Telmo Piovani

Quella volta che siamo diventati umani


A che cosa serve essere intelligenti? Più precisamente, a che cosa serve essere intelligenti nel modo tipicamente umano? La domanda ci sembra così banale da non meritare neppure di essere presa in considerazione. Essere intelligenti serve ovviamente per sopravvivere, per comprendere il mondo che ci circonda, per interpretare i pensieri degli altri, per immaginare il futuro, per suonare il piano, per dipingere un quadro, per ingannare. Tuttavia, è sufficiente spostare lo sguardo sulla storia profonda per complicare tutto. Anche la nostra intelligenza, come ogni altra caratteristica della natura umana, si è evoluta: un tempo non c’era. Siamo sicuri che la sua utilità attuale corrisponda alla sua origine storica? E soprattutto, “a che cosa serve” è la domanda giusta?

La famiglia ominide fa la sua comparsa in un luogo imprecisato del continente africano intorno a 6-7 milioni di anni fa. La specie Homo sapiens, ultimo virgulto di un lussureggiante cespuglio di antenati, muove i suoi primi passi, sempre in Africa, molto tempo dopo, fra 160 e 200mila anni fa. La sua anatomia slanciata è la stessa di oggi, è “moderna”, come del resto il grosso cervello. Il suo universo cognitivo da cacciatore raccoglitore, invece, è lontano anni luce dal nostro. Si tratta di una specie ben adattata al clima africano, ma in grado di spostarsi e di adeguarsi a nicchie ecologiche eterogenee in virtù delle sue spiccate attitudini sociali e delle tecnologie avanzate. Ma per molti altri aspetti l’Homo sapiens è un ominide al pari di altri suoi predecessori o coetanei con i quali ha convissuto per decine di millenni, fino a poco meno di 30mila anni fa. I segni apparenti di attività simbolica, dalle sepolture rituali all’arte rupestre, sono scarsissimi fino a 50mila anni fa. Poi succede qualcosa di straordinario, che i paleoantropologi chiamano “rivoluzione paleolitica”, e nasce la mente umana moderna con l’intero equipaggiamento di facoltà attualmente in uso.

Come è possibile che a parità di strutture a disposizione, una specie possa evolvere verso capacità così diverse? Quale “gioco” avrebbe l’evoluzione se ciascuna struttura fosse costruita in vista di uno scopo ristretto e non potesse essere usata per altro? In che modo gli esseri umani potrebbero imparare a scrivere, a dipingere o a pianificare un attentato se il nostro cervello si fosse evoluto per la caccia, per la coesione sociale o per qualunque altra cosa, e non potesse trascendere i confini adattativi del suo fine originario?


Da Darwin a Gould

Il problema aveva angustiato lo stesso Charles Darwin quando nel 1872, nella sesta edizione dell’Origine delle specie, si vide costretto ad aggiungere una lunga dissertazione sull’origine degli organi di estrema complessità e perfezione. I creazionisti avevano infatti notato, nella loro critica a Darwin, che in una prospettiva gradualista (il ritmo dell’evoluzione è lento e uniforme) e adattazionista (le strutture organiche vengono fissate dalla selezione naturale per il vantaggio adattativo immediato che procurano nella lotta per la sopravvivenza) era difficile spiegare come lo stadio incipiente di un organo, per esempio un 5% di un’ala o di un occhio, potesse essersi evoluto in vista della sua utilità attuale, dato che non poteva servire all’inizio per volare o per vedere.

La soluzione darwiniana fu ingegnosa, anche se per vari decenni pochi ne colsero la portata innovativa. Darwin introdusse un principio di ridondanza funzionale e sostenne che in natura un organo può svolgere più funzioni o, viceversa, una funzione può essere assolta da più organi. In tal modo, la selezione naturale può convertire una struttura da una certa funzione primaria a un’altra nel corso dell’evoluzione, senza che l’integrità adattativa della specie ne risenta. Anzi, questa capacità di far slittare le funzioni a parità di struttura offre all’evoluzione molti più gradi di libertà. Un organo può dunque avere un “pre-adattamento” per una certa funzione e poi essere cooptato per un’altra.

Ciò significa, come intuì in tutt’altro contesto Friedrich Nietzsche, che l’utilità attuale di una struttura o di un comportamento non coincide necessariamente con la sua origine storica. Ne La genealogia della morale, criticando le concezioni progressioniste della storia, Nietzsche scrive: “Per bene che sia compresa l’utilità di un qualsiasi organo fisiologico, non è per ciò stesso ancora compreso nulla relativamente alla sua origine: comunque ciò possa suonare molesto o sgradevole. Da tempo immemorabile, infatti, si è creduto di comprendere nello scopo comprovabile, nell’utilità di una cosa, di una forma, di un’istituzione, anche il suo fondamento di origine, e così l’occhio sarebbe stato fatto per vedere, la mano per afferrare” (Nietzsche, 1887, tr. it. 1998, p. 66).

Gli organismi più che adattati sono “ri-adattati” e dunque la domanda “a che cosa serve?” non sempre ci aiuta a comprendere l’origine storica di un organo. Il paleontologo Stephen J. Gould, insieme ai colleghi Elisabeth Vrba, Niles Eldredge e Richard Lewontin, negli anni Ottanta e Novanta del Novecento riprese e valorizzò questa intuizione darwiniana in contrapposizione con la visione selezionista e funzionalista di una parte della Sintesi Moderna, proponendo di sostituire il termine pre-adattamento con quello di exaptation (exattamento), cioè un carattere formatosi per una determinata ragione, o anche per nessuna ragione funzionale specifica all’inizio, e poi resosi disponibile per il reclutamento attuale.

Si parla di exaptation in tutti i casi in cui vi sia una cooptazione contingente, per una funzione attuale, di strutture impiegate in passato per funzioni diverse o addirittura per nessuna funzione (un’accezione radicale, quest’ultima, che non era prevista nella teoria del pre-adattamento darwiniano). Il concetto di exaptation non sostituisce quello di adattamento normale, ma lo integra aggiungendo altre possibilità di sviluppo, né pregiudica in alcun modo il ruolo della selezione naturale, la quale in ogni caso ha il compito di fissare nella specie la conversione funzionale exattativa.

La cooptazione funzionale “opportunista” potrebbe essere una chiave di lettura importante per decifrare l’enigma della rivoluzione paleolitica. Attraverso la selezione naturale, il cervello umano potrebbe essersi ingrandito per assolvere a un numero limitato di funzioni legate alla sopravvivenza degli ominidi nella savana. Come conseguenza di questi adattamenti, potrebbero essersi creati alcuni “pennacchi” evolutivi, come li definirono Gould e Lewontin nel 1979, cioè spazi cerebrali liberi utilizzati per una pletora di nuove funzioni non previste dal progetto evolutivo di partenza. Ma non solo: il fenomeno dell’exaptation potrebbe permetterci di raccontare l’emergenza della mente umana moderna aggirando le dicotomie classiche fra continuismo e discontinuismo, fra nature and nurture.


Il grande balzo in avanti

I paleoantropologi hanno battezzato questo misterioso momento come “il grande balzo in avanti” dell’evoluzione umana. La fenomenologia dei reperti di Homo sapiens euroasiatici indica, intorno al periodo che va all’incirca dai 45mila ai 34mila anni fa, quella che molti archeologi, come Randall White e Richard Klein, considerano un’autentica “rivoluzione” adattativa. Emergono capacità cognitive inedite e incommensurabili rispetto a quelle degli altri primati. I comportamenti sociali raggiungono livelli inusitati di complessità e di articolazione.

Un nuovo fenomeno, pur sempre naturale nella sua eccezionalità, ha fatto la sua comparsa sul pianeta: una specie dotata di linguaggio articolato e di spiccate capacità relazionali e simboliche, con forti tendenze all’elaborazione di concetti astratti. Da un ramoscello laterale dell’evoluzione nasce la prima specie biologica autocosciente in grado di porsi domande sul proprio destino e, qualche millennio a venire, sulla propria evoluzione.

Se proviamo a elencare, con l’aiuto della letteratura paleoantropologica più aggiornata, le caratteristiche che l’umanità manifesta nei siti europei in concomitanza con il “grande balzo”, gli elementi di discontinuità appaiono davvero straordinari. L’evoluzione bussa alla porta dell’Homo sapiens e gli consegna il “pacchetto modernità” tutto compreso: compaiono le prime forme di innovazione culturale; le popolazioni umane si dividono in gruppi stabili e omogenei, nasce la diversità culturale e linguistica; esplode la produzione di rappresentazioni simboliche e artistiche; si ritualizzano le pratiche di sepoltura; compaiono i primi indizi di un interesse per la comprensione dei fenomeni naturali; le società di caccia e raccolta si raffinano enormemente.

Cosa può avere innescato questa esplosione di creatività, di mobilità, di immaginazione e di spiritualità? Dobbiamo ricorrere a una causa eccezionale e improvvisa, oppure a una lunga sequenza di progressi graduali? Il sogno di ogni buon paleoantropologo, ammise una volta Ian Tattersall seduto accanto a un bancone colmo di fossili nel suo studio al quarto piano dell’American Museum of Natural History di New York, è oggi quello di trovare la chiave di lettura adeguata per decifrare l’enigma del Grande Balzo del Paleolitico, capire cosa possa essere successo di tanto straordinario da trasformare una specie stabile, fino ad allora non molto diversa dalle precedenti, in un portento di creatività. Se si studiano i siti archeologici più antichi, anteriori a 60mila anni fa, si trovano infatti tracce poco sistematiche di simboli, di credenze e, soprattutto, scarse tracce di una diversificazione culturale. Anche se non tutti gli scienziati concordano, la discontinuità sembra essersi realizzata in poco tempo, come se una nuova creatura, l’ominide dotato di intelligenza simbolica e capace di dipingere in una caverna buia i paesaggi della sua esistenza, avesse fatto la sua comparsa sulla Terra.

A uno sguardo più attento, tuttavia, continuità e discontinuità si compenetrano intimamente: è come se in questa fase cruciale una parte della natura, quale noi siamo, avesse tentato di emanciparsi dalla natura medesima, trascendendo se stessa e accentuando caratteristiche di unicità rispetto a qualsiasi altra forma animale. La specie umana è una proprietà emergente della natura, con la quale essa instaura un rapporto di continuità e di divergenza al contempo: continuità perché il legame biologico non si interrompe mai, ma evolve insieme alla specie; divergenza perché attraverso le molteplici soglie di contingenza che hanno punteggiato la nostra storia “exattativa” un lungo cammino evolutivo ha creato una specie senza eguali.


Tra natura e cultura

È dunque la dimensione storica, contingente e planetaria dell’Homo sapiens a renderlo una creatura al contempo molto naturale e molto “speciale”. Questo processo, peraltro, è ben lontano dall’esaurirsi. Quaranta millenni dopo il “grande balzo” noi siamo la prima specie capace di studiare il proprio corredo genetico, di esercitarsi nella delicata pratica dell’ingegneria genetica su altre forme viventi e sulla propria. E questo è pur sempre un problema di continuità con la propria biologia, con il proprio destino evolutivo: che cosa succede quando una specie raggiunge questo livello di conoscenza?

Può sopravvivere a lungo un primate di grossa taglia, nato anatomicamente poco più di 150mila anni fa e intellettualmente 40mila anni fa, divenuto rapidamente capace di manipolare la propria identità biologica?

Uno sguardo al tempo profondo della specie umana cambia la percezione della nostra collocazione nel mondo naturale. Siamo il frutto di una sequenza eccezionale di grandi accelerazioni contingenti che hanno agitato l’oceano sterminato dei quattro miliardi di anni di vita precedente e che ci hanno proiettati su uno stretto sentiero evolutivo in bilico fra gli splendori della creatività e l’abisso dell’autodistruzione.

In senso evoluzionistico, noi ancora oggi stiamo esplorando le potenzialità della rivoluzione paleolitica e ancora oggi facciamo i conti con la sua invenzione maggiore: la diversità culturale. In senso evoluzionistico, una definizione compiuta di che cosa significhi essere “umani” e di che cosa ci abbia resi così ambiguamente speciali ancora non ci è data. Sarebbe più preciso se, anziché “esseri umani” (human beings), usassimo il termine “divenienti umani” (human becomings).

Quella volta che siamo diventati umani, da qualche parte fra l’Africa e l’Eurasia, si è aperta la danza coevolutiva fra natura e cultura, fra innato e acquisito, fra eredità ancestrale e apprendimento. Secondo l’epistemologa americana Susan Oyama, le due dimensioni sono così intrecciate in un unico “sistema di sviluppo” da apparire praticamente inscindibili, tanto che neppure lo studio della loro “interazione” (per esempio, fra geni e ambiente) sembra descriverne adeguatamente la compenetrazione. Oggi siamo “naturali per cultura”, perché la nostra nicchia ecologica, come ha notato efficacemente lo scienziato cognitivo Terrence Deacon, è quella di una specie simbolica, immersa in un contesto culturale che può addirittura retroagire sulla nostra costituzione biologica e neurale. Ma quando carpiremo il segreto della rivoluzione paleolitica potremo dire di essere anche “culturali per natura”, cioè figli di una filogenesi naturale che ha trasformato la materia grigia in immaginazione senza l’intervento di alcuna mano invisibile.

Se possiamo modificare intenzionalmente l’identità biologica nostra e delle altre specie, se possiamo sempre più “ibridare” l’identità umana con l’alterità animale e tecnologica, significa che saremo sempre più “naturali attraverso la cultura”. Viceversa, quando sapremo ricostruire il percorso e i meccanismi evolutivi che hanno fatto emergere l’intelligenza umana autocosciente in una specie “sapiens” uscita dall’Africa, potremo finalmente affermare anche il reciproco, ovvero che siamo “culturali attraverso la natura”.

Potremo cioè abbattere le ultime resistenze che impediscono una spiegazione pienamente naturale delle origini della mente umana, quale risultato di una complessa dinamica di speciazioni, di derive e di riorganizzazioni neurali poi fissate dalla selezione naturale, comprendendo che anche la cultura è parte dello sviluppo naturale degli esseri umani e che la rivoluzione darwiniana iniziata con L’origine dell’uomo del 1871 può finalmente compiersi.


L’uomo di Neanderthal

Svelare il segreto del “grande balzo” in avanti non è facile, i dati paleontologici sono avari di indicazioni e gli scienziati sono divisi fra una ridda di ipotesi spesso contrastanti. Non vi è accordo nemmeno sul luogo dell’evento. È esploso in una regione specifica per poi propagarsi a tutte le popolazioni umane oppure è emerso contemporaneamente in diverse zone del pianeta?

Gli artisti che hanno messo le loro firme nella grotta di Lascaux e negli altri siti rupestri appartenevano ai primi gruppi di Homo sapiens insediatisi in Europa. Dai rinvenimenti conosciuti finora appare evidente che l’uomo di Neanderthal, benché ben adattato ad ambienti diversi e dotato di ottime capacità intellettuali, non ha partecipato al “grande balzo in avanti”. Non si hanno segni duraturi né di attività simbolica e artistica né di consistenti innovazioni e diversificazioni culturali nei siti neandertaliani. Diversamente, i segnali della creatività simbolica dell’Homo sapiens non riguardano oggi soltanto l’uomo di Cro-Magnon europeo, ma vanno a collocarsi in un puzzle temporale e spaziale planetario di difficilissima lettura. Innovazioni tecnologiche significative, come le punte di osso e gli strumenti su lama, e oggetti ornamentali come perline compaiono in Africa intorno a 80-60mila anni fa.

La retrodatazione dei dipinti rupestri fino a 32mila anni fa mostra che le popolazioni di Cro- Magnon raggiunsero e occuparono l’Europa quando già avevano sviluppato le loro capacità di innovazione, di diversificazione culturale e di produzione simbolica. Il tempo intercorso fra il loro arrivo e i primi esempi di arte rupestre e di scultura, che fin da subito rivelano grande cura e raffinatezza smentendo la classica teoria degli “stadi progressivi” di sviluppo dell’arte parietale (ne discute in modo brillante Gould nella sua ultima raccolta di saggi I fossili di Leonardo e il pony di Sofia), sembra troppo breve per ipotizzare un’evoluzione lenta e graduale delle loro capacità cognitive.

A favore di una concezione non gradualista dell’evoluzione umana nel Paleolitico vi è poi la scoperta che i tempi di sviluppo delle tecnologie e delle invenzioni sono spaiati. Le innovazioni compaiono improvvisamente e sporadicamente, in zone diverse. Talvolta un’innovazione viene “dimenticata” per molto tempo prima di diventare d’uso comune. Secondo i sostenitori dell’“ipotesi dell’intelligenza sociale” come Randall White, l’uomo aveva rapidamente sviluppato capacità linguistiche e comunicative inedite ed era dotato, che fosse un adattamento funzionale o meno, di un grado elevato di autocoscienza. Il cambiamento tecnologico e culturale subì dunque un’improvvisa accelerazione.

Nell’ambito delle ricerche sull’evoluzione biologica della mente umana moderna e del linguaggio, molti paleoantropologi, fra cui Niles Eldredge e Ian Tattersall, sottoscrivono invece la tesi del neuroscienziato George Sacher, secondo cui il linguaggio sarebbe stata un’invenzione pressoché istantanea in termini evolutivi, legata alla circostanza che il cervello raggiunse un volume critico e che il cranio subì cambiamenti anatomici tali da consentirne l’attuale articolazione (teoria definita del “salto quantico neurale”).

Come sostenne già nel 1976 Glynn Isaac, a fronte di un graduale processo di sviluppo anatomico che durava già da molte migliaia di anni, nel Paleolitico superiore si assiste a un vero e proprio “equilibrio punteggiato” nell’evoluzione culturale. Lo sviluppo graduale della morfologia moderna precedette lo sviluppo rapido del comportamento moderno. Secondo Richard Leakey e Dean Falk, viceversa, il linguaggio si sarebbe evoluto lentamente, per selezione naturale, a partire dalle prime specie di Homo, come rivelato dalla presenza dell’area di Broca e dell’asimmetria cerebrale già in esemplari di Homo habilis.

Le due ipotesi, di un’accelerazione recente o di una graduale e antica evoluzione, non si escludono necessariamente. Lo studio dell’anatomia cerebrale e dell’apparato vocale delle diverse forme del genere Homo, introdotto fra gli altri da Ralph Holloway, da Jeffrey Laitman e da John Bradshaw, ha dato in questo senso un prezioso contributo. L’aumento del volume cerebrale, l’espansione della faringe e la comparsa delle aree preposte al linguaggio sono fenomeni strettamente intrecciati fin da tempi molto anteriori al Paleolitico e risalgono fino all’Homo erectus.

Ma la differenza di “ritmo” evolutivo è molto netta proprio all’interno della giovane specie Homo sapiens. I ritrovamenti più recenti sembrano confermare l’origine separata dell’anatomia moderna, comparsa intorno a 150mila anni fa, e del comportamento moderno, che esplode soltanto 40mila anni fa. Per tutto il periodo della convivenza con “Neanderthal” in Medio Oriente, sapiens non rivela un’attitudine spiccata all’attività simbolica e anche la sua tecnologia non è più avanzata di quella della specie cugina. Solo quando l’uomo di Neanderthal scompare dalla zona cominciano a emergere modalità di comportamento sociale e simbolico che possiamo considerare “moderne”. Possiamo davvero pensare che questa esplosione di creatività simbolica sia soltanto il frutto di una più elaborata organizzazione sociale, che ha permesso ad alcuni membri delle tribù di liberarsi dalle impellenze della caccia e di avere quindi “tempo libero” per l’arte, oppure è avvenuta una trasformazione cognitiva all’interno di una popolazione della nostra specie che poi si è diffusa per migrazione? In ogni caso, le due “modernità”, quella anatomica e quella cognitiva, sembrano stranamente separate.


Una storia naturale della coscienza

Darwin credeva nell’emergenza graduale della mente umana e delle facoltà superiori dell’uomo nel corso dell’evoluzione: siamo diventati “umani” e “moderni” attraverso un’infinita serie di piccoli passi impercettibili. Il co-scopritore della selezione naturale, Alfred Wallace, riteneva invece questa prospettiva troppo materialistica: d’accordo che la selezione naturale può spiegare tutto, ma non l’origine del senso morale e religioso: la mente umana doveva essere sorta in un colpo solo, grazie a un’improvvisa rottura evolutiva favorita da un intervento sovrannaturale (una posizione, di parziale accettazione della teoria evoluzionistica, adottata nel 1996 anche dal magistero della Chiesa cattolica).

Confondere l’efficacia attuale delle nostre facoltà “superiori” con la loro origine potrebbe essere rischioso. Che tipo di storia ci racconta l’evoluzione del linguaggio? È stata forse una storia di accumuli lenti e graduali di competenze relazionali e comportamentali crescenti? In tal caso, dovremo supporre che la selezione naturale ha “visto” nel linguaggio una risorsa adattativa della massima importanza e l’ha favorita costantemente, facendo procedere l’evoluzione attraverso una sequenza di forme intermedie di comunicazione fino all’apice raggiunto dall’Homo sapiens.

Questa spiegazione è, in effetti, molto plausibile, tenuto conto che anche piccoli miglioramenti nella comunicazione non verbale e poi verbale hanno senza dubbio offerto un vantaggio adattativo consistente ai loro possessori. Eppure qualcosa non quadra nella documentazione paleontologica.

Se la complessità della comunicazione verbale è cresciuta gradualmente, perché “il grande balzo in avanti” si è prodotto così tardi nel corso dell’evoluzione? L’Homo sapiens possedeva il corredo anatomico, neurale e comportamentale necessario già centomila anni prima: perché ha aspettato tanto? Perché non ci sono segni forti di un avvicinamento graduale e progressivo alla produzione simbolica, all’arte, alla spiritualità e alla diversità culturale?

La presenza di questa discontinuità è ancora più sconcertante se pensiamo che l’evoluzione cerebrale era cominciata nel genere Homo più di due milioni di anni prima e che il suo ritmo era stato molto graduale. In questo lasso di tempo il cervello ha raggiunto un volume (relativo alla massa corporea) tre volte maggiore rispetto a quello degli altri primati.

Ma non è stata soltanto un’evoluzione quantitativa: le parti più giovani dell’encefalo (appartenenti alla cosiddetta “neocorteccia”) si sono aggiunte in modo non meccanico alle parti più primitive (sistema limbico, cervelletto, tronco encefalico), creando un’architettura anatomica complessa nella quale talvolta la coordinazione delle parti “superiori” è mediata da strutture presenti nelle parti più antiche. Si sa che le aree del cervello si sono sviluppate diversamente nel genere Homo, anche se non vi è stata la comparsa di alcuna struttura che non fosse già presente nelle scimmie antropomorfe: è stata una questione di organizzazione, di connessione fra le parti e di crescita differenziale.

Rimane però un indizio intrigante da considerare. Le capacità di elaborazione simbolica e di astrazione espresse dagli uomini di Cro- Magnon sembrano in qualche modo connesse sia allo sviluppo del linguaggio articolato sia all’emergenza di una forma nuova di intelligenza, un’intelligenza pienamente autocosciente. Un campo di studio promettente è stato inaugurato pochi anni fa da alcuni “paleoneurologi” e paleoantropologi convinti che “il grande balzo in avanti” del Paleolitico superiore sia connesso all’innesco di un anello ricorsivo fra l’evoluzione del linguaggio articolato e l’evoluzione della coscienza introspettiva.

La questione cruciale è proprio capire se l’evoluzione di un’intelligenza autocosciente sia strettamente dipendente dalla presenza del linguaggio articolato, come hanno sostenuto William Noble e Iain Davidson nel 1996; oppure se è possibile che le forme ominidi più antiche possedessero comunque un embrione di pensiero cosciente, una sorta di “attenzione incosciente”, come è stata definita da Stephen Toulmin. Secondo Toulmin sarebbe infatti possibile costruire arnesi attivando una forma di attenzione automatica, non cosciente. Questa si sarebbe poi evoluta, attraverso una serie di stadi, fino all’attenzione cosciente e all’articolazione del comportamento autocosciente, organizzato secondo piani stabiliti e condiviso con altri attraverso il linguaggio articolato.

Tuttavia, il quadro si complica se pensiamo che la deduzione dell’origine evolutiva del linguaggio dalla sua utilità attuale è stata posta in discussione da ricerche recenti. Il neurologo Harry Jerison ha delineato un modello dell’evoluzione del cervello da questo punto di vista estremamente interessante: il linguaggio ha avuto naturalmente un ruolo decisivo nella comunicazione umana, ma questa potrebbe essere una conseguenza del suo sviluppo e non la sua causa. Secondo Jerison, il linguaggio è nato come effetto collaterale di una facoltà diversa che il cervello aveva cominciato a sviluppare come adattamento: la coscienza introspettiva e immaginativa. È nei dialoghi interiori della incipiente coscienza umana, impegnata a creare un modello e un’interpretazione attendibili della realtà, che il linguaggio trova la sua origine.

In questo processo coevolutivo, la coscienza introspettiva, il linguaggio e la complessità della dimensione intersoggettiva umana si alimentano reciprocamente. La coscienza si evolve in un contesto sociale divenuto altamente competitivo; essa si sviluppa adattativamente al fine di prevedere, per proiezione di se stessi sugli altri, il comportamento degli altri. In questo contesto, già da sempre intersoggettivo, si evolve la capacità linguistica, che a sua volta accelera il processo di formazione di un’autocoscienza e di una vita sociale ulteriormente elaborate.


Il “decollo” della mente umana

Una domanda rimane tuttavia inevasa: quando ha avuto origine la coscienza? E più precisamente, l’emergenza della coscienza è stata un evento graduale o repentino? L’opzione dell’etologo Nicholas Humphrey è nettamente discontinuista, o tutto o niente: possiamo arguire che nel corso dell’evoluzione, con l’accorciarsi degli anelli sensoriali e l’intensificarsi del loro grado di fedeltà, si sia toccata una soglia oltre cui è d’un tratto emersa la coscienza, proprio come c’è una soglia oltre cui si passa dal sonno alla veglia.

In realtà il modello di Humphrey non esclude la gradualità: è un modello che potremmo definire per “latenza e innesco”. Dopo una fase anche molto lunga di trasformazioni fisiche e anatomiche latenti, si raggiunge una soglia oltre la quale si innesca un processo di riorganizzazione repentina. Il fatto sorprendente è che un modello simile sta avendo in questi anni riscontri importanti proprio nel campo della paleoantropologia. È come se l’intelligenza fosse a un certo punto “decollata”, come se avesse improvvisamente acquisito la portanza necessaria per sollevarsi dopo una lunga rincorsa a terra. Nel cespuglio ramificato delle forme ominidi, portatrici senz’altro di molteplici “forme di intelligenza” a noi sconosciute, compare una riorganizzazione mai sperimentata prima a partire dagli stessi elementi del sistema neurale.

Il segreto è stato forse una miscela di continuità naturale e di discontinuità storica. Secondo Tattersall, la coscienza è un prodotto del nostro cervello, il quale a sua volta è un prodotto dell’evoluzione, ma le proprietà del cervello umano sono emergenti e sono il risultato di una serie di acquisizioni casuali (naturalmente basate sull’eccezionale risultato di una lunga storia evolutiva) le quali possono essere state favorite dalla selezione naturale solo dopo che il cervello si era già formato.La selezione naturale, nella maggior parte dei casi (e sicuramente nei casi più interessanti), interviene dopo l’emergenza della “forma”, assegnando a essa una funzione, e non prima. Il cervello umano attuale non si sarebbe evoluto così perché indispensabile a una qualche funzione biologica corrente (che neppure Humphrey identifica chiaramente, se non riferendosi genericamente a una certa capacità di “comprensione intersoggettiva” utile per un comportamento sociale elaborato e competitivo), ma per una riorganizzazione contingente a partire da una struttura anatomica ridondante prodotta da una lunga storia evolutiva. Questa riorganizzazione complessiva ha prodotto un “modello” di ominide che non si è limitato a raffinare le capacità precedentemente sviluppate all’interno dei diversi ramoscelli del cespuglio, ma ha inaugurato un modo totalmente nuovo di essere umani, una concezione qualitativamente distinta di “umanità”.


Quando si abbassa la laringe…

In accordo con la ricostruzione modulare (peraltro ancora molto speculativa e non priva di lacune) di Steven Mithen, oggi molti scienziati, fra i quali principalmente Ian Tattersall e Jeffrey Lieberman, stanno lavorando all’ipotesi per cui l’innesco cruciale dell’intelligenza simbolica sarebbe in qualche modo connesso all’emergenza del linguaggio articolato. Quest’ultimo, a sua volta, sarebbe un exaptation legato alla morfologia allungata della gola. L’abbassamento della laringe comporta un allungamento dello spazio faringeo, all’interno del quale avviene la modificazione del suono proveniente dalle corde vocali. È una trasformazione anatomica molto rischiosa per una specie, perché la discesa della laringe impedisce all’animale di deglutire e di respirare allo stesso tempo, esponendolo al rischio continuo di soffocamento.

Nessun mammifero eccetto l’Homo sapiens ha adottato questa modificazione e anche i cuccioli umani, fino all’età di due anni, rimangono con la laringe alta per poter succhiare il latte e respirare contemporaneamente: entrambi non possiedono l’apparato necessario per il linguaggio articolato. Il linguaggio articolato nasce dunque con il marchio del rischio: per godere dei suoi vantaggi dobbiamo correre il pericolo del soffocamento.

Le strutture dell’apparato vocale naturalmente non si sono conservate nella documentazione archeologica, ma la sommità del tratto sopralaringeo potrebbe avere un corrispettivo nella forma assunta dalla base del cranio, che si può invece osservare nei fossili. La retrocessione del palato produrrebbe infatti una piccola flessione della base cranica. Se la laringe si è abbassata, aprendo lo spazio faringeo necessario per l’articolazione del suono, la base del cranio risulta più arrotondata per poter accogliere la faringe più alta. Questa magia anatomica, che si ripete nello sviluppo di ogni bambino (ontogenesi), deve essersi prodotta per la prima volta anche nel corso dell’evoluzione ominide e poi della nostra specie (filogenesi).

Probabilmente, come ha notato l’anatomista Jeffrey Laitman, la discesa della laringe sarà stata motivata inizialmente da esigenze respiratorie (forse connesse all’adattamento a climi secchi e caldi) oppure da esigenze di espressione vocale non articolata e si sarà poi trasformata in un ottimo exaptation per l’emissione modulata della voce. Una qualche funzione adattativa primaria, non linguistica, deve avere gradualmente favorito l’allungamento del tratto sopralaringeo dall’Homo erectus in poi, nonostante il pericolo del soffocamento.

In termini cronologici questa teoria implica che nell’Homo sapiens si sia sviluppato fin dalle origini l’exaptation anatomico per il linguaggio articolato, ma che soltanto molto tempo dopo la nascita della nostra specie si sia prodotto l’innesco necessario a sfruttarlo. Per quasi 80mila anni siamo stati una specie exattativa, cioè dotata di una riserva di strutture anatomiche e neurali ridondanti che poi, intorno a 40mila anni fa, abbiamo cooptato per dare avvio alla rivoluzione dell’intelligenza simbolica, del linguaggio articolato e del ragionamento astratto. Questo potrebbe spiegare l’evoluzione separata dell’anatomia e dei comportamenti simbolici dell’Homo sapiens, nato una prima volta nell’anatomia e nato una seconda volta nell’intelligenza. Da questa alchimia funzionale e morfologica la nostra specie è rinata e si è scoperta capace di dipingere i grandi santuari della creatività umana: l’uomo rinasce a Lascaux e Altamira, rinasce per l’immaginazione, per la fantasia, per la speculazione metafisica, nonché per la globalizzazione della sua presenza sulla Terra.

Diversamente dall’Homo neanderthalensis, intorno a 40mila anni fa, il cervello della specie Homo sapiens era dunque ben “exattato” per il linguaggio e il ragionamento simbolico, in virtù di vantaggi adattativi primari che stentiamo a riconoscere ma che in qualche modo dovevano essere connessi alle prime forme di ragionamento intuitivo oppure alle dinamiche dello sviluppo individuale. Mancava soltanto uno stimolo, un innesco per passare all’intelligenza simbolica, per dire l’indicibile, per accorgersi di ciò che era sempre stato lì e non avevamo mai visto. Ma quale tipo di stimolo?

La velocità di diffusione del nuovo comportamento è così alta che difficilmente l’innesco può essere stato di tipo anatomico, perché ciò presupporrebbe una sostituzione di popolazioni. È molto più probabile, secondo Clive Gamble, uno stimolo di tipo culturale o sociale, nato all’interno di una popolazione e poi trasmesso rapidamente a tutta la specie per diffusione.


Un cervello polivalente

Così tutto avvenne in un “batter di ciglia” evolutivo all’interno di una piccola popolazione stanziata chissà dove. Le strutture dell’intelligenza sarebbero, in questo senso, il frutto di una deriva evolutiva singolare, l’esito di una sequenza di eventi contingenti e irreversibili, un’emergenza tardiva e improvvisa innescata da un piccolo cambiamento.

Se davvero siamo figli di ingegnosi exaptations morfologici, la nostra natura attuale è più dipendente dai mutamenti climatici imprevedibili che hanno deviato il corso delle ramificazioni nel nostro cespuglio, che non da tendenze evolutive progressive. Le ragioni di queste svolte storiche parzialmente slegate dai valori adattativi precedenti mostrano come sia fuorviante interpretare l’esito attuale come l’unico possibile, come il solo approdo necessario di una storia prevedibile di progresso e di emancipazione dalla condizione animale. La nostra solitudine di specie e la nostra “superiorità” sono forse un dato di fatto contingente.

L’evoluzione successiva dell’intelligenza umana, a parità di strutture neurali, diventa una sequenza di exaptations. Come ha scritto Gould nel suo monumentale testamento scientifico, La struttura della teoria dell’evoluzione (2002), “i pennacchi a cascata del cervello umano non dovranno forse essere più influenti dei presunti adattamenti primari degli antenati africani cacciatori-raccoglitori per fissare i contorni di ciò che chiamiamo natura umana?” (tr. it. cit. p. 1566).

Molti comportamenti umani e molte proprietà del cervello umano potrebbero non essere adattamenti diretti, ma conseguenze collaterali, riadattamenti, cooptazioni funzionali. Fra essi, Gould menziona attività della massima importanza come le capacità linguistiche, la lettura, la scrittura, la produzione artistica, l’elaborazione religiosa.

Alcuni neurobiologi e scienziati della cognizione hanno accolto in questi anni l’invito a un’applicazione dell’exaptation all’evoluzione cognitiva e neurale, con risultati incoraggianti. La capacità dei circuiti neurali di acquisire con estrema flessibilità e rapidità funzioni per le quali non erano stati “programmati” nel corso dell’evoluzione, caratteristica che John Robert Skoyles e altri neuroscienziati hanno definito “plasticità neurale”, potrebbe essere da un lato un ottimo adattamento (la plasticità neurale, così come la plasticità di altri tessuti, garantirebbe una buona coordinazione dello sviluppo neurale, in sostanza la possibilità di espandere adattativamente alcune aree a scapito di altre nel corso dello sviluppo), dall’altro un’utilissima riserva di exaptations possibili: nel corso dell’evoluzione circuiti inizialmente dedicati a determinate funzioni adattative vengono cooptati per funzioni differenti al mutare del contesto. Migrazioni neurali, compensazioni, ristrutturazioni, inaspettate conversioni (cortecce uditive che diventano visive, e viceversa) ci restituiscono l’immagine di un cervello polivalente, le cui componenti, anche se momentaneamente focalizzate su un compito, possono assumere funzioni completamente diverse da quelle per le quali sembrano essersi evolute. Da queste ricerche sembra dunque emergere un’immagine dell’evoluzione della psicologia umana intesa come continua apertura di possibilità nuove, non iscritte in un programma innato fissato adattativamente per selezione naturale.

Come ha notato Nicholas Humphrey, questi studi presuppongono la disponibilità ad affrontare il sistema neurale come sistema evolutivo, frutto di una storia intesa come esplorazione di possibilità, e non più soltanto a partire da un modello astratto di ciò che il cervello sembra fare nel qui e ora. Il cervello, più che un organo adattato, sembra una congerie di riorganizzazioni, un organo versatile pieno di “ri-adattamenti”, con aree e mappe nuove costruite sulle vecchie, convertite a nuove funzioni, ristrutturate. Forse allora ciò che è stato concisamente definito “capacità umana” non è derivato per estrapolazione lineare dalle tendenze più remote della nostra linea evolutiva. Si tratta di qualcosa di più simile a una “proprietà emergente”, per mezzo della quale una nuova combinazione di caratteristiche produce un risultato inatteso.

Le strutture dell’intelligenza umana (come del resto quelle della locomozione) sarebbero dunque il frutto di una deriva evolutiva singolare, l’esito di una sequenza di eventi contingenti e irreversibili, un’emergenza tardiva e improvvisa innescata da un piccolo cambiamento.


Alla periferia dell’impero della biodiversità

Per Nietzsche una “volontà di potenza” formativa fa presa sulla storia, influenzando ogni uso o riadattamento secondario successivo. Nella concezione strutturalista che ha motivato l’idea di exaptation, invece, a far presa sulla storia sono i vincoli di sviluppo, i canali morfogenetici che si trasformano di utilizzo in utilizzo, coevolvendo con le funzioni assunte di volta in volta, in una danza fra dimensione strutturale e dimensione funzionale, fra forme e funzioni, che guida l’evoluzione lungo traiettorie imprevedibili.

Quella volta che siamo diventati umani è successo dunque qualcosa di normale e di unico al contempo. Su un ramo laterale alla periferia dell’impero della biodiversità ha avuto inizio un nuovo esperimento di vita e di conoscenza, un evento contingente che difficilmente potrebbe ripetersi una seconda volta. A noi la responsabilità di coltivarlo il più a lungo possibile.

In chiusura di uno dei suoi ultimi saggi, dedicato all’arte rupestre del Paleolitico, Gould annota (1998, tr. it. cit. p. 184): “Abbiamo sempre amato l’arcobaleno, da 30mila anni a questa parte. Per tutto il tempo trascorso da allora ci siamo sforzati di dipingere la bellezza e la forza della natura. L’arte di Chauvet (e di Lascaux, di Altamira...) eleva il nostro cuore perché su quelle pareti noi vediamo i nostri inizi e sappiamo che, anche allora, avevamo in noi qualcosa di grande