E. Durkheim

Il Suicidio

UTET, Torino 1977

Introduzione

Pubblicando il saggio sul suicidio, Durkheim mette la neonata sociologia alla prova su di un terreno impervio: quello di fenomeni individuali abnormi iscritti, sino allora, dall'opinione pubblica nell'ambito dell'irrazionalità e dalla psichiatria nell'ambito della malattia mentale. L'intento di Durkheim è dimostrare che tali fenomeni nel loro complesso configurano un fatto sociale specifico, e che, analizzati sociologicamente, possono essere ricondotti a un insieme finito di cause socio-culturali.

Gli esiti dell'impresa sono attestati dal fatto che, ancora oggi, a distanza di più di un secolo, per quanto sottoposto a critiche di ogni genere, il saggio sul suicidio rappresenta un punto di riferimento obbligato per tutti coloro che si interessano di questo inquietante fenomeno. Si dà un'eccezione di non poco conto. Sull'onda di un organicismo di maniera, i neopsichiatri sostengono ormai da anni che il suicidio è null'altro che l'espressione di una malattia mentale grave - depressione o schizofrenia -, o meglio di una malattia cerebrale di natura genetica. Essi non sembrano tenere in alcun conto la magistrale lezione di Durkheim secondo la quale fenomeni comportamentali individuali, considerati nel loro insieme, giungono a rappresentare fatti sociali la cui spiegazione richiede comunque, al di là delle vicissitudini soggettive, il riferimento a determinate circostanze sociali. E' evidente (mettendo da parte l'ignoranza) il motivo per cui non ne tengono conto. Oltre che al suicidio, quella lezione potrebbe facilmente applicarsi a gran parte dei disagi psichici e in particolare a quelli, come gli attacchi di panico, le depressioni, i disturbi del comportamento alimentare, che, avendo riconosciuto negli ultimi anni una diffusione epidemica, contrastano con l'ipotesi genetica e fanno pensare a cause micro- e macrosociali.

Al di là della lezione metodologica, di cui una nuova scienza del disagio psichico non può non tenere conto, occorre riconoscere che il saggio di Durkheim ha un estremo interesse anche per le ipotesi che egli avanza. La distinzione tra suicidio egoistico, suicidio altruistico e suicidio anomico può essere discussa all'infinito. Essa però si fonda su di un assunto di ordine generale secondo il quale nei suicidi è, sempre e comunque, in gioco il grado di integrazione dell'individuo nella società. Durkheim definisce questo grado a partire dal sociale che può promuovere un'eccessiva individualizzazione, inibirla in nome dell'appartenenza sociale o, in caso di repentini e turbolenti cambiamenti, non riuscire a proteggerla e a regolarla. Circostanze del genere si possono però produrre anche a livello microsociale e psicologico.

Citazioni

Il suicidio": definizione e piano dell’opera

"Diremo in definitiva che: dicesi suicidio ogni caso di morte direttamente o indirettamente risultante da un atto positivo o negativo compiuto dalla stessa vittima pienamente consapevole di produrre questo risultato. Il tentativo di suicidio è l’atto così definito ma arrestato prima che ne risulti la morte." (p. 63)

"Ma il fatto cosi definito interessa il sociologo? Se il suicidio è un atto dell'individuo che incide solo sull'individuo, sembrerebbe dover dipendere da fattori individuali e perciò di esclusiva competenza della psicologia. Non è forse, infatti, col temperamento del suicida, col suo carattere, coi suoi antecedenti, con gli avvenimenti della sua storia privata che di solito si spiega la sua risoluzione? Non dobbiamo per adesso ricercare in quale misura e in quali condizioni è legittimo studiare i suicidi da questo punto di vista; è certo tuttavia che essi possono essere considerati sotto tutt'altro aspetto.

Se anziché scorgervi unicamente avvenimenti privati, isolati gli uni dagli altri, che richiedono ognuno un esame a sé, si contemplasse l'insieme dei suicidi commessi in una determinata società, in una determinata unità di tempo, si constaterebbe che il totale così ottenuto non è una semplice somma di unità indipendenti, un tutto da collezione, bensì un fatto nuovo e sui generis, avente una sua unità e individualità, una propria natura quindi e, per di più, una natura eminentemente sociale. Per una stessa società infatti, finché l'osservazione non si svolge su di un periodo troppo esteso, tale cifra è pressoché invariabile […]. È vero che si verificano talora variazioni più importanti, ma sono del tutto eccezionali. D'altronde, si può vedere come esse siano sempre concomitanti con qualche crisi che tocchi in modo passeggero la situazione sociale. (Ibidem, p. 65)

"Se si considera un intervallo di tempo più lungo, si notano dei mutamenti più gravi, che diventano cronici e stanno a denotare che i caratteri costitutivi della società hanno subìto, nel contempo, profonde modifiche. […] Ogni società, ad ogni momento della sua storia, ha dunque una caratteristica attitudine al suicidio. L’intensità relativa di questa attitudine si valuta facendo il rapporto tra la cifra globale delle morti volontarie e quella della popolazione di ogni età e sesso. Chiameremo questo dato numerico tasso della mortalità-suicida proprio della società considerata. Lo si calcola, generalmente, in rapporto a un milione o a centomila abitanti. Non solo questo tasso è costante durante lunghi periodi di tempo, ma la sua invariabilità è persino maggiore di quella dei principali fenomeni demografici. La stessa mortalità generale varia assai più frequentemente da un anno all’altro e le variazioni che subisce sono molto più importanti." (Ibidem, pp. 67-68)

"Il tasso dei suicidi costituisce perciò un ordine di fatti unico e determinato; il che è dimostrato, insieme, dalla sua persistenza e dalla sua variabilità. Questa persistenza sarebbe inspiegabile se non fosse per un insieme di caratteri distintivi, solidali tra loro, che si affermano simultaneamente, nonostante la diversità delle circostanze ambientali; e tale variabilità è testimonianza della natura individuale e concreta di questi stessi caratteri, dato che variano come varia la stessa individualità sociale. In sostanza, questi dati statistici esprimono la tendenza al suicidio da cui è affetta collettivamente ogni singola società.

[…] Ogni società è predisposta a fornire un contingente determinato di morti volontarie. Questa predisposizione può quindi essere oggetto di uno studio particolare di competenza della sociologia, ed è appunto questo lo studio che ci accingiamo a compiere.

Si tratta di spiegare un fenomeno che deve essere attribuito o a cause extrasociali di grande generalità, oppure a cause propriamente sociali. Ci chiederemo in primo luogo quale sia l’influenza delle prime e vedremo che essa è nulla o limitatissima. Determineremo poi la natura delle cause sociali, il modo con cui producono i loro effetti e le loro relazioni con gli stati individuali che accompagnano i vari tipi di suicidio. Ciò fatto, saremo in grado di precisare in che consista l’elemento sociale del suicidio, quella tendenza collettiva, cioè, di cui si è parlato, quali siano i suoi rapporti con gli altri fatti sociali e con quali mezzi sia possibile agire su di essa." (Ibidem, pp. 70-72)

"Siamo riusciti a stabilire che per ogni gruppo sociale esiste una tendenza specifica al suicidio che né la costituzione organico-psichica degli individui, né la natura dell’ambiente fisico potrebbero spiegare. Ne consegue, per eliminazione, che questa tendenza dipende necessariamente da cause sociali e costituisce di per sé un fenomeno collettivo; alcuni di quei fatti che abbiamo esaminato e, in particolare, le variazioni geografiche e stagionali del suicidio ci avevano condotto a questa conclusione. Dobbiamo adesso studiare questa tendenza più da vicino." (Ibidem, p. 183)

"[…] l’asserzione fondamentale che i fatti sociali sono obiettivi che già abbiamo avuto modo di stabilire in un altro lavoro e che consideriamo come il principio base del metodo sociologico trova nella statistica morale e soprattutto in quella del suicidio una nuova riprova particolarmente dimostrativa. Non v’è dubbio che urti il senso comune, ma ogni volta che la scienza è giunta a rivelare agli uomini l’esistenza di una forza da essi ignorata, ha incontrato l’incredulità."(Ibidem, p. 371)

"Non v'è ideale morale che non si combini, in proporzioni variabili a seconda delle società, con l'egoismo, l'altruismo, e una certa anomia. La vita sociale presuppone, infatti, che l'individuo abbia ad un tempo una certa personalità, che sia pronto quando la comunità lo esiga a farne la rinuncia e infine che sia aperto in certa misura alle idee di progresso. Ecco perché non vi è popolo in cui non coesistano queste tre correnti d'opinione che fanno propendere l'uomo in tre direzioni divergenti e anche contraddittorie. Dove esse si temperano vicendevolmente, l'agente morale è in uno stato di equilibrio che lo pone al riparo da ogni idea di suicidio. Ma basta che una di esse superi di qualche grado d'intensità le altre, perché per le ragioni suesposte, diventi suicidogena individualizzandosi." (Ibidem, p. 383)

Il suicidio egoistico

"Dando un’occhiata alla carta europea dei suicidi, si nota a prima vista come il suicidio sia poco sviluppato nei paesi puramente cattolici come la Spagna, il Portogallo, l’Italia, mentre lo è al massimo nei paesi protestanti, in Prussia, Sassonia, Danimarca. […] Se vogliamo […] determinare con più esattezza l’influenza del cattolicesimo e quella del protestantesimo sulla tendenza suicida, dobbiamo confrontare le due religioni in seno alla stessa società." ( pp. 192-193)

"Ambedue vietano il suicidio con la stessa precisione. […] La sola differenza essenziale tra cattolicesimo e protestantesimo è che il secondo ammette il libero esame in proporzione più larga del primo. […] Il rotestante […] è l’autore precipuo della sua fede. Gli è stata messa in mano la Bibbia e nessuna interpretazione gliene è imposta. La stessa struttura del culto riformato rende sensibile questo stato di individualismo religioso. Ad eccezione dell’Inghilterra, il clero protestante non è gerarchizzato in nessun luogo e il prete, come il fedele, fa capo solo a se stesso e alla sua coscienza. […] Il libero esame è di per sé effetto di un’altra causa. Quando esso appare, quando cioè gli uomini, dopo aver accettato per lunghi anni la tradizione costituita, invocano il diritto a farsela da soli, ciò non è tanto per le attrattive intrinseche del libero esame, che arreca più dolori che gioie, bensì perché hanno ormai bisogno di questa libertà. E questo bisogno può avere una sola origine: il crollo delle credenze tradizionali. Se esse si imponessero sempre con la stessa forza, nemmeno si penserebbe a farne la critica." (Ibidem, pp. 198-199)

"Giungiamo perciò alla conclusione che la superiorità del protestantesimo in materia di suicidio proviene dal fatto che la sua Chiesa è meno fortemente integrata della Chiesa cattolica." (Ibidem, p. 201)

"Insomma, l'influenza benefica della religione non è dovuta alla speciale natura delle sue concezioni. Se protegge l'uomo dal desiderio di distruggersi, non è perché gli predica con argomenti sui generis il rispetto della sua persona, ma perché essa è una società. Ciò che costituisce questa società è l'esistenza di un certo numero di credenze e di pratiche comuni ad ogni fedele, tradizionali e quindi obbligatorie. Più numerosi e forti sono questi stati collettivi, più la comunità religiosa è fortemente integrata e maggiore è la sua virtù preservatrice. Il dettaglio dei dogmi e dei riti è secondario. È invece essenziale che essi siano di natura tale da alimentare una vita collettiva di sufficiente intensità. È proprio perché la Chiesa protestante non ha lo stesso grado di consistenza delle altre che essa non ha sul suicidio la medesima azione moderatrice. […] Ma se la religione preserva dal suicidio, solo in quanto e nella misura in cui è una società, è probabile che altre società possano produrre lo stesso effetto. Osserviamo perciò, da questo punto di vista, la famiglia e la società politica." (Ibidem, pp. 213-214)

"I fatti sono dunque ben lontani dal confermare la concezione corrente secondo la quale il suicidio sarebbe dovuto più che altro agli oneri della vita, perché esso diminuisce, invece, coll’aumentare di questi oneri. È questa una conseguenza del malthusianesimo non prevista dal suo inventore." (Ibidem, p. 247; 249)

"Questi fatti comportano un'unica spiegazione, che le grandi scosse sociali, come le grandi guerre popolari, ravvivano i sentimenti collettivi, stimolano lo spirito di parte come il patriottismo, la fede politica, la fede nazionalistica e, concentrando le attività verso un unico scopo determinano, almeno per un periodo, una più forte integrazione sociale. Non alla crisi è dovuta la salutare influenza di cui abbiamo stabilita l'esistenza, ma alle lotte di cui questa crisi è la causa. Esse costringono infatti gli uomini ad avvicinarsi per far fronte al comune pericolo, e l'individuo pensa meno a se stesso e di più alla cosa comune. D'altronde si capisce che questa integrazione possa non essere solo momentanea, ma sopravviva a volte alle cause che l’hanno immediatamente suscitata, specie quando sia stata intensa.

[…] Abbiamo dunque successivamente stabilito le tre seguenti asserzioni:

- Il suicidio varia in ragione inversa al grado d'integrazione della società religiosa.

- Il suicidio varia in ragione inversa al grado d'integrazione della società domestica. - Il suicidio varia in ragione inversa al grado d'integrazione della società politica.

[…] La causa può trovarsi soltanto in una stessa proprietà che avrebbero in comune i tre gruppi sociali, sebbene in gradi diversi. L'unica che soddisfi a questa condizione è quella di essere tutti e tre dei gruppi sociali fortemente integrati.

Arriviamo cosi a questa conclusione generale: Il suicidio varia in ragione inversa al grado di integrazione dei gruppi sociali di cui fa parte l’individuo.

La società non può disgregarsi senza che l’individuo in egual misura esca dalla vita sociale, senza che i suoi fini personali diventino preponderanti su quelli comuni, e la sua personalità – in una parola – tenda a porsi al di sopra di quella collettiva. Più deboli sono i gruppi cui appartiene, meno egli ne dipende per far capo solo a se stesso e riconoscere come regole di condotta soltanto quelle che si basano sul suo interesse privato.

Se conveniamo di chiamare egoismo questo stato di eccessiva affermazione dell’io individuale nei confronti di quello sociale e ai danni di quest’ultimo, potremmo definire egoistico il particolare tipo di suicidio risultante da una smisurata individualizzazione. […] L'eccessivo individualismo non ha soltanto il risultato di favorire l'azione delle cause suicidogene ma è di per sé una di queste cause. Non solo esso libera da un ostacolo utilmente ingombrante la tendenza suicida che spinge l'uomo a uccidersi, ma crea tale tendenza di tutto punto dando vita a uno speciale suicidio segnato dalla sua impronta. È necessario capire bene ciò che costituisce la natura propria del tipo di suicidio or ora distinto perché in questo trova giustificazione il nome che gli abbiamo dato.

Cosa c'è nell'individualismo che possa spiegare questo risultato? Si è detto talvolta che l'uomo, in virtù della sua costituzione fisiologica, non può vivere se non è legato a qualcosa che lo superi e gli sopravviva, e a motivo di questo bisogno si è dato la necessità che avremmo di non voler morire interamente. La vita è tollerabile, si suol dire, soltanto quando vi si scorge una ragione di essere, quando vi sia uno scopo che ne valga la pena. L’individuo, preso a sé, è troppo poca cosa, non è un fine sufficiente alla sua attività. Non solo egli è limitato nello spazio ma strettamente limitato nel tempo.

Quando non si hanno altri obiettivi all'infuori di noi stessi, non possiamo sfuggire all'idea che i nostri sforzi siano destinati, in fondo, a perdersi in quel nulla dove dovremo finire. Ma l'annullamento ci terrorizza, e in tali condizioni non sapremmo trovare il coraggio di vivere, di agire, di lottare giacché di tanta fatica nulla deve restare. In una parola, lo stato egoistico sarebbe in contraddizione con la natura umana e troppo effimero perché abbia probabilità di durare. In questa forma assoluta l'asserzione è molto contestabile. Se veramente l'idea che dobbiamo perire ci fosse tanto odiosa, accetteremmo di vivere anche a patto di chiudere gli occhi sul valore della vita. Fino a un certo punto è possibile nasconderci la vista del nulla, ma non possiamo impedirgli di essere, e checché si faccia, esso è inevitabile. […]

Fintanto che l’uomo non ha altri bisogni, può bastare a se stesso e vivere felice senza altro obiettivo se non quello di vivere. Questo non è però il caso dell’uomo civile che ha raggiunto l’età adulta. In lui esistono una quantità di idee, di sentimenti, di esperienze che nulla hanno a che vedere con le necessità organiche. L’arte, la morale, la religione, la fede politica, la scienza stessa non hanno il compito di riparare all’usura degli organi né di mantenerne il buon funzionamento. Né sono le sollecitazioni dell’ambiente cosmico a svegliare e sviluppare tutta questa vita ultra-fisica, ma quelle dell’ambiente sociale.

L'azione della società ha suscitato in noi questi sentimenti di simpatia e di solidarietà che ci predispongono verso gli altri; e modellandoci a sua immagine, essa ci ha impregnati di quelle credenze religiose, politiche, morali che presiedono alla nostra condotta. Se abbiamo lavorato a coltivare la nostra intelligenza lo si è fatto per poter svolgere il nostro ruolo sociale ed è sempre la Società che, trasmettendoci la scienza di cui è depositaria, ci fornisce gli strumenti di questo sviluppo. Proprio perché sono di origine collettiva, queste forme superiori dell'attività umana hanno un fine di natura collettiva. Derivando dalla società, ad essa riconducono o, meglio, sono la società stessa incarnata e individualizzata in ognuno di noi. Ma perché esse abbiano una ragione d'essere ai nostri occhi, occorre che l'oggetto cui mirano non ci sia indifferente. E noi possiamo tenere alle une solo nella misura che teniamo all'altra, cioè alla società." (Ibidem, pp. 257-261)

"E gli incidenti della vita privata che sembrano gli immediati ispiratori del suicidio e che ne vengono ritenuti le condizioni determinanti, in realtà sono solo cause occasionali. Se l’individuo cede al minimo urto delle circostanze significa che lo stato della società lo ha reso facile preda del suicidio." (Ibidem, p. 264)

"Il suicidio egoistico deriva dal fatto che la società non ha in tutti i suoi punti una integrazione sufficiente a mantenere i membri in sua dipendenza. Se esso si moltiplica smisuratamente è perché questo stato da cui dipende si è a sua volta eccessivamente diffuso, perché la società, turbata e indebolita, si lascia sfuggire un eccessivo numero di soggetti. Unico modo di rimediare al male è quello di restituire ai gruppi sociali una sufficiente consistenza perché contengano più fortemente l'individuo e perché egli stesso tenga a loro. Egli deve sentirsi più solidale con l'essere collettivo che lo ha preceduto nel tempo, che gli sopravviverà e che lo supera da ogni parte. Solo a questa condizione egli cesserà di cercare in se stesso l'unico obiettivo di condotta e, consapevole di essere uno strumento per un fine che lo supera, si accorgerà di essere utile a qualcosa. La vita ritroverà un significato ai suoi occhi perché avrà di nuovo uno scopo e un orientamento naturali." (Ibidem, p. 441)

Il suicidio altruistico

"Nell'ordine della vita non v'è bene senza misura. Un carattere biologico può conseguire i fini cui è adibito solo a patto di non superare certi limiti. Ciò è vero anche per i fenomeni sociali. Se, come abbiamo visto, una eccessiva individualizzazione porta al suicidio, anche una scarsa individualizzazione produce gli stessi effetti. L 'uomo avulso dalla società si uccide facilmente quanto quello che vi è troppo integrato. […] È stato detto che il suicidio era sconosciuto nelle società inferiori. In questi termini l'asserzione è inesatta. È vero che il suicidio egoistico, quale lo abbiamo ricostituito, non sembra esservi frequente. Ma ce n'è un altro che vi si trova allo stato endemico." (p. 266)

"Il suicidio è dunque molto frequente tra i popoli primitivi, ma vi assume caratteri molto particolari. Tutti i fatti ora ricordati, infatti, rientrano in una delle tre seguenti categorie: - 1) Suicidi di uomini giunti alla soglie della vecchiaia o colpiti da malattie. - 2) Suicidi di donne per la morte dei mariti. - 3) Suicidi di accolti o servitori alla morte dei capi. In tutti questi casi se l’uomo si uccide non è perché se ne prenda il diritto, ma ben diversamente, perché ne ha il dovere. Mancando a questo obbligo è punito col disonore e, spesso, anche col castigo religioso. […]

Sicuramente il sacrificio viene imposto per un fine sociale. Se il fedele non deve sopravvivere al capo o il servitore al principe è perché la costituzione della società implica tra fedeli e padroni, tra ufficiali e re una dipendenza cosi stretta da escludere persino l'idea della separazione. E il destino dell'uno deve essere quello degli altri. I sudditi debbono seguire il capo dovunque vada, anche nell'oltre tomba, assieme ai suoi abiti e alle sue armi; se fosse stato possibile concepire diversamente la subordinazione, essa non sarebbe stata quello che era. Lo stesso avviene per la donna nei confronti del marito. I vecchi, poi, se nella maggior parte dei casi sono costretti a non aspettare la morte deve essere per motivi religiosi. Infatti, si ritiene che lo spirito che protegge la famiglia stia nel suo capo. Ammesso che un dio abiti un corpo estraneo e ne condivida la vita, per forza dovrà attraversarne le fasi di salute e di malattia e invecchiare di pari passo. L'età, perciò, non può diminuire le forze dell'uno senza indebolire anche l'altro, senza che il gruppo stesso venga minacciato nella sua esistenza perché protetto da una divinità senza vigore. Nell'interesse comune, dunque, il padre è tenuto a non aspettare l'estremo limite della vita per trasmettere ai successori il prezioso deposito che ha in custodia. […]

Siamo qui in presenza di un tipo di suicidio distinto dal precedente per caratteri ben delimitati. […] Quello deriva da una società in parte o tutta disgregata che si lascia sfuggire l’individuo, questo perché lo tiene troppo strettamente in sua dipendenza. Avendo chiamato egoismo lo stato in cui si trova l’io che vive la sua vita personale e obbedisce solo a se stesso, la parola altruismo bene esprime lo stato opposto in cui l’io non si appartiene ma si confonde con cosa diversa da sé e dove il polo della condotta viene a trovarsi al di fuori, cioè in un gruppo di cui l’individuo è parte. Chiameremo suicidio altruistico quello risultante da un altruismo intenso. Però, dato che esso presenta anche il carattere di compimento di un dovere, la terminologia adottata deve esprimere anche questa particolarità; definiremo perciò suicidio altruistico obbligatorio il tipo così individuato.

I due aggettivi sono necessari a definirlo perché non ogni suicidio altruistico è obbligatorio. Ve ne sono che la società non impone così espressamente, che sono maggiormente facoltativi. In altri termini, quello altruistico è una specie di suicidio che consta di diverse varietà.

[…] Nelle società di cui si è parlato e in altre dello stesso genere si osservano frequenti suicidi il cui movente immediato e apparente è uno dei più futili. Tito Livio, Cesare, Valerio Massimo ci narrano con stupore misto a ammirazione, della tranquilla calma con cui i barbari della Gallia o della Germania si davano la morte. Vi erano dei Celti che s’impegnavano a farsi uccidere per un po’ di vino e di denaro. Altri ostentavano di non fuggire le fiamme degli incendi o le onde del mare. […] In Polinesia una minima offesa basta spesso determinare un uomo al suicidio. Così presso gli Indiani del Nord America dove un uomo o una donna possono uccidersi a seguito di un litigio coniugale o di un movimento di gelosia. Tra i Dakota, tra i Creek il più piccolo disappunto porta spesso a risoluzioni disperate. Sappiamo con quale facilità i Giapponesi si squarciano il ventre per motivi insignificanti. […] In ognuno di questi casi l’uomo si uccide senza che vi sia espressamente tenuto. Tuttavia tali suicidi hanno la stessa natura di quello obbligatorio. Anche se non sono imposti formalmente dall’opinione pubblica, essa vi è favorevole." (Ibidem, pp. 268-272)

"Mentre l'egoista è triste perché non vede niente di vero nel mondo all'infuori dell'individuo, la tristezza dell'altruista intemperante deriva, al contrario, dal considerare l'individuo privo di realtà. L'uno è distaccato dalla vita perché, non scorgendovi alcuno scopo cui aggrapparsi, sì sente inutile e privo di ragione d'essere, l'altro lo scopo lo avrebbe ma fuori di questa vita e questa gli fa da ostacolo.

La diversità delle cause si ritrova anche negli effetti e la malinconia dell'uno è del tutto diversa da quella dell'altro. Nel primo è formata da un insanabile senso di stanchezza e da uno squallido abbattimento espresso in una completa prostrazione dell'attività che, non potendosi impiegare utilmente, crolla su se stessa; nel secondo, invece, è fatta di speranza e si fonda sul fatto che oltre questa vita esistono le migliori prospettive. E implica anche un entusiasmo e uno slancio di fede impaziente di soddisfarsi che si afferma in atti di grande energia." (Ibidem, p. 275)

"Abbiamo così costituito un secondo tipo di suicidio comprendente anch'esso tre varietà: il suicidio altruistico obbligatorio, il suicidio altruistico facoltativo, il suicidio altruistico acuto di cui quello mistico è il modello perfetto.

Nelle varie forme esso contrasta in modo palese col suicidio egoistico. Legato, quello, alla dura morale che reputa zero ciò che interessa solo l'individuo, questo è solidale all'etica raffinata che pone così in alto la personalità umana da non volerla subordinare a niente. Vi è tra i due tipi tutta la distanza che separa i popoli primitivi dalle nazioni più colte. Tuttavia anche se le società inferiori sono il terreno per eccellenza del suicidio altruistico, lo si ritrova anche in civiltà più recenti. La morte di un certo numero di martiri cristiani può rientrare in questa categoria. Tutti quei neofiti altro non sono che suicidi, che pur non uccidendosi da sé, si fanno deliberatamente uccidere. Pur non dandosi la morte personalmente, la ricercano con tutte le forze e si comportano in modo i da renderla inevitabile. […] Ancora oggi, tuttavia, esiste un ambiente speciale dove il suicidio altruistico si trova allo stato cronico, ed e l’esercito." (Ibidem, pp. 277-278)

"In una parola, il soldato ha il principio della sua condotta fuori da se stesso, il che costituisce la caratteristica dello stato altruistico." (Ibidem, p. 284)


Il suicidio anomico

"La società non è soltanto una cosa che attrae a sé con ineguale intensità i sentimenti e le attività degli individui, ma è anche un potere che li regola. Esiste un rapporto tra la maniera con cui si esercita questa azione regolatrice e il tasso sociale dei suicidi. […] È noto che le crisi economiche hanno un’influenza aggravante sulla tendenza suicida." (p. 293)

"Se […] le crisi industriali o finanziarie aumentano i suicidi non è perché impoveriscono, giacché la crisi di prosperità hanno lo stesso risultato, ma perché sono crisi, cioè delle perturbazioni dell’ordine collettivo. Ogni rottura di equilibrio anche generatrice di grande agiatezza e di un rialzo della vitalità generale, spinge alla morte volontaria. Ogni qualvolta si verifichino gravi rimaneggiamenti sociali, siano essi dovuti a un improvviso movimento di sviluppo o ad un inatteso cataclisma, l’uomo si uccide più facilmente. Come è possibile? Come può staccare dalla vita ciò che di solito si considera un suo miglioramento? […]

Nell’animale, per lo meno allo stato normale, quest’equilibrio si stabilisce con una spontaneità automatica perché dipende da condizioni puramente materiali. […] Non è così per l’uomo, perché la maggior parte dei suoi bisogni non sono dipendenti dal corpo, o non lo sono nello stesso grado. […] Come stabilire, dunque, la quantità di benessere,di comodità, di lusso che un essere umano può legittimamente ricercare ?

Non nella costituzione organica, né in quella psicologica dell’uomo si trova alcunché che possa segnare un termine a simili tendenze. Il funzionamento della vita individuale non esige che si fermino in un punto piuttosto che in un altro, e lo dimostra il fatto che non hanno cessato di svilupparsi dall'inizio della storia, che soddisfazioni sempre più complete sono state loro apportate e che, non per questo, la salute media sia andata indebolendosi. Ma soprattutto, come stabilire il modo con cui debbono variare a seconda delle condizioni, delle professioni, dell'importanza relativa dei servizi e cosi via? Non v'è società in cui siano ugualmente soddisfatti - nei vari gradi della gerarchia sociale. Benché nei suoi tratti essenziali, sia sensibilmente la stessa in tutti i cittadini, non è la natura umana ad assegnare ai bisogni quel limite variabile che sarebbe necessario. Essi sono dunque illimitati in quanto dipendono dall'individuo solo. Di per sè, fatta astrazione da ogni potere estrinseco che la regoli, la nostra sensibilità è un abisso senza fondo che nulla può colmare. Ma allora, se non interviene nulla da fuori a contenerla, non può essere di per sé che fonte di sofferenza.

I desideri illimitati sono per definizione insaziabili e non è senza ragione che l'insaziabilità è considerata un segno di morbosità. Se nulla li limita, superano sempre e all'infinito i mezzi di cui dispongono, e nulla vale a placarli. Una sete inestinguibile è un supplizio eternamente rinnovato." (Ibidem, pp. 299-301)

"Mai gli uomini consentirebbero a limitare i propri desideri se si credessero autorizzati a superare il limite loro assegnato. Ma per le ragioni suddette non possono dettarsi da soli questa legge di giustizia. Dovranno perciò riceverla da una autorità che rispettano e alla quale si inchinano spontaneamente. Soltanto la società, sia direttamente e nel suo insieme, sia mediante uno dei suoi organi è capace di svolgere questa funzione moderatrice, soltanto essa è quel potere morale superiore di cui l'individuo accetta l'autorità. Soltanto essa ha l'autorità necessaria a conferire il diritto e a segnare alle passioni il limite oltre il quale non devono andare." (Ibidem, p. 303)

"È caratteristica dell’uomo essere soggetto a un freno non fisico, ma morale, cioè sociale. Egli non riceve la sua legge da un ambiente materiale che s’impone brutalmente, ma da una coscienza superiore alla sua e di cui sente la superiorità. Proprio perché la maggiore e migliore parte della sua vita trascende il corpo, egli sfugge al giogo del corpo per subire quello della società. Senonché, quando la società è scossa, sia per una crisi dolorosa sia per improvvise, sebbene felici, trasformazioni, essa è provvisoriamente incapace di esercitare questa azione. Da qui provengono queste repentine ascese della curva dei suicidi di cui abbiamo già stabilito l’esistenza. […] Lo stato di non regolamento o di anomia si rafforza dunque perché le passioni sono meno disciplinate proprio quando sono più bisognose di una forte disciplina." (Ibidem, pp. 306-308)

"L'anomia è nelle società moderne un fattore regolare e specifico di suicidio, la fonte precipua cui si alimenta il contingente annuo. Ci troviamo così in presenza di un'altra specie di suicidio che va distinta dagli altri. Esso ne differisce perché dipende non dalla maniera di essere legati alla società degli individui, ma dal modo con cui essa li disciplina.

Il suicidio egoistico viene dal fatto che l'uomo non scorge più ragione alcuna di stare in vita; il suicidio altruistico dal fatto che questa ragione appare fuori della vita medesima; il terzo tipo di suicidio, di cui abbiamo ora constatato l'esistenza, deriva dal fatto che l'attività degli uomini è sregolata ed essi ne soffrono. Per la sua origine, daremo a quest'ultima specie il nome di suicidio anomico.

Non che questo suicidio e quello egoistico siano privi di rapporto di parentela. Ambedue sono frutto di una società non sufficientemente presente all'individuo, senonché la sfera di assenza non è la medesima nei due casi. Nel suicidio egoistico essa fa difetto nell'attività propriamente collettiva, lasciandola sprovvista di oggetto e di significato. Nel suicidio anomico, essa difetta alle passioni individuali, lasciandole senza freno regolatore.

Nonostante la loro affinità, questi due tipi risultano essere indipendenti l'uno dall'altro. Possiamo infatti ricondurre alla società quanto v’è in noi di sociale e non sapere, lo stesso, frenare i nostri desideri; senza essere egoisti possiamo vivere in stato di anomia e viceversa. Talché non è negli stessi ambienti sociali che i due tipi di suicidio reclutano la maggior parte della clientela, uno ha per campo d’elezione le carriere intellettuali, il mondo del pensiero, l’altro il mondo industriale o commerciale. […] L’anomia economica non è tuttavia l’unica a generare il suicidio." (Ibidem, pp. 313-314)

"L’anomia, infatti, sta nel fatto che in certi punti della società mancano le forze collettive, cioè i gruppi costituiti per regolare la vita sociale. È quindi una risultante di quello stato di disgregazione da cui proviene anche la corrente egoistica. Senonché la medesima causa provoca effetti differenti a seconda del punto di incidenza e a seconda che agisca su funzioni attive e pratiche o su funzioni rappresentative. Essa esaspera e rende febbrili le prime, disorienta e sconcerta le seconde. Il rimedio perciò lo stesso in ambo i casi. Infatti, si è constatato che il ruolo principale delle corporazioni sarebbe, nel futuro come per il passato, di regolare le funzioni sociale e, in special modo, quelle economiche e di trarle dallo stato di non organizzazione in cui attualmente si trovano." (Ibidem, pp. 450-451)

"Si è spesso osservato che lo Stato è invadente quanto impotente. Esso fa uno sforzo morboso per estendersi a tutte quelle cose che gli sfuggono e che può afferrare solo violentandole. Donde lo spreco di forze che gli si rimprovera e che è, in effetti, senza rapporto coi risultati ottenuti. D’altra parte, i singoli non sono soggetti ad altra azione collettiva all’infuori della sua, che è l’unica collettività organizzata. Solo suo tramite essi sentono la società e la dipendenza in cui si trovano nei suoi confronti. Ma lo Stato è lontano da loro né può avere su di loro se non una lontana azione intermittente e discontinua. Ecco perché essi non lo sentono presente né con la continuità né con l'energia dovute. Per la maggior parte della loro esistenza essi non trovano attorno a sé nulla che possa trarli fuori da se stessi e imporre un freno. Ed è inevitabile che in tali condizioni essi sprofondino nell'egoismo o nella sregolatezza.

L'uomo non può interessarsi a fini superiori e assoggettarsi a una disciplina se non scorge niente sopra di sé cui essere solidale. Liberarlo da ogni pressione sociale significa abbandonarlo a se stesso e demoralizzarlo. Queste sono le caratteristiche della nostra situazione morale. Mentre lo Stato si gonfia e ipertrofizza per giungere senza riuscirci a conglomerare fortemente gli individui, questi, privi di legami fra loro, rovinano gli uni sugli altri come molecole liquide senza incontrare nessun centro di forze che li trattenga, li fissi e li organizzi.

[…] L'unico decentramento che permetta di moltiplicare i centri della vita comune senza spezzare l’unità nazionale è quello che chiameremo decentramento professionale. Ognuno di questi nuclei, come focolare di un’attività speciale e ristretta, sarebbe inseparabile dall'altro e l'individuo potrebbe quindi parteciparvi senza peraltro essere meno solidale al tutto.

La vita sociale non può suddividersi rimanendo unitaria se non quando ogni suddivisione rappresenti una funzione. È quel che hanno compreso quegli scrittori e uomini politici sempre più numerosi a che vorrebbero fare del gruppo professionale la base dell'organizzazione politica, e cioè suddividere il collegio elettorale non già in circoscrizioni ma in corporazioni. Ma per fare questo occorre intanto creare le corporazioni. Le quali debbono essere altra cosa che non una raccolta d'individui che non avendo niente in comune tra loro si incontrano soltanto il giorno delle votazioni. La corporazione assolverà al compito destinatole unicamente se non rimarrà un'entità convenzionale e diventerà una istituzione ben definita, una persona collettiva con tradizioni e costumi propri, diritti e doveri propri, una sua unità. La difficoltà non sta nel decidere per legge che i rappresentanti siano nominati dalle professioni e quanti ce ne saranno per ognuna, bensì nel fare in modo che ogni corporazione diventi una individualità morale, altrimenti non faremo altro che aggiungere una cornice esterna e fittizia a quelle già esistenti e che vorremmo sostituire." (Ibidem, pp. 457-459)


 

Egoismo, anomia, altruismo

"In particolare vi sono due fattori di suicidio che hanno una reciproca speciale affinità, e sono l'egoismo e l'anomia. Sappiamo, infatti, che essi sono generalmente due diversi aspetti dello stesso stato sociale, non ci sorprende dunque che si incontrino nello stesso individuo.

È anzi quasi inevitabile che l'egoista abbia qualche tendenza alla sregolatezza: avulso com'è dalla società, essa non ha potere di regolarlo. Se tuttavia i suoi desideri normalmente non si esasperano, significa che la sua vita passionale è affievolita dall'essere tutto intero rivolto in se stesso senza attrazione alcuna per il mondo esterno. Può succedere però che egli non sia ne un puro egoista ne un agitato puro. Allora lo vediamo incarnare di volta in volta ambedue le parti. Per colmare il vuoto che sente in sé, cerca nuove sensazioni ma vi mette meno foga del passionale propriamente detto, e se ne stanca anche più presto; ma la stanchezza lo respinge di nuovo in se stesso rafforzando la primitiva melanconia.

Viceversa la sregolatezza non è priva di un germe di egoismo: non saremmo ribelli ad ogni freno sociale se fossimo fortemente socializzati. Senonché, dove l'azione dell'anomia è preponderante, quel germe non può svilupparsi perché, gettando l'uomo fuori da sé, gli impedisce di isolarsi in se stesso. Se però è meno intensa può consentire all'egoismo di produrre qualcuno dei suoi effetti. Ad esempio, il limite che incontra l'inappagato può condurlo a ripiegarsi su se stesso e a cercare nella vita interiore un diversivo alle passioni deluse. Non trovandovi nulla cui interessarsi, ne prova una tristezza che non può che determinarlo a fuggirsi di nuovo aumentando con ciò e l'inquietudine e lo scontento. È cosi che si verificano i suicidi misti dove lo scoramento si alterna all'agitazione, il sogno all'azione, le foghe del desiderio alle meditazioni del malinconico.

L'anomia può parimenti associarsi all'altruismo. Una stessa crisi può sconvolgere l'esistenza di un individuo, rompere l'equilibrio tra lui e il suo ambiente e, nel contempo, mettere le sue disposizioni altruistiche nello stato che l'incita al suicidio. È il caso soprattutto dei suicidi che abbiamo definiti ossidionali. Se gli ebrei si uccisero in massa al momento della presa di Gerusalemme, fu perché la vittoria dei Romani, facendo di loro dei sudditi e dei tributari di Roma, minacciava di trasformare il genere di vita che si erano fatti e perché amavano troppo la loro città e il loro culto per sopravvivere al probabile annientamento dell'uno e dell'altra. Anche all'uomo rovinato capita di uccidersi, sia perché non vuole vivere in una posizione d'inferiorità, sia perché vuole evitare alla famiglia e al nome la vergogna del fallimento. Se gli ufficiali e i sottufficiali si uccidono facilmente al momento di andare in pensione lo fanno sia per il mutamento improvviso del loro modo di vivere, sia per la generale predisposizione che hanno a far poco conto della vita. Ambedue le cause agiscono nella medesima direzione e ne scaturiscono dei suicidi dove l'esaltazione passionale e la fermezza coraggiosa del suicida altruistico si alleano all'esasperato disordine prodotto dall'anomia.

Infine, egoismo e altruismo, pur così opposti tra loro possono unire le proprie azioni. In certi periodi di disgregazione la società non può più servire da obiettivo alle attività individuali, allora si incontrano degli individui, o dei gruppi di individui, i quali pur subendo l'influenza di questo stato generale di egoismo, aspirano ad altre cose. Ben sapendo, però, che è un pessimo rimedio fuggire da sé per andare senza fine da un piacere egoistico all'altro e che i godimenti fuggevoli anche se rinnovati di continuo non calmerebbero mai l'irrequietezza, essi cercano un oggetto duraturo capace di dare un significato alla vita cui attaccarsi con costanza. Senonché non essendovi nulla di reale cui veramente tengano, possono soddisfarsi unicamente costruendo di tutto punto una realtà ideale atta a svolgere quella funzione. Creano con l'immaginazione una realtà fittizia di cui si fanno i servitori e alla quale si dedicano in modo tanto più esclusivo quanto più sono delusi da tutto il resto, o da se stessi. In quella essi ripongono ogni ragione di essere che si attribuiscono e niente altro ha più prezzo ai loro occhi. Vivono in tal modo un'esistenza doppia e contraddittoria: individualisti per quanto riguarda il mondo reale, sono di uno sfrenato altruismo per quanto concerne quell'oggetto ideale. Una o l'altra di queste disposizioni conduce al suicidio." ( pp. 346-348)