù del trasporto superpotente il giorno in cui arrivassero ad amare l'orizzonte delle loro isole pedonali, ormai giunte al pieno sviluppo, e ad aver paura di allontanarsi troppo spesso dalla propria dimora.

La liberazione dalla carenza inizia dal punto opposto. Spezza le costruzioni del villaggio e della vallata e fa cessare la noia derivante dalla ristrettezza d'orizzonti e dalla soffocante oppressività di un mondo chiuso in se stesso. Estendere il raggio d'azione della vita quotidiana al di là della cerchia delle tradizioni senza disperdersi tra i venti dell'accelerazione, è un obiettivo che qualunque paese povero potrebbe raggiungere nel giro di pochi anni, ma al quale perverranno soltanto quelli che sapranno rifiutare l'offerta di uno sviluppo industriale incontrollato, suffragata dall'ideologia del consumo energetico illimitato.

La liberazione dal monopolio radicale dell'industria del trasporto è possibile solo istituendo un processo politico che demistifichi e detronizzi la velocità e che limiti la spesa pubblica di denaro, tempo e spazio per il traffico al solo perseguimento di un eguale accesso reciproco. Tale processo equivale alla sorveglianza pubblica su un mezzo di produzione, volta a impedire che esso divenga un feticcio per la maggioranza e un fine per i pochi. Il processo politico, d'altro canto, non avrà mai il sostegno d'una vasta maggioranza se non fisserà i propri obiettivi prendendo a riferimento un criterio che sia verificabile pubblicamente e operativamente. Si ottiene un criterio del genere quando si riconosce una soglia socialmente critica della quantità di energia incorporata in una merce. Una società che tolleri la trasgressione di questa soglia storna inevitabilmente le proprie risorse dalla produzione di mezzi che possano essere condivisi equamente e le trasforma in combustibile per una fiamma sacrificale che immola la maggioranza. Una società che invece limiti la velocità massima dei propri veicoli in conformità con tale soglia adempie una condizione necessaria - benché non certo sufficiente - per il perseguimento politico dell'equità.

La liberazione, a buon mercato per i poveri, costerà caro ai ricchi, ma essi ne pagheranno il prezzo allorché l'accelerazione dei loro sistemi di trasporto avrà definitivamente bloccato il traffico. Un'analisi concreta del traffico svela la realtà che soggiace alla crisi energetica: l'impatto sull'ambiente sociale dei quanta di energia confezionati dall'industria tende a provocare degradazione, logorio e asservimento, e questi effetti entrano in gioco prima ancora di quelli che minacciano di inquinare l'ambiente fisico e di estinguere la specie. Il punto cruciale nel quale si possono invertire questi effetti non è, però, oggetto di deduzione ma di decisione.

 

 

1 Parlo del traffico al fine di illustrare il più generale tema dell’impiego socialmente ottimale dell’energia, e mi limito alla locomozione delle persone, comprendendo i loro bagagli personali e il combustibile, i materiali e le attrezzature occorrenti per il veicolo e per la strada. Mi astengo volutamente dal considerare altri due tipi di traffico: quello delle merci e quello dei messaggi. Per entrambi si potrebbe fare un discorso analogo, che però esigerebbe un’argomentazione diversa, sicché la lascio da parte per un’altra occasione. (Questa nota figurava nella prima edizione del presente saggio: In quel periodo stavo preparando due studi che dovevano integrarlo: uno sulla storia del servizio postale, l’altro su equipaggi e carichi nella storia. Rinunciai a tutti e due i progetti per scrivere Nemesi medica.)

 

2 Dall'epoca della pubblicazione di questo scritto (1973), sono state fatte e pubblicate molte ricerche sull'argomento; per una bibliografia ragionata si veda J.P. Dupuy e I. Robert, Les chronophages, cit.