WENDY GRISWOLD

SOCIOLOGIA DELLA CULTURA

il Mulino, Bologna 1997

1.

In un mondo in via di globalizzazione, la sociologia della cultura, una branca relativamente recente che cerca di mettere a fuoco i rapporti reciproci tra la struttura sociale e i fenomeni culturali, è destinata ad assumere un rilievo crescente. Nessuna società può sussistere, perpetuarsi e riprodursi senza una rete di significati - norme, valori, credenze, simboli espressivi - che nel loro insieme definiscono la sua cultura. Questa ovvia constatazione diventa immediatamente problematica se ci si chiede come quella rete di significati si produca e si oggettivi, come si mantenga, si distribuisca e venga recepita dalle singole persone, come essa si modifichi nel corso del tempo, ecc. Ancora più ricca e attuale è la problematica dell’interazione tra diverse culture, che, nel nostro mondo, sta configurando, per effetto della globalizzazione, una tensione drammatica tra spinte alla fusione interculturale e spinte alla frammentazione identitaria.

Per affrontare questa problematica, l'autrice fa riferimento ad un modello molto semplice, che definisce "diamante culturale". Esso comporta quattro elementi: "gli oggetti culturali (simboli, credenze, valori e pratiche); i creatori culturali, comprese le organizzazioni e i sistemi che producono e distribuiscono oggetti culturali; i destinatari culturali, cioè la gente che fa esperienza della cultura e degli oggetti culturali; e il mondo sociale, il contesto cioè in cui la cultura viene creata ed esperita" (p. 8). Tra questi quattro elementi, distribuiti ai vertici del diamante, si danno sei legami o connessioni. La sociologia della cultura mira ad illustrare gli elementi in sé e per sé e a chiarire le relazioni reciproche che si danno tra essi.

Preliminare all’analisi, è la definizione di cultura che l’autrice mutua da Clifford Geertz: "una struttura di significati trasmessi storicamente, incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano o sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita" (p. 24). In riferimento a questa definizione, "un oggetto culturale può definirsi come un significato condiviso incorporato in una forma" (p. 26).

La condivisione attesta che un significato in tanto si dà in quanto esso è riconosciuto nel suo valore — conoscitivo, comunicativo, morale, ecc. - da un gruppo. La domanda ovvia che viene da porsi preliminarmente è perché l’uomo ha bisogno del significato. La risposta più esauriente l’ha fornita Geertz: "L’uomo ha bisogno di fonti simboliche di illuminazione per trovare la sua strada nel mondo, perché quelle di tipo non simbolico, inserite nel suo corpo costituzionalmente, gettano una luce troppo soffusa. Negli animali inferiori i modelli di comportamento si danno insieme alla loro struttura fisica, almeno in gran parte: le fonti di informazione genetiche ordinano le loro azioni entro possibilità di variazione molto più ristrette, sempre più ristrette e conchiuse via via che il livello dell’animale scende. All’uomo sono date capacità innate di reazione estremamente generali che lo lasciano regolato con molta minor precisione; non diretto da modelli culturali — sistemi organizzati di simboli significanti — il comportamento dell’uomo sarebbe praticamente ingovernabile, un puro caos di azioni senza scopo e di emozioni in tumulto, la sua esperienza sarebbe praticamente informe. La cultura, la totalità accumulata di questi modelli, non è un ornamento dell’esistenza umana ma — base principale della sua specificità — una condizione essenziale per essa." (p. 38)

In breve, la cultura è un bastione contro il caos: "l’analisi sociologica della cultura parte dalla premessa che quest’ultima offre orientamento, protegge dal caos e dirige il comportamento verso determinate linee di azione e lontano da altre." (p. 39)

2.

Ciò posto, c’è da chiedersi qual è il rapporto tra significati culturali e realtà sociale. La concezione materialista implica "che la religione, i valori, l’arte, le idee, le leggi e la cultura in generale sono i prodotti della realtà materiale" (p. 47) I significati culturali sono dunque una sovrastruttura che si edifica e in qualche modo riflette l’infrastruttura materiale, ciò che gli uomini producono nel loro sforzo di trasformare il mondo per adattarlo ai propri bisogni. Nulla induce a pensare che Marx intendesse il rapporto tra infrastruttura e sovrastruttura in termini univoci. La teoria del rispecchiamento dell’ortodossia comunista è una semplificazione e una volgarizzazione del pensiero di Marx. Non c’è dubbio però che questi ritenesse il pensiero, che produce significati, complementare e in qualche misura subordinato all’azione, alla prassi trasformativa: in breve, al lavoro.

Un’altra ipotesi è quella funzionalista: "L’essenza del funzionalismo è che le società umane, per conservarsi, esprimono bisogni concreti, e le istituzioni sociali sorgono per soddisfare tali bisogni." (p. 52) In quest’ottica "ogni livello sociale — la cultura, la politica, l’economia, l’ordine sociale — fornisce input e riceve output da ogni altro livello. Ogni livello è adattato a, o riflette, ogni altro livello. Così, la cultura riflette la società proprio come la società riflette la cultura." (id.) La teoria funzionalistica urta contro il fatto che "gli oggetti culturali spesso idealizzano alcuni aspetti dell’esperienza sociale, o sottolineano alcuni aspetti meno positivi per fare critica sociale." (p. 55)

Sia l’ipotesi marxista che quella funzionalista, riconoscendo che la cultura e la struttura sociale esercitano una mutua influenza una sull’altra, tendono ad accentuare un freccia causale che va in una sola direzione: la società causa (o determina, o plasma, o influenza) la cultura.

Max Weber ha intuito che la freccia deve puntare anche verso l’alto. In uno dei sui saggi più famosi (L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo) egli analizza il modo in cui un insieme di idee religiose influenzò il modo in cui la gente lavorava, spendeva il suo denaro e organizzava la vita economica. Egli "non negava che la gente perseguisse i suoi interessi materiali — a questo riguardo egli prese l’homo faber come punto di avvio -, ma sosteneva che le loro idee, le loro culture plasmavano precisamente le forme in cui essi perseguivano questi interessi" (p. 61): "Sono gli interessi (materiali e ideali), e non le idee, a dominare immediatamente l’agire dell’umo. Ma le "concezioni del mondo", create dalle idee, hanno spesso determinato — come chi aziona uno scambio ferroviario — i binari lungo i quali la dinamica degli interessi ha mosso tale attività." (id).

Sia l’ipotesi marxiana sia quella funzionalista sia quella weberiana implicano, dunque, una qualche corrispondenza tra cultura e mondo sociale. Esse però sottovalutano sia il ruolo degli esseri umani attivi che producono la cultura o che, essendone i depositari, la trasmettono, sia il ruolo di coloro che ricevono i messaggi culturali, che interpretano, accettano o rifiutano i significati culturali.

 

3.

Chi crea gli oggetti culturali? Se si fa riferimento alla Cultura (letteratura, arte, filosofia, ecc.) è innegabile il ruolo dei genii individuali, anche se la genialità stessa richiede un humus culturale per realizzarsi. Se, viceversa, ci si riconduce alla cultura nel senso più ampio di un modello di significato storicamente trasmesso, riesce immediatamente evidente che essa rappresenta una creazione collettiva e non individuale.

La concezione della cultura come prodotto sociale trae origine dal lavoro di Emile Durkheim sulla religione. Per quanto Durkheim abbia preso in considerazione solo la religione più primitiva — il totemismo -, il suo intento è quello di cogliere gli elementi costitutivi della religione, trovare i fondamenti di tutte le religioni e scoprire il bisogno umano che causa la credenza e la pratica religiosa. La conclusione della ricerca conferma l’assunto di fondo del pensiero durkheimiano: "la religione è alla base di tutte le categorie del pensiero, e la religioni e le categorie del pensiero sono tutte rappresentazioni collettive che esprimono realtà collettive." (p. 72) In particolare "la società fa sorgere il senso del divino negli esseri umani attraverso: 1) il suo potere, il suo controllo su noi che si manifesta nella sua abilità di causare o di inibire le nostre azioni indipendentemente dall’utilità individuale; 2) la sua forza positiva, per l’azione rinforzante e vivificante della società. Quando un membro della società è in armonia morale con u suoi compagni egli ha più fiducia, più coraggio e più forza nell’azione, proprio come il credente che pensa di sentire lo sguardo di dio diretto verso di lui. La società produce così, come se fosse tale, un sostegno perpetuo alla nostra natura morale. La gente pensa che questo sostegno debba essere dovuto a qualche causa esterna, a qualche forza sempre rappresentata con simboli religiosi, e risponde a questa forza con rispetto e timore." (p. 74)

Durkheim ha inaugurato l’approccio alla produzione collettiva della cultura secondo il quale sono le interazioni sociali, sia a livello di piccolo gruppo che al più ampio livello della società, a generare cultura. Erede dell’approccio durkheimiano si può considerare l’interazionismo simbolico "interessato a come la gente costruisce attivamente le sue norme e i suoi ruoli. La prospettiva di fondo degli interazionisti è che il sé dell’uomo non è una forma platonica preesistente, ma è creata dall’interazione sociale." (p. 78)

George H. Mead, di fatto, illustra una teoria psicosociologica della nascita del Sé, secondo la quale l’evoluzione della personalità culmina nell’interiorizzazione dell’altro generalizzato, che è la società: "E’ nella forma dell’altro generalizzato che il processo sociale influenza il comportamento degli individui coinvolti in esso e che lo realizzano; in altre parole, che la comunità esercita controllo sulla condotta dei suoi singoli membri." (p. 79)

In E. Goffman l’interazione non riguarda solo l’evoluzione della personalità, ma tutta l’esperienza umana: il Sé cerca di proiettare un certo insieme di significati su coloro con cui interagisce, e a sua volta cerca di interpretare i significati costruiti dai partner nell’interazione. Egli "analizza questo processo impiegando le metafore delle performance teatrali:il sé è un attore che svolge un ruolo davanti a un pubblico. Se la perfomance ha successo, il sé vede confermata una certa identità sia nei confronti del partner dell’interazione sia verso se stesso." (p. 81)

L’interazionismo simbolico va arricchito per tenere conto di due aspetti della vita sociale. Il primo è l’esistenza di subculture, generate da sottogruppi i cui membri individuali sono direttamente relazionati l’uno all’altro: "una subcultura esiste entro un più ampio sistema culturale e ha contatti con la cultura esterna. Entro il dominio della subcultura, comunque, funziona un potente insieme di simboli, significati e norme comportamentali — spesso l’opposto di quelle in vigore nella cultura più ampia — che sono vincolanti per i membri della subcultura." (p. 83)

Una volta create, le culture cambiano. Vi sono periodi di cambiamento relativamente contenuti, e altri nel corso dei quali la creatività culturale esplode. Questi ultimi, il più recente dei quali è stato il’68, sono i più interessanti. Essi muovono da periodi di instabilità nel corso dei quali le vecchie regole, culturali e sociali, non sembrano più applicabili e l’ideologia dominante entra in crisi. Il pericolo che si configura di conseguenza è l’anomia. L’innovazione culturale serve a scongiurare questa attraverso la produzione di nuovi significati.

3.

Definire la cultura un prodotto collettivo è solo la premessa per approfondire il problema del complesso apparato interposto tra i creatori di cultura e i consumatori, che comporta meccanismi di produzione e di distribuzione, tecniche di commercializzazione, la creazione di situazioni che mettono a contatto potenziali consumatori di cultura e oggetti culturali.

Nella nostra società, tale apparato s’identifica con l’industria culturale, "espressione che descrive l’insieme di organizzazioni che producono articoli culturali di massa come dischi, libri di facile lettura e film a basso costo" (p. 102). L’industria culturale "opera per regolare e confezionare l’innovazione e dunque per trasformare la creatività in prodotti commerciabili e prevedibili" (p. 103).

Il concetto di industria culturale è dovuto a Hirsch, che lo considera un sistema interattivo. Tale sistema parte dai creatori i cui input, posto che superino un filtro, vengono recepiti dal sottosistema manageriale che lo trasformano in prodotto. Attraverso i media questo arriva ai consumatori, la cui fruizione retroagisce sul sistema manageriale orientandone le scelte ulteriori.

Il modello di Hirsch concerne i prodotti culturali di massa tangibili, ma esso "con poche modifiche può essere applicato alla cultura elevata, alle idee e ad ogni altro oggetto culturale" (p. 106). Esso, per esempio, può essere applicato addirittura da una religione istituzionalizzata. Il fondatore è il creatore, i teologi e la Chiesa rappresentano il sottosistema manageriale che adatta il messaggio per renderlo fruibile agli utenti, i quali lo ricevono e lo interpretano, costringendo talvolta la Chiesa a cambiare alcuni aspetti dottrinali.

Il tramite tra il sottosistema manageriale e i consumatori è il mercato culturale, laddove gli oggetti culturali competono per ritagliarsi fasce più ampie di consumo.

Particolare importanza, nell’ottica della sociologia della cultura, ha il problema dei consumatori, che rappresentano una massa stratificata: "diversi tipi di persone guardano, comprano, amano, usano, leggono e credono in diversi oggetti culturali" (p. 114).

Per quanto concerne la libertà d’interpretazione culturale si danno due concezioni.

Secondo la prima, la teoria della cultura popolare, "la gente può costruire qualunque significato (i ricevitori sono forti/gli oggetti culturali sono deboli)" (p. 120); "essa assume che non vi siano distinzioni, che non vi siano rappresentazioni culturali migliori o peggiori, più ricche o più povere, ispirate o deprimenti, elevate o pornografiche, ma che vi siano solo tipi di persone diverse che fanno esperienza di oggetti culturali attribuendo ad essi significati differenti. Il significato diventa così in assoluto una funzione della mente del ricevente." (p. 121).

Secondo l’altra teoria, la teoria della cultura di massa, "la gente deve sottostare ai significati che sono intrinseci agli oggetti culturali (gli oggetti culturali sono forti/i ricevitori sono deboli)" (p. 120); "i significati culturali sono strettamente controllati e i ricevitori non hanno alcuna libertà d’interpretazione" (p. 121). In quest’ottica, l’industria culturale serve "per produrre intrattenimento di massa su una scala sino allora impensabile. Un simile intrattenimento si basa su un minimo comune denominatore di gusto, che enfatizza l’aspetto di spettacolo su quello morale o intellettuale, allo scopo di catturare una porzione di mercato che sia la più ampia possibile. I prodotti della cultura di massa rendono i ricevitori apatici e intorpiditi. Questa apatia a sua volta predispone questi ricevitori passivi alla tirannia politica, mentre il loro semplice numero spinge i produttori culturali alla preparazione di materiali sempre più violenti, sensazionali, scioccanti, capaci di far reagire un pubblico incline a stancarsi" (p. 123).

Queste sono le linee di fondo della sociologia della cultura nell’ottica del diamante culturale. Esse, oggi, devono tenere conto di un fatto nuovo: l’incidenza sulla cultura dei media elettronici, che "1) mettono in relazione persone situate in posti distanti in tempi reali; 2) permettono l’espressione diretta di idee e emozioni che si erano avute in precedenza solo nella comunicazione faccia a faccia; 3) democratizzano l’accesso culturale in termini spaziali e temporali…; 4) democratizzano l’accesso culturale fondato sull’istruzione…" (p. 197). Tenendo conto di questi aspetti, qualcuno ipotizza che la cultura tenderà a assumere una configurazione globale e integrata. Per ora, in realtà, "le comunicazioni elettroniche su scala globale, con la loro infinita capacità di riproduzione e disseminazione di segni, sono il fondamento del postmodernismo. La cultura postmodernista è una cultura di superficie, un gioco di immagini che rinnega la profondità, la storia o il significato. Essa è stata caratterizzata con i seguenti attributi: 1) assenza di spessore, o meglio un’autoconsapevole superficialità. La profondità è stata sostituita da superfici multiple. Non ci sono significati nascosti, perché comunque non c’è nulla sotto le superfici levigate che questa cultura esibisce…; 2) il rigetto delle metanarrazioni…; 3) frammentazione, cioè rottura delle connessioni. La cultura postmoderna accetta il frammentario, l’effimero, il discontinuo…" (pp.202-203).

Considerando questi aspetti, si possono avanzare previsioni pessimistiche o ottimistiche sul futuro della cultura.

4.

Se si considera il peso che la cultura ha nel caratterizzare una civiltà, che è una somma di cultura materiale e cultura spirituale, nel presiedere all’organizzazione di una determinata società, nel regolare i rapporti interpersonali a tutti i livelli della vita sociale, nell’influenzare le singole soggettività, è difficile non considerare l’approccio sociologico da essa di estremo interesse. Certo, una teoria sociologica della cultura soffre di tutti i limiti propri della scienza sociologica: le ipotesi abbondano, ma non c’è alcun terreno di verifica.

La teoria del diamante culturale, inoltre, ha un limite di non poco conto. Essa trascura del tutto il ruolo dei fattori inconsci. Ho più volte rilevato che, dopo quella freudiana dell’inconscio individuale, la scoperta più importante avvenuta nell’ambito delle scienze umane e sociali del ‘900 si può considerare quella dell’inconscio sociale o della mentalità, dovuta agli storici francesi raccolti nella scuola de Les Annales. Purtroppo, l’incomunicabilità tra le scienze umane e sociali ha fatto sì che questa scoperta è rimasta confinata nell’ambito della storia, o meglio nel patrimonio metodologico di alcuni storici.

La sua adozione nell’ambito della sociologia della cultura potrebbe risolvere molti problemi che rimangono aperti. Uno, su cui mi preme soffermare l’attenzione, è la malattia mentale come oggetto culturale. Il disagio psichico è un fatto reale sperimentato dalle persone che lo vivono e da coloro che le circondano o con cui esse interagiscono. Cionondimeno, tale fatto non esiste che in virtù del suo essere assunto, da chi lo vive, dalla società e dalla psichiatria, come un oggetto culturale. Esso esiste insomma come frutto di molteplici interpretazioni: soggettive dalla parte del paziente, oggettive da parte della società e della psichiatria. Le interpretazioni soggettive sono solitamente errate: per esempio un ipocondriaco interpreta dolore al fianco destro come sintomo di un tumore epatico che le analisi non rilevano. Continuando a sentire il dolore, egli insiste a pensare che nel suo corpo ci sia una formazione maligna. La società, a partire dai familiari, preso atto dell’inesistenza del tumore, interpretano il vissuto del paziente come una fissazione, vale a dire come una convinzione immaginaria ossessiva ma priva di fondamento. La psichiatria, a sua volta, fornisce un’interpretazione oggettivante: l’inesistenza del tumore e la preoccupazione del soggetto significano che il sistema deputato a segnalare pericoli reali per la salute è squilibrato costituzionalmente. L’interpretazione psichiatrica iscrive l’ipocondria nell’ambito di un disturbo d’ansia più o meno grave.

L’interpretazione del paziente, che attribuisce il disturbo al soma, quella psicologica della società e quella biologica della psichiatria, che lo riconduce ad una disfunzione del sistema d’allarme sono tre oggetti culturali, l’ultimo dei quali pretende di essere scientifico. Che cosa difetta in tutti e tre gli oggetti culturali? Il riferimento ad una dimensione inconscia che, attraverso il sintomo, segnala una situazione di conflitto psicodinamico. Il segnale s’imbatte nel livello di coscienza del paziente, abituato culturalmente a ritenere che ciò che viene percepito nel corpo, abbia origine nel corpo stesso; nella cultura del senso comune, secondo la quale se un sintomo corporeo non ha riscontro nelle analisi, esso non ha ragion d’essere, configurandosi l’ossessione del paziente come una paura priva di fondamento; nella logica oggettivante della psichiatria, che riferisce il sintomo ad una disfunzione corporea che non ha sede però nel fegato ma nel cervello del paziente.

Che c’entra l’inconscio sociale? Esso c’entra nella misura in cui tutti e tre gli oggetti culturali si originano a partire da un’ideologia "cartesiana", che esclude la possibilità che una situazione di conflitto psicodinamico possa tradursi in un vissuto che viene percepito immediatamente a livello somatico. Esclude cioè che contenuti psichici possano esprimersi attraverso modalità che non siano psichiche. E’ in gioco, insomma, in tutti e tre i casi il materialismo del senso comune, un oggetto culturale che appartiene alla mentalità di una società e di una civiltà che nega i rapporti reciproci tra res cogitans e res extensa, e li interpreta come due dimensioni scisse e non comunicanti.

In un diverso contesto culturale, per esempio presso una cultura primitiva, l’ipocondria viene ricondotta ad una qualche forma di possessione da parte degli spiriti maligni. Tale interpretazione appare rozza e irrazionale agli occhi degli occidentali. Essa però è paradossalmente più vicina alla verità: primo, perché fa capo ad un conflitto relazionale (gli spiriti essendo dotati di soggettività); secondo, perché essa postula che l’influenza di una forza spirituale possa alterare lo stato corporeo.

Questo esempio induce a pensare che sia possibile interpretare la malattia mentale come un oggetto culturale costruito da una determinata società a partire da eventi la cui realtà viene sociologicamente interpretata. In questa ottica, tutta da esplorare, la psichiatria rappresenterebbe il sottosistema manageriale deputato ad indurre, presso il pubblico, il consumo di convinzioni pregiudiziali avallate come scientifiche e, in conseguenza di questo, di psicofarmaci.

Gennaio 2005