Peter L. Berger, Thomas Luckmann

La realtà come costruzione sociale>

il Mulino, Bologna 1969

1.

Dopo quarant’anni dalla sua edizione originale, il libro di Berger e Luckmann è giustamente considerato un classico del pensiero sociologico contemporaneo. Il suo denso fascino non è dovuto solo ad una trama di rimandi culturali che rievocano e reinterpretano il pensiero dei maggiori sociologi (Marx, Durkheim, Weber, G.H. Mead, ecc.), ma ad un’impostazione che si può ritenere ormai inconsueta. Si tratta, infatti, di un saggio che enuncia, nel titolo stesso, un’ipotesi forte e si propone di corroborarla sulla base di un “ragionamento teorico sistematico” il cui fittissimo intreccio rivela lunghe e profonde riflessioni.

Che la realtà, così com’è vissuta dall’uomo, sia una costruzione sociale non crea grandi problemi se si fa riferimento alla storia intellettuale, vale a dire alla storia delle idee. Nessuno dubita che le “visioni del mondo” costruite dai filosofi, dai romanzieri, ecc. sono prodotti intellettuali che si sovrappongono alla realtà e la interpretano in maniera più o meno verosimile. Quando però si prende in analisi la visione del mondo che sottende l’esperienza di un gruppo sociale o di una società e che, essendo accettata da gran parte dei membri, definisce il cosiddetto “senso comune”, c’è il rischio che questa “conoscenza” della realtà, per il suo carattere realistico ed autoevidente, venga assunta anche dai sociologi come un dato poco interessante o comunque non tale da mobilitare un’attenzione specifica.

Secondo Berger e Luckmann, “il problema delle idee, compreso anche lo speciale problema dell’ideologia, costituisce soltanto una parte del più ampio problema della sociologia della conoscenza, e per giunta nemmeno una parte centrale. La sociologia della conoscenza si deve occupare di tutto ciò che passa per “conoscenza” nella società.” (p. 31)

Ciò in ragione del fatto che “solo un gruppo molto ristretto di persone è impegnato a teorizzare nel campo delle idee e della costruzione di Weltanschauungen in qualunque società, ma tutti partecipano della sua “conoscenza” in un modo o nell’altro. In altri termini, solo pochi sono interessati all’interpretazione teoretica del mondo, ma tutti vivono in un certo tipo di mondo” (p 32)

In conseguenza di questo, “la sociologia della conoscenza deve anzitutto occuparsi di quello che la gente “conosce” come “realtà” nella vita quotidiana a livello pre-teoretico o non-teoretico. In altre parole, il principale centro di interesse della sociologia della conoscenza deve essere la “conoscenza” del senso comune piuttosto che delle idee. E’ proprio questa conoscenza che costituisce il tessuto di significati senza il quale nessuna società potrebbe esistere.” (p. 32)

Nessun sociologo, prima di Berger e Luckmann, ha mai assunto il senso comune come oggetto privilegiato di riflessione filosofica e scientifica. Per quest’aspetto, il libro non è solo innovativo, ma unico.

Lo è anche sotto il profilo stilistico. La sociologia contemporanea che, come tutte le discipline umane e sociali, ha assunto una veste scientista, obbliga a scrivere saggi densi di citazioni, di statistiche, ecc. Berger e Luckmann riprendono la tradizione della grande sociologia la cui struttura è argomentativa ed espressiva del loro punto di vista. Nella prefazione essi scrivono: “Che la nostra posizione non sia spuntata dal nulla è ovvio in ogni pagina, ma noi vogliamo che venga giudicata per i suoi propri meriti, non nei termini dei suoi aspetti esegetici o sintetizzanti.” (p. 10)

In conseguenza di questo criterio espositivo, che accetta il rischio di dimostrare la fondatezza di un’ipotesi forte (e radicale), la struttura del libro riconosce solo un’Introduzione e due capitoli (La società come realtà oggettiva e La società come realtà soggettiva) nei quali si trova il nucleo centrale del discorso. Tale nucleo, nella sua dimensione problematica, è definito nelle righe finali dell’introduzione nei seguenti termini: “La società effettivamente possiede una oggettività fattuale, e la società è davvero costruita da un’attività che esprime significati soggettivi… E’ proprio il duplice carattere della società in termini di attualità oggettiva e allo stesso tempo di significato soggettivo che fa sì che la sua sia una “realtà sui generis”… La domanda centrale nella teoria sociologica può allora essere riformulata così: com’è possibile che i significati soggettivi diventino attualità oggettive? Oppure (…) com’è possibile che l’attività umana (handeln) produca un mondo di cose (choses)? In altre parole, per arrivare ad un’adeguata comprensione della “realtà sui generis” della società è necessarai un’indagine sul modo in cui questa realtà viene costruita.” (p. 37)

 

2.

La costruzione sociale della realtà, che infine confluisce nel senso comune, vale a dire in una visione del mondo tipica (ideologica) a cui ogni soggetto, in un determinato contesto storico-culturale, aderisce con la convinzione che essa sia il prodotto della propria personale esperienza, avviene fondamentalmente sulla base di tre momenti costitutivi della vita sociale: l’esteriorizzazione, l’oggettivazione e l’interiorizzazione. I primi due aspetti sono analizzati nel secondo capitolo, l’ultimo nel terzo.

Il dato di partenza è che l’uomo, pur essendo dotato di un’esperienza interiore e di un senso d’identità personale, vive dall’inizio alla fine all’interno di una struttura sociale e in un regime d’interazione continua con gli altri. Questa condizione esistenziale postula che la propria esperienza possa essere comunicata e condivisa con gli altri in virtù di una rete di significati comuni. L’espressione avviene attraverso i segni linguistici, che appartengono ad un sistema che rappresenta un potente esempio di oggettivazione: “In quanto sistema di segni, il linguaggio ha la qualità dell’oggettività. Io incontro il linguaggio come una attualità esterna a me stesso e coercitiva nei suoi effetti su di me. Il linguaggio mi costringe nei suoi modelli.” (p. 62)

Nonché importante sotto il profilo comunicativo, il linguaggio non è però vincolato alla realtà immediata. Esso “è capace di rendere presente una varietà di oggetti che sono spazialmente, temporalmente e socialmente assenti dall’hic et nunc. Ipso facto un enorme cumulo di esperienze e significati può venire oggettivato nell’hic et nunc… Di più, il linguaggio è capace di trascendere del tutto la realtà della vita quotidiana, in quanto può riferirsi ad esperienza che appartengono a sfere circoscritte di significato, e può abbracciare sfere separate di realtà.” (p. 64)

In quanto simbolico, dunque, il linguaggio “si libra in regioni che sono non solo de facto ma a priori inaccessibili all’esperienza quotidiana. [Esso] costruisce immensi edifici che sembrano torreggiare sulla realtà della vita quotidiana come presenze gigantesche appartenenti ad un altro mondo. La religione, la filosofia, l’arte e la scienza sono i sistemi di questo genere storicamente più importanti.” (id)

Attraverso i campi semantici prodotti dal linguaggio  “tanto l’esperienza biografica che quella storica possono venire oggettivate, conservate e accumulate… In virtù di questa accumulazione si costituisce un bagaglio sociale di conoscenze, che si trasmette di generazione in generazione ed è disponibile all’individuo nella vita quotidiana” (p. 65)

Poiché questa è dominata dal movente pragmatico, “una buona parte del bagaglio sociale di conoscenze consiste in “ricette” su come affrontare i problemi di ordinaria amministrazione.” (p. 67) Tale bagaglio, in breve, “mette a disposizione gli schemi di tipizzazione richiesti per le principali routines della vita quotidiana.” (id)

 E’ sulla trama di significati condivisi nella consuetudine o nell’abitualizzazione della vita quotidiana che si originano le istituzioni: “L’istituzionalizzazione ha luogo dovunque vi sia una tipizzazione reciproca di azioni consuetudinarie da parte di gruppi di esecutori… Ciò che va sottolineato è la reciprocità delle tipizzazioni istituzionali e la tipicità non solo delle azioni ma anche degli attori nelle istituzioni. Le tipizzazioni delle azioni istituzionalizzate che costituiscono le istituzioni sono sempre condivise. Esse sono accessibili a tutti i membri del particolare gruppo sociale in questione, e l’istituzione stessa rende simili gli attori individuali e le azioni individuali.” (pp. 83-84)

L’istituzionalizzazione ha una particolare importanza ai fini del funzionamento individuale e sociale. Benché, infatti, le istituzioni hanno sempre una storia, della quale sono il prodotto, esse “per il fatto stesso della loro esistenza, controllano la condotta umana, fissandole modelli prestabiliti, che la incanalano in una direzione anziché in un’altra delle molte che sarebbero teoricamente possibili.” (p. 84) Questa funzione di controllo è, in ogni società, il fondamento di ciò che si definisce “normalità”.

Essendo remoto (e rimosso), il carattere storico delle istituzioni sfugge solitamente agli attori, che dunque tendono a naturalizzare le tipizzazioni su cui esse si fondano. Tale carattere viene poi del tutto meno nel processo di trasmissione alla nuova generazione: “Per i bambini, il mondo trasmesso dai genitori non è pienamente comprensibile; poiché essi non hanno avuto alcuna parte nella sua formazione, esso si pone di fronte a loro come una realtà data che, come la natura, è opaca almeno in certe zone.” (p. 89)

In altri termini, le istituzioni vengono interiorizzate allorché il bambino “è del tutto incapace di distinguere tra l’oggettività dei fenomeni naturali e l’oggettività delle formazioni sociali.” (p. 90)

E’ su questa base che un prodotto storico finisce con l’agire sul produttore e configurarsi ai suoi occhi come una dimensione oggettiva, che lo trascende.

Le coscienze individuali vengono, dunque, ad essere letteralmente irretite entro tradizioni, sedimentate nel corso del tempo, che definiscono i modi in cui la realtà va letta e le formule comportamentali mettendo in opera le quali si consegue l’adattamento. Dunque, “la trasmissione del significato di un’istituzione è fondata sul riconoscimento sociale di quella istituzione come una soluzione “permanente” ad un problema “permanente” della collettività data. Perciò gli attori potenziali delle azioni istituzionalizzate devono essere sistematicamente messi al corrente di quei significati. Questo rende necessaria una qualche forma di processo “educativo”. I significati istituzionali devono essere impressi con forza e indelebilmente nella coscienza dell’individuo. Poiché gli esseri umani sono spesso pigri e smemorati, devono esserci anche dei procedimenti per mezzo dei quali questi significati possano essere reimpressi e reimparati a memoria, se necessario con mezzi coercitivi e generalmente spiacevoli. Inoltre, poiché gli esseri umani sono spesso stupidi, i significati istituzionali tendono a venire semplificati nel processo della trasmissione, perché il complesso dato di “formule” istituzionali possa essere facilmente capito e imparato dalle generazioni successive.” (p. 103)

Il processo di riproduzione delle istituzioni si realizza, infine, attraverso l’assegnazione e l’adepimento dei ruoli (assegnati o conseguiti): “Le istituzioni sono incorporate nell’esperienza individuale per mezzo dei ruoli che, linguisticamente oggettivati, costituiscono un ingrediente essenziale del mondo accessibile di ogni società. Ricoprendo dei ruoli, l’individuo partecipa ad un mondo sociale; interiorizzandoli, egli fa sì che lo stesso mondo diventi soggettivamente reale per lui.” (p. 108) In breve, “ i ruoli rappresentano l’ordine istituzionale… Solo attraverso questa rappresentazione in ruoli svolti l’istituzione si manifesta nell’esperienza effettiva; con il suo complesso di azioni “programmate” essa è come il libretto non scritto di un dramma. La realizzazione del dramma dipende dall’esecuzione ripetuta dei ruoli prescritti da parte di attori viventi. Gli attori incarnano i ruoli e attualizzano il dramma rappresentandolo sulla scena. Né il dramma né l’istituzione esistono empiricamente indipendentemente da questa ricorrente realizzazione.” (p. 109)

Se la tendenza all’istituzionalizzazione è un dato proprio di ogni società umana, in difetto della quale essa non potrebbe raggiungere il minimo di coesione necessaria a funzionare e a riprodursi, “ci si può domandare quale sia la portata dell’istituzionalizzazione nella totalità delle azioni sociali in una data collettività. In altre parole, quanto è esteso il settore di attività istituzionalizzata rispetto al settore non istituzionalizzato? E’ chiaro che in questo campo c’è una variabilità storica, e che le diverse società lasciano uno spazio diverso alle azioni non istituzionalizzate.” (p. 115)

Al di là della portata dell’istituzionalizzazione, un problema di grande interesse “riguarda il modo in cui l’ordine istituzionalizzato viene oggettivato: in che misura esso, o una qualunque sua parte, viene percepito come una attualità non umana? E’ questo il problema della reificazione sociale” (p. 127), vale dire della “percezione dei prodotti dell’attività umana come se fossero qualcosa di diverso dai prodotti umani, per esempio, fatti di natura, risultati di leggi cosmiche o manifestazioni della volontà divina.” (p. 128)

A riguardo, c’è semplicemente da prendere atto che “la reificazione esiste come condizione normale nella coscienza dell’uomo della strada” (p. 129), in quanto “la “ricetta” di base per la reificazione delle istituzioni consiste nel conferire loro una condizione ontologica indipendente dall’attività e dalla comprensione umana.” (p. 130)

Una volta prodotte, le istituzioni vanno però legittimate: “La legittimazione in quanto processo può essere definita una oggettivazione di secondo grado del significato. [Essa] produce nuovi significati che servono a integrare i significati già attribuiti ai diversi processi istituzionali. La funzione della legittimazione è di rendere oggettivamente accessibili e soggettivamente plausibili le oggettivazioni di primo grado che sono state istituzionalizzate.” (p 132)

La funzione della legittimazione consiste nello spiegare “l’ordine istituzionale attribuendo validità conoscitiva ai suoi significati oggettivati” (p. 133) e nel giustificarlo “conferendo dignità di norma ai suoi imperativi pratici.” (id)

Via via che procede la legittimazione raggiunge un certo grado d’autonomia rispetto alle istituzioni legittimate e, alla fine, giunge a configurarsi come un universo simbolico. Ciò significa che “ tutti i settori dell’ordine istituzionale sono integrati in una struttura di riferimento che li include e che costituisce un universo nel senso letterale della parola, perché tutta l’esperienza umana può essere vista come avente luogo all’interno di esso.” (p. 137)

In altri termini, l’universo simbolico (in quanto equivalente ad un’ideologia intesa come visione del mondo totalizzante) “mette ogni cosa al posto giusto” (p. 140) e, cosa ancora più importante, emargina, squalifica, pregiudica o addirittura rimuove tutti i modi di essere, di sentire, di pensare e di agire che non rientrano nel quadro delle legittimazioni su cui si fonda.

Il carattere totalizzante dell’universo simbolico si spiega in virtù del fatto che il suo significato, oltre ad alimentare il senso di sicurezza e di identità delle persone che in esso vivono e ad esso aderiscono, è anzitutto rivolto a proteggere l’uomo dal caos su cui galleggia la sua esperienza sia individuale che collettiva.

Ciò non significa che, una volta prodotto, un universo simbolico sia statico. Esso, infatti, viene ad urtare periodicamente contro tensioni che si producono al suo interno da parte di chi non si riconosce compiutamente in esso o nell’interazione con altri universi simbolici o culture. A tali minacce esso reagisce attraverso la produzione di nuove legittimazioni che, in una società complessa, sono spesso affidate agli “esperti”. In conseguenza dell’attività di questi ultimi all’universo-nucleo comune a tutti e dato per scontato possono sovrapporsi “diversi universi parziali che coesistono in uno stato di reciproco adattamento.” (p. 173)

 

3.

Prodotta dall’uomo, almeno da una fase remota in cui le istituzioni si sono configurate come tradizioni, la società come realtà oggettiva è quella alla quale accede ogni individuo che viene al mondo avviando la sua carriera di socializzazione. L’individuo, infatti, “non nasce membro della società. Egli nasce con una predisposizione alla socialità, e diventa un membro della società.” (p. 179)

L’acquisizione di un’identità sociale e personale avviene attraverso il processo di socializzazione (primaria e secondaria), nel cui corso la realtà sociale viene interiorizzata.

La socializzazione primaria, che investe tutto l’arco evolutivo della personalità, è solitamente la più importante per l’individuo, ma essa si svolge in condizioni tali (dipendenza emotiva dalle figure adulte, idealizzazione, identificazione, tendenza all’imitazione) che l’io che si definisce “è un’entità riflessa, che riflette gli atteggiamenti degli altri nei suoi confronti.” (p. 183). Essa, però , almeno a partire da una certa età, è caratterizzata da “una progressiva astrazione dai ruoli e dagli atteggiamenti degli altri in particolare ai ruoli e agli atteggiamenti in generale.” (p. 184)  E’ su questa base che si definisce l’”altro generalizzato”, la cui formazione nella coscienza, identificata da Mead, “significa che l’individuo ora si identifica non solo con gli altri concreti ma con una generalità di altri, cioè con una società.” (p. 184) Tale formazione “segna una fase decisiva della socializzazione. Implica l’interiorizzazione della società in quanto tale e della realtà oggettiva ivi istituita, e, allo stesso tempo,  l’affermazione soggettiva di un’identità coerente e continua” (p. 185);

“quando l’altro generalizzato è ormai cristallizzato nella coscienza, si istaura un rapporto simmetrico tra realtà soggettiva e realtà oggettiva.” (ibidem)

L’importanza di quest’aspetto, da cui nasce l’individuo come prodotto sociale, non può essere minimizzata. Al tempo stesso, le particolari condizioni in cui avviene rappresentano il calco di una coscienza mistificata. Infatti, “il bambino non interiorizza il mondo delle persone per lui importanti come uno dei molti mondi possibili: lo interiorizza come il mondo, l’unico mondo esistente e concepibile, il mondo tout-court. Per questo il mondo interiorizzato nella socializzazione primaria è tanto più saldamente radicato nella coscienza di quanto lo siano i mondi interiorizzati nelle socializzazioni secondarie.” (p. 187)

La socializzazione primaria “mette così in atto quella che (col senno di poi, naturalmente) si può considerare la più grossa truffa che la società faccia ai danni dell’individuo: far apparire come necessità ciò che in realtà altro non è che un insieme di fatti contingenti, e rendere così significativo l’incidente della sua nascita.” (ibidem)

A questo stadio dello sviluppo della coscienza, le cose non potrebbero andare diversamente. Certo il carattere di realtà assoluta che la cultura assume agli occhi del bambino, essenziale per il definirsi di un’identità stabile e sicura, può determinare uno choc allorché sopravviene la scoperta che alcune cose vanno tutt’altro che bene. Essa, peraltro, almeno sulla carta è destinata a far affiorare qualche dubbio ulteriormente. Ciò dipende, però, dalla socializzazione secondaria, che implica “l’interiorizzazione di “sottomondi” istituzionali o fondati su istituzioni” (p. 191), l’interazione con figure che sono funzionari istituzionali, e l’acquisizione di ruoli e di competenze specifiche (varie a seconda del grado di complessità della società).

Pur non potendosi avvalere della “credulità” intrinseca alla psicologia del bambino, ogni società tende alla conservazione della realtà soggettiva, proprio perché essa è più precaria: “Il carattere più “artificiale” della socializzazione secondaria rende la realtà soggettiva delle sue interiorizzazioni ancora più vulnerabile di fronte alle definizioni rivali di realtà, non perché le interiorizzazioni non vengano date per scontate o percepite come meno che reali nella vita quotidiana, ma perché la loro realtà è meno profondamente radicata nella coscienza e quindi può più facilmente essere destituita d’importanza.” (p. 203)

Il pericolo della crisi inerente la relatività dei valori culturali, sempre incombente, viene di solito scongiurata dall’interazione con gli altri, che, in genere, serve a confermare la validità di quei valori e delle routines comportamentali che essi promuovono e attraverso cui si esprimono.

L’interazione con gli altri, che hanno interiorizzato le stesse istituzioni, è il più solido piedistallo della “normalità”, funzionando di continuo come un processo di normalizzazione e di naturalizzazione delle istituzioni.

La socializzazione secondaria, ovviamente, “ottiene il massimo del successo nelle società in cui c’è una divisione del lavoro molto semplice e una distribuzione minima  della conoscenza. In condizioni di questo genere la socializzazione produce identità socialmente predefinite e con una fisionomia molto ben delineata.” (p. 223)

In società complesse, anche se le istituzioni sono ugualmente interiorizzate nel corso della socializzazione primaria ed esse vengono confermate attraverso l’interazione sociale successivamente, la possibilità della crisi dovuta alla rivalità tra diverse definizioni divergenti della realtà esiste sempre, anche se essa (tranne che, per circostanze storiche non sopravvenga una situazione anomica) ha un carattere marginale.

Contro questo pericolo ogni società adotta delle strategie “terapeutiche” per mantenere almeno coesa la maggioranza dei suoi membri su di una visione del mondo totalizzante condivisa.

Per quest’aspetto, la nostra società ha raggiunto forse un limite estremo: quello “della consapevolezza generale della relatività di tutti i mondi, incluso il proprio, che viene percepito soggettivamente come “un mondo” piuttosto che come “il mondo”. Ne deriva che la propria condotta istituzionale può essere vista come “un ruolo” da cui ci si può staccare nella propria coscienza, e che si può “recitare” controllandolo e manipolandolo.” (p. 234)

4.

In sede di analisi critica, occorre rilevare immediatamente che il compito che Berger e Luckmann si sono proposti (riprendere la distinzione marxiana tra struttura e sovrastruttura, riconducendo la prima allo scambio necessario, comunicativo, tra gli esseri umani  - di cui il mercato  rappresenta una fattispecie - e dando della seconda, vale a dire dell’ideologia, una definizione molto più profonda e articolata rispetto a quella originaria; mediare e integrare la verità presente nel pensiero di Marx, che privilegia le oggettivazioni e le alienazioni che esse promuovono, con la verità presente nel pensiero di Weber, che fa riferimento alla sfera dei significati soggettivi; utilizzare la teoria psicosociologica di Mead per giungere a definire l’identità individuale in termini tali da trovare in essa il punto di congiunzione tra realtà oggettiva e realtà soggettiva) è stato portato a termine con un’incisività che, ancora oggi, ha pochi confronti nella letteratura filosofica, sociologica e psicologica.

Anche se essi, pur riconoscendolo esplicitamente, sfumano il debito nei confronti di Marx, la loro è indubbiamente una teoria dell’alienazione in un’accezione ancor più radicale rispetto al pensiero marxiano. Dal loro punto di vista, infatti, è la realtà istituzionale nel suo complesso (di cui fa parte la produzione economica) ad essere frutto di un’oggettivazione e di una naturalizzazione che la assolutezza, togliendo ad essa il carattere storico, contingente e relativo che le è propria. Non meno della realtà oggettiva, anche quella soggettiva, che si edifica sulla base dell’interiorizzazione delle istituzioni, è inesorabilmente mistificata e alienata.

Il rilievo che Berger e Luckmann danno alla socializzazione primaria e ai suoi effetti sotterraneamente duraturi sulla personalità rappresenta un giusto correttivo della ingenua teoria della coscienza marxista (causa non ultima del fallimento del comunismo storico).

Nessuna teoria dell’ideologia e della strutturazione dell’identità soggettiva può prescindere dallo straordinario lavoro di riflessione operato dagli autori.

Ciò detto, occorre rilevare almeno una lacuna di notevole portata nel saggio. Pur citando marginalmente Freud, Berger e Luckmann, convinti evidentemente che l’interazione comunicativa tra gli esseri umani, che ricade pienamente nell’ambito sociologico, può spiegare sia la costruzione della realtà oggettiva che di quella soggettiva, non assegnano alcun valore ai fattori inconsci. La lacuna è, per alcuni aspetti, comprensibile se si tiene conto che essi fanno riferimento all’inconscio freudiano. Ma, intanto, la teoria di Freud, affrancata dai presupposti pulsionali, soprattutto per quanto concerne il Super-Io appare non solo concorrenziale rispetto all’altro generalizzato di Mead, ma più profonda, perché essa implica il fatto che, attraverso le generazioni, scorrono i valori culturali prodotti da tutte quelle precedenti, spesso veicolati a  livello inconscio.

In secondo luogo, pur considerando la scarsa comunicazione esistente all’epoca tra cultura statunitense e cultura europea (nonostante quest’ultima fosse rappresentata validamente da Marcuse e da Fromm), l’assenza di ogni riferimento all’inconscio sociale definito dagli storici de Les Annales come un elemento strutturale della realtà sociale pesa come un macigno, poiché essa cristallizza le argomentazioni di Berger e di Luckmann su di un registro cognitivo.

Un’ultima considerazione verte sul pluralismo ideologico che gli autori colgono come un tratto distintivo della società occidentale: un tratto critico per quanto concerne il mantenersi di una visione del mondo totalizzante e naturalizzata, ma intrinsecamente e potenzialmente evolutivo nella direzione della disalienazione, della presa d’atto definitiva che la realtà (compresa l’identità personale) è un prodotto storico, una costruzione sociale.

Tale tratto, nel corso degli ultimi anni, è andato incontro, di fatto, ad un’evoluzione di segno non positivo. Per un verso, a livello intellettuale, il relativismo culturale assoluto ha fatto breccia, fino a produrre il cosiddetto pensiero debole, che prescinde non solo dal fatto che la realtà storica abbia senso, ma addirittura che l’uomo possa dare ad essa senso. Per un altro verso, che riguarda il senso comune, si è avuto piuttosto un movimento di senso inverso, con il revival della ricerca di radici identitarie, dell’etnocentrismo, dell’enfatizzazione di valori prodotti dalla civiltà occidentale come universali, ecc.

La disalienazione, in breve, sembra un obbiettivo ancora molto lontano. Il motivo di questo riflusso coincide con il pensiero di fondo che sottende l’opera di Berger e Luckmann. Al di là del fatto che la realtà storico-sociale si configura come sempre più complessa, gli esseri umani sembrano non tollerare il prendere coscienza che la realtà oggettiva e quella soggettiva sono costruzioni sociali perché ciò li costringerebbe a ricostruirne la genesi (impresa faticosissima) e casomai a decostruirle, collocandosi in un mondo di sicuro più umano, ma certamente più dolorosamente consapevole della precarietà e della casualità dell’esistenza.