IVAN ILLICH

LA CONVIVIALITÀ

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Indice


Introduzione

I. Due soglie di mutazione


Il. La ricostruzione conviviale

Lo strumento e la crisi

L'alternativa

I valori-base

Il prezzo dell'inversione

I limiti della mia dimostrazione

L'industrializzazione della carenza

L'altra possibilità: una struttura conviviale

L'equilibrio istituzionale

Le fonti di energia

La deprofessionalizzazione

III. L'equilibrio multidimensionale

La degradazione dell'ambiente

Il monopolio radicale

La superprogrammazione

La polarizzazione

L'obsolescenza

L'insoddisfazione

IV. I tre ostacoli all'inversione politica

La demitizzazione della scienza

La riscoperta del linguaggio

Il recupero del Diritto

L'esempio del Diritto consuetudinario

V. L'inversione politica

I miti e le maggioranze

Dalla catastrofe alla crisi

Dentro la crisi

La mutazione improvvisa


Premessa dell'Autore

L'idea di una analisi multidimensionale del sovrasviluppo industriale l'ho formulata per la prima volta nel 1971 in un documento di lavoro redatto insieme a Valentina Borremans come testo-base per un convegno latinoamericano tenuto al Centro intercultural de documentaciòn (Cidoc) nel gennaio 1972.

Una versione francese, rielaborata in occasione dello Zeno Symposium organizzato a Cipro dal professor Richard Wollheim, fu pubblicata nel marzo 1972 nella rivista “'Esprit”; dove fu oggetto di un dibattito.

La stesura di questo libro fu occasionata dalla mia partecipazione a una conferenza di giuristi e parlamentari canadesi tenutasi a Ottawa nel gennaio 1972 per discutere l'orientamento della legislazione canadese nel prossimo decennio. Questo fatto, e la collaborazione dell'amico Greer Taylor, spiegano il costante riferimento e l'importanza attribuita alla Common Law in tutta la trattazione.

Lo stesso servì poi come base per una serie di seminari tenuti al Cidoc e in India, e dai quali mi vennero numerose critiche e preziosi suggerimenti, in particolare da J. P. Naik. I partecipanti a questi seminari riconosceranno le loro idee, talvolta riprese alla lettera, e ad essi esprimo qui la mia viva gratitudine, specialmente per i loro contributi scritti.

Le bibliografie, gli appunti di lavoro, le analisi critiche eccetera, che, a vari gradi di completezza e utilità, sono servite da materiali e punti di riferimento per questo studio, sono disponibili presso la biblioteca del Cidoc e nella serie di documenti che il Centro pubblica regolarmente.

A distanza di nove mesi ho poi scritto due versioni destinate alla pubblicazione: una in inglese l'altra in francese.

Questo testo italiano non un è un nuovo rifacimento, ma neppure una semplice versione del testo francese: incorpora infatti le mie risposte alle osservazioni puntuali, rispettose e congeniali del mio editore italiano, Donato Barbone.

Ivan Illich

Centro intercultural de documentacion

Cuernavaca (Messico)


Introduzione

Nel corso dei prossimi anni mi propongo di lavorare a un epilogo dell'età industriale. Vorrei tracciare il profilo delle storture e delle ipertrofie intervenute nel linguaggio, nel diritto, nei miti e nei riti, in quest'epoca nella quale uomini e prodotti sono stati assoggettati alla pianificazione razionale. Vorrei ritrarre come è venuto declinando il monopolio del modo di produzione industriale, e la metamorfosi subita dalle professioni che esso genera e nutre.

Soprattutto intendo dimostrare questo: che i due terzi dell'umanità possono ancora evitare di passare per l'età industriale se sceglieranno sin d'ora un modo di produzione fondato su un equilibrio postindustriale, quello stesso al quale i paesi sovraindustrializzati dovranno ricorrere di fronte alla minaccia del caos. E nella prospettiva di un tale lavoro che io sottopongo questo abbozzo di analisi all'attenzione e alla critica del pubblico.

Sono parecchi anni che mi occupo di una ricerca critica sul monopolio del modo di produzione industriale, e sulla possibilità di definire concettualmente altri modi di produzione, postindustriali. In un primo tempo ho concentrato la mia attenzione sull'attrezzatura educativa; i risultati, pubblicati in Descolarizzare la società1, stabilivano i seguenti punti:

1. 1. L'educazione universale mediante la scuola obbligatoria è impossibile.
2. 2. Il condizionamento delle masse attraverso l'educazione permanente non presenta grossi problemi tecnici ma, moralmente, è ancor meno accettabile della scuola di vecchio tipo. Nuovi sistemi educativi sono ormai prossimi a soppiantare i sistemi scolastici tradizionali, nei paesi ricchi come in quelli poveri. Si tratta di strumenti di condizionamento massicci ed efficaci, capaci di produrre in serie manodopera specializzata, consumatori di cultura docili e disciplinati, utenti rassegnati. Sono sistemi che rendono redditizio il processo educativo, generalizzandolo al livello di tutta una società. Possiedono indubbie attrattive, ma sotto queste attrattive celano una profonda distruttività: tendono infatti a dissolvere, in maniera ancor più sottile e implacabile della scuola, i valori più essenziali.
3. 3. Una società che voglia ripartire equamente tra i suoi membri l'accesso al sapere, e consentire loro una reale partecipazione al processo produttivo, deve stabilire dei limiti pedagogici alla crescita industriale, mantenendo tale crescita al di qua di determinate soglie psicologicamente critiche.

L'analisi dell'apparato educativo di ogni società fondata sull'espansione del modo di produzione industriale mi ha aperto la strada alla scoperta dei limiti non-ecologici di questa espansione. Lo sviluppo del sistema scolastico obbligatorio mi è parso infatti l'esempio-tipo di una situazione che si ritrova anche in altri ambiti della società industriale, dovunque si tratti di produrre un servizio, cosiddetto di pubblica utilità, per soddisfare un bisogno cosiddetto elementare. Sono così passato ad analizzare il sistema di assistenza medica obbligatoria e quello dei trasporti che, oltrepassata una certa soglia, divengono anch'essi, a loro modo, forzosi; e sono arrivato a convincermi che la sovrapproduzione industriale di un servizio ha, inevitabilmente, effetti secondari non meno catastrofici e distruttivi della sovrapproduzione di un bene di consumo. Esiste cioè una serie di limiti alla crescita dei servizi di una società: come nel caso delle merci, questi limiti sono inerenti al processo di crescita e quindi inesorabili. La riorganizzazione del sistema industriale di produzione e di distribuzione che si preannuncia per il prossimo decennio, e che si ispira principalmente a limitazioni nell'uso di carburanti e ad analoghe considerazioni ecologiche, è destinata a fallire.

Bisogna prender coscienza al più presto che i limiti da porre allo sviluppo devono riguardare tanto i beni quanto i servizi, prodotti industrialmente. Ed è la serie di questi limiti che bisogna scoprire e rendere manifesta.

Per analizzare il rapporto tra l'uomo e il suo strumento, io propongo qui il concetto di equilibrio multidimensionale della vita umana. In ognuna delle sue dimensioni, questo equilibrio corrisponde a una certa scala naturale. Quando un attività umana esplicata mediante strumenti supera una certa soglia definita dalla sua scala specifica, dapprima si rivolge contro il proprio scopo, poi minaccia di distruggere l'intero corpo sociale. Occorre dunque determinare con chiarezza queste scale naturali e riconoscere le soglie che delimitano il campo della sopravvivenza umana.

La società, una volta raggiunto lo stadio avanzato della produzione di massa, produce la propria distruzione. La natura viene snaturata. Sradicato, castrato nella sua creatività, l'uomo è rinserrato nella propria capsula individuale. La collettività è governata dal gioco combinato di una polarizzazione estrema e di una specializzazione a oltranza. L'affannosa ricerca di modelli e prodotti sempre nuovi, cancro del tessuto sociale, accelera a tal punto il mutamento da escludere ogni ricorso ai precedenti come guida per l'azione. Il monopolio del modo di produzione industriale riduce gli uomini a materia prima lavorata dagli strumenti. E tutto questo in misura non più tollerabile. Poco importa che si tratti di un monopolio privato o pubblico: la degradazione della natura, la distruzione dei legami sociali, la disintegrazione dell'uomo non potranno mai servire a uno scopo sociale.

Le ideologie oggi correnti mettono in luce le contraddizioni della società capitalista, ma non forniscono il quadro necessario per analizzare la crisi del modo di produzione industriale. Mi auguro che un giorno si arrivi a formulare una teoria generale dell'industrializzazione abbastanza rigorosa da reggere all'assalto della critica. Per poter funzionare, questa teoria dovrà esprimere i propri concetti in un linguaggio comune a tutte le parti in causa, in modo che i criteri da essa definiti concettualmente siano altrettanti parametri su scala umana: strumenti di misura, mezzi di controllo, guide per l'azione. Si potranno allora valutare le tecniche disponibili e le diverse programmazioni che esse implicano. Si determineranno le soglie di nocività dell'attrezzatura sociale, il punto in cui questa si rivolge contro il proprio fine o minaccia l'uomo; si limiterà il potere dello strumento. Si inventeranno le forme e i ritmi di un modo di produzione postindustriale e di un nuovo mondo sociale.

Vorrei che questo saggio contribuisse alla formulazione di una tale teoria chiarendo almeno un punto: come esistano delle tecniche ipertrofiche nell'uso di energia o d'informazione, la cui stessa struttura ingenera rapporti di sfruttamento e di dominio nelle società che le adottano. Non è facile immaginare una società in cui l'organizzazione industriale sia equilibrata e compensata da modi di produzione complementari, distinti e ad alto rendimento. Siamo talmente deformati dalle abitudini industriali che non osiamo più scrutare il campo del possibile, e l'idea di rinunciare alla produzione di massa di tutti gli articoli e servizi è per noi come un ritorno alle catene del passato o al mito del buon selvaggio. Ma se vogliamo ampliare il nostro angolo di visuale, adeguandolo alle dimensioni della realtà, dobbiamo ammettere che non esiste un unico modo di utilizzare le scoperte scientifiche, ma per lo meno due, tra loro antinomici.

C'è un uso della scoperta che conduce alla specializzazione dei compiti, alla istituzionalizzazione dei valori, alla centralizzazione del potere: l'uomo diviene l'accessorio della megamacchina, un ingranaggio della burocrazia. Ma c'è un secondo modo di mettere a frutto I invenzione, che accresce il potere e il sapere di ognuno, consentendo a ognuno di esercitare la propria creatività senza per questo negare lo stesso spazio d'iniziativa e di produttività agli altri.

Se vogliamo poter dire qualcosa sul mondo futuro, disegnare i contorni di una società a venire che non sia iperindustriale, dobbiamo riconoscere l'esistenza di scale e limiti naturali. L'equilibrio della vita si dispiega in varie dimensioni; fragile e complesso, non oltrepassa certi limiti. Esistono delle soglie che non si possono superare. La macchina non ha soppresso la schiavitù umana, ma le ha dato una diversa configurazione. Infatti, superato il limite, lo strumento da servitore diviene despota. Oltrepassata la soglia, la società diventa scuola, ospedale, prigione, e comincia la grande reclusione. Occorre individuare esattamente dove si trova, per ogni componente dell'equilibrio globale, questo limite critico. Sarà allora possibile articolare in modo nuovo la millenaria triade dell'uomo, dello strumento e della società. Chiamo società conviviale una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività, e non riservato a un corpo di specialisti che lo tiene sotto il proprio controllo. Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni.

Parlando di «convivialità» dello strumento mi rendo conto di dare un senso in parte nuovo al significato corrente della parola. Lo faccio perché ho bisogno di un termine tecnico per indicare lo strumento che sia scientificamente razionale e destinato all'uomo austeramente anarchico. L'uomo che trova la propria gioia nell'impiego dello strumento conviviale io lo chiamo austero. Egli conosce ciò che lo spagnolo chiama la convivencialidad, vive in quella che il tedesco definisce Mitmenschlichkeit. L'austerità non significa infatti isolamento o chiusura in se stessi. Per Aristotele come per Tommaso d'Aquino, è il fondamento dell'amicizia. Trattando del gioco ordinato e creatore, Tommaso definisce l'austerità2 come una virtù che non esclude tutti i piaceri, ma soltanto quelli che degradano o ostacolano le relazioni personali. L'austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l'eutrapelia, l'amicizia.


I. Due soglie di mutazione

L'anno 1913 segna una svolta nella storia della medicina moderna. All'incirca da quella data, il paziente ha più di una probabilità su due che un medico laureato gli somministri una cura efficace, purché ovviamente il suo male sia registrato dalla scienza medica dell'epoca. Gli sciamani e i guaritori, con la loro pratica dell'ambiente naturale, non avevano aspettato tanto per ottenere risultati analoghi, in un mondo dove la salute era concepita diversamente.

Da allora, la medicina non ha fatto che perfezionare la definizione delle malattie e la somministrazione delle cure. La popolazione dell'Occidente ha imparato a sentirsi malata e a farsi curare conformemente alle categorie di moda nell'ambiente medico. La clinica è stata sempre più dominata dall'ossessione quantitativa, ciò che ha permesso ai medici di misurare la portata dei loro successi con criteri da essi stessi stabiliti. La salute è divenuta così una merce in una economia di sviluppo. Questa trasformazione della salute in prodotto di consumo sociale ha trovato riscontro nell'importanza attribuita alle statistiche sanitarie.

Ma i dati statistici sui quali sempre più si fonda il prestigio della professione medica non dipendono, per la parte essenziale, dalla sua attività. La riduzione a volte spettacolare della morbilità e della mortalità all'inizio del processo di industrializzazione di un paese è dovuta soprattutto alle modificazioni dell'habitat e del regime alimentare, e all'adozione di elementari misure d'igiene. Le fognature, il trattamento dell'acqua col cloro, la carta moschicida, l'asepsi e i certificati sanitari richiesti per viaggiare, prostituirsi o lavare i piatti hanno avuto un'influenza benefica assai maggiore dell'insieme dei complessi «metodi» di cure specialistiche. Nell'Honduras come in Olanda, il progresso della medicina si è espresso più nel controllo dei tassi di incidenza che nell'aumento della vitalità degli individui.

In un certo senso, più che l'uomo è stata l'industrializzazione a trarre profitto dai progressi della medicina: si è infatti riusciti a far lavorare la gente più regolarmente in condizioni più disumanizzanti. Nascondendo il carattere profondamente distruttivo delle nuove attrezzature, del lavoro alla catena e del regno dell'automobile, si sono esaltate certe cure spettacolari che si applicano alle vittime dell'aggressione industriale nelle sue varie forme: velocità, tensione nervosa, avvelenamento dell'ambiente. E il medico si è trasformato in mago, unico essere in grado di compiere miracoli che esorcizzino la paura nascente dal sopravvivere in un mondo divenuto minaccioso.

Contemporaneamente, i mezzi per diagnosticare la necessità di certe cure e lo strumento terapeutico corrispondente si venivano semplificando. Ormai chiunque potrebbe accertare da solo una gravidanza e praticare un aborto, riconoscere e curare quelle malattie veneree che un secolo fa erano incurabili, apprendere nella pratica come evitare sia una gravidanza sia un'infezione. Il paradosso è che quanto più lo strumento diventa semplice, tanto più la professione medica si sforza di conservarne il monopolio. Più l'iniziazione del terapeuta si prolunga, più la popolazione dipende da lui per l'applicazione cosciente delle scoperte importanti e per il miglioramento della vita quotidiana. L'igiene, che l'antichità considerava una virtù, diviene il rituale che un corpo di specialisti celebra sull'altare della scienza.

Dopo la seconda guerra mondiale, cominciò a divenire chiaro che la medicina moderna ha pericolosi effetti secondari sulla salute individuale. Ma c'è voluto del tempo perché i medici identificassero la nuova minaccia rappresentata dai microbi divenuti resistenti alla chemioterapia, o studiassero gli effetti cancerogeni degli insetticidi, o riconoscessero un nuovo genere di epidemie nei disordini genetici dovuti all'impiego degli ormoni o dei raggi X durante la gravidanza. Trent'anni prima, Bernard Shaw già lo rilevava: i medici, diceva, hanno smesso di guarire per impadronirsi dell'intera vita dei loro pazienti. Si è dovuto attendere gli anni Cinquanta perché questo rilievo divenisse evidenza manifesta: producendo nuovi tipi di malattie, la medicina aveva superato una seconda soglia di mutazione. Nel 1972 il sottosegretario alla Sanità degli Stati Uniti d'America poteva affermare che quattro quinti della spesa federale servivano o ad accrescere la sofferenza o a curare malattie che non sarebbero insorte senza un precedente intervento medico.

Al primo posto fra i guasti causati dalla professione, bisogna collocare quella vera e propria malattia «mentale» consistente nella pretesa di fabbricare una salute «migliore». Le prime vittime di questo male iatrogeno (generato cioè dai medici) sono stati i pianificatori e i medici. Ben presto l'aberrazione si è diffusa nell'intero corpo sociale, e nel corso degli ultimi quindici anni la medicina specialistica è divenuta la più concreta minaccia per la salute. Quando infatti non la danneggia, razionalizza e giustifica l'aggressività. Mi è capitato di esaminare una bibliografia tedesca di circa 13000 contributi recenti nel campo della «medicina del traffico»: non contiene un solo studio che mostri dal punto di vista della scienza medica come questo genere specifico di mali, che nei paesi sviluppati costituisce la causa più generale di mortalità in età adulta-produttiva, potrebbe essere virtualmente eliminato se le velocità veicolari venissero limitate al di sotto di un certo livello. D'altra parte, somme colossali vengono spese al solo scopo di tamponare i danni incommensurabili prodotti dalle cure mediche. Ciò che costa non è tanto la guarigione, quanto il prolungarsi della malattia: ammalati ormai morenti possono vegetare a lungo imprigionati in un polmone d'acciaio, attaccati a un tubo di perfusione o sospesi al funzionamento di un rene artificiale. Sopravvivere in città insalubri, in condizioni di lavoro debilitanti, costa sempre più caro. Il monopolio medico estende la sua azione a un numero sempre crescente di situazioni della vita quotidiana. E non soltanto il trattamento medico, ma anche la ricerca biologica ha contribuito a questa proliferazione delle malattie. Gente che in passato aveva imparato a vivere con le proprie malattie, oggi viene imbottita di medicine. Ogni invenzione di un nuovo modo di vivere e.di morire ha portato con sé la parallela definizione di una nuova norma e, in corrispondenza con questa, la definizione di una nuova devianza, di una nuova malignità.

Infine, reso impossibile alla nonna, alla zia o alla vicina di prendersi cura della donna incinta, del ferito, del malato, dell'invalido o del morente, si è creata una domanda impossibile da soddisfare. Man mano che il prezzo del servizio aumenta, la cura personale diventa più difficile e spesso impossibile. Nello stesso tempo, il ricorso al medico viene ritenuto necessario per una serie sempre più vasta di indisposizioni comuni, sicché si moltiplicano specializzazioni e paraprofessioni il cui unico scopo è di mantenere l'esercizio terapeutico sotto il controllo della corporazione. Quando, per l'azione del medico, l'incapacità della popolazione in generale di provvedere alla propria igiene comincia a crescere, si arriva a una nuova svolta dell'istituzione medica.

Giunti a questa seconda soglia, è la vita che appare malata, in un ambiente deleterio. Attività principale, e grosso affare, della professione medica diventa quella di preservare una popolazione sottomessa e dipendente. Per il loro alto costo, la prevenzione e la cura diventano un privilegio, al quale hanno diritto soltanto i grandi consumatori di servizi medici. Le persone che possono farsi visitare da uno specialista, essere ammesse in un grande ospedale, beneficiare dell'attrezzatura per la cura della vita sono i malati il cui caso sia giudicato interessante oppure gli abitanti delle grandi città, dove il costo della prevenzione sanitaria, della purificazione dell'acqua e del controllo dell'inquinamento è altissimo. Paradossalmente, le cure per abitante risultano tanto più care quanto più il costo della prevenzione è già elevato. E necessario aver consumato prevenzione e assistenza per aver diritto a cure eccezionali. L'ospedale, come la scuola, si basa sul principio che si fa credito solo ai ricchi: come nel campo dell'educazione i grandi consumatori di insegnamento otterranno borse di ricerca mentre gli altri avranno solo il diritto di apprendere il proprio fallimento, così, per la medicina, più cure daranno luogo a più sofferenze: il ricco sarà curato sempre più per i mali indotti dalla medicina, mentre il povero deve accontentarsi di soffrirne.

Oltrepassata la seconda soglia, i sottoprodotti dell'industria medica affliggono non singoli individui ma popolazioni intere. Nei paesi ricchi, la gente sta diventando più vecchia. Da quando si mette piede sul mercato del lavoro, si comincia a versare risparmi e contributi per assicurazioni che garantiscano, per una durata sempre più lunga, la possibilità di utilizzare i servizi di una costosa geriatria. Negli Stati Uniti, il 27 per cento delle spese mediche va a favore dei vecchi, che rappresentano il 9 per cento della popolazione. Fatto significativo, il primo terreno di collaborazione scientifica scelto da Nixon e Breznev riguarda le ricerche sulle malattie proprie degli anziani. Da tutte le parti del globo i vecchi benestanti accorrono nelle cliniche di Boston, di Houston, di Denver per sottoporsi ai restauri più raffinati e costosi, mentre negli Stati Uniti stessi, tra le classi povere, la mortalità infantile resta paragonabile a quella di certe regioni dell'Asia o dell'Africa tropicale. Negli Stati Uniti bisogna essere ricchissimi per pagarsi il lusso che tutti si permettono nei paesi poveri: essere assistiti sul letto di morte. In due giorni d'ospedale, un americano spende una cifra pari al reddito medio annuo in contante della popolazione mondiale. Nei paesi poveri, grazie alla medicina moderna, un maggior numero di bambini arriva all'adolescenza, e un maggior numero di donne sopravvive a gravidanze più numerose. La popolazione aumenta, supera la capacità di ricezione dell'ambiente naturale, rompe gli argini e le strutture della cultura tradizionale. Il male che ne deriva è ben peggiore di quello sanato, poiché si generano nuove specie di malattie che né la tecnica moderna né l'immunità naturale né la cultura tradizionale riescono a sconfiggere. Su scala mondiale, e in particolare negli Stati Uniti, la medicina fabbrica una razza di individui dipendenti per la loro sopravvivenza da un ambiente sempre più costoso, sempre più artificiale, sempre più igienicamente programmato. Al congresso dell'American Medical Association del 1970, il presidente, senza sollevare opposizione alcuna, esortava i colleghi pediatri a considerare ogni neonato alla stregua di un paziente fino a che non se ne fosse certificato lo stato di buona salute. I piccoli nati all'ospedale, nutriti su prescrizione, rimpinzati di antibiotici, divengono poi adulti che respirano un'aria viziata, si nutrono di cibi avvelenati e vivono un'esistenza di spettri nella grande città moderna. Sarà per loro ancora più costoso allevare i propri figli i quali, a loro volta, saranno ancora più dipendenti dal monopolio medico. Il mondo intero diventa un ospedale, popolato da gente che, per tutta la vita, deve attenersi scrupolosamente ai regolamenti d'igiene e alle prescrizioni sanitarie.

Questa medicina burocratizzata sta conquistando l'intero pianeta. Nel 1968, vent'anni dopo la rivoluzione, il Collegio di medicina di Shangai si è dovuto arrendere all'evidenza: «Produciamo dei cosiddetti medici di prima classe... che ignorano l'esistenza di 500 milioni di contadini e servono solo le minoranze urbane,... Assorbono ingenti spese di laboratorio per esami di routine,.. prescrivono senza necessità enormi quantità di antibiotici... e, in mancanza di ospedali e laboratori, si trovano ridotti a spiegare i meccanismi della malattia a persone per le quali non possono fare altro e alle quali quella spiegazione non reca utilità alcuna». Questa presa di coscienza, durante la «rivoluzione culturale», ha condotto a una inversione dell'istituzione e nel 1971, come riferisce lo stesso Collegio, si erano ormai formati un milione di «lavoratori della salute» dotati di un accettabile livello di competenza. Si tratta di operai o contadini che durante la stagione morta seguono dei corsi accelerati: imparano la dissezione su un maiale, eseguono le analisi di laboratorio più comuni, apprendono nozioni elementari di batteriologia, patologia, clinica medica, igiene e agopuntura. Poi fanno un tirocinio pratico con medici o «lavoratori della salute» già provetti. Dopo questa prima formazione, questi «medici scalzi» riprendono il loro consueto mestiere, assentandosi dal lavoro dei campi solo quando è necessario per occuparsi dei loro compagni. I compiti affidati alla loro responsabilità includono l'igiene dell'ambiente di vita e di lavoro, l'educazione sanitaria, le vaccinazioni, il pronto soccorso, l'assistenza dei convalescenti, il trattamento dei rifiuti, i parti, il controllo delle nascite e i metodi di aborto.

Dieci anni dopo che la medicina occidentale aveva oltrepassato la seconda soglia, la Cina si metteva a formare un lavoratore sanitario competente per ogni cento cittadini. L'esempio prova che invertire di colpo il funzionamento di una grande istituzione è impresa possibile. Resta da vedere fino a che punto questa deprofessionalizzazione può resistere alla trionfante ideologia dello sviluppo illimitato e alla pressione dei medici classici che oggi, a soli cinque anni dalla «rivoluzione culturale», già tendono a incorporare i loro omonimi scalzi al livello più basso della gerarchia medica, come una fanteria di lavoranti a parttime.

Come nella seconda metà degli anni Sessanta in tutto il mondo è scoppiata una crisi di fiducia nel sistema scolastico, così si possono ormai avvertire i presagi di una analoga crisi nei confronti del complesso medico-industriale. Ma allo stesso modo che nell'altra crisi l'attenzione si è concentrata semplicemente sui programmi scolastici, così adesso, dappertutto, si dà rilievo ai sintomi della malattia della medicina, senza prendere in considerazione il disordine profondo del sistema che li genera. Negli Stati Uniti i paladini dei poveri danno la colpa all'American Medical Association e ai suoi membri, accusando questi di pensare soltanto al portafogli e quella d'essere un bastione di pregiudizi capitalisti. I portavoce delle minoranze criticano la mancanza di un controllo sociale sull'amministrazione sanitaria e sull'organizzazione dei sistemi di cura; dovremmo credere che partecipando ai consigli di amministrazione degli ospedali essi potrebbero controllare l'attività professionale del corpo medico? I portavoce della comunità negra trovano scandaloso che gli stanziamenti per la ricerca siano concentrati sulle malattie che colpiscono i bianchi anziani e supernutriti, e chiedono invece ricerche su una forma particolare di anemia, che tocca soltanto i negri. L'elettore spera che, «finita» la guerra del Vietnam, siano destinati maggiori mezzi allo sviluppo della produzione medica. Tutte queste accuse e critiche si riferiscono ai sintomi di una medicina che prolifera come un tumore maligno e determina l'aumento dei costi e della domanda, generando non benessere ma un generale esser meno.

La crisi della medicina ha radici assai più profonde di quanto si potrebbe credere guardando unicamente ai sintomi. Essa infatti è parte integrante della crisi di tutte le istituzioni industriali. Nel campo della sanità si è sviluppata un'organizzazione complessa di specialisti che, finanziata e sostenuta dalla collettività, si è assunta l'impresa di produrre una salute migliore. Il risultato è che ora non si ha più il diritto di dirsi né sani né ammalati: occorre esibire un certificato medico che attesti l'una o l'altra cosa.

Addirittura, è al medico, come rappresentante della società, che spetta oggi scegliere l'ora della morte del paziente:

come il condannato alla pena capitale, il malato è sottoposto a rigorosa sorveglianza per impedire che accolga la morte quando essa lo ghermisce.

Le date del 1913 e del 1955, che abbiamo scelto a indicare le due soglie di mutazione dell'istituzione medica, non vanno intese in senso tassativo. Ciò che importa è comprendere questo: all'inizio del secolo la pratica medica si è impegnata nella verifica scientifica dei suoi risultati empirici; il ricorso alla misurazione ha segnato il superamento della sua prima soglia. La seconda è stata raggiunta allorché l'utilità marginale del di più di specializzazione ha cominciato a decrescere, almeno per quello che è quantificabile in termine di benessere per la maggioranza. Questa seconda soglia è stata poi oltrepassata quando la disutilità marginale ha preso a crescere, man mano che lo sviluppo dell'istituzione medica si traduceva in maggiori sofferenze per un maggior numero di persone. Quando in una impresa l'aumento dei costi accresce il male contro cui l'impresa stessa si è costituita, questa cessa di essere analizzabile in termini di economia o razionalità: diventa un rito diabolico celebrato nel solo interesse dei suoi officianti i quali, presi dal rito, non sono più capaci di smascherare l'idolo che l'ispira. Oggi, il costo sociale della medicina non è più calcolabile in termini classici: come misurare le false speranze, il peso del controllo sociale, il prolungamento della sofferenza, la solitudine, la degradazione del patrimonio genetico e il senso di frustrazione generati dall'istituzione medica?

Altre istituzioni industriali hanno superato le stesse due soglie. È il caso, in particolare, delle grandi industrie terziarie e delle attività produttive organizzate scientificamente dalla metà del XIX secolo in poi. L'educazione, le poste, l'assistenza sociale e anche i lavori pubblici hanno avuto tutti la stessa evoluzione. In un primo tempo si applica un nuovo sapere alla soluzione di un problema chiaramente definito e con criteri scientifici si arriva a misurare l'aumento di efficienza ottenuto. Ma, in un secondo tempo, il progresso realizzato diventa un mezzo per sfruttare l'insieme del corpo sociale, mettendolo al servizio dei valori che una élite specializzata, sola garante del proprio valore, stabilisce e rivede senza tregua.

Nel caso dei trasporti, c'è voluto un secolo per passare dalla liberazione grazie ai veicoli motorizzati alla schiavitù dell'automobile. I trasporti a vapore cominciarono a essere utilizzati al tempo della guerra di secessione americana. Il nuovo sistema dette a molta gente la possibilità di viaggiare per ferrovia alla velocità di una carrozza reale, e con una comodità che nessun re avrebbe osato sognare. A poco a poco si cominciò a far confusione tra buona circolazione e grande velocità. Da quando l'industria dei trasporti ha oltrepassato la sua seconda soglia di mutazione, i veicoli creano più distanze di quante non ne eliminino. Il complesso della società spende ogni giorno più tempo per la circolazione, che in teoria dovrebbe fargliene guadagnare. L'americano tipo dedica più di 1500 ore l'anno alla sua automobile: ci sta seduto dentro, fermo o in moto, lavora per comprarla e mantenerla, per pagare la benzina, i pneumatici, i pedaggi, l'assicurazione, le contravvenzioni e le imposte. Dedica cioè quattro ore al giorno alla sua auto, sia che se ne serva, se ne occupi o lavori per lei. E non consideriamo tutti gli altri suoi impegni di tempo regolati dal trasporto:

il tempo passato in ospedale, in garage o in tribunale, il tempo consumato a guardare la televisione e la pubblicità delle automobili, il tempo speso a guadagnare il denaro necessario per viaggiare durante le vacanze, eccetera. A questo americano occorrono dunque 1500 ore per percorrere 10000 chilometri di strada: 6 chilometri gli prendono più di un ora3.

L'attuale crisi sociale può diventare chiara solo quando si ammetta l'esistenza delle due soglie sopra descritte. Nel giro di un decennio parecchie istituzioni dominanti hanno, tutte insieme, saltato gagliardamente la seconda soglia. La scuola non è più un valido strumento di educazione, né i mezzi di trasporto veloce buoni strumenti di circolazione, né la catena di montaggio un modo di produzione accettabile. La scuola produce cancro, la velocità divora il tempo, la catena incita al sabotaggio in forme non più controllabili.

La reazione caratteristica degli anni Sessanta alla marea dell'insoddisfazione è stata l'escalation della tecnica e della burocrazia. L'escalation del potere di autodistruggersi è divenuta il rito sacrificale delle società altamente industrializzate. La guerra del Vietnam è stata, a questo riguardo, l'occasione di una rivelazione e di un occultamento. Ha svelato all'intero pianeta il rituale in esercizio: su un piccolo campo di battaglia e sotto la lente della tv, ha celebrato la trasformazione di fiumi di petrolio in carburante e napalm; ma, con questo, ha distolto la nostra attenzione dai settori sedicenti pacifici dove lo stesso rito si ripete in forma più discreta. La storia della guerra dimostra che un esercito «conviviale» di ciclisti e di pedoni può volgere a proprio vantaggio l'escalation di potenza anonima dell'avversario. E tuttavia, ora che la guerra è «terminata», molti americani pensano che col denaro speso annualmente per farsi battere dai vietnamiti sarebbe possibile sconfiggere invece la povertà interna. Altri vorrebbero destinare i venti miliardi di dollari del bilancio di guerra al rafforzamento della cooperazione internazionale, ciò che ne decuplicherebbe le attuali risorse. Né gli uni né gli altri comprendono che un'identica struttura istituzionale è sottesa alla guerra pacifica contro la povertà come alla guerra cruenta contro il dissenso. Tutti portano un gradino più su l'escalation che vorrebbero eliminare.


II. La ricostruzione conviviale

Lo strumento e la crisi

I sintomi di una crisi planetaria in corso di accelerazione sono manifesti. Se ne è ricercato il motivo un po' ovunque. Da parte mia, io avanzo la seguente spiegazione: la crisi ha le sue radici nel fallimento dell'impresa moderna, cioè la sostituzione della macchina all'uomo. Il grande progetto di sostituire la soddisfazione razionale e anonima alla risposta occasionale e personale si è trasformato in un implacabile processo di asservimento del produttore e di intossicazione del consumatore.

La relazione dall'uomo allo strumento è divenuta una relazione dallo strumento all'uomo. Qui bisogna riconoscere il fallimento. E un centinaio d'anni che cerchiamo di far lavorare la macchina per l'uomo e di educare l'uomo a servire la macchina. Adesso ci si accorge che a un certo punto la macchina non «funziona», che l'uomo non riesce a conformarsi alle sue esigenze, a farsi suo servitore a vita. Per un secolo l'umanità si è dedicata a un esperimento basato su questa ipotesi: lo strumento può rimpiazzare lo schiavo. Ora vediamo chiaramente che, impiegato per siffatti scopi, è lo strumento che fa dell'uomo il suo schiavo. La dittatura del proletariato e la dittatura del mercato sono due varianti politiche che celano lo stesso dominio da parte di un'attrezzatura industriale in costante espansione. Il fallimento del grande sogno di razionalizzazione progressiva porta a concludere che l'ipotesi è falsa.

La soluzione della crisi esige un radicale rovesciamento: solo ribaltando la struttura profonda che regola il rapporto tra l'uomo e lo strumento potremo servirci degli strumenti che sappiamo costruire. Lo strumento veramente razionale risponde a tre esigenze: genera efficienza senza degradare l'autonomia personale, non produce né schiavi né padroni, estende il raggio d'azione personale. L'uomo ha bisogno di uno strumento col quale lavorare, non di un'attrezzatura che lavori al suo posto. Ha bisogno di una tecnologia che esalti l'energia e l'immaginazione personali, non di una tecnologia che lo asservisca e lo programmi. L'industrializzazione programmatica ci ha progressivamente privato di tali strumenti.

Io credo che occorra invertire radicalmente le istituzioni industriali, ricostruire la società da cima a fondo. Per essere efficiente e andare incontro ai bisogni umani che pure determina, un nuovo sistema di produzione deve ritrovare la dimensione personale e comunitaria. La persona, la cellula di base congiungono in maniera ottimale l'efficacia e l'autonomia: soltanto sulla loro scala si può determinare il bisogno umano la cui produzione sociale è realizzabile.

Che si sposti o sia fermo, l'uomo ha bisogno di strumenti. Ne ha bisogno per comunicare con gli altri come per curarsi. L'uomo che va a piedi e prende erbe medicinali non è l'uomo che corre a centosessanta sull'autostrada e prende antibiotici; ma tanto l'uno quanto l'altro non possono fare tutto da sé e dipendono da ciò che gli fornisce il loro ambiente naturale e culturale. Lo strumento e quindi la fornitura di oggetti e di servizi variano da una civiltà all'altra.

L'uomo non vive soltanto di beni e di servizi, ma della libertà di modellare gli oggetti che gli stanno attorno, di conformarli al suo gusto, di servirsene con gli altri e per gli altri. Nei paesi ricchi, i carcerati dispongono spesso di beni e servizi in quantità maggiore delle loro famiglie, ma non hanno voce in capitolo riguardo al come le cose sono fatte, né diritto di interloquire sull'uso che se ne fa: degradati al rango di consumatori-utenti allo stato puro, sono privi di convivialità.

Intendo per convivialità il contrario della produttività industriale. Ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l'ambiente e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. Questi strumenti si possono ordinare in una serie continua avente a un estremo lo strumento dominante e all'estremo opposto lo strumento conviviale: il passaggio dalla produttività alla convivialità è il passaggio dalla ripetizione della carenza alla spontaneità del dono. Il rapporto industriale è riflesso condizionato, risposta stereotipa dell'individuo ai messaggi emessi da un altro utente, che egli non conoscerà mai, o da un ambiente artificiale, che mai comprenderà; il rapporto conviviale, sempre nuovo, è opera di persone che partecipano alla creazione della vita sociale. Passare dalla produttività alla convivialità significa sostituire a un valore tecnico un valore etico, a un valore materializzato un valore realizzato. La convivialità è la libertà individuale realizzata nel rapporto di produzione in seno a una società dotata di strumenti efficaci. Quando una società, qualunque essa sia, reprime la convivialità al di sotto di un certo livello, diventa preda della carenza; infatti nessuna ipertrofia della produttività riuscirà mai a soddisfare i bisogni creati e moltiplicati a gara.

L'alternativa

L'istituzione industriale ha propri fini astratti che giustificano i mezzi predominanti. Il dogma della crescita accelerata giustifica la sacralizzazione della produttività industriale, a spese della convivialità. La società che ne risulta, recisa dall'intenzione personale, ci appare di conseguenza come una «danza della morte», uno spettacolo d'ombre produttrici di domanda e generatrici di carenza. Soltanto invertendo la logica dell'istituzione diventa possibile rovesciarne il corso. Ribaltare l'istituzione produttiva del 1975 non ha nulla a che fare con le proposte di Rousseau o di Ludd. Per effetto dell'inversione radicale di cui parliamo, la scienza e la tecnologia moderne non saranno annientate ma conferiranno all'attività umana un'efficacia senza precedenti. Da questa inversione l'industria e la burocrazia non saranno distrutte, ma eliminate nella misura in cui ostacolano l'autonomia, l'autarchia e l'autogoverno. E la convivialità sarà restaurata nel cuore di sistemi politici che proteggano, garantiscano e rafforzino l'esercizio ottimale della risorsa meglio distribuita sulla terra: l'energia personale controllata dalla persona. Intendo sostenere che, a cominciare da adesso, bisogna che noi assicuriamo collettivamente la difesa della nostra esistenza e del nostro lavoro contro gli strumenti e le istituzioni che minacciano o misconoscono il diritto delle persone a utilizzare la loro energia in maniera creativa. A questo fine, dobbiamo mettere a nudo la struttura formale comune al processo di decisione etica, giuridica e politica: è essa a garantire che la limitazione e il controllo degli strumenti sociali siano frutto di un processo di partecipazione e non d'un oracolo di esperti. L'ideale proposto dalla tradizione socialista non si tradurrà nella realtà se non si invertono le istituzioni regnanti e se non si sostituisce l'attrezzatura industriale con strumenti conviviali.

Per contro, la ristrumentazione della società ha tutte le probabilità di rimanere un pio desiderio se gli ideali di giustizia socialisti non prevarranno. Perciò la crisi aperta delle istituzioni dominanti va salutata come l'alba di una liberazione rivoluzionaria nei confronti di quelle che mutilano la libertà elementare dell'essere umano al solo scopo di ingozzare un sempre maggior numero di utenti. Questa crisi mondiale delle istituzioni può farci pervenire a un nuovo stato di coscienza circa la natura dello strumento e l'azione da condurre perché la maggioranza della gente ne assuma il controllo. Se gli strumenti non vengono fin d'ora sottoposti a un controllo politico, la cooperazione dei burocrati del benessere e dei burocrati dell'ideologia ci farà crepare di «felicità». La libertà e la dignità dell'essere umano continueranno a degradarsi e si stabilirà un asservimento senza precedenti dell'uomo al suo strumento.

Alla minaccia di una apocalisse tecnocratica, io oppongo la visione di una società conviviale. La società conviviale riposerà su contratti sociali che garantiscano a ognuno il più ampio e libero accesso agli strumenti della comunità, alla sola condizione di non ledere l'uguale libertà altrui.

I valori-base

Al nostri giorni si tende ad affidare a un corpo di specialisti il compito di sondare e leggere il futuro. Si consegna il potere agli uomini politici che promettono di costruire la megamacchina per produrre il futuro. Si accetta una crescente disparità dei livelli di energia e di potere, perché lo sviluppo della produttività esige questa diseguaglianza. Infatti, più la distribuzione del prodotto industriale è egualitaria, più il controllo della produzione dev’essere centralizzato. Le stesse istituzioni politiche funzionano come meccanismi di pressione e di repressione che indirizzano il cittadino e raddrizzano il deviante, per renderli conformi agli obiettivi di produzione. Il Diritto è subordinato al bene dell'istituzione. Il consenso della fede utilitaristica abbassa la giustizia al semplice rango di un'equa distribuzione della merce industriale e (pertanto) misurabile.

Una società che definisce il bene come il soddisfacimento massimo del maggior numero di individui mediante il maggior consumo di prodotti e servizi industriali, logicamente arriva a imporre il consumo e mutila in modo intollerabile l'autonomia della persona. Nella misura in cui il consumo programmato aumenta, l'austerità adottata per scelta personale diventa un'attività antisociale. Una soluzione politica alternativa a questo utilitarismo è quella che definisce il bene come la capacità di ciascuno di modellare l'immagine del proprio avvenire. Questa ridefinizione del bene non diviene operativa se non applicando criteri negativi. Prima di tutto, occorre bandire le attrezzature e le leggi che ostacolano l'esercizio della libertà personale, e limitare le dimensioni degli strumenti in modo da salvaguardare certi valori essenziali che io chiamerei sopravvivenza, equità, autonomia creatrice, ma che si potrebbero anche designare con i tre criteri matematici di vitalità, curva di distribuzione degli input e curva di controllo degli output. Questi valori sono alla base di ogni struttura conviviale, anche se la loro espressione in termini linguistici, legislativi e di costume varia da una cultura all'altra.

Ciascuno di questi valori limita a suo modo lo strumento. La sopravvivenza è condizione necessaria, ma non sufficiente, dell'equità: si può infatti sopravvivere stando in carcere. L'equità, nella distribuzione dei prodotti industriali, è la condizione necessaria, ma non sufficiente per un lavoro conviviale: si può infatti diventare prigionieri dello strumento. L'autonomia, come potere di controllo sull'uso delle risorse e dei programmi, abbraccia i due primi valori e inoltre definisce il lavoro conviviale. Questo ha per presupposto la creazione di strutture che rendano possibile un'equa distribuzione del potere di modellare l'immagine dell'avvenire individuale e del gruppo di base. Noi dobbiamo e, grazie al progresso scientifico, possiamo edificare una società postindustriale in maniera che l'esercizio della creatività di una persona non imponga mai ad altri un lavoro, un sapere o un tipo di consumo obbligatori.

La ricostruzione sociale che rispetti le condizioni di convivialità non è solo necessaria ai fini della giustizia partecipatoria, ma anche perché, per l'uomo contemporaneo, sopravvivere sotto il regime di un contratto sociale hobbesiano è diventato impossibile. Nell'epoca della tecnologia scientifica, solo una struttura conviviale dello strumento può unire sopravvivenza ed equità. L'equità esige che si ripartiscano al tempo stesso sia l'avere sia il potere: mentre infatti la corsa all'energia porta all'olocausto, l'accentramento del controllo dell'energia nelle mani di un leviatano burocratico riduce il controllo egualitario dell'energia alla parvenza di un'equa distribuzione dei prodotti ottenuti. La strutturazione conviviale degli strumenti è una necessità e un'urgenza dal momento che la scienza libera sempre nuove forme di energia. Una struttura conviviale dello strumento rende realizzabile l'equità e praticabile la giustizia ed è la sola garanzia di sopravvivenza.

Il prezzo dell'inversione

Tuttavia il passaggio dall'attuale stato di cose a un modo di produzione conviviale rappresenterà per molti una minaccia alla loro stessa possibilità di sopravvivenza. Secondo l'uomo dall'immaginazione industrializzata, i primi a soffrire e a soccombere a causa dei limiti imposti all'industria sarebbero i poveri. Come vuole un certo modo ipocrita di pensare, l'ulteriore arricchimento delle superpotenze sarebbe condizione necessaria per la protezione e l'alimentazione dei cubani o dei senegalesi. Così si dimentica che il dominio dell'uomo sullo strumento ha già preso una piega di mutuo suicidio: la sopravvivenza del Bangladesh dipende dal frumento che presto il Canada non potrà più produrre, ma anche la salute dei nuovaiorchesi richiede il saccheggio delle risorse planetarie ormai vicine a esaurirsi. Il passaggio ad una società conviviale sarà accompagnato da sofferenze estreme da una parte e dall'altra. Certo, impegnarsi ad accelerare il ribaltamento del sistema di produzione attuale è impossibile per chi non riconosca che questa inversione è il prezzo minore, l'unico modo per sopravvivere. Questa transizione può auspicarla solo chi sa che l'organizzazione industriale dominante si avvia a produrre sofferenze ancor meno immaginabili.

Perché sia possibile, la sopravvivenza nell'equità esige sacrifici che sarebbero insostenibili se non fossero scelti consapevolmente. Esige una rinuncia generale al sovrappopolamento, alla sovrabbondanza e al superpotere, da parte degli individui come dei gruppi. Ciò vuoI dire abbandonare l'illusione che sostituisce all'amore del prossimo, ossia del più vicino, la pretesa di organizzare la vita agli antipodi, di creare istituzioni deputate a far fare il bene. La sopravvivenza nell'equità non sarà né l'opera d'un ukase dei burocrati, né l'effetto d'un calcolo dei tecnocrati. Essa è il risultato del realismo degli umili. La convivialità non ha prezzo, ma non può essere promossa da chi non vuol sapere che cosa comporta per lui e per gli altri lo staccarsi dal modello attuale. L'uomo ritroverà la gioia della sobrietà e l'austerità liberatrice reimparando a convivere, a dipendere dall'iniziativa dell'altro che conosce, anziché farsi schiavo dell'energia e della burocrazia onnipotente.

I limiti della mia dimostrazione

Unico mio scopo qui è di fornire una metodologia che permetta di individuare i mezzi che si sono tramutati in fini. Mi attacco alla corposità dello strumento, non alla sottigliezza dell'intenzione. La rigorosità del proposito m'impedisce dunque di trattare problemi contigui, complementari o subordinati, sei dei quali meritano tuttavia un cenno.

1. Non mi servirebbe a nulla offrire un'immagine dettagliata della società futura. Voglio fornire una guida all'azione e lasciare libero corso all'immaginazione. La vita in una società conviviale e di tipo moderno ci riserverà sorprese superiori alle nostre previsioni e speranze. Non propongo una utopia normativa, ma i presupposti formali di una procedura che permetta a qualunque collettività di scegliersi continuamente la propria utopia realizzabile. La convivialità è multiforme: si basa non sul dogma, ma sull'anatema delle condizioni che la renderebbero impossibile.

2. Io non propongo qui né un trattato di organizzazione delle istituzioni, né un manuale tecnico per la fabbricazione dello strumento giusto, né un modo d'impiego dell'istituzione conviviale. Non sono né il commesso viaggiatore di una tecnologia «migliore» né il propagandista di una ideologia. Voglio solo definire degli indicatori che segnalino ogni qual volta lo strumento manipola l'uomo, per poter bandire le attrezzature e le istituzioni che distruggono il modo di vita conviviale. Questo manifesto è dunque una guida, un rivelatore, e come tale va utilizzato. Il paradosso è che mentre la nostra abilità ad attrezzare l'azione umana ha oggi toccato un livello prima impensabile, nello stesso tempo, è diventato difficile concepire una società dotata di strumenti semplici, in cui la maggioranza degli uomini possa conseguire dei fini immaginati autonomamente. I nostri sogni sono standardizzati, la nostra immaginazione industrializzata, la nostra fantasia programmata. Non siamo capaci di concepire altro che sistemi iper-attrezzati di abitudini sociali, conformi alla logica della produzione di massa. Abbiamo quasi perduto la capacità di sognare un mondo in cui ognuno possa essere ascoltato, nel quale nessuno sia obbligato a limitare la creatività altrui, dove ciascuno abbia uguale potere di modellare l'ambiente che a sua volta poi determina i desideri e le necessità. Siamo chiusi alla prospettiva di un mondo che sia moderno e al tempo stesso libero da condizionamenti clientelari.

Il mondo attuale è diviso in due: ci sono quelli che non hanno abbastanza e quelli che hanno troppo; quelli che le automobili cacciano dalla strada e quelli che guidano le automobili. I poveri sono frustrati e i ricchi sempre insoddisfatti. Una società attrezzata col cuscinetto a sfere e che procedesse al ritmo dell'uomo sarebbe incomparabilmente più efficiente di tutte le rozze società del passato, incomparabilmente più autonoma di tutte le società programmate del presente. Siamo nell'epoca degli uomini-macchina, incapaci di cogliere nella sua ricchezza e concretezza il raggio d'azione offerto dagli strumenti moderni quando fossero mantenuti entro certi limiti. Nella mente dell'uomo-macchina non c'è posto per immaginare il salto qualitativo che deriverebbe da un'economia in equilibrio stabile col mondo in cui agisce. Nel suo cervello non c'è nessuna casella per una società libera dagli orari e dai trattamenti imposti dalla crescita degli strumenti. L'uomo-macchina non conosce la gioia che è a portata di mano, in una povertà voluta; ignora la sobria ebbrezza della vita. Una società in cui ognuno sapesse quanto basta sarebbe forse una società povera, ma anche, non c'è dubbio, libera e ricca di sorprese.

3. Mi soffermo sulla struttura dello strumento, non sulla struttura di carattere dell'individuo e della comunità. Certo, la ricostruzione sociale, specie nei paesi ricchi, implica che lo sguardo acquisti trasparenza, che il sorriso si faccia attento e che i gesti si addolciscano: esige una ricostruzione dell'uomo e del tipo di società. Ma qui non parlo da psicologo, benché sia convinto che dominando lo strumento sarà possibile ridurre le attuali distorsioni del carattere sociale.

Ogni città ha la propria storia e la propria cultura, e tuttavia ogni paesaggio urbano subisce oggi la medesima degradazione. Tutte le autostrade, tutti gli ospedali, tutte le aule scolastiche, tutti gli uffici, tutti i grandi complessi di abitazione e tutti i supermercati si somigliano. Gli stessi strumenti producono i medesimi effetti. Tutti i poliziotti in pattuglia motorizzata e tutti gli specialisti di informatica si somigliano; su tutta la superficie del pianeta hanno lo stesso aspetto e compiono gli stessi gesti, mentre, da una regione all'altra, i poveri sono diversi. Senza una riattrezzatura della società, non sfliggiremo alla progressiva omogeneizzazione di tutti, allo sradicamento culturale e alla standardizzazione delle relazioni personali. Una ricerca complementare a questa sarebbe da condurre sui caratteri dell'uomo «industriale» che ostacolano o minacciano la riattrezzatura. Ma io non fornisco ricette per cambiare l'uomo e rifare una società nuova, e non pretendo di sapere come le personalità e le culture muteranno. Una cosa però è certa: una pluralità di strumenti limitati e di organizzazioni conviviali stimolerebbe una diversità di modi di vita, sia che essa si richiami maggiormente alla «memoria», cioè all'eredità del passato, sia che si rifaccia all'invenzione, cioè alla creazione ex novo.

4. Mi allontanerei ugualmente dal mio tema se mi occupassi di strategia o di tattica politica. A eccezione, forse, della Cina retta da Mao, nessun governo attuale potrebbe ristrutturare il proprio progetto di società secondo un indirizzo conviviale. I dirigenti odierni sono come gli ufficiali d'una nave, assegnati alle leve di comando delle istituzioni dominanti: imprese multinazionali, branche dell'industria di Stato, partiti politici, monopoli professionali ecc. Possono cambiare rotta, carico o equipaggio, ma non tonnellaggio. Possono anche produrre una domanda che vada incontro all'offerta dello strumento, o limitare questa offerta per massimizzare il profitto, ma sono la classe meno capace di riconoscere la natura artificiale dell'offerta. Il presidente di una impresa europea o quello di una comune cinese possono facilitare la partecipazione complice dei lavoratori alla direzione della produzione, ma né da soli né con l'aiuto del sindacato possono invertire la struttura dell'istituzione che dirigono.

Le istituzioni dominanti ottimizzano la produzione della mega-attrezzatura e l'orientano verso un popolo di fantasmi. I dirigenti di oggi formano una nuova classe di uomini; scelti per la loro personalità, il loro sapere e il loro gusto del potere, sono uomini addestrati a garantire nello stesso tempo l'aumento del prodotto lordo e il condizionamento del cliente. Detengono il potere e tengono l'energia, lasciando al pubblico l'illusione di conservare la proprietà legale dell'attrezzatura, ove essa sia nazionalizzata. Sono loro che bisogna liquidare. Ma a nulla servirebbe sterminarli, soprattutto se lo si facesse unicamente per rimpiazzarli: il nuovo gruppo dirigente non farebbe che ritenersi più legittimo, maggiormente autorizzato a manipolare quel potere ereditato con tutta la sua struttura. Il solo modo per eliminare i manager è di rompere il meccanismo che li rende necessari, e con ciò stesso la domanda massiccia che assicura il loro impero. La professione di amministratore delegato non ha avvenire in una società conviviale, come il professore non ha un posto in una società descolarizzata: una specie si estingue quando perde la propria ragione d'essere.

L inverso e un ambiente propizio alla produzione per opera di un popolo anarchico. Ma l'inversione della struttura tecnica non può essere il risultato della vittoria di un partito classico. Il politico che ha conquistato il potere è l'ultima persona capace di comprendere il potere della rinuncia: è arrivato al potere per gestire lo strumento, non per eliminarlo in pro dell'umile autogestione di attrezzi precari. In una società in cui la decisione politica argini l'efficacia dello strumento, non soltanto sbocceranno i destini personali, ma nasceranno nuove forme imprevedibili di partecipazione politica. Cessa la ragione di ogni disciplina di partito. L'uomo fa lo strumento. Si fa mediante lo strumento. Lo strumento conviviale sopprime certe scale di potere, di costrizione e di programmazione, quelle precisamente che sono comuni agli opposti partiti e che tendono a uniformare tutti gli attuali governi. L'adozione di un modo di produzione conviviale non crea pregiudizi a vantaggio di alcuna forma determinata di governo, più di quanto non escluda una federazione mondiale, accordi fra nazioni, fra comuni, o il mantenimento di certi tipi di governo tradizionali. Mi piacerebbe prevedere quella vita politica che non può non esistere nel cuore di una società conviviale, ma qui mi limito a descrivere i criteri strutturali negativi dei mezzi di produzione e la struttura formale su cui fondare un nuovo pluralismo politico.

5. Una metodologia che ci permetta di individuare l'opera distruttiva della mega-attrezzatura postula il riconoscimento della sopravvivenza nell'equità come valore fondamentale. Ciò implica l'elaborazione di una teoria della giustizia. Ma questo manifesto non può essere né un trattato e neppure un compendio di etica. Per le esigenze della mia argomentazione, ho dovuto accontentarmi di enunciare semplicemente i valori fondamentali di tale teoria.

6. In una società postindustriale e conviviale, i problemi economici non scompariranno da un giorno all'altro, come non si risolveranno da soli. Riconoscere che il Prodotto Nazionale Lordo non misura il benessere o addirittura ammettere che la qualità della vita non è misurabile alla stessa stregua, non elimina il bisogno di una nozione per quantificare il trasferimento ingiusto del potere. L'assegnare alla crescita industriale limiti non-monetari e politicamente definiti comporterà una revisione di molti principi economici consacrati, ma non farà scomparire la diseguaglianza tra gli uomini. Ponendo limiti allo sfruttamento dell'uomo da parte dello strumento si rischia non solo di ricadere in forme preindustriali di sfruttamento, ma di sostituirvi nuove forme più accentuate di sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. In effetti, l'individuo dotato di uno strumento conviviale avrà, più che nell'era industriale o preindustriale, il potere di investirsi nella società, di provocare cambiamenti per lui significativi.

Anche limitato, lo strumento conviviale sarà incomparabilmente più efficace dello strumento primitivo e, a differenza dello strumento industriale, sarà alla portata di tutti. Certi, però, ne trarranno maggiore profitto di altri. La convivialità dello strumento accresce la possibilità di un «trasferimento netto di potere» fra gli individui, anche se, a differenza dello strumento industriale, non l'impone. L'adozione della convivialità comporta un ritorno alla lotta politica contro la concentrazione del potere personale, che adesso si maschera come potere di servizio professionale e sfugge in tal modo alla critica. Questa lotta continua esige una nuova teoria economica che individui scarsità non-finanziarie di vario tipo. Si dirà che la limitazione dell'attrezzatura è destinata a restare lettera morta sino a quando tale nuova teoria economica non divenga operante assicurando la continua ridistribuzione in una società decentralizzata. Ciò è del tutto esatto, ma non è questo il mio intento. Io propongo una teoria sull'efficacia e l'accessibilità dei mezzi di produzione, non una teoria che riguardi direttamente la riorganizzazione finanziaria. Io propongo di identificare cinque classi di confini imponibili alla crescita della produzione: ognuno di essi rappresenta una dimensione naturale, entro la quale le unità di misura dell'economia sono ridotte a una classe di fattori senza dimensione.

L'industrializzazione della carenza

Una metodologia che permetta di individuare la perversione dello strumento divenuto fine a se stesso è destinata a incontrare una forte resistenza fra coloro che sono abituati a misurare il bene in termini di lire o dollari. Platone diceva che il cattivo statista crede di poter misurare ogni cosa e

mescola la considerazione dell'inferiore e del superiore con la ricerca di ciò che è più conveniente allo scopo. Il nostro atteggiamento verso la produzione è stato modellato, attraverso i secoli, dal succedersi di simili statisti. Poco alla volta le istituzioni non solo hanno determinato la nostra domanda, ma hanno addirittura plasmato la nostra logica, riducendo il nostro senso delle proporzioni a quello della misura numerica. Si comincia col reclamare ciò che l'istituzione produce, e poi ben presto si pensa di non potere più farne a meno. E meno si gode di ciò che è diventato una necessità, più si sente il bisogno di quantificarlo. Il bisogno personale diventa una carenza misurabile.

L'invenzione dell'«educazione» e un esempio di ciò che sostengo. Di solito si dimentica che il bisogno di educazione, nel significato moderno del termine, è un'invenzione recente. Essa era sconosciuta prima della Riforma, quando significava semplicemente l'addestramento della prima età che gli animali e gli uomini impartiscono ai propri piccoli. La si distingueva chiaramente dall'istruzione, necessaria al bambino, e dallo studio, al quale alcuni si dedicavano più tardi, sotto la guida di un maestro. Per Voltaire, l'educazione era ancora un neologismo presuntuoso, usato da certi maestri di scuola che volevano darsi delle arie.

L'impresa consistente nel far passare tutti gli uomini per gradi successivi di illuminazione ha le sue più profonde origini nell'alchimia, la Grande Arte del Medioevo declinante. Giustamente Giovanni Amos Comenio, vescovo moravo del XVII secolo, pansofista e pedagogo, come lui stesso si definiva, viene considerato uno dei fondatori della scuola moderna. Fu tra i primi a proporre, rispettivamente, sette e dodici gradi di apprendistato obbligatorio. Nella sua Didactica Magna descrive la scuola come uno strumento per «insegnare interamente tutto a tutti» (omnes, omnia, omnino) e abbozza il progetto di una produzione a catena del sapere che diminuisca il costo e accresca il valore dell'educazione, in modo da permettere a ognuno di accedere alla pienezza dell'umanità. Ma Comenio non fu soltanto uno dei primi teorici della produzione di massa, fu anche il grande discepolo dell'alchimista Wolfgang Ratke, e adattò il vocabolario tecnico della trasmutazione degli elementi all'arte di allevare i bambini. L'alchimista si propone di raffinare gli elementi-base purificandone gli spiriti attraverso dodici tappe successive di illuminazione; al termine di questo processo, per il loro maggior bene e per quello dell'universo, gli elementi sono trasformabili in metallo prezioso: il residuo di materia che ha subito sette classi di trattamento fornisce argento, mentre ciò che sussiste dopo dodici prove dà oro. Naturalmente gli alchimisti, nonostante i loro assidui sforzi, non riuscivano mai nell'intento, ma nella loro scienza trovavano sempre nuove ragioni per continuare, e si rimettevano tenacemente al lavoro. Il fallimento dell'alchimia culmina nel fallimento dell'industria.

Il modo di produzione industriale è stato per la prima volta pienamente razionalizzato in occasione della fabbricazione di un nuovo bene di servizio: l'educazione. La pedagogia ha aggiunto un capitolo alla storia della Grande Arte. L'educazione divenne la ricerca del processo alchimistico grazie al quale potesse nascere un nuovo tipo d'uomo, richiesto dall'ambiente plasmato dalla magia scientifica. Ma, nonostante il prezzo pagato dalle varie generazioni, ogni volta risultò che la maggior parte degli allievi non erano degni di accedere ai più alti gradi dell'illuminazione, e dovevano essere esclusi dal gioco perché inadatti a condurre la «vera» vita offerta in questo mondo creato dall'uomo.

La ridefinizione del processo di acquisizione del sapere in termini di scolarizzazione non ha soltanto giustificato la scuola dandole l'apparenza della necessità; ha anche creato una nuova specie di scorie, i non scolarizzati, e una nuova specie di segregazione sociale, la discriminazione di chi è privo di educazione da parte di quelli che sono fieri di averla ricevuta. L'individuo scolarizzato sa esattamente a quale livello della piramide gerarchica del sapere è riuscito ad arrivare, e conosce con precisione la sua distanza dalla vetta. Una volta che ha accettato di lasciarsi definire da una amministrazione in base al proprio consumo di educazione attestato dal suo titolo di studio, accetta poi senza batter ciglio che dei burocrati determinino il suo bisogno di salute, che dei tecnocrati definiscano la sua carenza di mobilità. Modellato in tal modo sulla mentalità del consumatore-utente, non può più scorgere la degenerazione dei mezzi in fini inerente alla struttura stessa della produzione industriale, non è più in grado di distinguere fra il necessario ed il lusso. Condizionato a credere che la scuola può fornirgli uno stock di sapere, arriva a credere anche che i trasporti possono fargli risparmiare tempo o che la fisica atomica, nelle sue applicazioni militari, gli assicura protezione. Si aggrappa all'idea che il livello dei salari corrisponda al livello di vita e che l'espansione del terziario rispecchi un miglioramento della qualità della vita. In realtà l'industrializzazione dei bisogni riduce ogni soddisfazione a un atto di verifica operazionale, sostituisce alla gioia di vivere il piacere di applicare una misura.

Il servizio educazione e l'istituzione scuola si giustificano reciprocamente. La collettività non ha che un modo per uscire da questo circolo vizioso, ed è prendere coscienza che l'istituzione è ormai arrivata a stabilire essa stessa i propri fini: l'istituzione pone dei valori astratti, poi li materializza incatenando l'uomo a meccanismi implacabili. Come uscirne? Occorre interrogare se stessi: chi mi incatena, chi mi assuefà alle sue droghe? Porre la domanda significa già rispondere. Significa liberarsi dall'oppressione del nonsenso e della carenza, riconoscendo ognuno la propria capacità di imparare, muoversi, curarsi, farsi intendere e comprendere. Occorre tempo per uscirne ? Bisogna capire che questa liberazione è obbligatoriamente istantanea, perché non c e via di mezzo tra l'incoscienza e il risveglio. La carenza che la società industriale industriosamente coltiva non sopravvive alla scoperta che persone e comunità possono soddisfare da se stesse i loro bisogni autentici.

Il modo di percezione industriale dei valori rende estremamente arduo per l'utente prendere coscienza della struttura profonda dei mezzi sociali. Non gli è facile capire che esiste una via diversa dall'alienazione del lavoro, dall'industrializzazione della carenza e dalla sovrefficienza dello strumento. Non gli è facile immaginare che si possa acquistare in rendimento sociale ciò che si perde in redditività industriale. Il timore che rifiutando il presente si ritorni alla schiavitù del passato lo chiude nella prigione multinazionale d'oggi, si chiami essa Fiat o Scuola.

Un tempo l'esistenza dorata di alcuni poggiava sull'asservimento degli altri. L'efficienza del singolo era scarsa: la vita agiata di una minoranza esigeva la manomissione del lavoro della maggioranza. A un certo punto, una serie di scoperte, semplicissime ma inconcepibili fino a qualche tempo fa, ha dilatato l'efficienza dell'uomo; il cuscinetto a sfere, la sega e il vomere d'acciaio, la pompa e la bicicletta hanno potenzialmente moltiplicato il rendimento orario dell'uomo e facilitato il suo lavoro. Ma tra l'alto Medioevo e il secolo dei lumi, in Occidente, più di un autentico umanista si è smarrito dietro il sogno alchimistico, e le nuove scoperte, invece di accrescere il potere degli uomini, sono state incorporate alle macchine, nell'illusione che la megamacchina, produttore artificiale al servizio di una umanità astratta, potesse colmare i bisogni esistenti anziché creare, com'è accaduto, sempre nuove carenze a un ritmo più veloce della creazione di valori.

L'altra possibilità: una struttura conviviale

La società conviviale è una società che dà all'uomo la possibilità di esercitare l'azione più autonoma e creativa, con l'ausilio di strumenti meno controllabili da altri. La produttività si coniuga in termini di avere, la convivialità in termini di essere. L'attrezzatura manipolante tende all'esasperazione, l'uso dello strumento conviviale tende all'autolimitazione. Mentre la crescita dell'attrezzatura al di là delle soglie critiche non fa che produrre uniformazione regolamentata, dipendenza, sopraffazione e impotenza, la scelta austera dello strumento conviviale è garanzia d'una libera espansione dell'autonomia e della creatività umane. E chiaro che uso i termini strumento e attrezzatura nel senso più ampio possibile di mezzo, vuoi che sia nato dall'attività costruttrice, organizzatrice o razionalizzante dell'uomo, vuoi che, come la selce preistorica, venga semplicemente appropriato dalla mano per realizzare un compito specifico, cioè messo al servizio di un'intenzionalità.

Una scopa, una penna a sfera, un cacciavite, una siringa, un mattone, un motore, sono strumenti quanto l'automobile o il televisore. Una fabbrica di carne in scatola o una centrale elettrica, che sono istituzioni produttrici di beni, rientrano anch'esse nella categoria degli strumenti. Vanno

inoltre comprese nell'attrezzatura le istituzioni produttrici di servizi, come la scuola, l'organizzazione medica, la ricerca, i mezzi di comunicazione i centri di pianificazione. Le leggi sul matrimonio ed i programmi scolastici modellano la vita sociale alla stessa stregua della rete stradale. Nel senso che do alla parola in questo saggio, la categoria degli strumenti abbraccia tutti i mezzi ragionati dell'azione umana, la macchina e il modo d'impiegarla, il codice e il suo singolo operatore. L'area coperta dal concetto di strumento varia da cultura a cultura; dipende dalla presa che una determinata società esercita sulla sua struttura e sul suo ambiente. Ogni oggetto assunto come mezzo di un fine diviene strumento, ogni mezzo concepito apposta per un fine è uno strumento ragionato.

Lo strumento è inerente al rapporto sociale. Allorché agisco in quanto uomo, mi servo di strumenti. A seconda che io lo padroneggi o che viceversa ne sia dominato, lo strumento mi collega o mi lega al corpo sociale. Nella misura in cui io padroneggio lo strumento, conferisco al mondo un mio significato; nella misura in cui lo strumento mi domina, è la sua struttura che mi plasma e informa la rappresentazione che io ho di me stesso. Lo strumento conviviale è quello che mi lascia il più ampio spazio ed il maggior potere di modificare il mondo secondo le mie intenzioni. Lo strumento industriale mi nega questo potere; di più: attraverso di esso, è un altro diverso da me che determina la mia domanda, restringe il mio margine di controllo e governa il mio senso della vita. La maggior parte degli strumenti che mi circondano oggi non può essere utilizzata in modo conviviale: sono strumenti ragionati nelle mani di altri, e ancora più spesso strumenti ragionati sfuggiti dalle mani di tutti e che esercitano selvaggiamente le funzioni intrinseche alla propria struttura.

Lo strumento è al tempo stesso mezzo di controllo e trasformatore di energia. La scuola è un mezzo di controllo, il veicolo un trasformatore di energia. Come sappiamo, l'uomo dispone di due tipi di energia: quella che trae da se stesso (o energia metabolica) e quella che attinge dall'esterno. Maneggia la prima, manipola la seconda. Perciò distinguerei anche tra lo strumento maneggiabile e lo strumento manipolabile.

Lo strumento maneggiabile adatta l'energia metabolica a un compito specifico. È polivalente, come la selce naturale, il martello o il temperino; o monovalente e altamente elaborato, come il tornio del vasaio, il telaio per tessere, la macchina per cucire a pedale o il trapano del dentista. Lo strumento maneggiabile può raggiungere la complessità dell'organizzazione di trasporti diretta a trarre dall'energia umana il massimo di mobilità, per esempio un sistema di biciclette e tricicli con una corrispondente rete di piste ciclabili magari coperte e dotate di stazioni di servizio. Lo strumento maneggiabile è conduttore di energia metabolica; vi si applica la mano, il piede. L'energia che richiede può essere prodotta dalla maggior parte di chi mangi e respiri.

Lo strumento manipolabile è mosso, almeno in parte, dall'energia esterna. Può servire a moltiplicare l'energia umana: sono i buoi che tirano l'aratro, ma per guidarlo occorre un uomo. Anche un montacarichi o una sega elettrica sposano l'energia metabolica all'energia esogena. Tuttavia lo strumento manipolabile può superare la scala umana. L'energia fornita dal pilota di un aereo supersonico non rappresenta più una parte rilevante dell'energia consumata in volo: il pilota è un semplice operatore, la cui azione è governata dai dati che un computer elabora per lui. Se c'è ancora qualcuno nella cabina è perché il calcolatore è imperfetto o perché il sindacato dei piloti di linea è potente e organizzato.

Lo strumento è conviviale nella misura in cui ognuno può utilizzarlo, senza difficoltà, quando e quanto lo desideri, per scopi determinati da lui stesso. L'uso che ciascuno ne fa non lede l'altrui libertà di fare altrettanto; né occorre un diploma per avere il diritto di servirsene. Tra l'uomo e il mondo, è conduttore di senso, traduttore di intenzionalità.

Certe istituzioni sono, strutturalmente, strumenti conviviali e ciò indipendentemente dal loro livello tecnologico. Per esempio, il telefono. Purché possa acquistare un gettone, chiunque può chiamare chi desidera per comunicargli ciò che vuole: le ultime informazioni sulla borsa, ingiurie o parole d'amore. Nessun burocrate potrà stabilire in anticipo il contenuto di una comunicazione telefonica; tutt'al più potrà violarne il segreto o, al contrario, proteggerlo. Quando infaticabili calcolatori tengono occupata più di metà delle linee californiane limitando così la libertà delle comunicazioni personali, è la compagnia telefonica in difetto, perché distoglie ad altri fini lo sfruttamento di una licenza originariamente concessa per dare la parola alle persone. Quando una intera popolazione si lascia intossicare dall'abuso del telefono e perde così l'abitudine a scambiarsi lettere o visite, il difetto sta nell'uso smodato dello strumento, conviviale nella sua essenza, ma la cui funzione è snaturata da una impropria estensione del suo campo d'azione.

Lo strumento maneggiabile richiama l'uso conviviale. Se non vi si presta dipende dal fatto che l'istituzione ne riserva l'uso a un monopolio professionale, per esempio collocando le biblioteche all'interno delle scuole o decretando che l'estrazione di un dente o altri interventi semplici sono operazioni mediche eseguibili dai soli specialisti. Lo strumento maneggiabile può anche essere sottoposto a controllo burocratico diventando oggetto d'una specie di segregazione, come nel caso di certi motori concepiti in modo che non vi si possano fare piccole riparazioni da soli con pinze e cacciavite. Il monopolio dell'istituzione su questo tipo di strumenti maneggiabili è un abuso, perverte l'uso dello strumento, ma non per tanto esso ne viene snaturato, così come il coltello dell'assassino non cessa di essere un arnese di cucina.

Il carattere conviviale o meno dello strumento non dipende, in linea di principio, dal suo grado di complessità. Ciò che si è detto del telefono potrebbe essere ripetuto punto per punto riguardo al servizio postale, o al sistema dei trasporti fluviali indocinese. Ognuno di questi sistemi è una struttura istituzionale che massimizza la libertà della persona, anche se può essere sviato dal suo fine e pervertito nell'uso pratico. Il telefono è il prodotto di una tecnica avanzata; le poste possono funzionare a diversi livelli tecnici, ma richiedono sempre una notevole organizzazione; la rete dei canali e delle piroghe esige dagli utenti la sola collaborazione alla manutenzione dei klong, nel quadro di una tecnica tradizionale.

L'equilibrio istituzionale

Allorché si avvicina alla sua seconda soglia, l'istituzione non solo perverte l'uso dello strumento maneggiabile, ma subito gli sostituisce lo strumento manipolabile. Comincia allora il regno delle manipolazioni. Sempre di più si scambia il mezzo col fine, mentre l'adattamento dell'uomo al mezzo diventa sempre più costoso. Così, mettere insieme i presupposti dell'insegnamento costa di più che insegnare, e il costo della formazione non è più compensato dal frutto della produzione. I mezzi per il fine perseguito dall'istituzione divengono sempre meno accessibili a una persona autonoma o, più esattamente, diventano parte integrante di una catena di anelli solidali che bisogna accettare in tutta la sua interezza. Negli Stati Uniti, se non si dispone di un'automobile non si viaggia in aereo, e se non si viaggia in aereo non si partecipa ai congressi di specialisti. Gli strumenti che conseguirebbero gli stessi scopi esigendo meno dal fruitore e rispettando la sua libertà d'azione, sono esclusi dal mercato. L'arte di corrispondere fra colleghi scompare. Mentre i marciapiedi spariscono la rete stradale non fa che diventare più complessa.

Può darsi che certi mezzi di produzione non conviviali risultino desiderabili in una società postindustriale. È probabile che, anche in un mondo conviviale, certe collettività scelgano di avere più abbondanza al prezzo di una minore creatività. E praticamente certo che, nel periodo di transizione, l'elettricità non dappertutto sarà prodotta su scala domestica. E evidente che il conduttore di un treno non può né scostarsi dalla strada ferrata né decidere di testa sua le fermate o l'orario. I vascelli d'una volta erano tenuti a seguire una rotta precisa non meno delle petroliere moderne; anzi. La trasmissione dei messaggi telefonici si effettua su una certa banda di frequenza, deve essere diretta da un'amministrazione centrale, anche se riguarda solo una zona limitata. In verità non c'è alcuna ragione per bandire da una società conviviale qualunque strumento potente, qualsiasi strumento ragionato manipolabile e ogni produzione centralizzata. Nell'ottica conviviale, l'equilibrio tra la giustizia nella partecipazione e l'uguaglianza nella distribuzione può variare da una società al l'altra, a seconda della storia, degli ideali e dell'ambiente della società stessa.

Non è essenziale che le istituzioni manipolatrici o i beni e i servizi capaci d'intossicare siano del tutto assenti da una società conviviale. Ciò che conta è che tale società realizzi un equilibrio fra gli strumenti che producono una domanda per creare e soddisfare la quale sono stati concepiti, e gli strumenti che invece stimolano l'invenzione e l'adempimento personali. I primi materializzano programmi astratti che riguardano gli uomini in generale; i secondi favoriscono l'attitudine di ciascuno a perseguire i propri fini, nella maniera propria, inimitabile.

Non è il caso di bandire uno strumento per il solo fatto che, secondo uno dei nostri criteri di classificazione, può definirsi anticonviviale. Questi criteri sono guide per l'azione; una società può servirsene per ristrutturare il complesso della sua attrezzatura, in funzione dello stile e del grado di convivialità che desidera. Una società conviviale non proibisce la scuola: mette al bando il sistema scolastico pervertito in strumento obbligatorio, fondato sulla segregazione e il rifiuto dei bocciati. Una società conviviale non sopprime i trasporti interurbani a grande velocità a meno che la loro esistenza divori il tempo dell'insieme della popolazione, imponendo le sue servitù alla maggioranza per accrescere la mobilità dell'élite. Una società conviviale non è neppure tenuta a rifiutare la televisione, sebbene questa lasci alla discrezione di pochi produttori e abili parlatori la scelta e la confezione di ciò che verrà fatto «ingoiare» alla massa dei telespettatori; ma una società conviviale deve proteggere la persona dall'obbligo di trasformarsi in voyeur. Come si vede, i criteri della convivialità non sono regole da applicare meccanicamente, ma indicatori dell'azione politica, riguardanti ciò che bisogna evitare. Concepiti per rivelare una minaccia, permettono a ciascuno di mettere a frutto la propria libertà.

Le fonti di energia

Attualmente i criteri istituzionali dell'azione umana sono l'opposto dei nostri, compresi quelli vigenti nelle società marxiste, dove la classe operaia si crede al potere. Il pianificatore socialista rivaleggia col cantore della libera impresa, per dimostrare che i suoi principi assicurano a una società il massimo di produttività. La politica economica socialista si definisce molto spesso per l'ansia di accrescere la produttività industriale di ogni paese socialista. Il monopolio dell'interpretazione industriale del marxismo funge da barriera e mezzo di ricatto contro ogni forma di marxismo giudicata eterodossa perché industrialmente poco efficiente. Resta da vedere se anche la Cina, dopo la morte di Mao, abbandonerà la sua attuale tendenza verso la convivialità produttiva per rivolgersi verso la produttività standardizzata. L'interpretazione esclusivamente industriale del socialismo fa sì che comunisti e capitalisti parlino lo stesso linguaggio, misurino in maniera analoga il grado di sviluppo raggiunto da una società. Una società nella quale la maggioranza dipenda, quanto ai beni e servizi che riceve, dalle qualità d'immaginazione, d'amore e di abilità di ciascuno, appartiene alla categoria cosiddetta sottosviluppata; viceversa, una società in cui la vita quotidiana consiste in nient'altro che una serie di ordinazioni dal catalogo del grande magazzino universale, è ritenuta avanzata. E il rivoluzionario non è più che un allenatore sportivo: campione del terzo mondo o portavoce di minoranze sottoconsumatrici, argina la frustrazione delle masse alle quali rivela il loro ritardo; canalizza la violenza popolare e la trasforma in energia di rincorsa.

Ciascun aspetto della società industriale è una componente di un sistema globale che implica l'escalation della produzione e l'aumento della domanda indispensabile per giustificare il costo sociale complessivo. Ecco perché, concentrando la critica sociale sulla cattiva gestione, la corruzione, l'insufficienza della ricerca o il ritardo tecnologico, non si fa che distrarre l'attenzione della gente dal solo problema che conti: la struttura inerente allo strumento preso come mezzo e che determina una crescente carenza generale. Un altro errore consiste nel credere che la frustrazione attuale sia dovuta principalmente alla proprietà privata dei mezzi di produzione e che l'appropriazione pubblica di questi mezzi attraverso un organismo centrale di pianificazione proteggerebbe gli interessi della maggioranza e porterebbe a un'equa ripartizione dell'abbondanza. La struttura anti-umana e manipolatrice dello strumento non sarà trasformata dal rimedio proposto. Finché si attaccherà il trust Ford per la sola ragione che arricchisce il signor Ford, si coltiverà l'illusione che le officine Ford potrebbero arricchire la collettività. Finché la popolazione penserà di poter trarre vantaggio dall'automobile, non rimprovererà a Ford di fabbricare auto. Fino a quando condividerà l'illusione che sia possibile aumentare la velocità di locomozione di chiunque, la società continuerà a criticare il proprio sistema politico anziché immaginare un sistema di circolazione moderno, più efficiente di tutti quelli che si basano su veicoli rapidi. La soluzione, tuttavia, è a portata di mano: non risiede in un certo modo di appropriazione dello strumento, ma nella scoperta del carattere di certi strumenti, e cioè che nessuno potrà mai possederli. Il concetto di appropriazione non vale per gli strumenti incontrollabili. Il problema urgente è invece di determinare quali strumenti possono essere controllati nell'interesse generale, e di comprendere che uno strumento non controllabile rappresenta una minaccia insostenibile. Quanto al sapere come organizzare la partecipazione individuale a un esercizio del controllo che risponda all'interesse generale, è un fatto secondario.

Certi strumenti sono sempre distruttivi, qualunque sia la mano che li governa: la mafia, i capitalisti, una ditta multinazionale, lo Stato o anche un collettivo di lavoratori. Così è, per esempio, per le reti autostradali a corsie multiple, per i sistemi di comunicazione a grandi distanze che utilizzano una larga gamma di frequenza, e così anche per le miniere a cielo aperto o per la scuola. Lo strumento distruttivo accresce l'uniformazione, la dipendenza, lo sfruttamento e l'impotenza; toglie al povero la sua parte di convivialità per rendere i ricchi ancora più ciechi alla perdita della loro.

L'uomo moderno non riesce a pensare lo sviluppo e la modernizzazione in termini di diminuzione anziché d'accrescimento del consumo di energia e di manipolazione ragionata. Per lui, una tecnica avanzata fa rima con un profondo intervento nei processi fisici, mentali e sociali. Se vogliamo concepire lo strumento in maniera esatta, dobbiamo abbandonare l'illusione che un alto grado di cultura implichi un consumo di energia il più elevato possibile. Nelle civiltà antiche le risorse d'energia erano ripartite assai equamente. Ogni essere umano, grazie alla sua costituzione biologica, disponeva di tutta l'energia potenziale necessaria nel corso della sua vita per trasformare coscientemente l'ambiente fisico secondo la propria volontà, dato che la fonte ditale energia era il suo corpo all'unica condizione d'essere conservato in buona salute. In quella situazione, le possibilità per un uomo di controllare quantità maggiori di energia fisica non derivavano che da manipolazioni psichiche o da un dominio politico sugli altri.

Per costruire le piramidi di Teotihuacàn, in Messico, o per sistemare le risaie a terrazze di Ibagué, nelle Filippine, gli uomini non hanno avuto bisogno di strumenti manipolabili. La cupola di San Pietro a Roma e i canali di Angkor Vat sono stati fatti a forza di braccia. I generali di Cesare ricevevano le notizie per mezzo di cavalieri, i Fugger e i capi luca si servivano di corridori. Fino al secolo XVIII, le galere della repubblica di Venezia e tutti i messaggeri facevano meno di 120 chilometri al giorno. L'esercito di Wellington si muoveva ancora al passo di quello d'Alessandro Magno. Era la mano o il piede ad azionare la spola e l'arcolaio, il tornio da vasaio e la sega per il legno. L'energia metabolica dell'uomo alimentava tanto l'agricoltura e l'artigianato quanto la guerra. L'ingegnosità dell'individuo canalizzava l'energia animale in certi compiti sociali. I potenti della terra non avevano altra energia da controllare se non quella fornita, per lealtà oppure per forza, dai loro stessi sudditi.

Ovviamente il metabolismo umano non bastava a procurare tutta la forza desiderabile, ma ne restava, nella maggioranza delle culture, la fonte principale. L'uomo, è vero, sapeva mettere a profitto certe forze naturali: conservava il fuoco per cuocere i suoi alimenti e, più tardi, per forgiare armi, sapeva trarre l'acqua dal suolo, discendere il corso dei fiumi, navigare a vela, utilizzare la forza di gravità, addestrare l'animale a tirargli l'aratro. Ma il complesso di queste risorse, eccezion fatta per l'energia termica, restava secondario e di scarso rendimento. La società ateniese del VI secolo o quella fiorentina del Quattrocento sapevano armoniosamente utilizzare le forze naturali, ma la costruzione dei templi e dei palazzi fu, nell'essenziale, opera della sola energia umana. Oggi per costruire un metro cubo di abitazione urbana si impiega da 100 a 300 volte l'energia utilizzata centocinquant'anni fa per fabbricare case tuttora in uso. Certo, l'uomo preindustriale poteva anche ridurre una città in cenere o fare del Sahara un deserto, ma simili esplosioni di energia, una volta scatenate, sfuggivano al suo potere di controllo.

È possibile calcolare approssimativamente la somma di energia fisica di cui disponevano le società tradizionali. L'essere umano brucia in media 2500 calorie al giorno, di cui i quattro quinti servono unicamente a mantenerlo in vita, a far battere il suo cuore e funzionare il suo cervello. Il resto può essere applicato a compiti diversi, ma non è trasformabile del tutto in lavoro. Bisogna tener conto, infatti, non solo dei giochi dell'infanzia, ma anche e soprattutto delle attività che assicurano la sopravvivenza quotidiana: lavarsi, far da mangiare, proteggersi dal freddo o dalla minaccia altrui. Privato della molla di queste attività, l'uomo diventa inadatto al lavoro; la società può modellarle, ma non sopprimerle per destinare ad altri compiti l'energia che esse assorbono. Il costume, la lingua ed il diritto determinano la forma del vasellame che lo schiavo fabbrica, ma il padrone non può privare lo schiavo di un tetto, salvo a privare se stesso dello schiavo. Grazie alla somma di molteplici piccole cariche di energia individuale messe a disposizione della collettività, si costruivano templi, si spostavano montagne, si tessevano indumenti, si faceva la guerra, si trasportava il monarca e lo si onorava.

L'energia era limitata, dipendeva dal livello demografico, traeva origine dal vigore dei corpi. La sua efficacia dipendeva dal grado di sviluppo, e dalla ripartizione tra la popolazione, degli strumenti maneggiabili. Lo strumento permetteva all'energia metabolica di applicarsi al compito. Giocava con le forze, fosse quella di gravità o quella del vento, ma tutt'al più moltiplicava la forza-lavoro di un uomo per un fattore inferiore a dieci. Per disporre di più potere fisico del vicino, bisognava asservirlo. Se il padrone utilizzava forme di energia non umane, non poteva padroneggiarle se non in quanto regnasse anche su altri uomini. Ogni paio di buoi richiedeva un bovaro, ogni vela cinque marinai. Persino il fuoco della forgia esigeva un guardiano che gli badasse. Il potere politico era dominio della volontà altrui, ed il dominio della forza fisica altrui mediante il timore della frusta oppure di un dio era possesso dell'autorità.

Nelle società preindustriali, il potere politico non poteva controllare che l'energia eccedente fornita dalla popolazione. A ogni incremento di efficienza ottenuto grazie ad un nuovo strumento o ad un nuovo modo di organizzazione, la popolazione rischiava di essere privata del controllo di questo surplus di energia. Ogni accrescimento di efficienza permetteva alla classe dominante di appropriarsi una parte accresciuta dell'energia totale disponibile. Così, all'evoluzione delle tecniche corrispondeva una parallela evoluzione delle classi sociali. Si tassava l'individuo togliendogli una parte del suo prodotto personale, oppure gli si assegnavano delle corvées supplementari. L'ideologia, la struttura dell'economia, l'armamento e il modo di vita favorivano questa concentrazione del dominio dell'energia biologica eccedente nelle mani di alcuni.

Una simile concentrazione non ha però, da una cultura all'altra, le stesse conseguenze sulla ripartizione dei frutti dell'attività sociale. Nel caso migliore, accresce il raggio d'azione delle energie personali. La società contadina dell'Europa centrale, alla fine del Medioevo, ne è un buon esempio. Tre recenti invenzioni, la staffa, la ferratura e il collare, triplicavano il rendimento del cavallo che, così equipaggiato, tirando l'aratro rendeva possibile la rotazione triennale e la messa a coltura di nuove terre; attaccato a un carro, elevava al quadrato il raggio d'azione del contadino, d'onde il movimento di concentrazione dell'habitat in villaggi raggruppati attorno alla chiesa e poi alla scuola. Nel caso peggiore, la concentrazione del potere di disporre dell'energia portava alla costituzione di grandi imperi propagati da eserciti mercenari e alimentati da contadini ridotti in schiavitù.

Verso la fine dell'ultima fase dell'Età del Ferro, cioè dal X al XIX secolo, la massa totale di energia disponibile aumentò rapidamente. In realtà la maggior parte delle grandi mutazioni tecniche precedenti alla scoperta dell'elettricità sono avvenute nell'alto Medioevo. Alla fucina situata nel bosco si sostituisce la fucina in riva al torrente, al grosso martello i pesanti mulinelli dei magli frantumatori di minerale, al paniere portato a spalla l'argano che permette di issare cassoni. La forza idraulica aziona mantici per aerare le gallerie; per mezzo di norie, pompa l'acqua per prosciugare il fondo della miniera, e l'uomo può spingersi a maggiori profondità sottoterra. L'invenzione del trealberi, che consente di sfruttare meglio la forza del vento, rende possibile la circumnavigazione del globo. La costruzione dei canali europei e l'invenzione della chiusa permettono trasporti regolari di carichi pesanti. I birrai, i tintori, i vasai, i fornaciai, gli zuccherieri e i salinai beneficiano del perfezionamento e della diffusione dei mulini ad acqua ed a vento. Poi il carro munito di un avantreno ruotante attorno a un perno e di assali mobili permette di raddoppiare la velocità di locomozione: ne traggono pari profitto la posta e il trasporto dei passeggeri sin dal secolo XVIII. Per la prima volta nella storia dell'uomo, si possono percorrere più di 100 chilometri al giorno. Città e campagne, le une più lentamente delle altre, ne furono trasformate, a poco a poco rimodellate.

Nel suo libro Il mito della macchina Lewis Mumford sottolinea le caratteristiche specifiche che fecero dell'attività mineraria il prototipo delle posteriori forme di meccanizzazione: «indifferenza ai fattori umani, all'inquinamento e alla distruzione dell'ambiente, concentrazione sul processo fisicochimico per ottenere il metallo o il combustibile desiderato e, soprattutto, isolamento topografico e mentale dal mondo organico del contadino e dell'artigiano, e dal mondo spirituale della Chiesa, dell'Università e della Città. Per il suo effetto distruttivo sull'ambiente e il suo disprezzo per i rischi imposti all'uomo, l'attività mineraria è molto simile alla guerra, e come la guerra, attraverso il continuo confronto col pericolo e con la morte, la miniera produce spesso un tipo d'uomo duro e dignitoso,... il soldato nel suo aspetto migliore. Ma l'animus distruttivo della miniera, la sua crudele routine di fatica, il suo alone di miseria e di degradazione del paesaggio, si trasmisero alle nuove industrie che utilizzavano la sua produzione». Il costo sociale superò largamente il guadagno meccanico. Così allo strumento azionato secondo il ritmo dell'uomo succede un uomo che agisce secondo il ritmo dello strumento, e tutti i modi d'agire umani ne vengono trasformati.

L'ideologia che presiede all'organizzazione industriale degli strumenti e all'organizzazione capitalista dell'economia nacque vari secoli prima della cosiddetta Rivoluzione industriale. Fin dall'epoca di Bacone, gli europei cominciarono a compiere delle operazioni che discendevano da uno stato d'animo nuovo: guadagnare tempo, restringere lo spazio, accrescere l'energia, moltiplicare i beni, spregiare le norme della natura, prolungare la durata della vita, sostituire gli organismi viventi con meccanismi in grado di simularne o ampliarne una particolare funzione. Simili imperativi sono divenuti i dogmi della scienza e della tecnica nelle nostre società; non hanno valore di assiomi solo perché non vengono sottoposti ad analisi. Lo stesso mutamento di stato d'animo si manifesta nel passaggio dal ritmo rituale alla regolarità meccanica: si mette l'accento sulla puntualità, sulla misurazione dello spazio, sul computo dei voti, sì che oggetti concreti e fatti complessi vengono trasformati in quanta astratti accumulabili, equiparabili e interscambiabili. Questa passione capitalista per un ordine ripetitivo ha minato l'equilibrio qualitativo tra l'operaio ed i suoi semplici strumenti.

L'emergere di nuove forme di energia e di potere ha cambiato il rapporto che l'uomo aveva col tempo. Il prestito a interesse era condannato dalla Chiesa come una pratica contro natura: il denaro era, per natura, un mezzo di scambio che serviva ad acquistare il necessario, non un capitale in grado di lavorare o portare frutti. Nel secolo XVII, persino la Chiesa abbandonò questa concezione, sia pure con riluttanza, piegandosi al fatto che, per la sua esistenza, doveva ormai appoggiarsi non già a signori feudali ma a mercanti capitalisti. Si generalizzò l'uso dell'orologio e, con esso, l'idea della «mancanza» di tempo. Il tempo divenne denaro: ho guadagnato tempo, mi resta del tempo, come posso spenderlo? Non ho tempo, non posso concedermi il lusso di sprecare il mio tempo, è già un'ora guadagnata, sono espressioni che riflettono il mutato atteggiamento.

Ben presto si cominciò a considerare esplicitamente l'uomo come una fonte di forza misurabile. Si provò a misurare la prestazione quotidiana massima che se ne poteva ottenere, poi a comparare il costo del mantenimento e della forza dell'uomo con quello del cavallo. L'uomo venne ridefinito come fonte di energia meccanica. Si notò allora che i condannati al remo non rendevano molto perché le galere stavano per lunghi periodi ferme nei porti, mentre i condannati alla macina (un supplizio che nelle prigioni inglesi rimase in vigore sino ai primi del secolo XIX) fornivano una potenza rotativa capace di alimentare qualsiasi macchina di quelle recentemente inventate.

Il nuovo rapporto stabilitosi tra l'uomo e i suoi strumenti durante la Rivoluzione industriale nasce, come il capitalismo, nel secolo XVI; a sua volta, esso richiese nuove fonti di energia. La macchina a vapore è più un effetto ditale sete d'energia che una causa della Rivoluzione industriale. Con la ferrovia, questa preziosa macchina divenne mobile e l'uomo diventò utente. A poco a poco la macchina mise l'uomo in movimento: nel 1900, un lavoratore lombardo non addetto all'agricoltura faceva in media un numero di chilometri trenta volte maggiore di quelli che percorreva un suo simile nel 1850. A questo punto finiscono, insieme, l'Età del Ferro e la Rivoluzione industriale. All'abilità nel muoversi si sostituisce il ricorso ai trasporti. Il saper fare cede il posto al fare in serie, l'industrializzazione diventa la norma.

Nel secolo XX, l'uomo mette mano a giganteschi serbatoi naturali di energia. Il livello energetico così raggiunto produce proprie norme, determina i caratteri tecnici dello strumento e, più ancora, il nuovo ruolo dell'uomo. All'opera, al lavoro, viene allora ad aggiungersi il servizio alla macchina: obbligato ad adattarsi al suo ritmo, il lavoratore si trasforma in operatore di macchinari o in impiegato d'ufficio. E il ritmo della produzione esige un consumatore docile che accetti un prodotto standardizzato e preconfezionato. Si ha allora meno bisogno di braccianti nei campi, il servo cessa di essere redditizio. Il lavoratore stesso cessa di essere redditizio non appena l'automazione porta a termine la trasformazione iniziata dall'industrializzazione e continuata dalla produzione di massa. Il fascino discreto del condizionamento astratto a opera della megamacchina sostituisce lo schiocco della frusta nell'orecchio dello schiavo-bracciante, e l'avanzata implacabile della catena di montaggio fa scattare il gesto stereotipato dello schiavo-operaio.

La nascita del mito della macchina si rispecchia nell'atteggiamento dell'uomo verso l'atto produttivo. Possiamo distinguere quattro livelli energetici, a ciascuno dei quali corrispondono una classe di strumenti e uno stile di attività produttiva. Il primo stile è quello dell'opera indipendente realizzata dall'artista, dall'artigiano, da colui che costantemente sceglie un fine al quale applica il mezzo: il risultato dell'attività di quest'uomo è l'opera, l'ergon greco. Il secondo stile è quello della fatica continuamente ripetuta del manovale, imposta dalla necessità di sfruttare la sua energia: è il labor, il ponos greco. L'uomo che produce l'opera tende a fischiare o a canticchiare, mentre il canto propriamente detto, il coro, accompagna il ritmo della fatica nell'uso dello strumento maneggiabile. Questi due stili di attività coesistono in tutte le culture; la prevalenza del secondo sul primo contrassegna, dappertutto, la società schiavista.

Alla fine del Medioevo, il vecchio sogno alchimistico di fabbricare un omuncolo in laboratorio diventa a poco a poco creazione di robot che lavorino per l'uomo e educazione dell'uomo a lavorare al loro fianco. Questo nuovo atteggiamento verso l'attività produttiva si rispecchia nell'introduzione di un nuovo vocabolo. Tripaliare significava torturare sul trepalium, menzionato nel secolo VI per indicare un palo formato da tre spiedi, supplizio che nel mondo cristiano aveva sostituito quello della croce. Nel secolo XII le parole travail in francese, trabajo in spagnolo, designavano un'esperienza dolorosa; bisogna arrivare al secolo XVI perché gli stessi termini vengano usati nel senso di opera, fatica, lavoro.

L'operaio, colui che è complementare alla macchina motorizzata, rappresenta un terzo stile di attività produttiva. Legato alla cadenza della catena, costui si rompe le scatole. Lo strumento manipolabile gli impone il suo ritmo meccanico, lo esaspera e lo provoca a sgranare improperi.

Con lo sviluppo del settore terziario, dell'amministrazione razionale e della cibernetica nasce infine un quarto stile: lo stile dell'impiegato, del funzionario, del burocrate. Il contributo fornito da quest'uomo si è ridotto alla produzione di simboli: non è un'opera, non è labor, non è neppure un fare da complemento energetico di una macchina. Il funzionario funziona come un'operazione matematica. La sua partecipazione consiste nell'essere occupato all'interno della megamacchina che produce. Non fischia, non canta e non osa dire parolacce: si dedica a consumare musica filotrasmessa.

La maniera in cui questi diversi generi di attività partecipano agli scambi dell'economia ed affrontano le leggi del mercato rivela le loro differenze reciproche. Il creatore di un'opera non può offrirsi sul mercato; può soltanto proporre il frutto della sua attività. Il manovale offre il proprio corpo, principalmente, come fonte di energia da lui diretta. L'operaio si offre, tipicamente, come parte che integra ciò che manca alla macchina. Infine il posto del funzionario e dell'operatore è divenuto anch'esso una merce; il diritto di operare su una macchina e di beneficiare dei privilegi che ne derivano è ottenuto al termine d'una serie di trattamenti preliminari: curriculum scolastico, condizionamento professionale, educazione permanente.

Nessun genere di attrezzatura realizzabile in passato poteva rendere possibili un tipo di società e un modo di attività contrassegnati al tempo stesso dall'efficienza e dalla convivialità: non la tecnica tradizionale, in quanto troppo inefficiente, né la tecnica industriale perché è troppo centralizzata. Ma oggi possiamo concepire degli strumenti che permettono di eliminare la schiavitù dell'uomo, senza per questo asservirlo alla macchina. Condizione di questo progresso è il rovesciamento del quadro di istituzioni che governa l'applicazione alla tecnica dei risultati ottenuti dalla scienza. Oggigiorno l'avanzamento scientifico viene identificato con la sostituzione di strumenti programmati all'iniziativa umana; ma ciò che in tal modo si scambia per l'effetto della logica che si crede di aver scoperto nelle cose non è in realtà che la conseguenza di un pregiudizio ideologico. La struttura dello strumento deciderà se l'uomo si avvia verso un nuovo, moderno livello di artigianato, o verso un mondo di funzionariato universale.

La scienza e la tecnica sono alla base del modo di produzione industriale e per questo fatto impongono l'accantonamento di ogni attrezzatura specificamente legata a un lavoro autonomo e creativo. Ma questo processo non è contenuto in germe nelle scoperte scientifiche, e non è neppure una conseguenza necessaria della loro applicazione. E il risultato di un partito preso, di un pregiudizio assoluto in favore del modo di produzione industriale. La cosiddetta ricerca scientifica è spesso organizzata al fine di ridurre, in ogni campo, gli ostacoli secondari che bloccano lo sviluppo di uno specifico processo di produzione. Ognuna delle scoperte così ottenute con una programmazione di lunga data viene salutata come se si trattasse d'un costoso traforo realizzato con grandi sforzi nel pubblico interesse. In realtà, la ricerca al servizio dello sviluppo industriale tende a nascondere o a minimizzare i risultati che non si prestano a una gestione centralizzata. Lo stesso accade nel campo della medicina, dell'agricoltura e dell'edilizia. Una tecnica avanzata potrebbe, altrettanto bene, ridurre il peso della fatica e, in cento modi diversi, promuovere l'espansione dell'attività produttiva personale. Scienze della natura e scienze dell'uomo potrebbero servire a creare strumenti, tracciare il loro quadro di utilizzazione e stabilire le loro norme d'impiego in modo tale da garantire un ricreazione della persona, del gruppo e dell'ambiente, un totale spiegamento dell'iniziativa e dell'immaginazione di ognuno.

Oggi possiamo comprendere la natura in maniera nuova. Tutto sta nel sapere per quali scopi. E l'ora di scegliere tra la costituzione di una società iper-industriale, elettronica e cibernetica, o viceversa una società realmente postindustriale che riunisca un largo ventaglio di strumenti moderni e conviviali. Lo stesso quantitativo di acciaio può servire a produrre una sega per metalli, una macchina per cucire o un elemento industriale: nei primi due casi, l'efficacia di mille persone sarà moltiplicata per tre, per dieci o per cinquanta; nell'ultimo, una larga parte delle loro capacità perderà la propria ragione di essere. Bisogna scegliere tra il distribuire a milioni di persone, nello stesso momento, l'immagine a colori di un pagliaccio che si agita sul piccolo schermo, oil dare a ogni gruppo umano il potere di produrre e distribuire propri programmi nei centri-video. Nella prima ipotesi, la tecnica è messa al servizio della carriera dello specialista diretto da burocrati. Un sempre maggior numero di pianificatori farà ricerche di mercato, stenderà bilanci di previsione e modellerà la domanda di un sempre maggior numero di persone in una serie crescente di settori. Ci saranno sempre più cose utili fornite a degli inutili. Ma si offre sempre l'altra possibilità. La stessa scienza può applicarsi a semplificare l'attrezzatura, a rendere ognuno capace di dar forma al proprio ambiente, cioè capace di caricarsi di senso caricando il mondo di segni.

La deprofessionalizzazione

La medicina

A somiglianza di ciò che fece la Riforma quando strappò il monopolio della scrittura ai chierici, noi possiamo strappare i malati dalle mani dei medici. Non occorre essere troppo dotti per applicare le scoperte fondamentali della medicina moderna, per individuare e curare la maggior parte dei mali curabili, per alleviare la sofferenza del prossimo e accompagnarlo all'incontro con la morte. Stentiamo a crederlo perché il rituale medico, deliberatamente complicato, ci nasconde la semplicità degli atti. Conosco una ragazza negra di diciassette anni che di recente è stata processata, negli Stati Uniti, per aver curato centotrenta compagni di scuola affetti da sifilide primaria. Un dettaglio di ordine tecnico, fatto notare da un esperto, è valso a lei il proscioglimento e ha risparmiato all'Ordine dei medici un penoso imbarazzo: i risultati ottenuti dall'accusata erano statisticamente migliori di quelli del Servizio sanitario americano. Sei settimane dopo la cura, infatti, essa aveva sottoposto a esami di controllo tutti i suoi pazienti, senza eccezione, come il Servizio sanitario di nessuna regione degli Stati Uniti riesce invece a fare. Il progresso nell'efficacia di solito dipende da una maggiore indipendenza, non da un crescente controllo centrale.

La possibilità di affidare cure mediche a non specialisti si scontra con la nostra concezione dello star meglio, dovuta alla vigente organizzazione della medicina. Concepita come un 'impresa industriale, essa è nelle mani di produttori (medici, ospedali, laboratori farmaceutici) che incoraggiano la diffusione di procedimenti d'avanguardia costosi e complicati, e riducono così il malato e i suoi familiari allo stato di docili clienti. Organizzata in sistema di distribuzione sociale di benefici, la medicina incita la popolazione a lottare per ottenere una sempre maggiore quantità di cure, dispensate da professionisti in materia di igiene, prevenzione, anestesia o assistenza ai moribondi. Bisogna rendersi conto che più è alto il livello tecnico di un servizio che si vuol rendere accessibile con giustizia distributiva, più questa deve basarsi sulla fiducia nell'autonomia. La medicina odierna invece, irrigidita nel monopolio di una gerarchia monolitica, si preoccupa di proteggere le sue frontiere incoraggiando la formazione di paraprofessionisti ai quali subappalta le cure che un tempo erano prestate dai familiari e amici del malato. Con questo sistema feudale l'organizzazione medica difende il suo monopolio ortodosso dalla concorrenza sleale delle guarigioni ottenute con metodi eterodossi. In realtà, ogni giorno di più, il profano è in grado di curare il proprio prossimo e, in questo campo, solo una parte di ciò che occorre sapere è necessariamente materia d'insegnamento formale. Semplicemente, in una società dove ognuno potesse e dovesse curare il prossimo, certuni sarebbero più esperti di altri. In una società nella quale si nascesse e si morisse in casa propria, nella quale l'invalido e l'idiota non fossero banditi dalla pubblica piazza, e si sapesse distinguere la vocazione medica dalla professione di stagnino delle vene, non mancherebbero persone per aiutare gli altri a vivere, a soffrire, a morire. Ma l'evidenza che l'uomo nasce capace di occuparsi della salute del corpo oggi scandalizza quanto, al tempo della Riforma, l'idea che l'uomo nascesse con la capacità di interpretare la Scrittura.

La patente complicità del professionista e del suo cliente non basta a spiegare la resistenza che la gente oppone all'idea di deprofessionalizzare le cure. All'origine dell'impotenza dell'uomo industrializzato c'è l'altra funzione della medicina attuale, quella di rituale per scongiurare la morte. Il paziente si affida al medico non solo a causa della sua sofferenza, ma per paura della morte, per esserne protetto. L'identificazione di ogni malattia con una minaccia di morte è di origine abbastanza recente. Smarrendo la distinzione tra la guarigione di una malattia curabile e la preparazione ad accettare il male incurabile, il medico moderno ha perduto il diritto dei suoi predecessori a distinguersi chiaramente dallo stregone e dal ciarlatano; e il suo cliente ha perduto la capacità di distinguere tra l'alleviamento della sofferenza e il ricorso allo scongiuro. Con la celebrazione del suo rituale, il medico maschera la divergenza tra il fatto che professa e la realtà che crea, tra la lotta contro la sofférenza e la morte da una parte e l'allontanamento della morte al prezzo di una sofferenza prolungata dall'altra. Il coraggio di curarsi da solo può averlo soltanto l'uomo che ha il coraggio di riconoscere l'esistenza di una soglia, di accettare la necessità di limiti, di affrontare la morte.

Il sistema dei trasporti

All'inizio degli anni Trenta, sotto la presidenza di Càrdenas, il Messico si dotò di un sistema di trasporti moderno. Nel giro di alcuni anni i quattro quinti della popolazione conobbero i vantaggi del trasporto automobilistico. I principali villaggi furono collegati da piste o strade in terra battuta. Grossi camion, semplici e solidi, cominciarono a percorrere i loro tragitti a velocità non superiori a 30 chilometri l'ora. I passeggeri si ammassavano su panche di legno inchiodate al fondo, mentre i bagagli e le merci erano sistemati sul tetto o nel retro dell'automezzo. Sulle distanze brevi il camion non costituiva un'alternativa per della gente che era abituata a camminare con pesanti carichi, ma tutti ebbero la possibilità di percorrere lunghe distanze. L'uomo non andava più a piedi al mercato spingendosi avanti il suo maiale: se lo caricava con sé sul camion. Chiunque, in Messico, poteva recarsi in qualunque punto del paese in pochi giorni.

Dal 1945, ogni anno non si fa che spendere di più per la rete stradale. Si costruiscono autostrade fra questo e quel centro maggiore. Fragili automobili sfrecciano su strade lucide di asfalto. Grandi autotreni speciali fanno la spola da uno stabilimento all'altro. I vecchi camion buoni per tutti gli usi e per tutti i fondi stradali sono stati respinti in montagna. In quasi tutte le regioni, il contadino deve prendere un pullman per andare al mercato ad acquistare prodotti industrializzati, ma sul pullman non può caricare il maiale e deve perciò venderlo al mercante ambulante di bestiame. Finanzia, con le tasse, la costruzione di strade che recano profitto ai detentori dei vari monopoli specializzati; è obbligato a farlo, col pretesto che in ultima istanza sarà lui a beneficiare del progresso.

In cambio di un tragitto occasionale sul sedile imbottito di un torpedone con aria condizionata, il messicano medio ha perduto gran parte della mobilità che il vecchio sistema gli garantiva, senza peraltro guadagnare in libertà. Uno studio condotto in due grandi Stati tipici del Messico, l'uno desertico, l'altro montagnoso e tropicale, conferma questo giudizio: meno dell'i per cento della popolazione, in ognuno di questi due Stati, ha percorso nel 1970 più di 20 chilometri in meno di un'ora. Un sistema di biciclette e carretti, eventualmente motorizzati, avrebbe costituito, per il 99 per cento della popolazione, una soluzione tecnicamente molto più efficace della tanto vantata rete autostradale. Simili veicoli, la cui costruzione e manutenzione richiederebbe una spesa relativamente bassa, potrebbero circolare su una rete viaria non molto diversa da quella dell'impero Inca. L'argomento che viene portato a sostegno degli investimenti in automobili e strade è che essi sono una condizione dello sviluppo, e che senza di essi una regione rimane esclusa dal mercato mondiale. E vero; ma resta da chiedersi se l'integrazione nel mercato monetario, che ne è oggi il simbolo vistoso, sia davvero lo scopo dello sviluppo.

Da qualche anno, i fautori dello sviluppo cominciano ad ammettere che le automobili, così come vengono utilizzate, non sono efficienti. E non lo sono, dicono, perché i veicoli sono concepiti in vista dell'appropriazione privata anziché del bene pubblico. In realtà il sistema moderno dei trasporti non è efficiente perché si tende a identificare ogni aumento di velocità con un progresso della circolazione. Come la pretesa d'uno «star meglio» a tutti i costi, la corsa alla velocità è una forma di disordine mentale. Come i medici riescono ad aumentare le sofferenze, così i veicoli veloci rubano alla maggioranza più tempo di quanto non ne risparmino ai privilegiati. In un paese capitalista il grande viaggio è una questione di denaro; in un paese socialista, una questione di potere. La velocità è un nuovo fattore di stratificazione sociale nelle società sovrefficienti.

L'intossicazione della velocità è un buon terreno per il controllo sociale sulle condizioni dello sviluppo nell'interesse dell'industria. L'industria dei trasporti, in tutte le sue varie forme, assorbe il 23 per cento della spesa complessiva degli Stati Uniti, consuma il 42 per cento della loro energia, è al tempo stesso la principale fonte di inquinamento e la più importante causa d'indebitamento dei bilanci familiari. Questa stessa industria si divora spesso una fetta proporzionalmente ancora più grossa del bilancio annuale dei comuni latinoamericani; qui ciò che figura sotto la voce «sviluppo», nelle statistiche, è in realtà il costo dell'automobile del medico o del politico, più cara, per l'insieme della popolazione, di quanto non sia stata per gli egiziani la costruzione della più grande piramide.

La Tailandia è celebre nella storia per il suo sistema di canali, i klong. Questi canali suddividevano a scacchiera il territorio del paese e assicuravano la circolazione della gente, del riso e delle imposte. Certi villaggi erano isolati durante la stagione asciutta, ma il ritmo stagionale della vita faceva di questo isolamento periodico un'occasione per meditare e celebrare feste. Un popolo che si concede lunghe vacanze e le riempie di attività non è certo un popolo povero. Negli ultimi cinque anni, i canali più importanti sono stati colmati e trasformati in strade. I conducenti di autobus sono pagati al chilometro e le automobili sono ancora poco numerose; così, per un breve periodo, i tailandesi batteranno probabilmente il record di velocità in autobus. Ma pagheranno cara la distruzione delle millenarie vie d'acqua. Gli economisti dicono che gli autobus e le automobili iniettano moneta nell'economia: è vero, ma a quale prezzo! Quante famiglie perderanno il loro ancestrale battello di riso e, con esso, la libertà? Mai gli automobilisti avrebbero potuto far loro concorrenza, se la Banca Mondiale non avesse finanziato le strade e se il governo tailandese non avesse emanato nuove leggi che autorizzano la profanazione dei canali.

L'industria delle costruzioni

Il Diritto e la Finanza possono anche conferire all'industria il potere di togliere all'uomo la facoltà di costruirsi la propria casa. Recentemente in Messico è stato varato un grande programma che si propone di fornire a ogni lavoratore un alloggio decoroso; come nel campo dell'educazione e della sanità, così anche nell'edilizia il Messico ha oggi una legislazione modello di giustizia distributiva in favore dei lavoratori. Si è cominciato con lo stabilire nuove norme per la costruzione di unità di abitazione; esse miravano a proteggere gli acquirenti di case dagli abusi dell'industria edilizia: ma, paradossalmente, hanno privato ancora più gente della possibilità tradizionale di costruirsi una casa. Infatti il nuovo codice urbanistico impone certe condizioni minime che non possono essere soddisfatte da un lavoratore che voglia costruirsi lui stesso la propria casa nel suo tempo libero. In più, il prezzo d'affitto di un appartamento costruito industrialmente supera il reddito globale dell'80 per cento della popolazione. La cosiddetta «abitazione decorosa» non può dunque essere occupata se non da gente relativamente benestante o da quei pochi che in base alla legge possono ottenere un sussidio per l'alloggio.

Progressivamente in tutta l'America Latina le abitazioni che non soddisfano alle norme industriali vengono facilmente dichiarate pericolanti o insalubri. Si rifiuta un aiuto pubblico alla schiacciante maggioranza della popolazione, che non ha mezzi per acquistare una casa ma potrebbe costruirsela. I fondi pubblici destinati al miglioramento delle condizioni abitative nei quartieri poveri finiscono con l'essere assegnati alla costruzione di nuovi insediamenti residenziali, vicino ai capoluoghi provinciali e regionali, dove potranno vivere i funzionari, gli operai iscritti ai sindacati e quelli che godono di raccomandazioni: tutta gente occupata nel settore moderno dell'economia, gente che ha un lavoro, cioè è impiegata. Si può facilmente riconoscere questa parte del popolo dal fatto che indica la propria attività lavorativa col sostantivo, trabajo; tutti gli altri, quelli che lavorano di tanto in tanto o mai o vivono al limite del livello di sussistenza, usano la forma verbale quando capita loro di trabajar.

Chi è impiegato e dunque ha un lavoro riceve sussidi per comprare la casa: non solo, ma tutti i servizi pubblici sono organizzati per rendergli comoda la vita. A Bogotà, per esempio, il 4 per cento della popolazione consuma circa il 50 per cento dell'acqua corrente: e, là sull'altopiano, l'acqua non abbonda certamente! Il codice urbanistico impone norme molto meno esigenti di quelle dei paesi ricchi, ma, prescrivendo come bisogna costruire, crea una crescente penuria dì abitazioni. La pretesa di una società di fornire alloggi sempre migliori discende dalla stessa aberrazione per cui i medici pretendono di far stare sempre meglio e gli ingegneri di produrre velocità sempre più elevate. Ci si fissa sull'astratto degli scopi impossibili da raggiungere, e poi si prendono i mezzi per finì.

Ciò che è avvenuto in tutta l'America Latina, Cuba compresa, è accaduto anche a Giacarta, a Manila e ad Abidjan, nel corso degli anni Sessanta. E anche accaduto nel Massachusetts: nel 1945, un terzo delle famiglie abitava in case che erano o interamente opera degli occupanti, o costruite su loro progetto e sotto la loro direzione; nel 1970, questo tipo di case non rappresentava ormai più che l'li per cento del totale. Nel frattempo, quello dell'alloggio era divenuto il problema numero uno. Eppure, grazie ai nuovi strumenti e materiali disponibili, costruire una casa è oggi diventato più facile; ma le istituzioni sociali, regolamenti, sindacati, clausole ipotecarie, vi sì oppongono ciascuna a suo modo. La vanità professionale del pianificatore, dell'ingegnere e del sindacalista può imporre il monopolio dell'industria per lo meno con la stessa efficacia con la quale lo impone l'imprenditore capitalista.

La maggior parte della gente non si sente veramente in casa propria se una parte significativa del valore della sua abitazione non è frutto del proprio lavoro. Una politica conviviale dovrebbe cominciare col definire che cosa è impossibile procurarsi da soli quando ci si costruisce una casa e di conseguenza dovrebbe assicurare a ognuno l'accesso a un minimo di spazio, d'acqua, d'elementi prefabbricatì, di strumenti conviviali dal trapano al montacarichi e, probabilmente, anche l'accesso a un minimo di credito. Una sìffatta inversione della politica attuale darebbe a una società postindustriale abitazioni moderne altrettanto attraenti per i suoi membri quanto lo erano, per gli antichi Maya, le case che sono ancora la regola nello Yucatàn.

Così come sono concepiti oggi, le cure, i trasporti, l'alloggio debbono essere i risultati di un'azione che esige l'intervento di professionisti. Questo intervento si concretizza per addizione di quanta successivi, il quantum essendo l'unità di misura minimale. Il costo di ogni quantum è elevato, e meno di un quantum non serve a nulla. Se, per esempio, la scolarità si produce in quanta di quattro anni ciascuno, tre anni di scuola hanno effetti peggiori che l'assenza di scolarizzazione: fanno del bambino che abbandona la scuola uno spostato. Ciò che è vero per la scuola lo è anche per la medicina, i trasporti, l'abitazione, l'agricoltura o la giustizia. I trasporti motorizzati valgono la pena solo da una certa velocità in su. Il ricorso al tribunale è producente solo se l'entità del danno subito giustifica il costo del processo. Seminare nuove colture è redditizio solo se il coltivatore dispone d'una determinata quantità di terra e di capitale. E fatale che degli strumenti superpotenti, concepiti per raggiungere scopi sociali fissati astrattamente, forniscano i loro prodotti in quanta inaccessibili alla maggioranza. Per di più, si tratta di strumenti integrati: è sempre la stessa minoranza che utilizza il loro insieme, cioè tanto la scuola completa di 4 volte 4 anni, quanto l'aereo, la telescrivente e l'aria condizionata. La produttività impone di stabilire dei quanta predeterminati di valori definiti dalle istituzioni, e una gestione produttiva esige che un individuo, per potersi considerare produttivo, abbia accesso a tutti questi pacchetti contemporaneamente. La domanda di ciascun prodotto specifico è governata dalla legge di un complesso attrezzato, che concorre a mantenere l'ambiente prodotto dalle altre professioni. La gente che vive tra la propria automobile e il proprio appartamento in un grattacielo deve poter concludere l'esistenza in una clinica. Per definizione, tutti questi beni sono rari e lo divengono sempre più man mano che le professioni si specializzano ed elevano il livello delle norme che le regolano; di conseguenza, ogni nuovo quantum lanciato sul mercato frustra più individui di quanti ne soddisfi.

Le statistiche che dimostrano la crescita del prodotto e il forte consumo pro capite di quanta specializzati mascherano la grandezza dei costi invisibili. La popolazione è educata meglio, curata meglio, trasportata meglio, divertita e spesso nutrita meglio, ma a condizione che, per ogni unità di misura di questo meglio, si accettino docilmente sia i criteri sia gli obiettivi fissati dagli esperti. Una società conviviale può instaurarsi solo se si riconosce il carattere arbitrario di queste misure e la distruttività dell'imperialismo politico, economico e tecnico che si nasconde dietro di esse. Rendendo obbligatorio e sistematico lo sviluppo della produttività, la nostra generazione mette in pericolo la sopravvivenza dell'umanità. Per tradurre in pratica la possibilità teorica di un modo di vita postindustriale e conviviale, dobbiamo individuare le soglie al di là delle quali l'istituzione produce frustrazione, e i limiti al di là dei quali lo strumento esercita un effetto distruttivo sull'intera società. E più importante, anzi vitale, per una società postindustriale stabilire dei criteri per la concezione dei suoi strumenti, e dei limiti alla loro crescita, che porsi obiettivi di produzione come accade oggi.


III. L'equilibrio multidimensionale

L'equilibrio umano è un equilibrio aperto, suscettibile di modificarsi entro parametri flessibili e tuttavia finiti: gli uomini cioè possono cambiare, ma entro certi limiti. L'attuale sistema industriale, invece, trova nella sua dinamica la propria instabilità: è organizzato in funzione di una crescita indefinita e della creazione illimitata di nuovi bisogni che, nella cornice industriale, divengono ben presto necessità. Una volta divenuto dominante in una società, il modo di produzione industriale fornirà questo o quel bene di consumo, passerà da questa a quell'altra merce, ma non ammetterà limiti all'industrializzazione dei valori. Un simile processo di crescita esige dall'uomo una cosa assurda: trovare la propria soddisfazione nel piegarsi alla logica dello strumento.

Ora, la struttura della tecnica di produzione dà forma alle relazioni sociali. La richiesta che lo strumento fa all'uomo comporta un costo sempre più alto; è il costo dell'adattamento dell'uomo al servizio del suo strumento, rispecchiato dalla crescita del terziario nel prodotto globale. Diventa sempre più necessario manipolare l'uomo per vincere la resistenza opposta dal suo equilibrio vitale alla dinamica industriale; e questa manipolazione prende la forma di molteplici terapie, pedagogica, medica, amministrativa. L'educazione produce consumatori competitivi; la medicina li mantiene in vita nell'ambiente attrezzato che è ormai loro indispensabile; e la burocrazia risponde alla necessità che il complesso sociale eserciti il suo controllo sugli individui applicati a un lavoro insensato. Che attraverso le assicurazioni, la polizia e l'esercito cresca il costo della difesa dei nuovi privilegi, è tipico della situazione connaturata a una società di consumo; è inevitabile che questa comporti due tipi di schiavi: gli intossicati e quelli che vorrebbero esserlo, gli iniziati e i neofiti.

E ora che il dibattito politico si concentri sui vari modi in cui la struttura della tecnica di produzione minaccia l'uomo. Non giova alla chiarezza di questo dibattito chi insiste nel prescrivere palliativi, mascherando così la causa profonda del blocco dei sistemi sanitario, di trasporto, di educazione, di alloggio, un blocco che arriva fino alle istanze giuridica e politica. La crisi ecologica, per esempio, viene trattata superficialmente quando non si sottolinei che gli auspicati dispositivi antinquinamento saranno efficaci solo se accompagnati da una riduzione della produzione globale dell'industria ad una piccola frazione del livello attuale: altrimenti non si fa che trasferire i rifiuti in casa del vicino, metterli in serbo per i nostri bambini, o scaricarli sul terzo mondo. Soffocare l'inquinamento creato localmente da una grande industria esige investimenti, in materiali e in energia, che ricreano altrove lo stesso danno su più vasta scala. Rendendo obbligatori i dispositivi antinquinamento, non si fa che aumentare il costo unitario di produzione. Certo, si conserva un poco d'aria respirabile per la collettività, dato che meno gente può concedersi il lusso di guidare un'automobile, di dormire in una casa climatizzata o di prendere l'aereo per andare a pesca nel weekend; ma anziché degradare l'ambiente fisico, si accentuano le differenze sociali. La struttura della tecnica di produzione incide sui rapporti sociali ancor più direttamente di quanto non incida sul funzionamento biologico. Passare dal carbone all'atomo, significa passare dallo smog di oggi a maggiori livelli di radiazione domani. Quando gli americani trasferiscono le loro raffinerie oltre mare, dove il controllo dell'inquinamento è meno severo, preservano se stessi da odori sgradevoli riservando il puzzo al Venezuela e senza per questo diminuire l'avvelenamento del pianeta.

Benché la discussione pubblica sui limiti ecologici sia importantissima e appena agli inizi, e sia più che opportuno approfondirla e generalizzarla, è ancora più importante prendere coscienza che i limiti posti dall'ambiente fisico rappresentano solo una dimensione di un problema che di dimensioni ne ha almeno cinque. Bisogna evitare che le al tre dimensioni limitanti siano proiettate su questa sola e rese incomprensibili nella loro specificità e indipendenza, con pregiudizio per lo stesso dibattito ecologico.

La supercrescita dello strumento minaccia le persone in una maniera radicalmente nuova, pur se analoga alle forme classiche di nocività e di danno. La minaccia è nuova nel senso che carnefici e vittime sono accomunati nella dualità operatori/clienti di strumenti inesorabilmente distruttivi. In questo gioco, anche se alcuni partono vincenti, alla fine tutti risultano perdenti.

Distinguerò cinque modi in cui la popolazione del pianeta è minacciata dallo sviluppo industriale avanzato.

1. La supercrescita minaccia il diritto dell'uomo a conservare le sue radici nell'ambiente col quale si è evoluto.

2. L'industrializzazione minaccia il diritto dell'uomo all'autonomia nell'azione.

3. La superprogrammazione dell'uomo in funzione del nuovo ambiente minaccia la sua intenzionalità.

4. La centralizzazione dei processi di produzione minaccia il suo diritto alla parola, cioè alla politica.

5. Il rafforzamento dei meccanismi di usura (obsolescenza) minaccia il diritto dell'uomo alla propria tradizione, il suo ricorso al precedente attraverso il linguaggio, il mito, il rituale e, anzi tutto, il Diritto.

Esamineremo queste cinque minacce, insieme distinte e connesse, rette da una mortale inversione dei mezzi in fini. Una sesta minaccia è costituita dalla frustrazione profonda generata mediante il soddisfacimento obbligatorio e condizionato; non è la meno sottile, ma non può dar luogo, come le altre cinque, all'estinzione dell'uomo né si può ricondurre ad alcuna precisa offesa d'un diritto già definito. La classificazione che io faccio ha lo scopo di rendere riconoscibile il danno (la nuova minaccia) nella terminologia tradizionale della giurisprudenza anglosassone. Che uno strumento anonimo destinato a soccorrere una parte malata provochi un'infezione, questo è un fatto nuovo; ma il male che minaccia chiunque non è nuovo. Questa prima classificazione può servire come base per azioni giudiziarie con cui le persone lese dal funzionamento degli strumenti volessero far valere i loro diritti. Chiarire queste categorie di danni può essere un mezzo per recuperare dei principi di procedura politico-giuridica che permettano alle popolazioni di capire, mettere sotto accusa e correggere l'attuale squilibrio del complesso istituzionale dell'industria. Concepita in questi termini, l'identificazione della molteplice minaccia non solo favorisce la partecipazione pubblica al processo d'accusa, ma impone inoltre il recupero degli elementi essenziali del procedimento formale giuridico per la vita politica.

Io postulo che i principi che stanno alla base di ogni procedura morale, politica e giuridica sono tre:

a) il conflitto sollevato dalla persona è legittimo;

b) il processo decisionale vigente trae la sua autorità dalla dialettica della storia;

c) il ricorso alla popolazione, ad assemblee di pari scelti tra uguali (e non al giudizio dell'«esperto»), è l'indispensabile suggello di ogni decisione che riguardi la collettività.

Invertire alla radice la struttura tecnica delle nostre istituzioni produttive più importanti: ecco la rivoluzione, ecco l'assalto all'avere o al potere delle classi professionali, in mancanza del quale il trasferimento al pubblico dei titoli di proprietà rimane una mera cerimonia a beneficio di una nuova classe di commissari-gerenti. E una rivoluzione che non si può né progettare né condurre se prima non si recupera (e si accetta) una struttura formale di procedura.

Prima di approfondire la procedura politica che sola può salvaguardare l'equilibrio umano, conviene centrare l'analisi su ciascuna delle dimensioni in cui si presenta la minaccia.

La degradazione dell'ambiente

L'importanza dell'equilibrio tra l'uomo e la biosfera è un fatto accertato, e all'improvviso ha cominciato a preoccupare molta gente. La degradazione dell'ambiente è drammatica ed evidentissima. Per anni, a Città del Messico, la circolazione automobilistica è regolarmente aumentata sotto un cielo azzurro; poi, ad un tratto, è arrivato lo smog e ben presto è diventato peggio che a Los Angeles. Veleni di una potenza sconosciuta vengono iniettati nel nostro biosistema. Non c'è modo di eliminarli, né mezzo di prevedere se, assommandosi, non finiranno un giorno per ridurre di colpo il nostro pianeta a una cosa morta, come è già accaduto al lago Erie e al lago Bajkal. L'uomo è nato e si è evoluto dentro una nicchia cosmica. La Terra è la nostra dimora. E questa dimora che l'uomo adesso minaccia.

Di solito si identificano nel sovrappopolamento, nella sovrabbondanza e nella tecnica indifferente ai suoi sottoprodotti le tre forze che, combinandosi, mettono in pericolo l'equilibrio ecologico. Paul Ehrlich osserva che volendo affrontare onestamente il problema della «bomba demografica» e della stabilizzazione dei consumi, si rischia di essere considerati «nemici del popolo e nemici dei poveri», e tuttavia ribadisce che «certe misure impopolari (che limitino al tempo stesso le nascite e i consumi) sono la sola speranza che l'umanità abbia di evitare una miseria senza precedenti». Seguito da altri sostenitori della crescita demografica zero, Ehrlich vuole sposare il controllo delle nascite con l'efficienza industriale. Da parte sua Barry Commoner, esponendosi alla critica d'essere un demagogo nemico delle macchine, mette l'accento sulla terza incognita dell'equazione, la tecnologia perversa, e afferma che è questa la principale responsabile della recente degradazione dell'ambiente. Come molti altri ecologi, Commoner chiede una riattrezzatura dell'industria, più che una inversione radicale della struttura di base degli strumenti.

La suggestione della crisi ecologica ha limitato il dibattito sulla sopravvivenza all'esame di un solo equilibrio, quello minacciato dallo strumento inquinante. Ma questo dibattito resta unidimensionale, dunque senza oggetto, anche se si fanno intervenire tre variabili, ciascuna caratterizzante uno squilibrio tra l'uomo e il suo ambiente. Il sovrappopolamento accresce il numero degli individui dipendenti da risorse limitate, la sovrabbondanza obbliga ognuno a spendere più energia, e lo strumento distruttivo degrada questa energia senza beneficio.

Se si considerano queste tre forze come le sole minacce, e la biosfera come l'oggetto minacciato, due questioni, non di più, meritano di essere discusse:

a) quale fattore (o quale forza) ha maggiormente degradato le risorse genetiche, e quale è il più minaccioso per il prossimo futuro?

b) quale fattore, nella misura in cui sia riducibile o invertibile, richiede maggiore attenzione da parte nostra? Secondo alcuni è più facile risolvere il problema del sovrappopolamento, secondo altri è più agevole ridurre una produzione generatrice di entropia. Tutti, ovviamente, sono più o meno d'accordo che non si può accrescere il benessere materiale seguendo le predizioni di Rerman Kahn e simili ciarlatani.

Onestà vuole che ognuno di noi riconosca la necessità di porre un limite alla procreazione, al consumo e allo spreco: ma, ancor più, importa abbandonare l'illusione che le macchine possano lavorare per noi o i terapeuti renderci capaci di servircene. L'unica soluzione alla crisi ecologica è che gli uomini capiscano che sarebbero più felici se potessero lavorare insieme e prendersi cura l'uno dell'altro. Un simile rovesciamento delle idee correnti richiede, in chi l'opera, coraggio intellettuale. Egli infatti si espone a una critica che, per non essere molto acuta, non è meno dolorosa: verrà trattato non solo da «nemico del popolo» e «nemico dei poveri», ma anche da oscurantista contrario alla scuola, al sapere e al progresso. Lo squilibrio ecologico è un sovraccarico che si aggiunge ad altri per distorcere, ciascuno in una dimensione particolare, l'equilibrio vitale. Più oltre mostrerò come, in questa prospettiva, il sovrappopolamento è il risultato di uno squilibrio dell'educazione, la sovrabbondanza deriva dalla monopolizzazione industriale dei valori personali, e la cattiva tecnologia è l'inesorabile conseguenza d'una inversione dei mezzi in fini.

Il dibattito unidimensionale condotto dai sostenitori delle varie panacee, i quali ritengono compatibile l'espansione controllata del sistema industriale con la sopravvivenza in equità, può solo alimentare l'illusoria speranza che in qualche modo l'azione umana opportunamente attrezzata possa rispondere alle esigenze del mondo concepito come Totalità-Strumento. Una sopravvivenza garantita burocraticamente in simili condizioni significherebbe un'industrializzazione del terziario talmente accentuata, che tutto il pianeta sarebbe guidato da un unico sistema di produzione e di riproduzione pianificato dal centro.

Secondo i fautori di questa soluzione, dominati da una mentalità industriale, la conservazione dell'ambiente fisico potrebbe divenire la cura principale del leviatano burocratico posto alle leve che regolano i livelli di riproduzione, di domanda, di produzione e di consumo. Una tale risposta tecnocratica alla crescita demografica, all'inquinamento e alla sovrabbondanza, non potrebbe fondarsi che su un accresciuto sviluppo dell'industrializzazione dei valori. La credenza nella possibilità ditale sviluppo si basa a sua volta su un postulato erroneo, e cioè che «il successo storico della scienza e della tecnologia ha reso possibile la traduzione dei valori in compiti tecnici, la materializzazione dei valori. Quel ch'è in gioco è dunque una nuova definizione dei valori in termini tecnici, come elementi del processo tecnologico. I nuovi fini, come fini tecnici, opererebbero così nel progetto e nella costruzione dell'apparato tecnologico, non solo nella sua utilizzazione»4.

Il ristabilimento di un equilibrio ecologico dipende dalla capacità del corpo sociale di reagire contro la progressiva materializzazione dei valori, contro la loro riduzione a compiti tecnici.

Se questa reazione non ci sarà, l'uomo si troverà completamente accerchiato dai prodotti dei suoi strumenti, chiuso senza via d'uscita. Avvolto da un ambiente fisico, sociale e psichico da lui stesso fabbricato, sarà prigioniero del suo strumento-guscio, incapace di ritrovare l'antico ambiente col quale si era formato. L'equilibrio ecologico non sarà ristabilito se non riconosceremo che solo la persona ha dei fini e che solo essa può lavorare per realizzarli.

Il monopolio radicale

Gli strumenti sovrefficienti possono estinguere l'uomo distruggendo l'equilibrio tra lui ed il suo ambiente. Ma certi strumenti possono essere sovrefficienti in tutt'altro modo:

alterando il rapporto tra ciò che uno ha bisogno di fare da sé e ciò che può attingere bell'e fatto dall'industria. In questa seconda dimensione di possibile squilibrio, la produzione sovrefficiente dà luogo a un monopolio radicale.

Per monopolio radicale intendo un tipo di dominio di un prodotto, che va molto al di là di ciò che il termine solitamente indica. Generalmente si intende per monopolio il controllo esclusivo, da parte di una ditta, sui mezzi di produzione o di vendita di un bene o d'un servizio. Si dirà che la CocaCola ha il monopolio delle bibite analcoliche del Nicaragua in quanto è l'unica produttrice di simili bevande, in quel paese, che disponga di mezzi pubblicitari moderni. La Nestlé impone la propria marca di cioccolato controllando il mercato della materia prima, una fabbrica di automobili controllando le importazioni dall'estero, una compagnia televisiva assicurandosi una licenza esclusiva. I monopoli di questo tipo, è da un secolo che lo si riconosce, sono dei pericolosi sottoprodotti dello sviluppo industriale; e si sono anche emanate delle leggi nel tentativo, pressoché vano, di tenerli a freno. Normalmente la legislazione con cui si cerca di ostacolare la formazione di monopoli ha mirato a impedire che, tramite loro, s'imponesse un limite alla crescita economica; non c'era alcun intento di proteggere l'individuo.

Questo primo tipo di monopolio restringe le possibilità di scelta del consumatore o addirittura lo fa trovare di fronte a un unico prodotto sul mercato, ma raramente limita in altri sensi la sua libertà. Un uomo assetato può desiderare una bibita analcolica, fresca e gassata, e trovarsi astretto alla scelta di una sola marca, ma resta libero di togliersi la sete bevendo birra o acqua. Solo se e quando la sua sete si traduce senza possibili alternative nel bisogno forzato, nell'acquisto obbligatorio d'una bottiglietta di una certa bibita, soltanto allora s'installa il monopolio radicale. Con questo termine io intendo non il dominio di una marca ma la necessità industrialmente creata di servirsi di un tipo di prodotto. Si ha monopolio radicale quando un processo di produzione industriale esercita un controllo esclusivo sul soddisfacimento di un bisogno pressante, escludendo ogni possibilità di ricorrere, a tal fine, ad attività non industriali.

I trasporti, per esempio, possono monopolizzare la circolazione. Le automobili possono modellare una città a loro immagine, eliminando praticamente la locomozione a piedi o in bicicletta, come a Los Angeles. La costruzione di strade per autobus può annullare la circolazione fluviale, come in Tailandia. Che l'automobile riduca il diritto di camminare, questo è monopolio radicale, e non il fatto che si contino più guidatori di Fiat che di Alfa Romeo. Che la gente sia obbligata a farsi trasportare e divenga incapace di circolare senza motore, questo è monopolio radicale. Il danno che i trasporti motorizzati infliggono alla gente in virtù di questo monopolio radicale è cosa del tutto distinta e indipendente dal danno che producono bruciando della benzina che, in un mondo sovrappopolato, potrebbe essere trasformata in alimenti. E distinto anche dall'omicidio automobilistico. Certo che le automobili bruciano carburante in olocausto, certo che sono costose: certo che dal 1908 a oggi in America si sono registrati cento milioni di vittime dell'automobile. Ma il monopolio radicale stabilito dal veicolo a motore ha un modo tutto suo di distruggere. Le automobili creano distanze, la velocità in tutte le sue forme restringe lo spazio. Si incuneano autostrade attraverso regioni sovrappopolate, e poi si estorce alla gente un pedaggio per «autorizzarla» a superare le distanze che il sistema del trasporto esige di per sé. Questo monopolio dei trasporti, come una bestia mostruosa, divora lo spazio. Anche se gli aerei e gli autobus funzionassero come servizi pubblici senza contaminare l'aria ed il silenzio e senza prosciugare le risorse di energia, la loro velocità inumana degraderebbe ugualmente la mobilità naturale dell'uomo, e lo costringerebbe a dedicare sempre più tempo alla circolazione meccanica.

La scuola può anch'essa esercitare un monopolio radicale sul sapere, ridefinendolo come educazione. Finché si accetta la definizione della realtà fornita dall'insegnante, agli effetti ufficiali gli autodidatti sono «sforniti di educazione». La medicina moderna nega a chi soffre le cure che non siano oggetto di una prescrizione medica. Si ha monopolio radicale quando lo strumento programmato spossessa la capacità innata dell'individuo. Questo dominio dello strumento instaura il consumo obbligatorio e di conseguenza restringe l'autonomia della persona. È un tipo particolare di controllo sociale, rafforzato dal consumo obbligatorio d'una produzione di massa che solo le grandi industrie possono fornire.

Il controllo esercitato sulle sepolture dalle imprese di pompe funebri mostra come sorge e si stabilisce un monopolio radicale e in che cosa si differenzia da altre forme di chiusura culturale. Nel Cile, fino a ma generazione addietro, solo la preparazione della fossa e la benedizione della salma erano opera di specialisti il becchino e il prete. Un lutto in famiglia creava degli obblighi sociali, che potevano essere assolti <dai parenti. la veglia, le esequie e il pranzo servivano a comporre le liti, a dare libero sfogo al dolore, a celebrare lai vita e la fatalità della morte. La maggior parte delle usanze erano di natura rituale, oggetto di minuziose prescrizioni che variavano dal deserto di Atacama all'estremo Sud freddo e tedesco. Poi, nelle principali città sorsero imprese di pompe funebri. All'inizio stentarono a trovare clienti perché, anche in città, la gente sapeva ancora seppellire i propri morti. Negli anni Sessanta ottennero il controllo dei nuovi cimiteri e cominciarono a offrire servizi forfettari comprendenti la bara, la cerimonia e l'imbalsamazione del defunto. Verso il 1970 è stata approvata una legge che impone l'obbligo di servirsi del beccamorto. Quando otterrà il controllo del cadavere, l'impresario delle pompe funebri avrà il monopolio radicale della sepoltura, così come il medico è sul punto di avere il monopolio della morte.

La polemica sui servizi sanitari che in corso negli Stati Uniti illustra chiaramente come si rafforza un monopolio radicale per effetto della lotta tra due tipi di fornitori, entrambi industriali. I repubblicani mettono l'accento sulla prevenzione delle malattie, i democratici sulla cura. L'uno e l'altro partito politico pongono il servizio professionale come uno scottante problema pubblico, relegando così la cura della salute in un ambito dove la politica ha ben poco d'importante da dire. Ogni partito promette più denaro ai medici, agli ospedali ed ai farmacisti. Più denaro vorrà dire meno attenzione ai fattori non terapeutici che determinano lo stato di salute, maggior presa dell'industria della salute sui fondi pubblici, ed aumenti del suo prestigio e del suo potere che non diventa meno arbitrario per il fatto di diventare più complesso. Posto nelle mani di una minoranza, questo potere accrescerà la capacità di sofferenza e ridurrà il potenziale d'iniziativa dei malati e dei sani. Più denaro speso sotto la direzione degli specialisti della salute significa più gente condizionata a sostenere il ruolo dell'ammalato, ruolo che non ha neppure più il diritto d'interpretare per proprio conto: una volta accettato il ruolo, infatti, i suoi bisogni più semplici non possono essere soddisfatti se non attraverso certi rubinetti che, per definizione professionale, sono rari.

Gli uomini possiedono la capacità innata di curare, confortare, spostarsi, apprendere, costruirsi una casa e seppellire i propri morti. Ognuna di queste capacità risponde a un bisogno. I mezzi per soddisfare questi bisogni non mancano fin tanto che gli uomini dipendono da ciò che possono fare da sé e per sé, ricorrendo solo marginalmente a professionisti. Tali attività hanno un valore d'uso, ma non necessariamente hanno assunto valore di scambio: il loro esercizio, spesso, non si definisce culturalmente come lavoro.

Queste soddisfazioni elementari si rarefanno quando l'ambiente sociale viene trasformato in modo tale che i bisogni più semplici non possono più trovare la loro risposta fuori commercio. Così si stabilisce un monopolio radicale allorché gli uomini abbandonano la loro capacità innata di fare quel che possono per sé e per gli altri, in cambio di qualcosa di «meglio» che solo uno strumento dominante può procurargli. Questo monopolio radicale rispecchia l'industrializzazione dei valori. Alla risposta personale sostituisce l'oggetto standardizzato; crea nuove forme di scarsità attraverso l'accettazione di un nuovo criterio di misura, e quindi di classificazione, del livello di consumo della gente. Questa riclassificazione provoca l'aumento del costo unitario di fornitura del servizio, svaluta la prestazione non professionale, modula l'attribuzione dei privilegi, restringe l'accesso alle risorse, rende ostile l'ambiente all'iniziativa autonoma e mette la gente in stato di dipendenza forzosa.

Da questo monopolio radicale è sempre più necessario salvaguardarsi. Bisogna difendere l'uomo dall'infanzia, dalla morte e dalla sepoltura standardizzate, sia che il loro consumo venga imposto sotto il segno della libera impresa, sia che lo esigano i governi nel nome dell'uguaglianza e del progresso. Abbiamo bisogno di questa difesa anche se nella maggior parte abbiamo ormai accettato di sentirci clienti dei servizi specializzati. Se non riconosciamo questa necessità di reagire, il monopolio radicale rafforzerà e affinerà i propri strumenti a un punto tale da superare la soglia della resistenza umana all'inazione e alla passività. L'espansione industriale che impone il consumo obbligatorio ha un limite nel bisogno umano di iniziativa autonoma.

Non sempre è facile determinare che cosa costituisce un consumo forzoso. Il monopolio della scuola non si fonda in primo luogo su una legge che punisca i genitori o i ragazzi colpevoli di diserzione scolastica. Non che tali leggi non esistano, ma la scuola poggia su un'altra tattica: segregazione dei non scolarizzati, accentramento degli strumenti del sapere sotto il controllo degli insegnanti, trattamento sociale privilegiato per gli studenti. Difendersi da leggi che rendano obbligatorie l'educazione, la vaccinazione o il prolungamento della vita umana è importante, ma non basta. Le procedure che già permettono di proteggersi contro la privazione di un bene o di un diritto vanno estese ai casi in cui la parte minacciata voglia difendersi dall'obbligo di consumare, qualunque sia il tipo di consumo in questione. La soglia di intollerabilità di un monopolio radicale non può essere fissata in anticipo, ma se ne può prevenire la minaccia. La legislazione che definisca la natura precisa del monopolio ritenuto intollerabile deve essere frutto di un processo politico.

Difendersi dalla generalizzazione del monopolio è difficile quanto difendersi dal dilagare dell'inquinamento. Si è più pronti a insorgere contro un attentato ai propri interessi privati che non contro i pericoli che minacciano l'insieme del corpo sociale. I nemici dichiarati dell'automobile sono molto più numerosi dei nemici del volante: gli stessi che sono contrari alle automobili in genere perché inquinano l'aria, distruggono il silenzio e schiavizzano l'utente, non esitano poi ad usare la propria macchina convinti che essa non inquini granché, e non hanno alcuna sensazione di alienare la propria libertà quando sono al volante. E qui che si coglie il carattere radicale del monopolio, nel fatto cioè che, in una collettività, la maggioranza dà più peso al vantaggio personale immediato che non al male futuro incombente su tutti. La difesa contro il monopolio è ancora più difficile se si tiene conto dei fattori seguenti. Da una parte la società è già adesso satura di autostrade, scuole e ospedali; dall'altra, l'innata capacità dell'uomo di formulare atti indipendenti è paralizzata da tanto tempo che sembra essersi atrofizzata; infine, le soluzioni che offrono un'altra possibilità, per il fatto d'essere semplici, sembrano escluse dal campo delle cose immaginabili. È difficile sbarazzarsi del monopolio una volta che esso ha gelato la forma del mondo fisico, sclerotizzato il comportamento e mutilato l'immaginazione. Quando il monopolio radicale viene scoperto, in genere è troppo tardi per liberarsene in modo economico.

L'eliminazione di un monopolio commerciale avviene a spese della minoranza che ne trae profitto, cioè a spese di quei pochi che, di solito, riescono a sfuggire ai controlli. La cosa è diversa nel caso del monopolio radicale, dalla cui continuazione dipende non il profitto di alcuni ma il modo di vita della maggioranza. Perché sia possibile spezzarlo occorre che la maggioranza si renda conto che il pericolo incombente non è solo la fine del suo stile di vita, ma la fine del suo mondo. Tuttavia questa minaccia, da sola, forse non basta per indurre la maggioranza ad affrontare il costo della distruzione del monopolio. Essa non accetterà di pagarne il prezzo se non mettendo sulla bilancia da una parte le promesse di una società conviviale e dall'altra i miraggi d'una società di progresso. La gente sceglierà la bicicletta solo dopo aver compreso due cose: da un lato che il costo reale dei veicoli rapidi è diventato incalcolabile; dall'altro, che per ogni ora di vita spesa al servizio della circolazione i veicoli a velocità di bicicletta permettono di fare più chilometri di qualsiasi altro veicolo più veloce. Ben poca gente sarebbe disposta a pagare il costo della sopravvivenza se confondesse la convivialità con l'indigenza.

Certi sintomi del monopolio radicale cominciano ad affiorare nella coscienza sociale, e soprattutto questo: anche nei paesi più altamente sviluppati, e qualunque sia il loro regime politico, il tasso di crescita della frustrazione supera di gran lunga quello della produzione. Certo le politiche di alleviamento della frustrazione riescono facilmente a distrarre l'attenzione dalla natura profonda del monopolio; ma a ogni successo superficiale di queste politiche, che corregge distorsioni e diluisce la critica in vaghe riforme, il monopolio di cui ci occupiamo non fa che radicarsi ancora più saldamente.

Il primo dei palliativi è la difesa del consumatore. Il consumatore non può fare a meno dell'automobile. Passa da questa a quella marca. Scopre che la maggior parte delle vetture sono pericolose, a qualunque velocità. Allora si organizza con altri consumatori per ottenere vetture più sicure, di qualità migliore e più durevoli, nonché strade più larghe e meno pericolose. La vittoria del consumatore è una vittoria di Pirro: un recupero di fiducia individuale nei veicoli superpotenti (pubblici o privati che siano) significa maggior dipendenza collettiva nei loro confronti, e una sempre maggiore frustrazione per chi deve, o vuole, andare a piedi.

L'effetto immediato di simili iniziative per l'autodifesa del consumatore «intossicato»è quello di migliorare la qualità della droga fornita e di accrescere la potenza del fornitore; ma alla lunga esse possono anche mettere lo sviluppo di fronte ai propri limiti: può darsi che un giorno le automobili diventino troppo care da comprare e le medicine troppo costose da provare. Acutizzando le contraddizioni intrinseche a un tale processo di industrializzazione dei valori, le maggioranze possono arrivare a prenderne piena coscienza. E possibile che il consumatore avvertito, quello che seleziona i suoi acquisti, alla fine arrivi a scoprire che gli conviene di più arrangiarsi da solo. Ralph Nader, direttamente, non fa che promuovere e ribadire la dipendenza radicale; ma non è detto che, esasperandola, non contribuisca a farla scoppiare.

Il secondo palliativo, che mira a pareggiare il tasso di crescita della produzione e quello della frustrazione, è l'ideologia della pianificazione. E illusione diffusa che dei pianificatori animati da ideali socialisti potrebbero in qualche modo creare una società socialista, in cui i lavoratori dell'industria formerebbero la maggioranza. I sostenitori di quest'idea trascurano però un fatto, e cioè che il margine di adattabilità degli strumenti anticonviviali (cioè quelli che manipolano la persona) è ridottissimo. Una volta che i trasporti, l'educazione o l'assistenza medica siano disponibili gratuitamente, c'è rischio che il loro consumo venga imposto con maggior forza dai tutori della morale, e che il sottoconsumatore venga accusato di sabotare lo sforzo nazionale. In un'economia di mercato, chi vuole curarsi l'influenza restandosene a letto è penalizzato con una perdita di introiti; in una società che si appella al «popolo» per raggiungere obiettivi di produzione stabiliti al vertice, il rifiuto di consumare assistenza sanitaria equivale a far professione di pubblica immoralità. La difesa contro il monopolio radicale è possibile a una sola condizione: che si esprima, sul piano politico, un accordo unanime sulla necessità di mettere un termine all'aumento del prodotto da consumare. Un tale consenso si situa esattamente all'opposto dell'atteggiamento che è ora comune a tutte le opposizioni politiche e che consiste nel chiedere più cose utili per più gente inutile.

L'equilibrio fra l'uomo e l'ambiente da una parte e, dall'altra, fra la possibilità di esercitare un'attività creativa e la somma dei bisogni elementari da soddisfare in tale maniera, questo duplice equilibrio è ormai vicino al punto di rottura. E tuttavia la maggioranza non ne è preoccupata. A questo punto bisogna spiegare perché i più sono ciechi o impotenti di fronte al pericolo. L'accecamento, io credo, è la conseguenza di un terzo squilibrio, quello del sapere; quanto all'impotenza, essa dipende dal perturbamento di un quarto equilibrio, che io chiamo equilibrio del potere.

La superprogrammazione

L'equilibrio del sapere è determinato dal rapporto di due variabili: da una parte il sapere proveniente da relazioni creative tra l'uomo e il suo ambiente naturale, dall'altra il sapere reificato dell'uomo agito dal suo ambiente attrezzato. Il primo tipo di sapere è l'effetto dei nodi di relazioni che si stabiliscono spontaneamente tra le persone, nell'impiego di strumenti conviviali. Il secondo sapere discende da un addestramento intenzionale e programmato. L'apprendimento della lingua materna rientra nella prima categoria, l'ingestione della matematica a scuola appartiene alla seconda.

Nessuna persona sensata direbbe che parlare, camminare o occuparsi di un bambino siano risultato di una educazione formale come invece è di solito per la matematica, la danza classica o la pittura.

L'equilibrio del sapere, cioè il rapporto tra le due variabili, è diverso a seconda del luogo e del tempo. Il rito vi ha grandissima parte: un musulmano sa un po' d'arabo per via della sua preghiera. Questa acquisizione di sapere avviene per interazione in un contesto delimitato da una tradizione. È in modo analogo che i contadini riprendono il folklore della loro terra. Classi e caste moltiplicano le occasioni di apprendere: il ricco sa stare a tavola e parlare in società (e tiene lui stesso a dire che «queste cose non si imparano»); il povero saprà sopravvivere degnamente là dove nessuna scuola può insegnare al ricco come cavarsela.

Per l'acquisizione del sapere, fondamentale è la struttura dello strumento: lo strumento conviviale favorisce la scoperta personale, quello industriale alimenta l'insegnamento. In certe tribù, piccole e di forte coesione, il sapere è diviso assai equamente tra la maggioranza dei membri della tribù: ognuno sa la maggior parte di ciò che il gruppo sa. Alla tappa successiva del processo di civilizzazione, vengono introdotti nuovi strumenti, più gente sa un maggior numero di cose, ma non tutti sanno più fare ogni cosa ugualmente bene. La maestria, tuttavia, non implica ancora il monopolio della comprensione: si può comprendere ciò che fa un fabbro senza essere fabbro, non c'è bisogno di essere cuoco per sapere come si cucina. Questo gioco combinato di una informazione largamente diffusa e di una attitudine generale a trarne profitto è caratteristico delle società in cui prevale lo strumento conviviale. La tecnica dell'artigiano può essere compresa osservando il suo lavoro, mentre le risorse complesse che egli mette in opera non possono essere acquisite se non al termine di una lunga operazione disciplinata: l'apprendistato. Il sapere globale di una società si espande quando, nello stesso tempo, si sviluppano il sapere acquisito spontaneamente e il sapere trasmesso da un maestro; allora disciplina e libertà si congiungono armoniosamente. L'espansione del campo di equilibrio del sapere non può andare all'infinito; contiene in se stessa il proprio limite. Questo campo è ottimizzabile, non indefinito. Prima di tutto perché l'arco di una vita umana è limitato. Poi (e anche questo è un fatto inesorabile) perché la specializzazione dello strumento e la divisione del lavoro si incrementano reciprocamente e, al di là di un certo punto, richiedono una sovraprogrammazione tanto dell'operatore quanto del cliente. Da questo momento, la maggior parte del sapere di ognuno è effetto del volere e del potere altrui. La cultura di un corpo sociale può fiorire in innumerevoli varietà, ma ci sono dei limiti materiali alla specializzazione che non si possono aggirare.

In quale ambiente il bambino di New York vede la luce? In un insieme complesso di sistemi che significano una cosa per quelli che li progettano e un'altra per chi ne fa uso. Posto a contatto con migliaia di sistemi, ai loro punti terminali, l'uomo di città sa forse servirsi del telefono e del televisore, della legge e delle assicurazioni, ma non sa come funzionano. L'acquisizione spontanea del sapere è limitata ai meccanismi di adattamento a un comfort massificato. L'uomo di città è sempre meno in grado di farsi tanto le sue cose quanto le sue idee. Far da mangiare, far la corte o fare l'amore, tutto diventa materia d'insegnamento. Deviato dall'educazione e verso l'educazione, l'equilibrio del sapere si disgrega. Sappiamo ciò che ci è stato insegnato, ma non impariamo più da noi stessi. Sentiamo d'aver bisogno di essere educati.

Il sapere diventa così una merce e, come tutte le merci che passano attraverso il mercato, è soggetto alla scarsità. Celare la natura di questa scarsità è la funzione, costosissima, di tutta una multiforme educazione. E educazione infatti la preparazione programmata alla «vita attiva» mediante l'ingurgitazione di istruzioni confezionate in serie, prodotte dalla scuola. Ma è educazione anche il collegamento continuo col flusso delle informazioni emesse dai media (informazioni su quello che accade), come è educazione il «messaggio» di ogni bene manufatto. Qualche volta il messaggio è scritto sulla scatola, e bisogna leggerlo. Se il prodotto è più elaborato, la sua forma, il suo colore, le associazioni provocate dettano all'utente il modo di servirsene. Permanente, l'educazione lo è in particolare, come ricostituente di stagione, per il dirigente, il poliziotto e l'operaio specializzato, periodicamente superati dalle innovazioni nei rispettivi campi. Quando la gente si consuma, e deve continuamente ritornare sui banchi di scuola per prendere un bagno di sapere e di sicurezza, quando l'analista deve essere riprogrammato a ogni nuova generazione di calcolatori, allora, veramente, il sapere è una merce soggetta alla scarsità. Così l'educazione diventa, nella società, il problema più scottante e insieme più mistificante.

Ovunque il tasso di aumento del costo della formazione è superiore a quello del prodotto globale. Di ciò si danno due diverse interpretazioni. Per l'una, l'educazione è un mezzo per raggiungere dei fini economici; l'investimento di sapere nell'uomo è richiesto dalla necessità di accrescere la produttività. In questa prospettiva, l'aumento sproporzionato del terziario terapeutico significa che la produzione globale si avvicina all'asintoto. Per parare il pericolo, occorre trovare il mezzo di migliorare il rapporto spesa-ricavo nell'ortopedia pedagogica. Le scuole saranno le prime a essere colpite dal processo di razionalizzazione dei meccanismi di capitalizzazione del sapere. A mio avviso è un peccato: per quanto distruttiva e inefficace, la scuola, per il suo carattere tradizionalista, assicura un minimo di protezione al bambino; una volta liberati dagli impacci inerenti al sistema scolastico, gli educatori potrebbero rivelarsi dei «condizionatori» mortalmente efficaci.

Il punto di partenza della seconda interpretazione è opposto: il terziario, che non si può peraltro assimilare alla sola educazione, è il prodotto sociale più prezioso dello sviluppo industriale. Pertanto, il declino dell'utilità marginale dell'educazione non è un buon motivo per limitarne la produzione. Al contrario, la sostituzione della domanda di servizi alla domanda di beni segna il passaggio a un'economia stabile e, insieme, un miglioramento della «qualità della vita». Nove volte su dieci, le previsioni su quello che sarà il 2000, nel loro ultimo capitolo, descrivono la felicità come una valanga di consumo terziario.

Queste due interpretazioni spostano entrambe l'equilibrio del sapere: concorrono allo sviluppo delle tecniche di manipolazione educativa, e soffocano ogni curiosità personale. Considerare l'educazione come mezzo di produzione o come prodotto di lusso è la stessa cosa, dal momento che si concorda nel chiederne sempre nuove dosi. Le due posizioni si basano sul medesimo postulato, segnato da un carattere di fatalità: il mondo moderno è talmente artificiale, alienato, arcano, che trascende la capacità dell'uomo comune e non può essere scoperto ma solo conosciuto per via di rivelazione dai grandi iniziati e dai loro discepoli. Sostituire la sveglia meccanica dell'educazione al risveglio del sapere significa soffocare nell'uomo il poeta, gelare il suo potere di dare senso al mondo. Non appena separato dalla natura, privato di lavoro creativo, mutilato nella curiosità, l'uomo perde le sue radici, è paralizzato, appassisce. Sovradeterminare l'ambiente fisico significa renderlo fisiologicamente ostile. Annegare l'uomo nel benessere significa incatenarlo al monopolio radicale. Corrompere l'equilibrio del sapere significa trasformare l'uomo in una marionetta dei suoi strumenti. Invischiato nella sua infelicità climatizzata, l'uomo è castrato: gli resta solo la rabbia, che lo porta a uccidere oppure a uccidersi.

Poeti e buffoni sono sempre insorti contro l'oppressione dogmatica del pensiero creativo. Attraverso le metafore, essi svelano il significato letterale. Nella cornice dell'humour, mettono in mostra l'insensatezza di ciò che pretende d'esser serio. Col loro ingenuo stupore dissolvono le certezze, bandiscono i timori e slegano i corpi paralizzati. Il profeta denuncia le credenze, mette a nudo le superstizioni, sveglia le persone, ne suscita le forze e l'ardore. Che le ingiunzioni della poesia, dell'intuizione, della teoria, contro l'avanzata del dogma sullo spirito riescano a provocare una rivoluzione della consapevolezza, non è impossibile. Ma condizione perché l'equilibrio del sapere possa essere raddrizzato è che Chiesa e Stato siano separati, che burocrazia della verità e burocrazia del benessere siano divise, che il sapere obbligatorio e forzoso e l'azione politica siano distinti. La scrittura poetica non farà esplodere la società se non calandosi nella forma del processo politico.

Già altre volte il Diritto è servito a slegare l'ideologia dalle leggi. Il Diritto che già difese il corpo sociale dalle esorbitanti pretese dei chierici, può ora farlo contro quelle degli educatori. Non corre molta differenza tra l'obbligo di andare a scuola, o altrove, e quello di andare in chiesa. Un giorno il Diritto potrà realizzare la separazione tra educazione e politica, su cui si fonda in linea di principio la società. Ma sin d'ora esso può servire a combattere la proliferazione del terziario ed il suo impiego per la riproduzione di un capitalismo del sapere e di una società di classe fondata sulla reificazione dell'educazione.

Comprendere per davvero l'aumento del costo dell'educazione suppone che siano note le due facce del problema: prima di tutto, che lo strumento non conviviale comporta come inevitabile effetto collaterale un aumento della spesa educativa che presto supera la produttività totale della società; e in secondo luogo, che un'educazione attrezzata in maniera non conviviale è economicamente impraticabile.

Il primo aspetto ci fa capire la necessità di passare a una società in cui lavoro, svago e politica favoriscano l'apprendimento, una società che funzioni con un minor grado di educazione formale. Il secondo aspetto ci fa capire la possibilità di attuare delle soluzioni educative che facilitino un'acquisizione spontanea del sapere, confinando l'insegnamento programmato a casi limitati e chiaramente specificati.

Su tutta la superficie del pianeta, lo strumento altamente capitalizzato richiede un uomo imbottito d'uno stock di sapere. Dopo la seconda guerra mondiale, la razionalizzazione della produzione ha penetrato le regioni cosiddette arretrate e le metastasi industriali hanno preso a esercitare sulla scuola un'intensa domanda di personale programmato. La proliferazione di questo tipo di benessere esige un appropriato condizionamento per viverci insieme. Ciò che la gente impara nelle scuole che si moltiplicano in Malesia o nel Brasile è, innanzi tutto, misurare il tempo con l'orologio del programmatore, stimare l'avanzamento con gli occhiali del burocrate, apprezzare l'accresciuto consumo con il cuore del mercante, considerare il perché del lavoro con gli occhi del responsabile sindacale. Questo non è il maestro di scuola a insegnarglielo, ma il percorso programmato prodotto e nello stesso tempo obliterato dalla struttura scolastica. Ciò che insegna il maestro non ha importanza dal momento che i bambini devono trascorrere centinaia di ore riuniti per classi d'età, assoggettarsi alla routine del programma (il percorso o curriculum), e ricevere un diploma in base alla loro capacità di assoggettarvisi. Che cosa si impara a scuola? Si impara che più ore vi si passano, più aumenta il proprio prezzo sul mercato. Si impara a valorizzare il consumo scaglionato di programmi. Si impara che tutto ciò che è prodotto da un'istituzione dominante vale e costa caro, anche quello che non si vede, come l'educazione o la salute. Si impara a valorizzare l'avanzamento gerarchico, la sottomissione e la passività, e persino la devianza-tipo che il maestro ama interpretare come sintomo di creatività. Si impara a brigare senza indisciplina i favori del burocrate che presiede alle sedute quotidiane, il professore a scuola, il capo in fabbrica. Si impara a definirsi come detentori di un capitale di sapere nella specialità in cui si è investito il proprio tempo. Si impara, infine, ad accettare senza mugugni il proprio posto nella società, cioè la classe e la carriera precise che corrispondono rispettivamente al livello e al campo di specializzazione scolastica.

L'educazione non diventa una necessità soltanto perché occorre diplomare la gente per selezionare quelli a cui si darà lavoro, ma anche per controllare quelli che accedono al consumo. E lo sviluppo industriale stesso che porta l'educazione a esercitare il controllo sociale indispensabile per un uso efficiente dei prodotti. L'industria edilizia nei paesi dell'America Latina è un buon esempio delle disfunzioni educative provocate dagli architetti. In questi paesi, le grandi città sono contornate da vaste zone, favelas, barriadas o poblaciones, dove la gente si costruisce i suoi ripari da sola. Non costerebbe molto prefabbricare degli elementi d'abitazione e per servizi comuni facili da montare: la gente potrebbe costruirsi abitazioni più durevoli, più confortevoli e più salubri, e nello stesso tempo apprenderebbe l'uso di nuovi materiali e di nuovi sistemi. Invece di questo, invece di incoraggiare l'attitudine innata nell'uomo a modellare il proprio ambiente, i governi paracadutano su queste bidonvilles dei servizi comuni concepiti per una popolazione che viva in case di tipo moderno. Con la loro semplice presenza, la superstrada asfaltata, la scuola nuova e il posto di polizia in vetro e acciaio definiscono come modello l'edificio disegnato e costruito da specialisti, e in tal modo appongono sulla casa che ci si costruisce da soli il marchio della bidonville, riducendola a non essere altro che una baracca di latta. Questa definizione è poi consacrata dalla legge, la quale rifiuta il permesso di costruire a chi non può presentare un progetto firmato da un architetto. Così si spoglia la gente della sua attitudine naturale a investire il proprio tempo personale nella creazione di valori d'uso, e la si obbliga a un lavoro salariato: potrà così scambiare il suo salario con lo spazio industrialmente condizionato. E la si spoglia anche della possibilità di imparare facendo. Il tipo di costruzione che la scuola ha reso possibile rende a sua volta necessaria la scuola.

La società industriale esige che alcuni siano programmati per guidare camion, altri per costruire case. Ad altri ancora si deve insegnare a vivere nei grandi complessi. Insegnanti, assistenti sociali e poliziotti lavorano a braccetto per mantenere la popolazione sottopagata o parzialmente disoccupata in case che né si è fatta da sé né può modificare. In tal modo l'economia realizzata nella costruzione di simili complessi abitativi fa aumentare, naturalmente, il costo di manutenzione dell'immobile, ma esige inoltre per spese terziarie un multiplo della somma risparmiata: per istruire, animare, promuovere, ossia per controllare, conformare e condizionare il locatario. Per sistemare più persone su una superficie minore, il Brasile e il Venezuela hanno fatto l'esperimento dei grandi immobili. Dapprima è stato necessario che la polizia sloggiasse la gente dalle «catapecchie» e la rialloggiasse in appartamenti. Poi gli assistenti sociali si sono cimentati nel duro compito di socializzare dei locatari non sufficientemente scolarizzati per comprendere da soli che non si allevano maiali sul balcone di un undicesimo piano e non si coltivano fagiolini rossi nella vasca da bagno.

A New York chi non ha dodici anni di scolarità è considerato alla stregua di un invalido: diventa inoccupabile e cade sotto la tutela di assistenti sociali che decidono come dovrà vivere. Il monopolio radicale dello strumento sovrefficiente estorce al corpo sociale un crescente (e costoso) condizionamento dei suoi clienti. Le automobili prodotte dalla Ford richiedono, per essere riparate, dei meccanici periodicamente riciclati dalla fabbrica stessa. I fautori del «miracolo verde» selezionano delle sementi ad alto rendimento le quali possono essere usate solo da una minoranza che disponga di un duplice concime: quello chimico e quello dell'educatore. Più salute, più velocità e più raccolto significano individui più ricettivi, più passivi, più disciplinati. Le scuole produttrici di controllo sociale, prendendo a proprio carico la maggior parte del costo di queste discutibili conquiste, con ciò stesso lo mascherano.

Cedendo alle pressioni esercitate su di lei in nome del controllo sociale, la scuola tocca e supera la sua seconda soglia critica. I pianificatori fabbricano programmi più variati e più complessi, la cui utilità marginale per ciò stesso diminuisce.

Mentre la scuola allarga il campo delle sue pretese, altri servizi si scoprono una missione educatrice. La stampa, la radio e la televisione non sono più soltanto mezzi di comunicazione, dal momento che le si mette coscientemente al servizio dell'integrazione sociale. I settimanali aumentano la loro diffusione riempiendosi di informazioni stereotipate, diventano dei prodotti finiti che forniscono già bell'e confezionata un'informazione filtrata, asettica, predigerita. Questa «migliore» informazione soppianta l'antica discussione del fòro dei semplici, della plaza; col pretesto di informare, suscita una docile bulimia di alimenti precotti e uccide la capacità naturale di scegliere, padroneggiare, organizzare l'informazione. Si offre al pubblico qualche vedette o qualche specialista volgarizzato dai confezionatori del sapere, mentre la voce dei lettori viene confinata, dopo attenta selezione, nella rubrica delle «lettere al direttore» o nelle docili risposte alle varie inchieste promosse dallo stesso rotocalco.

Ora, gli uomini non hanno bisogno di una maggiore quantità di insegnamento. Hanno bisogno di imparare certe cose. Bisogna che imparino a rinunciare, il che non si apprende a scuola, che imparino a vivere entro certi limiti, come è necessario per esempio per far fronte al problema della natalità. La sopravvivenza umana dipende dalla capacità degli interessati di imparare presto, da loro stessi, quello che non possono fare. Gli uomini devono imparare a controllare la loro riproduzione, il loro consumo e il loro uso delle cose. E impossibile educare la gente alla povertà volontaria, così come l'autocontrollo non può essere il risultato di una manipolazione. E impossibile insegnare la rinuncia gioiosa ed equilibrata, in un mondo strutturalmente tutto orientato a produrre sempre di più ed a creare l'illusione che ciò costi sempre meno.

Bisogna (per scegliere un esempio) che tutti imparino il perché e il come del controllo delle nascite. Il motivo è chiaro: l'uomo si è evoluto su una particella del cosmo; il suo universo, circoscritto dalle risorse dell'ecosfera, non può ammettere che un numero limitato di occupanti. La tecnica ha modificato le caratteristiche di questa nicchia ecologica e l'ecosfera può ora accogliere più abitanti, ciascuno meno adatto vitalmente al proprio ambiente, ciascuno avente in media meno spazio, meno competenza, meno tradizione. Il tentativo di fabbricare un ambiente «migliore» si è rivelato altrettanto presuntuoso quanto quello di «migliorare» la salute, l'educazione o la comunicazione. Il risultato è che oggi c e più gente che si sente sempre meno a proprio agio. I nuovi strumenti che hanno favorito la crescita della popolazione non possono assicurarne la sopravvivenza. L'entrata in funzione di nuovi strumenti ancora più potenti accresce il numero dei frustrati più rapidamente di quanto accresca il totale della popolazione. Su un mercato stracolmo, la carenza si accentua ed esige sempre più la programmazione dei clienti.

Il successo di qualunque pianificazione riposa su un fattore-chiave: il controllo del numero degli individui per i quali si pianifica. Ma, fino a oggi, tutte le pianificazioni demografiche sono fallite: la gente limita le nascite solo quando l'abbia deciso per proprio conto. Il paradosso è che l'uomo oppone la sua più forte resistenza proprio all'insegnamento di cui avrebbe maggiormente bisogno. Qualunque programma di controllo delle nascite condotto sul modello industriale avrà lo stesso decorso che hanno avuto altri sforzi di terapia imposta, come la scuola e l'ospedale. All'inizio giocherà l'effetto di seduzione; poi verrà l'escalation dell'aborto e della sterilizzazione obbligatori; alla fine si avrà l'argomento decisivo per perpetrare genocidi, paupericidi e altre forme di megamorte. L'orrore dell'applicazione della scienza moderna a strutture manipolatrici non si presenta in nessun altro campo con tanta mostruosa evidenza come nel campo demografico.

Senza la pratica di una contraccezione volontaria ed efficace, l'umanità sarà schiacciata dal proprio numero prima ancora d'essere schiacciata dalla potenza dei propri strumenti. Ma la generalizzazione della contraccezione non può in alcun caso esser opera di un'organizzazione manipolatrice dotata di un suo strumento miracoloso. Una nuova pratica, opposta a quella d'oggi, può derivare solo da un nuovo rapporto tra l'uomo e il suo strumento: per essere efficace, la contraccezione esige che si generalizzi quella mentalità conviviale che sola rende possibile il controllo dello strumento in questione.

I sistemi richiesti dal controllo delle nascite sono l'esempio-tipo dello strumento conviviale moderno: integrano i dati della scienza più avanzata con arnesi utilizzabili al prezzo di un minimo di buon senso e di esperienza. Tali sistemi offrono un insieme di nuovi mezzi per esercitare le pratiche millenarie di contraccezione, sterilizzazione e aborto. Grazie al loro basso costo, possono esser resi accessibili a chiunque. Data la loro varietà, si conciliano con le credenze, le occupazioni e le situazioni più diverse. Con ogni evidenza, sono strumenti che strutturano la relazione che ciascuno ha con il proprio corpo e con gli altri. Sono predestinati all'uso conviviale.

Il controllo delle nascite è un'impresa da realizzare entro un tempo ridottissimo. Non potrà essere realizzata se non in modo conviviale. E un controsenso pretendere di imporre a una popolazione l'uso dello strumento conviviale negli atti riguardanti la sfera sessuale, e per un altro verso continuare a condizionarla al solo consumo in tutte le altre sfere (inclusa la fantasia sessuale). E assurdo chiedere a un contadino brasiliano di usare da solo il preservativo, dopo che gli si è insegnato a dipendere dal medico per le iniezioni e le ricette, dall'avvocato per risolvere una lite e dall'insegnante per imparare a leggere e scrivere. E un controsenso oggi legiferare sull'aborto come «atto medico» quando è divenuto più semplice che mai riconoscere l'inizio di una gravidanza o interromperla. Ma non è meno utopistico immaginare che in India l'istituzione medica affidi di sua volontà la sterilizzazione a degli assistenti analfabeti addestrati allo scopo. Il giorno in cui gli interessati prenderanno coscienza che questa delicata operazione può essere eseguita altrettanto bene, se non meglio, da un profano, purché sia capace dell'attenzione e dell'abilità che sono per esempio richieste per la pratica ancestrale della tessitura di un san, quel giorno segnerà la fine del monopolio dei medici su tutta una serie di operazioni non tanto costose da essere escluse per i più. Via via che strumenti postindustriali razionali si diffonderanno, i tabù dello specialista seguiranno l'attrezzatura industriale nella sua caduta come l'avevano accompagnata nella sua gloria. Lo strumento semplice, povero, trasparente è un umile servitore e condizione per interscambi personali; lo strumento elaborato, complesso, arcano è un padrone arrogante e si erge come barriera fra uomo e uomo.

La polarizzazione

L'industrializzazione moltiplica gli uomini e le cose. I sottoprivilegiati crescono di numero, mentre i privilegiati consumano sempre di più. Di conseguenza, tra i poveri aumenta la fame e tra i ricchi la paura. Guidato dal bisogno e dal sentimento d'impotenza, il povero reclama un'industrializzazione accelerata; spinto dalla paura e dal desiderio di proteggere il suo star meglio, il ricco s'impegna in una difesa sempre più rabbiosa e rigida. Mentre il potere si polarizza, l'insoddisfazione si generalizza. La possibilità che pur ci è data di creare per tutti maggiore felicità con meno abbondanza, è relegata al punto cieco della visione sociale.

Questo accecamento nasce dallo squilibrio della bilancia del sapere. Gli intossicati dall'educazione sono buoni consumatori e buoni utenti. Vedono la loro crescita personale sotto forma di una accumulazione di beni e di servizi prodotti dall'industria. Anziché fare le cose da se stessi, preferiscono riceverle bell'e pronte dall'istituzione. Soffocano il loro potere innato di apprendere il reale. Lo squilibrio della bilancia del sapere spiega come l'avanzata del monopolio radicale dei beni e dei servizi non venga quasi affatto percepita dall'utente. Ma non ci dice perché costui si senta tanto impotente a modificare le disfunzioni, nella misura in cui le percepisce.

È qui che interviene l'effetto di un quarto tipo di sconvolgimento: la polarizzazione crescente del potere. Sotto la spinta della megamacchina in espansione, il potere di decidere del destino di tutti si concentra nelle mani di alcuni. E, in questa frenesia di crescita, le innovazioni che migliorano la sorte della minoranza privilegiata crescono ancora più rapidamente del prodotto globale.

Un aumento del 3 per cento del livello di vita americano costa venticinque volte più caro di un uguale aumento del livello di vita in India, paese che pure è più popoloso e prolifico del Nord America. Nella corsa alla crescita industriale, la condizione del povero può essere migliorata se il ricco consuma di meno, mentre quella del ricco non può esserlo se non al prezzo della spoliazione mortale del povero. Il ricco sostiene che sfruttando il povero lo arricchisce perché in ultima analisi egli crea abbondanza per tutti; e le élites dei paesi poveri diffondono questa favola.

Il ricco si arricchirà e spoglierà più d'un povero nel prossimo decennio. Il fatto che il mercato internazionale fornisca loro del frumento, imporrà ai paesi poveri di costruire reti di trasporto e di distribuzione, a un prezzo sociale che sarebbe praticamente bastato a trasformare l'agricoltura locale. Ma l'angoscia che ci stringe nell'osservare la controproduttività delle politiche di «sviluppo» non deve impedirci di comprendere la struttura della ripartizione del potere, che costituisce la quarta dimensione attraverso cui il sovrasviluppo esercita i suoi effetti distruttivi. L'industrializzazione sfrenata fabbrica la povertà moderna. È vero che i poveri hanno un po' più di soldi, ma con quel loro poco denaro possono fare di meno: e non tanto a causa dell'aumento dei prezzi, quanto per la paralisi che colpisce la produzione dei valori che non siano merci. La modernizzazione della povertà va di pari passo con la concentrazione del potere: potere che consiste soprattutto nel decidere quello che si potrà o dovrà produrre. E un punto da comprendere bene, altrimenti non si coglie la natura profonda della polarizzazione.

La povertà si modernizza: la sua soglia monetaria si eleva perché nuovi prodotti industriali si presentano come beni di prima necessità, restando tuttavia inaccessibili ai più. Nel terzo mondo, grazie alla «rivoluzione verde», il contadino povero è espulso dalla sua terra. Come salariato agricolo guadagna di più, ma i suoi bambini non mangiano più come una volta. Il cittadino americano che guadagna dieci volte più del salariato agricolo è anche lui disperatamente povero. Entrambi pagano sempre più caro un crescente “essermeno”.

Complementarmente, cresce il divario tra ricchi e poveri, poiché il controllo della produzione è centralizzato al fine di produrre sempre di più per il maggior numero. Mentre la salita delle soglie di povertà è conseguenza della struttura del prodotto industriale, l'aumento del divario tra poveri e potenti dipende dalla struttura dello strumento. Chi vuole risolvere il primo aspetto del problema senza considerare il secondo, non fa che sostituire alla carenza di cose una carenza di voce. La ridistribuzione del prodotto non è il rimedio alla polarizzazione del controllo.

Con lo strumento fiscale si ovvia agli effetti superficiali della concentrazione industriale del potere. L'imposta sul reddito trova il suo complemento nei sistemi di sicurezza sociale, di sussidi e di equa distribuzione del benessere. Può anche accadere che al di là di una certa soglia il capitale venga statalizzato, o che si decida di ridurre il ventaglio dei salari. Ma un simile controllo del reddito privato non può essere efficace se non è accompagnato da un controllo sul consumo dei privilegi attribuiti all'individuo in virtù della sua funzione di produttore. Di per sé il controllo del reddito non ha alcun effetto eguagliatore sui privilegi che contano veramente in una società dove l'impiego è diventato più importante della famiglia. Finché i lavoratori saranno classificati in base al grado di capitalizzazione di forza-lavoro che a ciascuno si imputa, la minoranza detentrice di stock di sapere ad alta quotazione si arrogherà regolarmente tutti i privilegi che permettono di guadagnare tempo. La concentrazione dei privilegi nelle mani di pochi è inerente alla produttività industriale.

Appena un secolo fa, nessuno avrebbe potuto immaginare la concentrazione del potere e dell'energia che oggi ci sembra normale. In una società moderna, l'energia industrializzata supera enormemente l'energia metabolica globale, cioè l'energia di cui dispone il corpo umano per svolgere determinati compiti. Il rapporto tra l'energia meccanica e l'energia umana disponibile è di 15 in Cina e di 300 negli Stati Uniti. E le reti elettriche concentrano il controllo dell'energia e l'esercizio del potere più efficacemente di quanto non ci riuscisse la frusta nelle civiltà antiche. La ripartizione sociale del controllo del consumo di energia si è modificata radicalmente. Il funzionamento e, più ancora, il disegno dell'infrastruttura energetica di una società moderna impongono l'ideologia del gruppo dominante, con una forza e una penetrazione inconcepibili per il sacerdote dell'antico Egitto o per il banchiere del secolo XVII. In quanto mezzo di dominio, la moneta perde il suo valore a vantaggio del carburante. Se per capitale si intende ciò che fornisce l'energia trasformatrice, l'inflazione energetica ha ridotto la maggioranza all'indigenza.

Via via che lo strumento s'ingrossa, il numero degli operatori potenziali diminuisce. Via via che lo strumento diviene più efficiente, l'operatore impiega più beni e servizi costosi. Nei cantieri guatemaltechi, l'ingegnere è il solo ad avere l'aria condizionata nella sua baracca. Il suo tempo è così prezioso che egli prende l'aereo per andare nella capitale, e le sue decisioni sono così importanti che le comunica con una radio trasmittente a onde corte. Ovviamente, l'ingegnere ha guadagnato i suoi privilegi accaparrandosi i fondi pubblici per ottenere i suoi titoli di studio. Il manovale indio non avverte la posizione relativamente privilegiata del suo caposquadra; invece i geometri e i disegnatori, che sono stati scolarizzati ma non sono arrivati fino alla laurea, soffrono tutt'a un tratto più acutamente il caldo del cantiere e la lontananza dalle famiglie. Sono relativamente impoveriti di tutta l'efficienza supplementare guadagnata dal loro capo.

Mai lo strumento è stato tanto potente. E mai è stato a tal punto accaparrato da una élite. Il diritto divino non correva tanto in soccorso dei re d'una volta quanto la crescita dei servizi soccorre i funzionari d'oggi, nell'interesse supremo della produzione.

I sovietici giustificano i trasporti supersonici dicendo che fanno risparmiare tempo ai loro scienziati. I trasporti a grande velocità, le reti di telecomunicazione, le cure mediche speciali e l'assistenza illimitata della burocrazia vengono presentate come necessità per ottenere il massimo dagli individui che sono stati oggetto del massimo di capitalizzazione.

La società del megastrumento dipende per la sua sopravvivenza da molteplici sistemi che impediscono ai più di far valere la loro parola. Quest'ultimo privilegio è riservato agli individui riconosciuti come i più produttivi. Normalmente la produttività di un individuo si misura dall'investimento educativo di cui è stato oggetto, dall'importanza mondo industriale. Si può immaginare che il Nord America cessi di sfruttare la sottoindustrializzazione dell'America Latina, ma non che cessi di destinare le sue donne alle corvées non industrializzabili.

L'espansione dell'industria si arresterebbe se le donne ci forzassero a riconoscere che la società non è più vitale quando un solo modo di produzione eserciti il suo dominio sull'insieme. E urgente prendere coscienza della pluralità dei modi di produzione, ciascuno valido e rispettabile, che una società, per essere vitale, deve far coesistere. Questa presa di coscienza ci renderebbe padroni della crescita industriale. La crescita si arresterebbe se le donne e le altre minoranze tenute lontane dal potere esigessero un lavoro egualmente creativo per tutti, anziché reclamare l'eguaglianza dei diritti sulla mega-attrezzatura manipolata fino ad oggi dall'uomo soltanto. Solo una struttura di produzione che protegga l'eguale ripartizione del potere permette un eguale godimento dell'avere.

L'obsolescenza

La ricostruzione conviviale suppone lo smantellamento dell'attuale monopolio dell'industria, non la soppressione di qualunque produzione industriale. Implica che sia ridotta la polarizzazione sociale dovuta allo strumento, affinché nella forza produttiva coesista una pluralità dinamica di strutture complementari e quindi una pluralità di ambienti e di élite. Richiede l'adozione di strumenti che mettano in opera l'energia del corpo umano, non il regresso verso uno sfruttamento dell'uomo. Esige una considerevole riduzione della serie di trattamenti obbligatori, ma non impedisce a nessuno di farsi insegnare o curare se lo desideri. Una società conviviale non è una società congelata. La sua dinamica dipende dall'ampia ripartizione del controllo dell'energia, cioè del potere di operare un cambiamento reale. Nel sistema attuale di obsolescenza programmata su larga scala, alcuni centri di decisione impongono l'innovazione all'intera società e privano le comunità di base del potere di scegliersi il loro domani; in tal modo è lo strumento a imporre la direzione e il ritmo dell'innovazione. Un processo ininterrotto di ricostruzione conviviale è possibile a condizione che il corpo sociale protegga il potere delle persone e delle collettività di modificare e rinnovare i loro modi di vivere, i loro strumenti, il loro ambiente, in altri termini il potere di dare al reale un volto nuovo. In questa minaccia che l'industria fa incombere sul passato e l'avvenire, sulla tradizione dell'utopia, sta la quinta dimensione in cui va salvaguardato l'equilibrio. La polarizzazione sociale, si è visto, risulta da due fattori combinati: l'aumento del costo dei beni e dei servizi prodotti e confezionati dall'industria, e la rarità crescente degli impieghi considerati altamente produttivi. L'obsolescenza, dal canto suo, produce la svalorizzazione. Questa svalorizzazione non è effetto di un tasso generale di cambiamento, ma del cambiamento che subiscono i prodotti che esercitano un monopolio radicale. La polarizzazione sociale è determinata dal seguente fatto: il costo dei beni e dei servizi standardizzati è divenuto tale che la maggior parte della gente non può accedere al loro insieme; più se ne aumenta la produzione, più si egualizza una distribuzione, più si esclude il consumatore dal controllo su ciò che riceve. L'obsolescenza, da parte sua, può divenire intollerabile anche a chi non è espulso dal mercato: essa obbliga il consumatore a staccarsi continuamente da ciò che è stato costretto a desiderare, pagare e installare nella sua esistenza. La necessità artificiale e l'obsolescenza pianificata sono due dimensioni distinte della sovrefficienza, che sostengono una società in cui il livello di consumo non solo rispecchia ma crea la gerarchia del privilegio.

Ciò che più importa non è che l'obsolescenza forzata distrugga vecchi modelli o vecchi sistemi, che Ford si sbarazzi di un tipo d'auto non fornendo più pezzi di ricambio, o che la polizia escluda dalla circolazione le automobili vecchie, che non rispondono alle ultime norme di sicurezza. Per mancanza di benzina o per desiderio di efficienza, si può anche sostituire l'automobile con l'aerotreno. Il rinnovamento è intrinseco a un modo di produzione industriale accoppiato a un'ideologia di progresso. Il prodotto non può essere migliorato se non riattrezzando la megamacchina; e perché ciò «renda», occorre creare immensi mercati in finzione del nuovo modello. La maniera migliore di aprire un mercato è di assimilare il nuovo prodotto a un importante privilegio. Se l'identificazione riesce, il vecchio modello è svalorizzato e il consumatore si abbandona all'ideologia dello sviluppo illimitato nel quale egli si integra al ritmo della migliorata «qualità» del bene di consumo. Gli individui, ma anche i paesi, si classificano socialmente secondo l'anzianità del loro stock di strumenti e di beni. Alcuni, la minoranza, possono permettersi il lusso di avere sempre l'ultimo modello, gli altri si servono ancora di armi, automobili, lavatrici e medicinali vecchi di cinque o quindici anni; probabilmente passano le vacanze in alberghi altrettanto fuori moda, cioè declassati. Il livello di obsolescenza del loro consumo indica esattamente dove si trovano nella scala sociale.

La classificazione sociale degli individui in base all'età degli oggetti che utilizzano non è appannaggio del solo capitalismo. Ovunque l'economia sia fondata sulla produzione e confezione massive di beni e servizi soggetti a usura, solo pochi privilegiati hanno accesso alle ultime novità. Solo poche infermiere partecipano ai corsi di anestesia più moderni, e solo alcuni burocrati possono viaggiare a bordo dell'ultimo modello di auto o aereo. Ognuno, nell'élite costituita in seno alla minoranza, riconosce e classifica l'altro secondo l'età dei suoi strumenti, se non dell'equipaggiamento domestico, per lo meno del materiale d'ufficio.

L'innovazione costa cara, e per giustificare la spesa il dirigente deve provare che essa è un fattore di progresso. Per tradurre in cifre questo progresso, in una economia pianificata il dipartimento di ricerca e sviluppo chiama in proprio aiuto la pseudo-scienza, mentre in una economia di mercato l'ufficio vendite fa ricorso a ricerche di mercato. In ogni caso, l'innovazione periodica alimenta la credenza che l'ha generata, l'illusione che il nuovo corrisponda al meglio. Questa credenza è divenuta parte integrante della mentalità moderna. Si dimentica soltanto che tutte le volte che una società industriale si nutre di tale illusione, ogni nuova unità lanciata sul mercato crea più bisogni di quanti non ne soddisfi. Se ciò che è nuovo è migliore, ciò che è vecchio non è realmente buono; la sorte dell'umanità, nella sua schiacciante maggioranza, è allora ben triste. Il nuovo modello produce una nuova povertà. Il consumatore, l'utente, risente duramente la distanza tra ciò che ha e ciò che sarebbe meglio avere. Misura il valore di un prodotto dalla sua novità, e si presta a un'educazione permanente, ai fini del consumo e dell'uso dell'innovazione. Niente sfugge all'obsolescenza, neppure i concetti. La logica del «sempre meglio» sostituisce quella del bene come norma strutturante dell'azione.

Una società impegnata nella corsa allo «star meglio» sente come una minaccia l'idea stessa di una qualsiasi limitazione del progresso. È così che l'individuo che non cambia oggetti o terapie conosce il rancore del fallimento e chi ne cambia scopre la vertigine della carenza. Ciò che ha lo nausea, e ciò che vuole avere lo fa soffrire. Il cambiamento accelerato produce su di lui gli stessi effetti che l'assuefazione a una droga: si prova, si ricomincia, ci si abitua, si crede di potersi controllare, ci si ammala, si crolla. La dialettica della storia va in frantumi. Il rapporto tra il presente e la tradizione svanisce. Il linguaggio perde le sue radici, la memoria sociale si raggela, il precedente cessa di avere influenza sul Diritto. L'accordo sull'azione legale, sociale e politica si orienta così verso l'alchimia futurologica.

Ma se si stabilissero confini alla crescita, si obietta, e se ci si mettesse a produrre una somma finita e durevole di beni industrializzati, sarebbe la fine per la libertà di sperimentare e di innovare. L'obiezione sarebbe giustificata se qui mi stessi occupando di un nuovo modello di economia di sviluppo. Oggi il modello ultima moda è appunto una produzione pulita e limitata di beni, e uno sviluppo illimitato di servizi. Ma non è questo che mi interessa, perché non parlo dell'avvenire della società industriale, ma del passaggio ad una società in cui i modi di produzione siano diversificati. La limitazione del prodotto industriale ha, per noi, lo scopo di liberare l'avvenire, di aprirlo alla sorpresa delle azioni personali.

L'innovazione industriale è programmata, banale, reazionaria. Il rinnovamento fondato sull'uso di strumenti conviviali avrà la spontaneità e la freschezza degli esseri che li maneggeranno. Oggi il progresso del saper fare è inceppato dall'assimilazione della ricerca scientifica allo sviluppo industriale. La maggior parte degli strumenti di ricerca è riservata a ricercatori programmati perché interpretino il mondo in termini di profitto e di potere. E la maggior parte degli scopi della ricerca è determinata da moventi di potenza e di efficienza. La maggior parte del costo della ricerca è dovuta al suo carattere segreto, competitivo, impersonale. Al contrario, niente impedisce che la ricerca conviviale sia anche una ricerca fondamentale. La ricerca condotta per passione ci riserva, ne sono convinto, più sorprese che quella del granello di sabbia che blocca la grossa macchina. L'innovazione del sapere, come quella del potere, può fiorire soltanto là dove sia protetta dall'obsolescenza industriale. Una società stagnante sarebbe altrettanto insopportabile per l'uomo quanto la società dell'accelerazione: tra le due si colloca la società di innovazione conviviale. Il cambiamento accelerato toglie ogni senso all'idea di una società retta dal Diritto. La ragione è che il Diritto si fonda sul precedente. Al di là di una certa soglia di accelerazione, non c'è più posto per questo riferimento al precedente, e quindi per il giudizio. Perdendo la possibilità del ricorso al Diritto, la società si condanna all'educazione. L'esercizio del controllo sociale al servizio di un piano diventa compito da specialisti. L'ideologo rimpiazza il giurista. L'educatore dispone l'individuo ad essere addestrato e riaddestrato lungo tutta la sua esistenza. Cento volte si rimette quest'opera sul telaio, per produrre un individuo affascinato dal profitto e sempre più adatto alle esigenze dell'industria. La produzione di strumenti allo scopo di adattare l'uomo al suo contesto diventa l'industria dominante quando il ritmo di cambiamento dell'ambiente supera una certa soglia. La ricostruzione conviviale esige che sia limitato il tasso di obsolescenza e di innovazione obbligatoria. L'uomo e un essere fragile. Nasce nel linguaggio, vive nel diritto e muore nel mito. Sottoposto a un cambiamento smisurato, perde la sua dignità di uomo.

L'insoddisfazione

Abbiamo passato in rassegna cinque circuiti diversi. In ognuno di essi, lo strumento sovrefficiente minaccia un equilibrio. Minaccia l'equilibrio del corpo, minaccia l'equilibrio dell'energia, minaccia l'equilibrio del sapere, minaccia l'equilibrio del potere, minaccia infine il diritto alla storia.

La perversione dello strumento minaccia di devastare l'ambiente fisico. Il monopolio radicale minaccia di gelare la creatività. La superprogrammazione minaccia di trasformare il pianeta in una vasta area di servizi. La polarizzazione minaccia di instaurare un dispotismo strutturale e irreversibile. Infine, l'obsolescenza minaccia di sradicare la specie umana. In ciascuno di questi circuiti, e ogni volta secondo una dimensione diversa, lo strumento sovrefficiente intacca il rapporto dell'uomo col suo ambiente: minaccia di provocare un fatale corto circuito.

La nostra analisi sarebbe incompleta se riguardasse un solo circuito con esclusione degli altri. Ognuno di questi equilibri deve essere protetto. Gli output di una energia pulita possono essere equamente distribuiti da un monopolio radicale intollerabile. La scuola obbligatoria o i media onnipresenti possono intaccare l'equilibrio del sapere e aprire la strada a una polarizzazione della società, cioè a un dispotismo del sapere. Qualsiasi industria può generare un'accelerazione insopportabile dei ritmi di obsolescenza. Le culture sono fiorite nel cuore di una molteplicità geografica oggi minacciata; ma, attualmente, anche l'ambiente sociale e quello psichico rischiano la distruzione. La specie umana sarà forse avvelenata dall'inquinamento; ma può anche dissolversi e sparire per mancanza di linguaggio, di diritto o di mito. Il monopolio radicale degrada l'uomo e la polarizzazione lo minaccia; ma lo shock del futuro può disintegrarlo.

In ognuno dei circuiti considerati, come si è visto, si possono determinare dei criteri e reperire delle soglie, che permettono di verificare la degradazione dei diversi equilibri. E possibile designare queste soglie in un linguaggio comprensibile a tutti. Nel corso di un processo politico, la popolazione può servirsi ditali criteri per mantenere lo sviluppo dello strumento al di qua delle soglie critiche. I limiti così tracciati circoscriverebbero i tipi di strutture delle forze produttive che restano controllabili dalla popolazione: il potere di indicare tali limiti costituisce l'appendice tecnopolitica necessaria ad ogni costituzione contemporanea. Al di là, lo strumento sfugge a ogni controllo politico. Il potere che l'uomo ha di far valere il proprio diritto sparisce allorché egli si lega a dei processi nei quali non ha più alcuna voce in capitolo. Nella misura in cui può ancora goderne, i] suo corpo, il tempo libero, la libertà e gli affetti, in breve il senso della sua vita, gli vengono concessi in quanto fattori che ottimizzano la logica dello strumento. In questo stadio l'uomo è diventato materia prima per la megamacchina, la più malleabile delle materie prime. Le soglie critiche delimitano uno spazio che è quello della sopravvivenza umana. Se questo spazio non è segnato dal Diritto, dignità e libertà della persona saranno schiacciate.

Attualmente la ricerca scientifica si orienta in modo massiccio verso questa riduzione dell'uomo, perseguendo due obiettivi: da una parte assicurare l'avanzata tecnologica che permetta di produrre meglio prodotti migliori, dall'altra applicare l'analisi dei sistemi alla manipolazione della sopravvivenza della specie umana per preservarne meglio il consumo. Per permettere all'uomo di espandersi, la ricerca futura deve andare in un senso radicalmente opposto, deve andare alla radice del male. Chiamiamola ricerca radicale. Anche la ricerca radicale persegue due obiettivi: da una parte fornire i criteri che consentano di determinare quando uno strumento tocca la soglia di nocività; dall'altra inventare degli strumenti che ottimizzino

l'equilibrio della vita, e quindi massimizzino la libertà di ~ ognuno. Il primo obiettivo mira alla formulazione delle cinque classi di soglie identificate precedentemente; il secondo mira alle limitazioni delle tecniche del benessere.

La ricerca radicale non è né una nuova disciplina scientifica, né un'impresa interdisciplinare. E l'analisi dimensionale della relazione dell'uomo col suo strumento.

Nessuno potrà negare che la sua esistenza sociale si sviluppa su diverse scale, in diversi ambienti concentrici: la cellula di base, l'unità di produzione, la città, lo Stato, infine la Terra. Ognuno di questi ambienti ha il suo spazio ed il suo tempo, i suoi livelli di popolazione e le sue risorse energetiche. C'è disfunzione dello strumento in uno di questi ambienti quando lo spazio, il tempo e l'energia richiesti dall'insieme degli strumenti eccedono la scala naturale corrispondente. Queste scale naturali possono essere identificate, senza con ciò pretendere di poter dire qualcosa circa la natura dell'uomo o della società. Esse definiscono in termini negativi e di proscrizione lo spazio all'interno del quale il fenomeno umano può essere osservato: ma non contribuiscono affatto a stabilire di quale natura tale fenomeno sia, non più di quanto formulino prescrizioni. In questo senso, si può parlare dell'omeostasi dell'uomo nel suo ambiente, che ogni disfunzione dello strumento mette in pericolo, e definire la politica come il processo attraverso il quale gli uomini assumono la responsabilità di questa omeostasi. E tempo di smetterla di definire i bisogni umani in termini astratti per poi sottoporli, come problemi, al trattamento della tecnocrazia, che pratica il metodo dell'escalation. E tempo di cominciare a cercare all'interno di quali confini determinate collettività di uomini concreti possono servirsi della tecnica per soddisfare i loro bisogni senza recare pregiudizio agli altri. Identificare l'anatema segna il primo passo della ricerca radicale.

Le soglie al di là delle quali si profila la distruzione sono tutt'altra cosa dai mobili limiti cui una società assoggetta volontariamente l'uso dei propri strumenti. Le soglie marcano il campo della sopravvivenza possibile, i limiti opzionali disegnano il recinto di una cultura. Le soglie naturali sono imposte dalla necessità, i limiti culturali sono frutto della libertà. Le soglie configurano il diritto costitutivo di qualunque società, i limiti prefigurano la giustizia conviviale di una società determinata. La necessità di stabilire delle soglie e di non superare i confini così definiti è uguale per tutte le società; la fissazione dei limiti dipende dal modo di vita e dal grado di libertà desiderati da ciascuna collettività.

C'è una forma di disfunzione nella quale lo sviluppo non distrugge ancora la vita, ma già perverte l'uso dello strumento. Lo strumento non è ottimale, ma neppure intollerabile; ancora tollerabile ma già sovrefficiente, degrada un equilibrio di carattere più soggettivo e più sottile di quelli sopra descritti: l'equilibrio dell'azione, cioè l'equilibrio tra il prezzo personale pagato e il risultato ottenuto, la coscienza che mezzi e fini si equilibrano. Quando lo strumento asservisce il fine che dovrebbe servire, l'utente cade in preda a una profonda insoddisfazione. Se non molla 10 strumento, o se lo strumento non molla lui, impazzisce. Nell'Ade il castigo più spaventoso era riservato al blasfemo: il giudice degli inferi lo condannava a un'attività frenetica. La pietra di Sisifo è lo strumento pervertito. Il colmo è che, in una società dove questo tipo di attività è la regola, gli uomini vengono educati a rivaleggiare tra loro per conquistare il diritto di autofrustrarsi. Resi muti dalla rivalità, accecati dal desiderio, fanno a chi arriverà per primo a essere intossicato dallo strumento.

Come ho dimostrato altrove5, il predominio del trasporto sulla circolazione della gente può servire a illustrare la differenza tra ciò che è confine dell'equilibrio e quello che è invece un limite scelto per far fiorire l'uguaglianza nel godimento della libertà. Proteggere l'ambiente può significare divieto dei trasporti supersonici. Evitare che la polarizzazione sociale diventi intollerabile, può significare divieto dei trasporti aerei. Difendersi contro il monopolio radicale può significare divieto dell'automobile. In assenza di tali misure, il trasporto minaccia la società. L'equilibrio tra fini e mezzi che qui sottolineo ci fornisce un nuovo criterio di selezione dello strumento. La considerazione di questo nuovo equilibrio ci condurrà forse a bandire tutti i trasporti pubblici a velocità superiore a quella della bicicletta. Ogni veicolo, quale che sia, la cui velocità massima superi una certa soglia, accresce la perdita di tempo e di denaro dell'utente medio. Ogni volta che in un punto del sistema di circolazione la velocità massima sopravanza una certa soglia, più persone dovranno passare più tempo alla fermata dell'autobus, agli sbocchi ingorgati, o in un letto d'ospedale. Ciò significa anche che passeranno più tempo a pagare il sistema di trasporto che sono costretti a usare. La soglia critica di una velocità dipende da una molteplicità di fattori: condizioni geografiche, culturali, economiche, tecniche, finanziarie. Con tante variabili per una incognita, si potrebbe pensare che la forbice di valutazione della soglia critica di velocità sia molto larga.

Niente affatto. È anzi talmente bassa e talmente stretta da sembrare improbabile alla maggior parte degli specialisti della circolazione.

Si ha disfunzione nella circolazione non appena questa ammette, in un punto qualunque del sistema, una velocità superiore a quella di una bicicletta, che può pertanto servire da criterio per determinare la soglia critica di velocità. Ogni volta che si supera questa barriera in un punto qualsiasi del sistema, aumenta la somma di tempo dedicata dall'insieme degli utenti al servizio dell'industria dei trasporti.

La sovrabbondanza di beni genera scarsità di tempo. Il tempo diventa scarso un po' perché ci vuole tempo per consumare e farsi curare, e un po' perché, una volta assuefatti alla produzione, farne a meno diventa ancora più costoso Quanto più il consumatore si arricchisce, tanto più è cosciente dei gradini che ha scalato, sul lavoro come in casa. Più sta in alto nella piramide produttiva, meno ha tempo per abbandonarsi ad attività non traducibili in termini contabili. Diventa difficile guadagnare tempo quando s accendono troppe ipoteche sull'avvenire. Come ha rilevato Staffan Linder, noi tendiamo a sovraimpiegare il futuro; I quando il futuro diventa presente, si ha continuamente i senso di non avere abbastanza tempo, semplicemente per che si sono previste giornate di trenta ore. Quasi non bastasse che il tempo costa più o meno caro e, in generale sempre più caro in una società d'abbondanza, il sovraimpiego del futuro genera uno stress devastante.

L'industria dei trasporti produce scarsità di tempo. Il una società in cui molta gente impiega veicoli rapidi, tutti debbono dedicarvi più tempo e più denaro. Una volta rotti l'equilibrio e superata la soglia di velocità, la rivalità fra l'industria del trasporto e le altre industrie per controllare gli spazi e l'energia disponibili diventa feroce; e mentre li velocità aumenta in modo lineare, la zuffa cresce in misuri esponenziale. Il tempo dedicato alla circolazione usurpi l'attività lavorativa come divora il tempo libero.

I veicoli più grossi non devono mai essere vuoti, i più rapi di devono muoversi senza sosta. Le capsule individuali diventano sproporzionatamente costose. I trasporti pubblici non possono più servire altro che i grandi assi. Bisogna che la macchina giri, sempre più velocemente. Man mano che l: sua velocità aumenta, il veicolo diventa il tiranno dell'esistenza quotidiana. Si prevede un certo tempo, e poi ne occorre il doppio. Si prendono impegni con mesi e persino anni d anticipo. Alcuni di questi impegni, presi a caro prezzo, noi possono essere mantenuti. Si è dominati dal senso dell'impotenza. Si vive sotto tensione. L 'uomo non è programmabile a volontà. Quando la soglia critica per l'equilibrio dell'azione viene oltrepassata, è il momento del grande duello tra l'industria della velocità e le altre per decidere chi spoglierà l'uomo della parte di umanità che ancora gli rimane. La velocità è il vettore-chiave per palesare come l'industria del trasporto intacca l'equilibrio vitale. Se si considerano le prime cinque dimensioni, ne occorre molto meno di quanto si potrebbe credere perché i trasporti si rivolgano contro l'uomo spezzando le scale naturali. Ma c'è un altro fatto ancora più sorprendente. La velocità che, applicando l'insieme dei primi cinque criteri definiti, appare tollerabile, è dello stesso ordine di grandezza della velocità che ottimizza la circolazione desiderabile, cioè della velocità che, col minor costo di tempo sociale, assicura insieme l'equità del raggio d'azione e delle possibilità di accesso massimalizzate dalla tecnica La grande varietà delle gamme d'ordine tecnico che contrassegnano le rispettive cerchie delle diverse civiltà si iscrive perfettamente nello spazio della tecnologia tollerabile. I confini del tollerabile coincidono, nell'ordine di grandezza, col limite superiore della gamma del desiderabile. Questa constatazione del controsenso rappresentato dalla sovrapproduzione non vale soltanto per i trasporti. Lo stesso tipo di risultati negativi si ritrova esaminando gli investimenti per la medicina. Si è calcolato che negli Stati Uniti più del 95 per cento delle spese sanitarie per malati vicini a morire non ha alcun effetto benefico sulla loro salute, ma tende a intensificare le loro sofferenze, a renderli completamente dipendenti da cure impersonali, senza prolungare la durata della loro esistenza. La redditività massima di un servizio si situa all'interno di certi limiti: superata una certa soglia, la salute di un paziente finisce col misurarsi dal suo conto d'ospedale, allo stesso modo che la ricchezza di una nazione si misura dalla sua nota-spese globale che è il Prodotto Nazionale Lordo. Alla scala dell'individuo come a quella della collettività, bisogna sempre pagare. Bisogna pagare per remunerare il capitale, e bisogna pagare i cocci rotti dallo sviluppo. Praticando l'escalation della tecnica, la medicina prima cessa di guarire, poi cessa di prolungare la vita umana. Si trasforma in rituale di negazione della morte: l'individuo sovradattato alla macchina compie il suo ultimo spettacolare giro di pista, segnando il tempo migliore.

Il primo passo di una ricerca radicale sta nello studio delle crescenti disutilità marginali e delle minacce generate dallo sviluppo. In una seconda fase, si applica a scoprire i sistemi e le istituzioni che ottimizzano i modi di produzione conviviali. Una simile ricerca si scontra con molteplici resistenze, fra cui non sono le meno forti quelle d'ordine psicologico. L'uomo sovrattrezzato è come il morfinomane: l'assuefazione deforma l'intero suo sistema di valori e mutila la sua capacità di giudizio. I drogati di ogni genere sono pronti a pagare sempre di più per godere sempre meno. Tollerano l'escalation della disutilità marginale. Non c'è nulla che possa scuoterli perché uno solo è il pensiero che li assorbe: far salire la posta. Una mentalità di questo tipo considera lo strumento di trasporto come un mezzo per procurarsi il piacere della velocità, non per fruire di maggiore libertà e gioia nella circolazione. Difficilmente ammetterà l'evidenza che la mobilità dell'uomo èd'ordine naturale e che nessuna accelerazione del veicolo può far salire la mobilità di una società al di là di un certo ordine di grandezza.

La ricerca radicale evidenzia il rapporto tra l'uomo e lo strumento, lo rende trasparente, identifica le risorse di cui disponiamo e gli effetti che possiamo attenderci dai loro diversi impieghi possibili.

Evidenziare la degradazione degli equilibri su cui si fonda la sopravvivenza, è questo il compito immediato della ricerca radicale. Essa identifica le categorie di popolazione più minacciate e le aiuta a discernere la minaccia. A individui o a gruppi fino allora divisi fa prendere coscienza che le stesse minacce pesano sulle loro libertà fondamentali. Mostra come qualunque richiesta di libertà reale, da chiunque sia formulata, coincide sempre con l'interesse dei più.

La disassuefazione dallo sviluppo sarà dolorosa. Lo sarà per la generazione di passaggio, e soprattutto per i più intossicati tra i suoi membri. Possa il ricordo di tali sofferenze preservare dai nostri errori le generazioni future.


IV. I tre ostacoli all'inversione politica

Abbiamo visto come l'equilibrio della vita si dispieghi in cinque dimensioni. In ognuna di esse, solo il mantenimento dello specifico equilibrio che la caratterizza garantisce l'omeostasi costitutiva della vita umana: l'intervento nell'ecosfera rimane razionale solo a patto di non superare i limiti genetici; l'istituzione suscita cultura solo se consente e realizza un equilibrio sottile tra l'autonoma azione personale e le direzioni obbligate che da parte sua impone; l'annullamento delle barriere geografiche e culturali può promuovere l'originalità sociale solo se si accompagna a una riduzione dello scarto energetico tra i privilegiati e la maggioranza; un aumento del tasso di innovazione ha valore solo se lascia spazio per un più profondo radicamento nella tradizione e nella pienezza del senso.

Da mezzo, lo strumento può diventare padrone e poi carnefice dell'uomo. Il rapporto si rovescia più rapidamente che non s'immagini: l'aratro fa dell'uomo prima il signore di un giardino, poi, ben presto, un nomade in un sahel polveroso. Il vaccino che seleziona le sue vittime genera una razza capace di sopravvivere solo in un ambiente preconfezionato. I nostri bambini nascono più deboli in un mondo inumano. L'Homo faber, da apprendista stregone, si trasforma in vorace pattumiera.

Lo strumento può svilupparsi in due modi: accrescendo il potere dell'uomo o sostituendosi a lui. Nel primo caso, la persona conduce la propria esistenza, ne assume il controllo e la responsabilità. Nel secondo caso, è la macchina che finisce col prevalere: dapprima riducendo le possibilità di scelta sia dell'operatore sia dell'utente-consumatore, poi imponendo a entrambi la sua logica e le sue esigenze. La sopravvivenza della specie, minacciata dall'onnipotenza dello strumento, dipende dall'instaurazione di procedure che permettano a tutti di distinguere chiaramente tra questi due modi di razionalizzare e impiegare lo strumento e, in tal modo, incitino a scegliere la sopravvivenza nella libertà. Questa esigenza si scontra però con tre ostacoli:

l'idolatria della scienza, la corruzione del linguaggio quotidiano e la svalutazione delle procedure formali mediante le quali vengono prese le decisioni sociali.

La demitizzazione della scienza

Innanzi tutto, il dibattito politico è soggiogato da una illusione riguardo alla scienza. Con questo termine si è finito per designare non tanto un'attività personale quanto un'impresa istituzionale, la soluzione di una serie di rompicapo anziché l'imprevedibile dispiegarsi della creatività umana. La scienza oggi è un'agenzia di servizi fantasma e onnipresente, che produce del sapere migliore, così come la medicina produce una migliore salute. Il danno causato da questo misconoscimento della natura del sapere è ancora più radicale del male prodotto dalla mercantilizzazione dell'educazione, della salute e del movimento. Il miraggio della salute migliore corrompe il corpo sociale in quanto ognuno si preoccupa sempre meno della qualità dell'ambiente, dell'igiene del modo di vivere o della propria capacità di curare gli altri. L'istituzionalizzazione del sapere, invece, provoca una degradazione globale più profonda perché determina la struttura comune degli altri prodotti. In una società che si definisce dal consumo del sapere, la creatività è mutilata, l'immaginazione si atrofizza.

Questa perversione della scienza nasce dalla credenza in due specie di sapere: quello, inferiore, dell'individuo e quello, superiore, della scienza. Il primo apparterrebbe alla sfera dell'opinione, sarebbe l'espressione di una soggettività, e non avrebbe nulla a che fare col progresso. Il secondo sarebbe obiettivo, definito scientificamente e diffuso da portavoce competenti. Questo sapere obiettivo è considerato come un bene che può essere accumulato e continuamente perfezionato. Costituisce una risorsa strategica, un capitale, la più preziosa delle materie prime, l'elemento-base del cosiddetto decision-making, di quella «presa di decisione» che a sua volta è concepita come un processo impersonale e tecnico. Sotto il nuovo regno del calcolatore e della dinamica di gruppo, il cittadino abdica a ogni potere in favore dell'esperto, unico competente.

Il mondo non è portatore di nessun messaggio, di nessuna informazione. E quello che è. Ogni messaggio concernente il mondo è prodotto da un organismo vivente che agisce su di esso. Quando si parla di informazioni accumulate al di fuori dell'organismo umano si cade in una trappola semantica. I libri e i calcolatori fanno parte del mondo: forniscono dati quando c'è un occhio che li legga. Confondendo il medium con il messaggio, il veicolo con l'informazione, i dati con la decisione, noi releghiamo disinvoltamente il problema del sapere e della conoscenza nel punto cieco della nostra visione intellettuale.

Intossicati dalla credenza in un avvenire migliore, gli individui cessano di fidarsi del proprio giudizio e chiedono che gli si dica la verità su ciò che «sanno». Intossicati dalla credenza in un migliore decision-making, stentano a decidere da soli e ben presto perdono fiducia nella propria capacità di farlo. La crescente impotenza dell'individuo a decidere da solo incide sulla stessa struttura delle sue aspettazioni. Mentre una volta gli uomini si disputavano delle risorse realmente scarse, oggi reclamano un meccanismo distributore per colmare una carenza che è solo illusoria. Il rituale burocratico organizza il consumo frenetico del menù sociale: programma d'educazione, trattamento medico o azione giudiziaria. Il conflitto personale non ha più alcuna legittimità, dal momento che la scienza promette l'abbondanza per tutti e pretende di dare a ciascuno secondo le sue esigenze personali e sociali, obiettivamente identificate. Gli individui, che hanno disimparato a riconoscere i propri bisogni come a reclamare i propri diritti, divengono preda della megamacchina che definisce in vece loro le loro esigenze e rivendicazioni. La persona non può più contribuire di suo al continuo rinnovamento della vita sociale. L'uomo arriva a diffidare della parola, pende da un sapere presunto. Il voto rimpiazza la discussione, la cabina elettorale il tavolino del caffè. Il cittadino si siede dinanzi allo schermo e tace.

Le regole del senso comune che permettevano alla gente di unire e scambiarsi le proprie esperienze sono distrutte. Il consumatore-utente ha bisogno della sua dose di sapere garantito, accuratamente preconfezionato. Trova la propria sicurezza nella certezza di leggere lo stesso giornale del vicino, di guardare la stessa trasmissione televisiva del suo padrone. Si accontenta di avere accesso allo stesso rubinetto di sapere del suo superiore, anziché perseguire l'uguaglianza di condizioni che darebbe alla sua parola lo stesso peso di quella del suo padrone. La dipendenza, che tutti accettano come ovvia, nei confronti del sapere altamente qualificato prodotto dalla scienza, dalla tecnica e dalla politica, erode la fiducia tradizionale nella veracità del testimone e svuota di senso i modi con cui gli uomini possono scambiarsi le proprie certezze. Persino davanti ai tribunali, la perizia rivaleggia in importanza con le testimonianze: l'esperto è considerato quasi come un testimone patentato, ci si dimentica che la sua deposizione non rappresenta altro che un sentito dire, l'opinione di una professione. Sociologi e psichiatri concedono o negano il diritto alla parola, a una parola udibile. Riponendo la propria fede nell'esperto, l'uomo si spoglia prima della sua competenza giuridica e poi di quella politica. La fiducia nell’onnipotere della scienza induce i governi e i loro amministrati a cullarsi nell'illusione di poter eliminare i conflitti suscitati da un'evidente rarefazione dell'acqua, dell'aria o dell'energia, a credere ciecamente agli oracoli degli esperti che promettono miracolose moltiplicazioni.

Nutrita del mito della scienza, la società abbandona agli esperti persino la cura di fissare i limiti dello sviluppo. Una simile delega di potere distrugge l'intero funzionamento politico; alla parola come misura di tutte le cose sostituisce l'obbedienza a un mito, e alla fine legittima in un certo senso anche la conduzione di esperimenti sull'uomo. L'esperto non rappresenta il cittadino, fa parte di una élite la cui autorità si fonda sul possesso esclusivo di un sapere non comunicabile; ma questo sapere, in realtà, non gli conferisce alcuna particolare attitudine a definire i confini dell'equilibrio della vita. L'esperto non potrà mai dire dove si colloca la soglia della tolleranza umana: è la persona che la determina, nella comunità; e questo suo diritto è inalienabile. Certo, è possibile fare esperimenti su esseri umani. I medici nazisti hanno esplorato i limiti di sopportazione dell'organismo. Hanno scoperto quanto tempo l'individuo medio può reggere alla tortura, ma questo non gli ha affatto rivelato ciò che qualcuno può ritenere tollerabile. Significativamente, quei medici furono condannati in base a un patto firmato a Norimberga due giorni dopo la distruzione di Hiroshima e il giorno prima di quella di Nagasaki.

Quanto un popolo possa patire è un calcolo che nessun esperimento permette di fare. Si può dire che cosa accade a un gruppo di individui particolari posti in una situazione estrema: prigionieri, naufraghi o cavie; ma ciò non può servire a determinare il grado di sofferenza e di frustrazione che una data società accetterà di subire a causa degli strumenti che essa stessa si è procurata. Indubbiamente, determinate misurazioni scientifiche possono indicare che un certo tipo di comportamento minaccia un equilibrio vitale maggiore; ma solo una maggioranza di uomini di giudizio, che conoscono la complessa realtà quotidiana e che ne tengono conto nelle loro azioni, può stabilire come vanno limitati i fini perseguiti dagli individui e dalla società. La scienza può chiarire le dimensioni del regno dell'uomo nel cosmo; ma occorre una comunità politica di uomini coscienti della forza della loro ragione, del peso della loro parola, della serietà dei loro atti per scegliere, liberamente, l'austerità capace di garantire la loro vitalità.

La riscoperta del linguaggio

Tra il 1830 e il 1850, una dozzina di scienziati scopri e formulò la legge della conservazione dell'energia. La maggior parte di essi era costituita da ingegneri che, ognuno per conto proprio, ridefinirono l'energia cosmica in termini di peso sollevabile da una macchina. Grazie alle operazioni di misura effettuate in laboratorio, si credette infine di poter ridurre a un denominatore comune l'energia primordiale, la vis viva della tradizione. Fu allora che le scienze esatte presero a dominare la ricerca.

Durante lo stesso periodo, e in maniera analoga, l'industria cominciò ad affermarsi sugli altri modi di produzione.

I risultati industriali divennero misura e regola dell'intera economia, e ben presto tutte le attività produttive alle quali non potevano applicarsi le regole di misura e i criteri di efficienza validi per la produzione in serie furono considerate sussidiarie: così i lavori domestici, l'artigianato e l'agricoltura di sussistenza. Il modo di produzione industriale cominciò dapprima col degradare la rete dei rapporti produttivi che erano fino allora coesistiti nella società, e poi la paralizzò.

Questo monopolio esercitato da un unico modo di produzione su tutte le relazioni produttive è più insidioso e pericoloso della concorrenza tra imprese rivali, ma è anche meno visibile. Conoscere il vincitore nella concorrenza di superficie è facile: è la fabbrica a forte intensità di capitale, l'azienda meglio organizzata, il ramo industriale più schiavistico e meglio protetto, l'impresa che sa meglio contenere gli sprechi o quella che ha maggiori commesse di armamenti. Su più vasta scala, questa gara prende la forma di una concorrenza tra imprese multinazionali e paesi in via d'industrializzazione. Ma questa mortale partita fra titani distoglie l'attenzione da quella che è la sua funzione rituale: man mano che il campo di concorrenza si estende, una medesima struttura industriale si diffonde p~ il mondo e polarizza la società. Il modo di produzione industriale afferma il proprio dominio non soltanto sulle risorse e sulle attrezzature, ma anche sull'immaginazione e sui desideri d'un sempre maggior numero di individui. E il monopolio radicale generalizzato, non più quello di un singolo ramo d'industria ma quello del modo di produzione industriale. Si può dire che l'uomo stesso è industrializzato. I sistemi politici gareggiano in ingegnosità e agilità semantica per battezzare con nomi opposti questa medesima struttura industriale ovunque in espansione, senza comprendere che essa sfugge ovunque al loro controllo. Anzi, l'antagonismo tra paesi poveri e ricchi, tra nazioni sottoposte a una pianificazione centrale e nazioni in cui regna la legge del mercato, è la maschera necessaria perché il monopolio appaia benefico.

Estesa al mondo intero, questa industrializzazione dell'uomo provoca la degradazione di tutte le lingne, e diventa difficilissimo trovare le parole che parlino di un mondo opposto a quello che le ha generate. La lingua riflette il monopolio che il modo di produzione industriale esercita sulla percezione e la motivazione. Nei paesi industriali, quando l'uomo parla del suo fare, usa parole che designano i prodotti dell'industria. La lingua rispecchia la materializzazione della coscienza. L'individuo che impara qualcosa leggendo un libro dice di aver acquisito educazione. Lo slittamento funzionale dal verbo al sostantivo sottolinea l'impoverimento della immaginazione sociale. L'uso nominalistico della lingua esprime dei rapporti di proprietà: la gente parla del lavoro che ha. In tutta l'America Latina solo i salariati dicono che hanno (o non hanno) lavoro, a differenza dei contadini che invece lo fanno: «Van a trabajar, pero no tienen trabajo». I lavoratori moderni e sindacalizzati reclamano dall'industria non soltanto più beni e servizi, ma anche più posti di lavoro. Non soltanto il fare ma anche il volere è sostantivato. L'«abitazione» è più una merce che un'attività; l'alloggio diventa un prodotto che ci si procura o si rivendica perché si è privi del potere di dargli forma da se stessi. Si acquista sapere, mobilità, persino sensibilità o salute. Si ha lavoro o salute, come si hanno divertimenti.

Il passaggio dal verbo al sostantivo rispecchia l'impoverimento del concetto di proprietà. Termini come possesso, appropriazione, abuso non servono più per definire il rapporto dell'individuo o del gruppo con una istituzione come la scuola: nella sua funzione essenziale, infatti, un simile strumento sfugge a ogni controllo. Le affermazioni di proprietà nei riguardi dello strumento passano a indicare la capacità di disporre dei suoi prodotti, si tratti dell'interesse sul capitale o delle merci, o anche del prestigio d'ogni sorta legato all'una o all'altra di queste operazioni. Il consumatore-utente integrale, l'uomo pienamente industrializzato, non ha infatti altro di suo se non ciò che consuma. Dice: la mia educazione, i miei movimenti, i miei divertimenti, la mia salute. Man mano che l'ambito del suo fare si restringe, egli richiede dei prodotti di cui si dice proprietario. Assoggettato al monopolio di un unico modo di produzione, l'utente ha perduto ogni senso della pluralità dei modi di avere. Nelle parlate polinesiane ci sono forme verbali distinte per esprimere la relazione che io ho con i miei atti (che non possono più essere separati dalla mia persona), con il mio naso (che mi può essere strappato), con i miei parenti (che non sono stato io a scegliere), con la mia piroga (senza la quale non sarei un vero uomo), con una bevanda (che vi offro) e con la stessa bevanda (mentre mi appresto a berla).

In una società in cui la lingua si è sostantivata, i predicati sono formulati in termini di lotta concorrenziale contro la scarsità. «Voglio imparare» diventa «voglio procurarmi un titolo di studio». La decisione di agire è sostituita dalla richiesta di un biglietto della lotteria scolastica. «Ho voglia di muovermi» si trasforma in «ho bisogno di un mezzo di trasporto». All'insistenza sul diritto di agire si sostituisce l'insistenza sul diritto di avere. Nel primo caso il soggetto è attore, nel secondo utente. Il cambiamento linguistico sorregge l'espansione del modo di produzione industriale: la concorrenza regolata da valori industrializzati si riflette nella nominalizzazione della lingua. La lotta concorrenziale prende inevitabilmente la forma di un gioco (a somma zero) in cui la perdita di un giocatore si risolve in guadagno per gli altri giocatori. Nella mischia, gli individui giocano per i nomi così come li percepiscono: valorizzando unicamente l'apprendimento che si svolge tra le sue mura, la scuola definisce l'educazione come oggetto di competizione. L'alma mater ha troppi piccoli attaccati alle sue mammelle: quello che poppa la sua razione di educazione ne priva un fratello di latte. Il conflitto personale non è necessariamente una lotta per impadronirsi di un bene raro; può anche esprimere un disaccordo sui mezzi più idonei ad assicurare l'autonomia della persona: in tal caso, diventa creatore di libertà. Ma il linguaggio nominalistico ha oscurato questa profonda verità, che il conflitto può essere creatore di diritto per tutti e due gli avversari, creatore del diritto di far cose che, per definizione, non sono né beni né oggetti rari. Il conflitto porterà al diritto di muoversi, di parlare, di leggere, di scrivere o di registrare su un piede di eguaglianza, di partecipare al mutamento sociale, di respirare un'aria pura e di impiegare strumenti conviviali. Con questo, priverà le due parti di un bene determinato, per amore di un guadagno inestimabile: una nuova libertà condivisa da tutti. Limitando il consumo forzato, si libera il campo dell'azione.

Il codice operativo dello strumento industriale trascina nel proprio ingranaggio il parlare quotidiano, e l'espressione umana ancorata a una visione poetica della vita è tollerata appena, come una protesta marginale e finché non disturbi la folla che fa la coda davanti all'apparecchio che distribuisce i prodotti. Se non ci eleviamo a un nuovo grado di coscienza, che ci permetta di ritrovare la funzione conviviale del linguaggio, non arriveremo mai a rovesciare questo processo di industrializzazione dell'uomo. Ma se ognuno si serve della lingua per rivendicare il proprio diritto all'azione sociale anziché al consumo, il linguaggio diverrà il mezzo per restituire trasparenza al rapporto tra l'uomo e lo strumento.

Il recupero del Diritto

Lo scopo di gran lunga predominante dell'attività legislativa e del Diritto, nelle loro forme attuali, è di sorreggere una società tesa verso l'espansione indefinita. Il processo mediante il quale gli uomini decidono che cosa si deve fare è oggi asservito all'ideologia della produttività: bisogna produrre di più, più sapere e decisioni, più beni e servizi. Dopo la perversione del sapere e della lingna, la perversione del Diritto è il terzo ostacolo a una attualizzazione politica dei limiti.

I partiti, le sedi legislative e l'apparato giudiziario sono stati sempre più adibiti a promuovere e tutelare la crescita delle scuole, dei sindacati, degli ospedali e delle autostrade, per non parlare delle fabbriche. A poco a poco, non soltanto la polizia ma anche gli organi legislativi e i tribunali hanno finito per essere considerati strumenti al servizio dello Stato industriale. Il fatto che talvolta difendano l'individuo dalle pretese dell'industria è l'alibi che maschera la loro docilità a servire il monopolio radicale e a legittimare una sempre maggiore concentrazione dei poteri. A loro modo, i magistrati diventano un corpo di ingegneri dello sviluppo. In regime di democrazia popolare o capitalista, sono gli alleati «obiettivi» dello strumento contro l'uomo.

Con l'idolatria della scienza e la corruzione del linguaggio, questa degradazione del Diritto è un ostacolo di prim'ordine alla ristrutturazione degli strumenti della società.

Si comprende che un'altra società è possibile quando si arriva a esprimerlo chiaramente. Se ne provoca l'apparizione quando si scopre il procedimento mediante il quale la società esistente prende le sue decisioni. Se ne organizza la struttura quando si utilizzano la lingua materna e le procedure tradizionali del Diritto per scopi opposti a quelli che si prefigge il loro uso attuale. In ogni società, infatti, c'è una struttura profonda che organizza la presa di decisioni. Questa struttura esiste ovunque degli uomini si riuniscano. Il medesimo processo può dar luogo a decisioni contraddittorie, perché la struttura non serve solo alla definizione dei valori personali, ma anche alla sopravvivenza di un comportamento istituzionalizzato. L'esistenza di contraddizioni non contraddice l'esistenza di una struttura coerente che le genera, al contrario. Io posso decidere di acquisire un'educazione, anche se per un altro verso ho deciso che sarebbe meglio imparare partecipando alla vita quotidiana. Posso lasciarmi portare all'ospedale, anche se ho deciso che soffrirei meno e morirei più tranquillamente restandomene a casa. Come l'intuizione di dissonanze cognitive è il fondamento della poesia, così la coesistenza di norme contraddittorie manifesta l'esistenza di procedure normative.

Gli uomini non hanno più fiducia nelle procedure disponibili, non perché siano state intrinsecamente pervertite, ma perché se ne fa un abuso continuo. Le si usa per imbottire la gente di argomenti etici, politici o legali; sono diventate rotelle della produzione illimitata. Le Chiese predicano l'umiltà, la carità e la povertà, e finanziano programmi di sviluppo industriale. I socialisti sono diventati i difensori senza riserve del monopolio industriale. La burocrazia del Diritto si è alleata con quelle dell'ideologia e del benessere generale, per difendere la crescita dello strumento. Ben presto sarà il calcolatore a decidere le idee, le leggi e le tecniche indispensabili per lo sviluppo.

Se non ci si mette d'accordo su una procedura efficace, durevole e conviviale, diretta a controllare gli strumenti della società, l'inversione della struttura istituzionale esistente non potrà essere né iniziata né, soprattutto, portata avanti. Ci saranno sempre dei manager che vorranno aumentare la produttività dell'istituzione, e dei tribuni che prometteranno la luna alle folle avide.

Ogni volta che si propone di utilizzare il Diritto come strumento d'inversione della società, vengono avanzate tre obiezioni. La prima è superficiale: non tutti possono essere giuristi e dunque non tutti possono utilizzare il Diritto in proprio. Naturalmente ciò è vero solo in una certa misura. Potrebbero infatti stabilirsi, in particolari comunità, dei sistemi paragiuridici, che potrebbero poi essere incorporati nella struttura generale. Inoltre si potrebbe dare maggiore spazio alla partecipazione dei non professionisti, che riuscirebbe certamente preziosa nelle procedure di mediazione, di conciliazione o di arbitrato. Ma questa obiezione, per fondata che sia, non coglie il punto. Poiché il Diritto regola gli strumenti che governano la vita quotidiana, non c'è alcun motivo per cui la maggior parte dei processi non possa essere decentrata, demistificata e sburocratizzata. Resta il fatto che certi problemi sociali si pongono su grande scala, sono complessi e tali resteranno a lungo; richiedono perciò un'attrezzatura giuridica a loro misura. Dovendo servire a vaste collettività umane, ciascuna delle quali portatrice di una tradizione secolare, per negoziare proscrizioni su scala mondiale il Diritto, in quanto processo di regolazione di questi problemi sociali, è di fatto un'attrezzatura che richiede l'opera di esperti. Ma ciò non significa che questi esperti debbano essere dottori in legge o costituire un mandarinato.

La seconda obiezione, invece, tocca direttamente il nostro discorso, e va molto più lontano: gli attuali operatori dell'attrezzatura giuridica della società sono profondamente intossicati dalla mitologia dello sviluppo. La loro visione del possibile e del fattibile è supinamente conforme all'indottrinamento industriale. Sarebbe follia sperare che i dirigenti di una società produttivista si trasformino in vestali della società conviviale. La portata di questa osservazione è completata e sottolineata da una terza obiezione: il sistema giuridico non è soltanto un insieme di regole scritte, è un processo continuo attraverso il quale le leggi si adattano e si applicano a situazioni reali. Attraverso la serie degli atti giuridici, la collettività si dà un certo quadro mentale. Ne risulta un contenuto del Diritto che riflette l'ideologia dei legislatori e dei giudici. Il modo in cui questi percepiscono l'ideologia che soggiace a ogni cultura diviene una mitologia ufficiale che si concretizza nelle leggi che essi formulano e applicano. Il corpo delle leggi che regola una società industriale ne riflette inevitabilmente l'ideologia, le caratteristiche sociali e la struttura di classe, nello stesso tempo in cui le rafforza e ne assicura la riproduzione. Quale che sia la sua etichetta ideologica, ogni società moderna situa sempre il bene comune nell'ordine del più: più potere alle imprese e agli esperti, più consumo agli utenti.

Queste obiezioni, pur se sottolineano una difficoltà fondamentale per l'uso del Diritto al fine di rovesciare la società, non colpiscono però il centro della questione. Io faccio una distinzione precisa tra il corpo delle leggi e la struttura formale che lo elabora, così come ho distinto tra l'uso degli slogan, ai quali le istituzioni ricorrono, e la pratica del linguaggio quotidiano, e come distinguerò poi tra l'insieme delle politiche e il processo formale che le origina. È evidente che quando si tratta del Diritto, come del sapere o del linguaggio, noi ci riferiamo alla struttura che governa nel profondo l'attribuzione del senso. E dal pieno recupero e dal libero uso ditale struttura che dipende il risveglio delle forze capaci di trasfigurare «l'alleanza per il progresso».

In un tempo in cui l'operazione è divenuta fine a se stessa, non si insisterà mai abbastanza sulla distinzione tra i fini e i mezzi, tra il procedimento e la sostanza. Noi viviamo in questo mondo, in cui il linguaggio ci parla, il sapere ci pensa e il Diritto ci agisce. Il linguaggio si riduce all'emissione e alla ricezione di messaggi; il pensiero all'accumulazione delle informazioni; il Diritto al regolamento del piano. Per ritrovare la distinzione cruciale tra il procedimento e la sostanza, l'analisi del procedimento giuridico può servirci da paradigma. Questa distinzione è infatti alla radice di qualunque Diritto, anche se ogni esempio di Diritto si caratterizzi per lo stile particolare del suo processo formale. Per sostenere la mia argomentazione farò ricorso al diritto angloamericano.

L'esempio del Diritto consuetudinario

La struttura formale della Common Law presenta due caratteri dominanti e complementari che la rendono particolarmente adatta al bisogni di un'epoca di crisi. Il sistema si fonda sulla continuità e sulla opposizione antagonistica o contraddittoria delle parti (adversary nature of the Common Law).

La continuità inerente al processo di elaborazione del Diritto conserva, in un certo senso, la sostanza del corpo delle leggi. Ciò non è così evidente nella fase legislativa: il legislatore ha infatti la più ampia libertà di innovare, purché resti all'interno del quadro costituzionale. Ma ogni nuova legge deve iscriversi nel contesto della legislazione esistente, e pertanto non può scostarsi troppo dal diritto vigente.

È chiaro che la funzione della giurisprudenza è di assicurare la continuità della sostanza del Diritto, attualizzandola. I tribunali applicano il Diritto a situazioni reali. La giurisprudenza giudica allo stesso modo due casi identici o viceversa stabilisce che lo stesso fatto, oggi, non significhi ciò che significava ieri. Il Diritto rappresenta l'autorità sovrana che il passato esercita sul conflitto presente, la continuità di un processo dialettico. Il tribunale riconosce nella controversia una questione d'interesse sociale, e quindi incorpora il giudizio pronunciato nel corpo del Diritto. Nel processo giuridico, l'esperienza sociale del passato viene riattualizzata ai fini dei bisogni presenti; in avvenire, il giudizio di oggi servirà a sua volta come precedente per regolare altre vertenze.

La continuità della struttura formale che regge il processo giuridico non si riduce alla semplice incorporazione di un insieme di giudicati in un insieme dileggi. Dal punto di vista meramente formale, questo modo di continuità non mira a preservare il contenuto di questa o quella legge: al contrario, potrebbe servire a preservare lo sviluppo continuo del Diritto di una società retta da principi inversi. Nulla vieta, nella maggior parte delle costituzioni, di legiferare su una limitazione della produttività, dei privilegi burocratici, della specializzazione o del monopolio radicale. In linea di principio, purché sia orientata in senso inverso, la procedura legislativa e giurisprudenziale potrebbe servire a formulare questo nuovo Diritto e a farlo rispettare.

Altrettanto importante è il carattere contraddittorio della procedura della Common Law. Da un punto di vista formale, la Common Law non ha niente a che fare con la definizione di ciò che è bene in materia etica o tecnica. E uno strumento per comprendere delle relazioni, allorché queste esplodono sotto forma di conflitti reali. Tocca alle parti interessate reclamare il loro diritto o rivendicare ciò che esse giudicano buono. Così funziona la struttura, al livello legislativo come a quello giurisprudenziale. Equilibrando interessi opposti, la decisione dovrebbe ricavare ciò che teoricamente è preferibile per tutti.

Nelle ultime generazioni questo equilibrio, sempre deformato dall'uno o dall'altro pregiudizio, è stato complessivamente distorto a favore della società fondata sullo sviluppo. Ma il fatto che la struttura giuridica venga correntemente pervertita non significa che non possa essere usata per scoPi inversi. Nulla impedisce che questo strumento venga utilizzato da delle parti globalmente opposte alla società produttivista, libere dall'illusione che lo sviluppo possa sopprimere l'ingiustizia sociale e coscienti della necessità dei limiti. Certo non basta che compaia un nuovo tipo di attore; occorre anche che il legislatore si disintossichi dallo sviluppo, che le parti appellanti si battano per la tutela dei loro interessi e che, a questo scopo, sottopongano a un sistematico riesame le evidenze e le certezze troppo assodate.

La legge come la giurisprudenza suppone che le parti sottopongano i conflitti di interessi sociali al giudizio di un tribunale imparziale. Questo tribunale, o camera che sia, opera in modo continuo. Il giudice ideale è una persona comune, prudente, indifferente alla materia del contendere, esperta nell'esercizio della procedura. Ma, nella realtà della vita, il giudice è un uomo del suo tempo e del suo ambiente. In pratica, anche i tribunali hanno finito per dar mano alla concentrazione del potere e alla crescita della produzione industriale. Non soltanto il giudice e il legislatore sono spinti a credere che una causa sia ben giudicata e la controversia convenientemente risolta quando la bilancia della giustizia penda a favore dell'interesse globale delle industrie, ma anche la società, da parte sua, ha condizionato il ricorrente a esigere che esse crescano. Si rivendica una più sostanziosa fetta della torta istituzionale più che la difesa da un'istituzione che mutila la libertà. Tuttavia l'uso distorto dello strumento giuridico non ne corrompe l'intrinseca natura.

C'è un'obiezione che viene spesso sollevata quando si afferma che le procedure a contraddittorio sono uno strumento-chiave per limitare la crescita industriale: e cioè che le società fanno già troppo affidamento su questi giudizi, senza grandi risultati. Negli Stati Uniti, per esempio, i riformatori rivendicano il diritto all'opposizione legale per tutti i gruppi svantaggiati: negri, indiani, donne, lavoratori, invalidi, consumatori. Di conseguenza i giudizi tendono a diventare lunghi, scomodi, costosi, e la maggior parte degli interessati non è in grado di andare fino in fondo. Le cause si trascinano e le sentenze arrivano quando hanno perso rilevanza. La procedura diventa un gioco, che crea nuovi antagonismi, nuove competizioni. E distolta dal suo fine, la decisione diventa un bene raro. La società di sviluppo recupera così l'utente della procedura formale.

L'obiezione che si oppone a questo moltiplicarsi dei procedimenti non è affatto fuori posto se riguarda la loro proliferazione come mezzo per risolvere dei conflitti personali. Ma qui io non mi occupo dei conflitti tra persone o delle lotte dei gruppi fra loro. Ciò che mi interessa non è l'opposizione tra una classe di sfruttati e un'altra classe proprietaria degli strumenti, ma l'opposizione che si situa anzi tutto tra l'uomo e la struttura tecnica dello strumento, poi, e di conseguenza, tra l'uomo e certe professioni il cui interesse consiste nel mantenere tale struttura tecnica. Nella società, il conflitto fondamentale riguarda atti, fatti o oggetti sui quali delle persone entrano in opposizione formale con le imprese e le istituzioni manipolatrici. Formalmente la procedura contraddittoria è il modello dello strumento di cui i cittadini dispongono per opporsi alle minacce che l'industria fa pesare sulla loro libertà.

Tranne rare eccezioni, le leggi e i corpi legislativi, i tribunali e i giudizi, i querelanti e le loro richieste sono profondamente pervertiti dall'accordo unanime e schiacciante che accetta senza riserve il modo di produzione industriale e i suoi slogan: sempre di più, è sempre meglio, e d'altra parte le imprese e le istituzioni sanno meglio delle persone quale sia l'interesse pubblico e come servirlo. Ma questa obnubilante unanimità non inficia per niente la mia tesi:

una rivoluzione che trascuri di utilizzare le procedure giuridiche e politiche si condanna al fallimento.

Solo un'attiva maggioranza di individui e di gruppi che cerchino, con una procedura conviviale comune, di recuperare i propri diritti, può strappare al leviatano il potere di stabilire i confini che, per sopravvivere, bisogna imporre alla crescita, e quello di scegliere i limiti che ottimizzano una civiltà.

Per avviare la lotta contro i pregiudizi regnanti, per condurre all'inversione, alcuni tra quelli che appartengono alle grandi professioni possono svolgere un ruolo illuminante. Di solito gli educatori, quando prendono coscienza della crisi della scuola, si mettono alla ricerca di una qualche soluzione miracolosa che permetta di insegnare più cose a più persone. I loro sforzi e le loro pretese amplificano l'importanza di quella minoranza di pedagogisti che insiste sui limiti pedagogici della crescita industriale. Allo stesso modo, i medici tendono a credere che almeno una parte del loro sapere non può essere espresso se non in termini esoterici; e per loro un confratello che secolarizzi gli atti medici non è che un profanatore. E inutile attendersi che l'Ordine dei medici, i sindacati degli insegnanti o l'associazione degli ingegneri del traffico spieghino in termini semplici, tratti dal linguaggio corrente, il gangsterismo professionale dei loro colleghi. Altrettanto inutile pensare che i deputati, i giuristi e i magistrati riconoscano improvvisamente l'indipendenza del Diritto nei riguardi della loro nozione preconcetta del bene, che si confonde con la fornitura della maggiore quantità di prodotti al maggior numero di persone. Tutti sono infatti addestrati ad arbitrare i conflitti in favore della propria branca di attività, sia che parlino in nome dei padroni, dei salariati, degli utenti o dei loro stessi colleghi. Ma come è possibile trovare qua e là, eccezionalmente, un medico che aiuta gli altri a vivere in modo responsabile, ad accettare la sofferenza, ad affrontare la morte, così, per eccezione, si troverà qualche uomo di legge che aiuti le persone a utilizzare la struttura formale del Diritto per difendere i loro interessi nel quadro di una società conviviale. Anche se, probabilmente, il giudizio finale non soddisferà le loro richieste, l'azione giudiziaria servirà pur sempre a mettere in luce la sostanza del contrasto.

Nessuno dubita che il ricorso al procedimento legale per immobilizzare e invertire le nostre istituzioni dominanti non appaia ai più potenti tra i loro dirigenti, o ai più intossicati dei loro utenti, come una distorsione del Diritto e una sovversione del solo ordine che essi riconoscono. In sé, il ricorso a una procedura conviviale in buona e debita forma è una mostruosità e un crimine per il burocrate, anche se si dice giudice.

 

V. L’inversione politica

Se, in un futuro molto prossimo, il genere umano non riuscirà a limitare l'impatto dei suoi strumenti sull'ambiente e ad attuare un efficace controllo delle nascite, i nostri discendenti conosceranno la spaventosa apocalisse predetta da molti ecologi. Dinanzi al disastro incombente, la società può adagiarsi a sopravvivere entro i limiti fissati e imposti da una dittatura burocratica, ma può anche reagire politicamente ricorrendo alle procedure giuridiche e politiche. La falsificazione ideologica del passato ci vela l'esistenza e la possibilità di questa scelta.

La gestione burocratica della sopravvivenza umana è una scelta inaccettabile da un punto di vista sia morale sia politico, e per di più non servirebbe. Può darsi che gli uomini, terrorizzati dall'evidenza crescente del sovrappopolamento, dall'assottigliarsi delle risorse e dall'organizzazione insensata della vita quotidiana, rimettano spontaneamente i loro destini nelle mani di un Grande Fratello e dei suoi anonimi agenti. Può darsi che i tecnocrati siano incaricati di condurre il gregge sull'orlo dell'abisso, cioè di fissare dei limiti pluridimensionali allo sviluppo, immediatamente al di qua della soglia dell'autodistruzione. Una tale fantasia suicida manterrebbe il sistema industriale al più alto grado di produttività sostenibile. L'uomo vivrebbe in una bolla protettiva di plastica che l'obbligherebbe a sopravvivere come un condannato a morte in attesa di esecuzione. Ben presto la sua soglia di tolleranza in fatto di programmazione e manipolazione diverrebbe l'ostacolo più serio allo sviluppo, e l'impresa alchimistica rinascendo dalle sue ceneri cercherebbe di produrre e tenere sotto controllo il mostruoso mutante concepito dall'incubo della ragione. Per garantire la sopravvivenza dell'essere umano in un mondo razionale e artificiale, la scienza e la tecnica si applicherebbero ad attrezzare opportunamente la sua psiche: l'umanità sarebbe confinata dalla nascita alla morte nella scuola permanente estesa su scala mondiale, sarebbe sottoposta a vita al trattamento del grande ospedale planetario, collegata notte e giorno a implacabili catene di comunicazione. Così funzionerebbe il mondo della Grande Organizzazione. Tuttavia i precedenti insuccessi delle terapie di massa lasciano sperare nel fallimento anche di quest'ultimo progetto di controllo planetario.

L'avvento del fascismo tecno-burocratico non è scritto negli astri. Esiste un'altra possibilità: un processo politico che permetta alla popolazione di stabilire il massimo che ciascuno può esigere, in un mondo dalle risorse manifestamente limitate; un processo che porti a concordare entro quali limiti va tenuta la crescita degli strumenti; un processo che incoraggi la ricerca radicale intesa a far sì che un numero crescente di persone possa fare sempre di più con sempre meno. Un programma del genere può ancora apparire utopistico al punto in cui siamo: se si lascia aggravare la crisi, lo si troverà ben presto di un realismo estremo.

I miti e le maggioranze

L'ultimo impedimento alla ristrutturazione della società non è né la mancanza d'informazione sui limiti necessari né la mancanza di uomini risoluti ad accettarli se divenissero inevitabili, ma è il potere della mitologia politica.

In una società ricca, ognuno è più o meno consumatore-utente; in qualche modo, ognuno fa la sua parte nella distruzione dell'ambiente. Grazie al mito, questa molteplicità di depredatori si tramuta in una maggioranza politica. La somma degli individui atomizzati diventa un blocco mitico di elettori concordi su un problema inesistente: la maggioranza silenziosa, guardiana invisibile e invincibile degli interessi investiti nello sviluppo, e che paralizza ogni reale azione politica. Vista più da vicino, questa maggioranza è un insieme fittizio di persone teoricamente dotate di ragione che in realtà comprende una molteplicità di individui: l'esperto in ecologia che si reca in Boeing a una conferenza contro l'inquinamento, l'economista consapevole che l'aumento della produttività genera scarsità di lavoro e che cerca perciò di creare nuovi impieghi ecc. Né l'uno né l'altro hanno nulla a che fare con l'operaio di Detroit che compra a rate un televisore a colori, o col contadino messicano che in ossequio alla «rivoluzione verde» usa l'insetticida da cinque anni vietato negli Stati Uniti. Ma nonostante la loro diversità, una comune adesione allo sviluppo li unisce perché da essa dipende la loro soddisfazione. Tuttavia solo il mito conferisce loro l'omogeneità di una maggioranza politica contraria ai limiti. Ognuno ha il proprio motivo per desiderare la crescita industriale e il proprio motivo per sentirne la minaccia. Per il momento, un voto contro lo sviluppo puro e semplice sarebbe altrettanto privo di senso quanto un voto a favore del Prodotto Nazionale Lordo.

Una ideologia comune non crea una maggioranza; è efficace solo se ha le sue radici nell'interpretazione dell'interesse razionale di ciascuno e se dà a questo interesse una forma politica. L'azione politica della persona dinanzi a un conflitto sociale essenziale non dipende dall'ideologia preliminarmente accettata, ma da due fattori: (a) il modo in cui il conflitto latente tra l'uomo e lo strumento si trasformerà in una crisi aperta, esigendo una reazione globale e senza precedenti; (b) il sorgere di una molteplicità di nuove élite che forniscano un quadro interpretativo per riformulare i valori e riconsiderare gli interessi.

Dalla catastrofe alla crisi

Io posso solo congetturare in che modo si arriverà alla crisi; ma non ho dubbi sulla condotta da tenere dinanzi a essa e nel suo corso. Credo che lo sviluppo si arresterà da solo. La paralisi sinergetica dei sistemi che l'alimentano provocherà il crollo generale del modo di produzione industriale. Le amministrazioni credono di stabilizzare e armonizzare lo sviluppo affinando i meccanismi e i sistemi di controllo, ma non fanno che precipitare la megamacchina istituzionale verso la sua seconda soglia di mutazione. In un tempo brevissimo, la popolazione perderà fiducia non soltanto nelle istituzioni dominanti, ma anche in quelle specifica mente addette a gestire la crisi. Il potere, proprio delle attuali istituzioni, di definire valori (come l'educazione, la velocità di movimento, la salute, il benessere, l'informazione ecc.), si dissolverà di colpo allorché diverrà palese il suo carattere illusorio. A fare da detonatore alla crisi sarà un avvenimento imprevedibile e magari di poco conto, come il panico di Wall Street che precipitò la Grande Depressione. Una coincidenza fortuita renderà manifesta la contraddizione strutturale tra gli scopi dichiarati delle nostre istituzioni e i loro veri risultati. Ciò che è già evidente per qualcuno salterà di colpo agli occhi della maggioranza: l'organizzazione dell'intera economia in funzione dello «star meglio» è il principale ostacolo allo «star bene».

Al pari di altre intuizioni largamente condivise, questa avrà la virtù di rivoltare completamente l'immaginazione popolare. Da un giorno all'altro importanti istituzioni perderanno ogni rispettabilità, qualunque legittimità, insieme alla loro reputazione di servire il bene pubblico. È proprio ciò che accadde alla Chiesa romana al tempo della Riforma e alla monarchia francese nel 1793. Nello spazio di una notte l'impensabile divenne evidenza.

Una mutazione improvvisa è qualcosa che non ha nulla a che fare con la correzione automatica o con l'evoluzione. Si pensi ai bianchi vortici ai piedi d'una cascata di montagna:

le stagioni si succedono, l'acqua sovrabbonda oppure scorre in un filo sottile, ma le spirali di schiuma sembrano sempre uguali; basta però che un sasso cada in fondo al bacino, ed ecco che il disegno ne è tutto modificato, irreversibilmente. Allo stesso modo il risveglio della coscienza avviene di colpo. La maggioranza silenziosa oggi aderisce totalmente alla tesi dello sviluppo, ma nessuno può prevedere il suo comportamento quando la crisi esploderà. Quando un popolo perde fiducia nella produttività industriale, e non più solamente nella cartamoneta, tutto può succedere. L'inversione diventa realmente possibile.

Oggi si prova ancora a turare le falle dei singoli sistemi. Nessun rimedio funziona, ma si dispone ancora dei mezzi per permetterseli tutti, uno dopo l'altro. I governi si applicano alla crisi dei servizi pubblici, a quella dell'educazione, dei trasporti, del sistema giudiziario, della gioventù. Ciascun aspetto della crisi globale è separato dagli altri, spiegato in maniera autonoma e trattato a sé. Si propongono soluzioni di ricambio che danno credito alle riforme settoriali: e le scuole d'avanguardia contrapposte alle scuole tradizionali raddoppiano la domanda di educazione, le città-satelliti contrapposte all'aerotreno rafforzano la convinzione che lo sviluppo delle città sia fatale, una migliore formazione dei medici contrapposta alla proliferazione delle professioni parasanitarie alimenta l'industria della salute. E poiché ciascun termine del dilemma ha i suoi sostenitori, si finisce per non scegliere, ossia per provare entrambe le vie. In conclusione, si cerca di fare una torta sempre più grossa, che però è in pura perdita.

Si fa come Coolidge dinanzi ai primi segni della Grande Depressione, fraintendendo in maniera analoga l'annuncio di una crisi che è ben più radicale. Si presume che l'analisi generale dei sistemi colleghi tra loro le varie crisi istituzionali, ma essa non fa che portare a una maggiore pianificazione, centralizzazione e burocratizzazione, allo scopo di perfezionare il controllo della popolazione, dell'abbondanza e dell'industria distruttrice e inefficace. Si suppone che l'aumento della produzione di decisioni, controlli e terapie possa compensare l'estendersi della disoccupazione nei settori della fabbricazione. Affascinata dalla produzione industriale, la popolazione resta incapace di immaginare una società postindustriale in cui coesistano diversi modi di produzione complementari tra loro. Cercando di suscitare un'era che sia al tempo stesso iperindustriale ed ecologicamente ammissibile, si accelera la degradazione degli altri fattori che compongono l'equilibrio multidimensionale della vita. Il costo della difesa dello status quo sale vertiginosamente.

Bisognerebbe essere indovini per predire quale serie di eventi svolgerà il ruolo del crollo di Wall Street e scatenerà la crisi incombente; ma non occorre essere geni per prevedere che si tratterà della prima crisi mondiale non più localizzata dentro il sistema industriale, ma che metterà in gioco il sistema in sé. Assai presto accadrà un fatto che avrà la conseguenza di congelare la crescita dell'attrezzatura. Venuto quel momento, il fragore del crollo obnubilerà gli spiriti e impedirà di comprenderne il senso.

Ci resta ancora una possibilità di capire le cause della crisi globale che ci minaccia e di prepararci appunto a non confonderla con una crisi parziale, interna al sistema. Se vogliamo anticiparne gli effetti, dobbiamo indagare in che modo una brusca trasformazione potrà condurre al potere gruppi sociali fino a quel momento soffocati. Non sarà la catastrofe in quanto tale a trarre questi gruppi dal niente e a portarli alla ribalta; ma la catastrofe indebolirà le potenze dominanti che, schiacciando questi gruppi, impedivano loro di partecipare al processo sociale. L'effetto-sorpresa allenta il controllo, scompiglia i controllori e spinge in prima fila quelli che conservano sangue freddo.

Una volta indebolito il controllo, i controllori si cercano nuovi alleati. Nello Stato industriale indebolito dalla Grande Depressione, laclasse dirigente non poté fare a meno dei lavoratori organizzati, che ottennero perciò una parte di potere strutturale. Sul mercato del lavoro indebolito dalla seconda guerra mondiale, l'industria non poté fare a meno dei lavoratori negri, che cominciarono così ad affermare un loro potere. Attualmente, essendosi fatta una posizione, l'élite negra tende a diventare un pilastro del sistema costituito, così com'era accaduto precedentemente ai sindacati. In realtà l'uscita dalla crisi imminente dipende dalla comparsa di élite che non si lascino recuperare.

Dentro la crisi

Le forze che tendono a porre limiti alla produzione sono già in opera all'interno del corpo sociale. Una ricerca pubblica e radicale può aiutare in maniera rilevante questi uomini e queste donne ad acquistare maggiore coesione e lucidità nella loro condanna d'uno sviluppo che essi giudicano pernicioso. Non c'è dubbio che le loro voci avranno una diversa risonanza quando la crisi della società superproduttiva si aggraverà. Essi non costituiscono un partito, ma sono i porta-parola di una maggioranza di cui ognuno potenzialmente fa parte. Più inattesa sarà la crisi, più improvvisamente i loro appelli all'austerità equilibrata e gioiosa potranno assumere il valore di un programma. Per essere in grado di controllare la situazione quando sarà il momento, queste minoranze debbono comprendere la natura profonda della crisi e saperla esporre in un linguaggio che tocchi il segno, spiegando chiaramente che cosa vogliono, che cosa possono e di che cosa non hanno bisogno. Sin d'ora, esse già possono identificare le cose a cui rinunciare. La riconquista della lingua quotidiana è il primo perno dell'inversione politica. Ne occorre un secondo.

Un ulteriore sviluppo non può che portare al disastro, ma questo presenta una doppia faccia. L'evento catastrofico può segnare la fine della civiltà politica o addirittura della specie «uomo»; ma può essere anche la Grande Crisi, cioè l'occasione di una scelta senza precedenti. Prevedibile e inattesa, la catastrofe sarà una crisis, nel senso proprio del termine, solo se, nel momento in cui essa colpisce, i prigionieri del progresso chiederanno di scappare dal paradiso industriale, se chiederanno che nel recinto della prigione dorata si apra una porta. Bisognerà allora saper dimostrare che la dissoluzione del miraggio industriale offre l'occasione per scegliere un modo di produzione conviviale ed efficace. La preparazione a questo compito è il cardine di una nuova pratica politica.

Saranno necessari gruppi capaci di analizzare coerentemente la catastrofe e di esprimerla con un linguaggio semplice. Essi dovranno saper patrocinare la causa di una società che si pone dei confini, e farlo in termini concreti, comprensibili da tutti, desiderabili in generale e immediatamente applicabili. Il sacrificio è lo scotto della scelta, prezzo inevitabile da pagare per ottenere quello che si vuole o, per lo meno, per liberarsi da ciò che è intollerabile. Ma non basta servirsi delle parole di tutti i giorni come buoni strumenti per mettere in luce il vero volto della realtà; bisognerà anche saper maneggiare uno strumento sociale che sia adatto a determinare il bene pubblico.

Come ho spiegato più sopra, tale strumento è la struttura formale della politica e del Diritto. Nell'ora del disastro, la catastrofe si muterà in crisi se un gruppo di persone lucide che conservano il proprio sangue freddo saprà ispirare fiducia nei concittadini. La loro credibilità dipenderà dall'abilità nel dimostrare che non solo è necessario ma è possibile instaurare una società conviviale, a condizione di utilizzare coscientemente una procedura regolata, che riconosca al conflitto d'interessi la sua legittimità, dia valore al precedente storico, e attribuisca un carattere esecutivo alle decisioni prese da uomini comuni, dai quali la comunità si riconosca rappresentata. Nell'ora del disastro, solo se si resta radicati nella storia si può avere la fiducia necessaria per sconvolgere il presente. L'uso conviviale della procedura garantisce che una rivoluzione istituzionale rimanga uno strumento che trova nella pratica i propri fini. Un ricorso lucido alla procedura, fatto in uno spirito di opposizione continua alla burocrazia, è la sola maniera possibile per evitare che la rivoluzione si tramuti essa stessa in istituzione. Che l'applicazione di questa procedura all'inversione radicale delle istituzioni sia denominata «rivoluzione culturale», recupero della struttura formale del Diritto, socialismo partecipatorio o ritorno allo spirito dei Fueros de Espana, è un mero problema di etichette.

La mutazione improvvisa

Parlando della nascita di gruppi d'interessi e della loro preparazione, non mi riferisco né a nuclei di terroristi né a sette di devoti né a esperti di un nuovo tipo. Più in particolare, non mi riferisco a un partito politico destinato a prendere il potere nel momento della crisi. Gestire la crisi vorrebbe dire precipitare la soluzione fatale. Un partito compatto e addestrato può imporre il proprio potere nel momento in cui la scelta da compiere è interna a un sistema inglobante: fu così che gli Stati Uniti dovettero «scegliere» il controllo degli strumenti di produzione durante la Grande Depressione; fu così che i paesi dell'Europa orientale dovettero «scegliere» lo stalinismo all'indomani della seconda guerra mondiale. Ma la crisi di cui io descrivo la prossima venuta non è interna alla società industriale, bensì riguarda il modo di produzione industriale in se stesso. Questa crisi obbligherà l'uomo a scegliere tra gli strumenti conviviali e l'essere stritolato dalla megamacchina, tra la crescita indefinita e l'accettazione di limiti multidimensionali. La sola risposta possibile consiste nel riconoscere la profondità della crisi e nell'accettare l'unico principio di soluzione che si offra: stabilire, per accordo politico, un'autolimitazione. Quanto più numerosi e diversi saranno coloro che esprimeranno questa esigenza, tanto più profondamente si comprenderà che il sacrificio è necessario, che tutela interessi molteplici e che è la base di un nuovo pluralismo culturale.

Neppure intendo riferirmi a una maggioranza che si opponga allo sviluppo in nome di principi astratti. Sarebbe un'altra maggioranza-fantasma. In verità la formazione di una élite organizzata che decanti l'ortodossia dell'antisviluppo non è un'ipotesi inconcepibile; forse questa élite si sta già costituendo. Ma un coro del genere, con l'antisviluppo come unico e solo programma, è l'antidoto industriale all'immaginazione rivoluzionaria. Incitando la gente ad accettare una limitazione volontaria della produzione senza mettere in questione la struttura-base della società industriale, non si farebbe che conferire maggior potere ai burocrati che ottimizzano lo sviluppo, e ci si consegnerebbe come ostaggi nelle loro mani.

La produzione stabilizzata di beni e servizi ultra-razionalizzati e standardizzati allontanerebbe dalla produzione conviviale ancor più, se possibile, di quanto non faccia la società industriale di sviluppo.

I fautori di una società capace di porsi limiti non hanno bisogno di riunire una maggioranza. In democrazia una maggioranza elettorale non si fonda sull'adesione esplicita di tutti i suoi membri a un'ideologia o ad un valore determinato. Una maggioranza elettorale favorevole alla limitazione delle istituzioni sarebbe molto eterogenea: comprenderebbe le vittime di un particolare aspetto della sovrapproduzione, gli esclusi dalla festa industriale e coloro che rifiutano in blocco i caratteri della società totalmente razionalizzata. L'esempio della scuola può illustrare il funzionamento di una maggioranza elettorale nella prassi politica tradizionale: le persone senza figli sono insofferenti della spesa per la pubblica istruzione; alcuni ritengono di pagare troppe tasse per il servizio che ricevono; altri sostengono le scuole confessionali; alcuni altri non accettano la scuola dell'obbligo perché la giudicano nociva per i ragazzi; altri ancora la combattono perché rafforza la segregazione sociale. Tutte queste persone potrebbero formare una maggioranza elettorale, ma non costituiscono né una setta né un partito. Attualmente potrebbero certo ridimensionare le pretese della scuola, ma così facendo rafforzerebbero la legittimità del prodotto scolastico che èl'«educazione». Quando le cose continuano ad andare per il loro verso, l'assoggettare a limiti una istituzione dominante mediante un voto di maggioranza assume sempre un senso reazionario.

Ma una maggioranza può invece sortire un effetto rivoluzionario nel momento di una crisi che colpisca la società in maniera radicale. L'arrivo simultaneo di parecchie istituzioni alla loro seconda soglia di mutazione dà il segnale d'allarme. La crisi non può tardare. È già cominciata. Il disastro che seguirà mostrerà chiaramente che la società industriale in quanto tale, e non soltanto i suoi vari organi, ha oltrepassato i limiti.

Lo Stato-nazione è diventato guardiano di strumenti così potenti che non può più svolgere il suo ruolo di quadro politico. Come Giap ha saputo utilizzare la macchina bellica americana per vincere la sua guerra, così le imprese multinazionali e le professioni transnazionali possono servirsi del Diritto e del sistema democratico per consolidare il loro impero. Ma mentre la democrazia americana può sopravvivere alla vittoria di Giap, certo non sopravvivrà a quella dell'ITT e consimili. Man mano che la crisi totale si avvicina, diventa chiaro che lo Stato-nazione moderno è un conglomerato di società anonime in cui ogni attrezzatura mira a promuovere il proprio prodotto, a servire i propri interessi. L'insieme produce del benessere, sotto forma di educazione, salute ecc., e il successo si misura in base alla crescita del capitale di tutte le suddette società. Quando è il momento, i partiti politici radunano la massa degli azionisti per eleggere un consiglio di amministrazione. Essi sostengono il diritto dell'elettore a pretendere un più alto livello di consumo individuale, il che significa un più alto grado di consumo industriale. La popolazione può sempre reclamare trasporti più rapidi, ma il giudizio sulla convenienza di un sistema di trasporto basato sull'automobile oppure sul treno, e che assorbe una larga parte del reddito nazionale, è lasciato alla discrezione degli esperti. I partiti sostengono uno Stato il cui scopo dichiarato è la crescita del Prodotto Nazionale Lordo: è inutile contare su di essi quando arriverà il peggio.

Quando gli affari procedono normalmente, la procedura a contraddittorio per dirimere un conflitto tra l'impresa e l'individuo finisce di solito col dare un ulteriore crisma di legittimità alla dipendenza di quest'ultimo. Ma nel momento della crisi strutturale, neppure la riduzione volontaria della sovrefficienza potrà risparmiare alle istituzioni dominanti di andare in rovina. Una crisi generalizzata apre la strada a una ricostruzione della società. La perdita di legittimità dello Stato come società per azioni non infirma ma rafforza la necessità di una procedura costituzionale. La perdita di credibilità dei partiti divenuti fazioni rivali di azionisti non fa che sottolineare l'importanza del ricorso a procedure contraddittorie in politica. La perdita di credibilità delle rivendicazioni antagonistiche per ottenere maggior consumo individuale sottolinea l'importanza del ricorso a queste stesse procedure contraddittorie, quando si tratta di armonizzare serie opposte di limitazioni concernenti l'insieme della società. La medesima crisi generale può sancire durevolmente un contratto sociale che consegni al dispotismo tecno-burocratico e all'ortodossia ideologica il potere di prescrivere il benessere, oppure può esser l'occasione per costruire una società conviviale, in continua trasformazione all'interno di un quadro materiale definito da proscrizioni razionali e politiche.

Nella loro struttura, la procedura politica e quella giuridica si integrano reciprocamente. Entrambe modellano ed esprimono la struttura della libertà nella storia. Se si ammette questo, la procedura formale può costituire il migliore strumento drammatico, simbolico e conviviale per l'azione politica. Il Diritto conserva tutta la sua forza anche quando una società riservi a dei privilegiati l'accesso alla macchina giuridica, anche quando si faccia beffe sistematicamente della giustizia e mascheri il dispotismo sotto il mantello di finti tribunali. Anche quando colui che si appella al linguaggio ordinario ed alla procedura formale viene irriso e messo sotto accusa dai suoi compagni di rivoluzione, anche allora il ricorso dell'individuo alla struttura formale iscritta nella storia di un popolo resta lo strumento più potente per dire il vero, per denunciare l'ipertrofia cancerosa e il dominio del modo di produzione industriale come l'ultima forma di idolatria. Si è presi dall'angoscia quando si constata che l'unico nostro potere per arginare l'ondata mortale sta nella parola e, più esattamente, nel verbo, giunto sino a noi e ritrovato nella nostra storia. Solo il verbo, con tutta la sua fragilità, può raccogliere la moltitudine degli uomini perché il dilagare della violenza si trasformi in ricostruzione conviviale.

Se sapranno stabilire dei criteri di limitazione dell'attrezzatura, i paesi poveri avvieranno più facilmente la loro ricostruzione sociale e, soprattutto, accederanno direttamente a un modo di produzione postindustriale e conviviale. I limiti che dovranno adottare sono dello stesso ordine di quelli che le nazioni industrializzate dovranno accettare per sopravvivere: la convivialità accessibile fin d'ora ai «sottosviluppati» costerà un prezzo inaudito agli «sviluppati».

Un'ultima obiezione viene spesso avanzata quando a una società povera si propone l'orientamento conviviale:

per scegliere una vita austera con strumenti conviviali bisogna difendersi dall'imperialismo dei megastrumenti in espansione; tale difesa non sarebbe possibile senza un esercito moderno, che a sua volta richiede un'industria in pieno sviluppo. In realtà, la ricostruzione della società non può essere protetta per mezzo di un esercito, innanzi tutto perché sarebbe una contraddizione in termini, e poi perché nessun esercito moderno d'un paese povero potrebbe essere una valida difesa contro un tale potere. La convivialità sarà opera esclusiva di persone che usino un'attrezzatura da loro effettivamente controllata. I mercenari dell'imperialismo possono avvelenare una società conviviale, possono distruggerla, ma non conquistarla.

1

Mondadori, Milano, 1972.

2 « Austeritas secunduin quod est virtus non escludit onines delectationes sed superfluas et inordinatas: unde videtur pertinere ad affabilitatem: quam Philosophus, lib. 4Ethic. cap. VI amicitiam nominat, vei ad eutrapeliani, sive jocunditatem. » (Somma Theologica, ha IIae, q. 168, art. 4, ad 3 m.)

3 Ho sviluppato ulteriormente le osservazioni riguardanti i trasporti nel volumetto Energy and Equity (Calder & Boyars, Londra 1974) scritto 18 mesi più tardi e nel quale ho potuto precisare e anche correggere alcuni dettagli del presente saggio.

4 H. Marcuse L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967.

5 Illich Energy and equity, cit.