Arlie Russell Hochschild

Per amore o per denaro

La commercializzazione della vita intima

Il Mulino, Bologna 2006

1.

Qualche tempo fa ho pubblicato un articolo sull’economicismo psicologico, vale a dire sulla progressiva estensione ai rapporti interpersonali, compresi quelli affettivi, di una logica di mercato. Il libro di Arlie Russell consente di approfondire il discorso avviato.

Si tratta, anzitutto, di un testo sociologico non occasionale. L’autrice – docente di Sociologia nell’Università della California a Berkeley – è impegnata da anni sul tema dei cambiamenti sociali conseguenti al massiccio ingresso delle donne nel mondo del lavoro: ingresso che, per un verso, ha rappresentato e rappresenta una grande opportunità per le donne di aumentare il loro grado di autorealizzazione, ma, per un altro, ha squilibrato gli assetti comunitari soprattutto in rapporto alle attività di cura della casa, dei bambini e degli anziani.

La rivoluzione legata alla partecipazione delle donne alla vita pubblica è giunta, pertanto, a configurarsi come una “rivoluzione in stallo”: “le donne sono cambiate, ma non le loro occupazioni fuori casa, né gli uomini che le aspettano a casa, né la società che le circonda. Tutto questo non è cambiato, o lo ha fatto in modo quasi impercettibile, o comunque non funzionale all’adattamento delle famiglie alle esigenze della madre che lavora.” (p. 9)

La conseguenza di questa rivoluzione in stallo – il tema centrale del saggio – è l’invasione da parte del mercato della vita intima, familiare, privata, sotto forma di servizi a pagamento che si fanno carico di bisogni di assistenza e di cura che, in passato, erano soddisfatti dalla rete interpersonale dei rapporti comunitari.

Trovato il modo di incunearsi in un’area dalla quale in precedenza era escluso – quello della vita personale e intima – il mercato tende a modellare la psicologia delle persone in maniera tale da passivizzarle e da convincerle che esse hanno sempre più bisogno di affidare ad altri la propria vita. La necessità di dedicare sempre più tempo al lavoro, da parte di uomini e ormai anche di donne, non spiega solo la necessità di affidare la casa alla colf, i bambini agli asili e alle baby-sitters, gli anziani alle badanti. Essa promuove anche l’affidamento del corpo e dell’anima a tecnici specializzati – estetisti, dietologi, chirurghi plastici, counselors, psicoterapeuti, ecc.

Che senso ha riflettere sulla progressiva invadenza del mercato nella vita privata e nella psicologia delle persone? La risposta dell’autrice è limpida: “il problema non è tanto valutare se comprare un certo prodotto o servizio o comprare in generale, sia giusto sbagliato. Il problema è piuttosto capire ciò che il mercato lascia fuori: la consapevolezza di come la vita potrebbe essere se vissuta in una comunità attiva e in una famiglia fiduciosa, per le quali le persone fossero contente di impegnarsi.” (p. 12)

E’ evidente che il contenuto del libro ricopre solo un’area del fenomeno che io ho designato con il termine di economicismo psicologico, ma presenta molti aspetti intrecciati con quest’ultimo che meritano attenzione.

Come accade spesso ai sociologi contemporanei, l’ottica del saggio è un po’ difettosa di prospettiva storica: essa verte sull’hic et nunc.

Il problema dell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro o, per dire meglio, sul mercato del lavoro capitalistico non può prescindere da quella prospettiva: esso, anzi, ne viene illuminato.  .

L’Autrice rileva nell’Introduzione che, negli Stati Uniti, agli inizi del XX secolo le donne sposate che lavoravano fuori casa erano meno di un quinto della popolazione femminile, mentre nel 2005 esse rappresentavano il 70%. Ma quale era la realtà sociale in precedenza, allorché gran parte della popolazione si dedicava all’agricoltura? Il lavoro evidentemente, sia pure con una distinzione di ruoli, era praticamente condiviso da uomini e donne.

La relativa esclusione delle donne dal lavoro è subentrata con l’industrializzazione e l’urbanizzazione, che, tra l’altro, ha slacciato i vincoli comunitari (con la famiglia allargata e con i paesani). Non si è trattato però di un fenomeno lineare, I salari operai, infatti, fino alle ultime decadi del XIX secolo erano a tal punto bassi che gran parte delle donne dovevano lavorare in fabbrica. Quelle che non lavoravano nell’industria, di solito, andavano a servizio.

La vera rivoluzione nella distribuzione dei ruoli tra uomo e donna è intervenuta con l’avvento della borghesia e si è realizzata originariamente a livello di ricca borghesia.

Il potere astenersi dal lavoro per dedicarsi al governo della casa e dei figli, con un ricco corteo di aiutanti (cameriere, cuoche, baby-sitter), è stato il privilegio delle mogli borghesi, al quale corrispondeva l’esigenza dell’uomo di darsi da fare per mantenere o aumentare un tenore di vita agiato.

Come noto, l’isolamento domestico delle donne borghesi è stato uno dei motivi dell’affiorare nell’800 della grande isteria, spesso complementare alla neurastenia dei mariti impegnati nella dura lotta per sopravvivere.

Nonostante questa conseguenza negativa, il modello della donna borghese affrancata da compiti lavorativi ha esercitato una forte suggestione sulle classi popolari.

Questa suggestione ha fatto sì che, via via che i salari, verso il finire del 1800, sono andati incontro ad una crescita, il numero delle donne che si ritirava dal lavoro per dedicarsi alla casa e ai figli è progressivamente aumentato. Il ritiro era vissuto dalle donne come un privilegio e dai mariti come espressione della loro capacità di provvedere alle esigenze familiari.

Com’era prevedibile, questa sperimentazione su larga scala della distribuzione dei ruoli – donna casalinga, uomo lavoratore – ha esteso il privilegio della nevrosi della casalinga anche alle classi piccolo-borghesi e popolari.

Quel privilegio, inoltre, veniva pagato con una condizione di dipendenza economica dal partner che, in difetto di una legge sul diritto di famiglia, indeboliva a dismisura il potere contrattuale della donna.

Su questo sfondo storico, il lento reingresso delle donne nel mondo del lavoro, che indubbiamente ha riconosciuto un’accelerazione esponenziale con l’avvento del femminismo, rappresenta un fenomeno nel prodursi del quale occorre riconoscere l’incidenza di almeno tre fattori: il desiderio di sottrarsi ad una claustrazione domestica sperimentata come nevrotizzante, un’esigenza di autonomia personale e, in una certa misura, di autorealizzazione, e, infine, il bisogno di incrementare il reddito familiare per assicurarsi un tenore di vita migliore.

Purtroppo, però, questo reingresso è avvenuto nel periodo stesso in cui, almeno nei centri urbani, la famiglia è andata incontro al ben noto fenomeno di nuclearizzazione esitato nel fatto che la donna si è ritrovata di fatto a svolgere due lavori: quello extradomestico e quello domestico.

La conseguenza di questo sovraccarico è il tributo pesante che, in tutti i paesi occidentali, l’universo femminile paga sull’altare dei disturbi psichici.

A partire da queste note storiche, riprendere l’analisi del libro riesce più semplice.

2.

Essendo costruito, come accade sempre più spesso a livello saggistico, come una raccolta di articoli scritti in periodi diversi, il libro ha una qualche disorganicità, anche se il suo tessuto concettuale è piuttosto fitto. Enucleo le ipotesi che mi sembrano più interessanti.

La prima è, in una certa misura, provocatoria. La Russell Hochschild, infatti, sostiene né più né meno che la commercializzazione della vita intima è un prodotto (involontario e perverso) del femminismo. La prova è ricavata da un’analisi dei manuali che, negli ultimi decenni, si sono proposti di insegnare alle donne ad autorealizzarsi. Per liberarle, infatti, dalla maledizione della dipendenza, tali manuali propongono un modello d’indipendenza che finisce con il fare propri i valori dell’autocontrollo sentimentale che, da tempo, il capitalismo ha imposto agli uomini:

“Col proporre un ruolo meno centrale dell’amore, col separare sesso e sentimento, con il suggerimento di aspettare il “momento giusto” per innamorarsi e con la femminilizzazione dell’adulterio, i manuali di psicologia degli anni Ottanta ripropongono alle donne quelle stesse regole per il comportamento nella sfera affettiva che formavano l’identità di genere dell’uomo di classe media e di razza bianca degli anni Cinquanta. Il passaggio è da un doppio codice per i sentimenti – uno per gli uomini e uno per le donne – ad un solo codice unisex, che in realtà è basato sul vecchio codice maschile, ed è anche la transizione da un codice di calore ad uno improntato alla freddezza; entrambi gli aspetti concorrono ad accelerare il progressivo allentarsi dei legami familiari.” (p. 40)

La Hochschild, non ignora che, negli anni ’90, si è definita una controtendenza rispetto a questo codice unisex che, mirando ad aiutare le donne a controllare la loro emozionalità troppo ricca, rischia di sterilizzarle affettivamente, come già accade a molti uomini. Gli esiti di tale controtendenza, nella quale peraltro è confluito anche il conservatorismo di matrice religiosa, non sono ancora percebili socialmente. La realtà rimane dunque caratterizzata da una situazione di stallo, prodotta paradossalmente dall’afflusso della gran parte della popolazione femminile nel mondo del lavoro retribuito. Il problema è che “non soltanto gli uomini stanno cambiando troppo lentamente: c’è il fatto che le donne si stanno orientando nella direzione opposta – quella dell’assimilazione delle vecchie regole maschili – senza accorgersene, ma molto velocemente. Invece di umanizzare gli uomini, stiamo capitalizzando le donne. Se l’idea di una rivoluzione in stallo pone il problema della parità, il concetto di spirito commerciale della vita intima solleva una questione ulteriore: la parità in che termini?” (p. 42)

La capitalizzazione delle donne – termine brutto ma efficace per definire la trasformazione psicosociologica che esse subiscono entrando a pieno titolo a far parte del mercato del lavoro – è il fattore critico della cultura e dell’organizzazione sociale contemporanea. Essa, infatti, ha prodotto un conflitto sempre più evidente, e per alcuni aspetti nuovo nella storia dell’umanità: quello tra mercato e sfera degli affetti, uno dei cui ambiti elettivi di espressione è stata sempre la famiglia.

Il “confine del commerciabile”, rimasto vincolato per secoli alla distinzione tra vita pubblica, incentrata sul lavoro, e dimensione privata, riferita alla pratica affettiva, si è progressivamente spostato, invadendo la seconda, e portando a pensare che tutti i servizi – di accudimento, di cura e di aiuto – che, in passato, si realizzavano sulla base dell’affettività, possono essere soddisfatti a pagamento.

Questa progressiva invasione della cultura del mercato nella vita intima si è realizzata a partire da esigenze reali – quelle delle donne confinate in un ruolo domestico faticoso e produttivo, ma prive di reddito, intenzionate a raggiungere un livello maggiore di autonomia personale -, ma, come accade in conseguenza di trasformazioni sociali di vasta portata, essa ha prodotto cambiamenti estremamente insidiosi a livello di mentalità e di psicologia individuale.

Le relazioni private, infatti, sono state investite e vengono vissute alla luce di categorie tratte dalla cultura di mercato, che, per secoli, sono rimaste ad esse estranee, quali l’efficienza e il tempo produttivo. Per quanto concerne il primo aspetto, la Hochschild scrive che “in America oggi si riscontra una tendenza generale ad attingere al vocabolario commerciale della cultura del mercato per descrivere le relazioni personali.” (p. 180) L’indizio linguistico rivela, ovviamente, l’adozione, sia pure inconsapevole, di una logica economicistica. Per quanto concerne il secondo, la concezione tipica del liberismo secondo la quale “il tempo è denaro, e il denaro è un bene in sé” (p. 181) ha colonizzato la soggettività e la vita privata, relegando la pratica degli affetti nell’ambito del tempo improduttivo.

Efficienza e inefficienza nell’uso del tempo fanno riferimento ad un impiego capace immediatamente di produrre o meno denaro da investire nel consumo. Il nodo ultimo è questo: “Più lavoriamo e spendiamo, più ci sembra che lo scopo della vita sia lavorare e spendere, più sentiamo che il senso della vita è lavorare e spendere, più vediamo le cose attraverso il filtro della cultura di mercato” (p. 182); “Le forze che distolgono dalla vita familiare e spingono verso il mondo del lavoro vengono continuamente alimentate dal consumismo, che lavora per mantenere il rovesciamento di priorità emotive tra i due ambiti. Esposti ad un bombardamento continuo di pubblicità per una media di tre ore di televisione al giorno (metà del tempo libero totale), ci si convince di avere bisogno di più cose, ma per comprarle occorrono soldi, e per guadagnare bisogna lavorare di più... Non appena il lavoro comincia ad essere, più della casa, il luogo dove ci si sente apprezzati, è come il cane che si morde la coda: più si fugge al lavoro per le tensioni di casa, più queste peggiorano, e più aumenta la forza di attrazione del posto di lavoro, che è in grado di soddisfare i nuovi bisogni che si sono creati.” (p. 209)

3.

L’analisi della Hochschild non si può ritenere del tutto originale, poiché essa attinge in maniera evidente alla letteratura (in gran parte marxista) degli anni ’70 sulla mercificazione dell’esistenza e sull’alienazione consumistica. La Hochschild però ha il merito di aggiornare il discorso, facendo leva sulla nuova circostanza rappresentata dal massiccio ingresso delle donne nel mondo del lavoro, e, soprattutto, sottolineando con una notevole finezza l’antitesi intrinseca che si dà tra logica degli affetti e logica del mercato. Via via che questa si afferma a livello di organizzazione della vita sociale e cattura il modo di pensare, di sentire e di agire delle persone, l’affettività tende ad isterilirsi, ad associarsi al calcolo, ad essere vissuta come una zavorra piuttosto che come una dimensione esistenziale che dà colore e senso alla vita.

Di fronte ad una situazione del genere, che è il prodotto di un’evoluzione socio-economica sulla quale gli uomini evidentemente esercitano uno scarso controllo, dominata da ultimo dai bisogni del capitale, c’è da chiedersi cosa fare per evitare che  tutta la sfera delle relazioni interpersonali venga ad essere risucchiata dall’economicismo psicologico.

Le soluzioni proposte sono analizzate nel capitolo conclusivo del libro. La prima soluzione, conservatrice, muove dal colpevolizzare le donne per la loro fuga dal ruolo tradizionale all’insegna di un malsano spirito di autonomia. Essa, dunque, propone “di far ritirare le donne a casa, dove possono fornire assistenza non pagata.” (p. 224)

Al di là del maschilismo implicito in questa soluzione, che fa riferimento alla divisione dei ruoli come un fatto di natura, c’è da considerare che essa è praticamente impossibile. Il reddito femminile sicuramente soddisfa esigenze di autonomia personale, ma, per molti nuclei familiari, rappresenta un fattore che assicura un’esistenza al di sopra della soglia della povertà (relativa).

La seconda soluzione, definita postmoderna, nega semplicemente che il problema esiste. Essa assume la realtà sociale come essa si è definita in seguito allo sviluppo del capitalismo come una sfida che va affrontata prescindendo dai sentimentalismi. In questa ottica, si dà per scontato che sono gli uomini a doversi adattare alla realtà sociale. Essi, quindi, devono rinunciare ai bisogni che in passato potevano essere soddisfatti solo dalla disponibilità di tempo “improduttivo”. Le relazioni private devono dunque istallarsi sul registro della qualità piuttosto che della quantità del tempo, e possono rimanere buone se gli esseri umani rinunciano ad una sorta di infantilismo affettivo che li affligge da sempre.

Si tratta, dunque, di una soluzione adultomorfa, che fa riferimento alla capacità dell’individuo adulto di limitare le sue esigenze affettive, anche senza rinunciare ad esse. Il problema è che essa non può essere estesa al corpo sociale, perché, per esempio, i bambini vengono al mondo con esigenze irriducibili al principio di realtà e gli anziani hanno livelli limitati di autosufficienza.

La terza soluzione, integrata con il sistema, adotta la logica della razionalità e dell’efficienza. Contrariamente alla soluzione postmoderna, essa accetta che l’essere umano abbia bisogno di cure, ma dà per scontato che esse non possano né debbano essere erogate solo dalla famiglia. Tale soluzione, che la Hochschild definisce “fredda”, comporta, per l’appunto, la commercializzazione della vita intima, vale a dire l’istituzionalizzazione delle persone bisognose (bambini e anziani) e l’acquisto di servizi a pagamento funzionali a soddisfare le esigenze di una famiglia che non può contare né sul sacrificio della madre né sulla disponibilità di una rete parentale.

Si tratta, in assoluto, della soluzione più rappresentata nel nostro mondo, ma i cui limiti sono resi evidenti dal fatto che l’efficienza cui fa riferimento è pagata al prezzo di una crescente nevrotizzazione dei membri della famiglia. I bambini precocemente istituzionalizzati, e spesso dalla mattina alla sera, sviluppano, crescendo, forme di disagio psichico sempre più preoccupanti.

La quarta soluzione, meramente ideale, è quella proposta dalla Hochschild stessa. Si tratta di una soluzione “calda e anche moderna” (p. 230), che postula “cambiamenti significativi nel mondo maschile e in quello del lavoro” (id.). In questa ottica, il valore degli affetti va recuperato, ma integrato dal supporto di istituzioni che funzionino in maniera meno asettica di quanto accade attualmente. Occorre, insomma, una “cultura pubblica della cura” (p. 230), tale che i servizi acquistino socialmente prestigio e che gli operatori siano emotivamente motivati. Ciò significa, né più né meno, sopperire alla nuclearizzazione della famiglia con una nuova logica comunitaria, che promuova la solidarietà sociale e l’umanizzazione dei rapporti interpersonali in tutte le sfere in cui essi devono essere protetti dall’alienazione implicita nella logica del mercato.

4.

L’analisi della Hochschild riguardo alla crisi della vita intima - privata, affettiva e familiare – è, per molti aspetti, persuasiva. Essa concerne – è vero - un contesto, quello statunitense, che ha caratteristiche sue proprie. In nessun’altra società occidentale si dà, infatti, la convivenza di un conservatorismo culturale radicale (di matrice religiosa) e di un’accettazione quasi acritica del capitalismo, come se essi non fossero intrinsecamente incompatibili. Pochi dubbi, però, si possono aver riguardo al fatto che il conflitto tra logica degli affetti e cultura di mercato è presente e attivo in tutte le società avanzate.

Se questo è vero, c’è da chiedersi come affrontarlo.

Posto che le tre prime soluzioni cui fa riferimento la Hochschild hanno limiti insormontabili, quella che essa propone – la soluzione calda e moderna – mi sembra di problematica realizzazione. Tale soluzione, infatti, postula che, all’interno di un contesto caratterizzato da una pressione sempre maggiore, anche dal punto di vista psicosociologico, della cultura di mercato, possa delinearsi ed agire una mentalità alternativa che sottrae al mercato la vita privata e l’affronta sulla base di una valorizzazione dell’affettività, della disponibilità personale all’altro, della solidarietà, ecc.

La realtà, forse, è più drammatica di quella rappresentata, peraltro lucidamente, dalla Hochschild. Nella misura in cui, infatti, la logica economicistica di mercato giunge ad irretire la coscienza e l’inconscio individuale e collettivo, il recupero del significato della vita, dell’autorealizzazione e delle relazioni interpersonali su di un registro affrancato dall’efficienza, dal tempo produttivo, dal successo e dal consumo, diventa sempre meno probabile.

La Hochschild sostiene che la cultura del mercato ha prodotto, in termini di progresso, risultati che sono innegabili e positivi. Il problema, da questo punto di vista, non sarebbe metterla in discussione, bensì evitare che essa colonizzi l’intera realtà sociale: lasciarla agire, insomma, laddove essa è veramente efficiente, sul piano della produzione dei beni, e contrastarla laddove, a  livello di vita privata,  rischia di produrre effetti negativi.

Sarebbe confortante pensare che qualcosa del genere sia possibile.

Il problema è che il sistema capitalistico ha una vocazione tale per cui il suo sviluppo non può prescindere dall’estendere il suo dominio su tutta la realtà sociale e sull’intera esperienza umana, dalla nascita alla tomba. Originariamente, esso era rivolto solo alla produzione di beni necessari ad assicurare un tenore di vita più dignitoso e agiato rispetto al passato. Successivamente esso si è posto sul piano della produzione di beni sempre meno corrispondenti ai bisogni umani, inducendo il consumismo. Da qualche anno a questa parte, si sono prodotti almeno due fenomeni significativi. Per un verso, la sollecitazione del sistema ha trasformato l’orientamento consumistico in una dipendenza compulsiva dal consumo, evidentissima nel contesto della società americana. Per un altro verso, alla produzione dei beni si è associata una crescente produzione di servizi, che, ancor più di quanto è avvenuto per la produzione materiale, ha soddisfatto bisogni reali in precedenza soddisfatti dalla comunità e dal gruppo parentale, ma creandone anche altri del tutto falsi.

Sommati tra loro, i due fenomeni hanno determinato una tensione psicosociologica economicistica che, a livelli bassi e medi del corpo sociale, si traduce nel vivere per scongiurare il fantasma della povertà relativa, che è sempre incombente, e, a livelli medio-alti, per incrementare un tenore di vita che è sempre al di sotto dei desideri (e dell’invidia nei confronti di chi ha di più).

Pensare che con un po’ di buona volontà si possa uscire da questa trappola, per cui la vita è ossessivamente incentrata sulla “preoccupazione” economica, è ingenuo.

La commercializzazione della vita intima, come peraltro l’economicismo psicologico a cui essa si riconduce, sono fenomeni reali. Analizzarli come aberrazioni sistemiche cui le persone possono rimediare creando spazi e modi di vivere sottratti alla logica del mercato può essere solo un palliativo.

La soluzione proposta dalla Hochschild rientra nell’ambito di un riformismo culturale – condiviso, oltre che da sociologi, anche da psicologi ed economisti – il quale presume che gli uomini siano in grado di correggere le distorsioni del sistema capitalistico senza coglierle nel loro significato strutturale, anzi apprezzandone l’efficienza sul piano economico, ma rifiutando le conseguenze che il mito dell’efficienza produce a livello soggettivo e collettivo sotto forma di una visione nel mondo che, anche a livello di rapporti privati e affettivi, diventa inesorabilmente economicistica.

 Le conseguenze in questione rientrano nell’ambito dell’alienazione. Analizzarle nei loro aspetti più sottili, come fa la Hochschild, è meritorio. Non capire che esse non possono essere sormontate senza una messa in gioco del mito che le produce – quello appunto dell’efficienza del mercato – è il limite del riformismo culturale.

Dunque, in conclusione, non c’è nulla da fare se non rimanere in attesa di un improbabile cambiamento radicale del sistema? Io penso di no.

Anziché sognare, però, che le persone recuperino il significato degli affetti (circostanza che, se si realizzasse, non risolverebbe il problema di uomini e donne che lavorano dalla mattina alla sera e tornano a casa svuotati di energie, né quello delle donne che, dedicandosi alla casa e ai figli, si “esauriscono” regolarmente), e che i servizi sociali si umanizzino (circostanza anche questa ipotetica, poiché, nell’ambito dei servizi, gli operatori che già operano con umanità sono i più esposti alla sindrome di burn-out), occorrerebbe cominciare a progettare la deistituzionalizzazione della società.

Faccio un esempio concreto. In ogni quartiere urbano, le famiglie tentano l’inserimento dei figli nelle strutture asilari comunali. Gran parte di esse rimangono escluse, e devono rivolgersi alle strutture private o, al limite, ai servizi di una baby-sitter. Di fronte alla scandalosa selezione, molti si chiedono perché il servizio basilare non possa essere corroborato sino a coprire in toto i bisogni della popolazione. La risposta è semplice: le strutture pubbliche hanno – per motivi che non sembra il caso di discutere qui - costi di gestione elevatissimi.

Poniamo per ipotesi che, in un quartiere, le famiglie che hanno bambini in età basilare si associno. Sarebbe oltremodo difficile per esse inventarsi modi alternativi di assicurare ai bambini l’assistenza di cui hanno bisogno, per esempio utilizzando la disponibilità ad ospitare bambini da parte di donne che stanno a casa o mettendo su piccole strutture asilari autogestite (casomai con il concorso anche dei padri)? Progetti del genere potrebbero anche, in una certa misura, essere sovvenzionati dallo Stato.

Il tema della deistituzionalizzazione dei servizi, anticipato avveniristicamente da Illich, va approfondito. Non sembra che ci sia alcuna possibilità di uscire dall’impasse analizzato dalla Hochschild se non riabilitando la capacità creativa delle persone di provvedere alla soddisfazione dei bisogni di assistenza e di aiuto sulla base della cooperazione e della solidarietà sociale.

Anche questa soluzione sarebbe un palliativo, per quanto avanzato rispetto a quelli proposti sinora. Il nodo ultimo, senza la cui soluzione la società occidentale è destinata a commercializzarsi in toto, è – come tutti sanno – la disponibilità di tempo libero. Non è azzardato affermare che qualunque società che pretende dalle persone un impegno lavorativo di circa quaranta ore settimanali è, di fatto, disumana e alienante.