Stephen Jay Gould

Il pollice del panda

Il Saggiatore, Milano 2001

1.

Paleontologo e biologo evoluzionista, S. J. Gould si può ritenere, a mio avviso, una delle menti più fervide del Novecento. Intellettuale progressista, di formazione marxista, dotato di una vasta cultura, di molteplici interessi, prolifico autore di libri divulgativi di successo, fermamente convinto del carattere intrinsecamente rivoluzionario della scienza, egli è stato nondimeno uno studioso di grande profondità. I saggi divulgativi (Intelligenza e pregiudizio, Quando i cavalli avevano le dita, Come un dinosauro nel pagliaio, Il millennio che non c’è, I pilastri del tempo e Il pollice del panda) lo hanno reso famoso in tutto il mondo. Oltre, però, ad essere coautore (con Luria) del più bel trattato recente di biologia universitaria, per il quale ha scritto una splendida sintesi dell’evoluzionismo (una cui sintesi mi auguro di riuscire a pubblicare quanto prima), illustrando anche le sue ipotesi “revisionistiche”, egli ha concluso la sua carriera intellettuale e la sua portando a termine un libro poderoso (La struttura della teoria evoluzionistica, Edizioni, Torino 2003), che si può considerare per ora l’analisi più dettagliata e penetrante del pensiero di Darwin e dei suoi sviluppi nel corso del tempo.

Anziché recensire quest’ultimo libro, che si può ritenere una lettura proibitiva per il lettore medio (tra l’altro non corredata dal curatore di un glossario, che, a mio avviso, sarebbe stato indispensabile data l’abbondanza dei termini tecnici usati dall’autore), preferisco dedicare l’attenzione a uno dei saggi divulgativi – Il pollice del Panda– perché, nonostante l’apparente frammentarietà degli articoli in esso raccolti, il pensiero di Gould riesce oltremodo chiaro.

Nel prologo Gould sottolinea che l’apparente eterogeneità degli articoli è compensata da alcuni temi che li percorrono i quali fanno capo ai “nodi” ancora attualmente problematici della teoria evoluzionistica:

La teoria dell'evoluzione sta esportando il suo impatto e le sue spiegazioni in tutti i campi. Basta pensare all'eccitazione che essa genera in campi tanto diversi come lo studio dei meccanismi di base del DNA, l'embriologia e lo studio del comportamento...

Tuttavia, col diffondersi della teoria di Darwin, alcuni dei suoi postulati più celebrati stanno perdendo terreno o, almeno, riducendo la loro generalità. La «sintesi moderna», la versione contemporanea del darwinismo che ha dominato per trent'anni, considera il modello della sostituzione adattativa del gene all'interno delle popolazioni come una spiegazione che, per estensione e accumulazione, può essere applicata all'intera storia della vita.

Il modello può funzionare efficacemente a livello empirico nei casi di modificazioni adattative localizzate e di minore importanza: la Biston betularia [una farfalla] è effettivamente diventata nera a causa della sostituzione di un singolo gene avvenuta come risposta selettiva che garantiva una minor visibilità dell'insetto sugli alberi che l'inquinamento industriale aveva annerito. Ma è possibile ipotizzare che una nuova specie emerga solo grazie a questo processo esteso ad un maggior numero di geni e con un effetto più vasto? E possibile concludere che le tendenze evolutive più importanti all'interno delle principali linee ereditarie siano dovute solo all'accumulazione di successive mutazioni adattative?

Molti evoluzionisti (tra i quali includo me stesso) cominciano a mettere in discussione questa sintesi e ad affermare che i differenti livelli delle modificazioni evolutive riflettono spesso differenti tipi di cause. Gli aggiustamenti di minor entità all'interno delle popolazioni possono senza dubbio essere sequenziali e adattativi. Ma la speciazione può essere prodotta da modifiche a livello dei cromosomi che determinano l'impossibilità di accoppiamenti fecondi tra le specie per ragioni che non hanno alcun rapporto con le necessità adattative. Le tendenze evolutive potrebbero rappresentare una sorta di selezione a livello superiore che si esercita su specie in se stesse essenzialmente statiche, piuttosto che l'azione di trasformazioni lente e regolari all'interno di un'unica, grande popolazione nel corso di tempi incalcolabili.

Prima della sintesi moderna, molti biologi (tra i quali Bateson nel 1922) manifestarono la loro confusione e la loro depressione di fronte al fatto che i meccanismi proposti per spiegare un'evoluzione a diversi livelli erano così contraddittori da impedire la creazione di una scienza unificata. Dopo la sintesi moderna, si diffuse la concezione (che tra i suoi più accesi sostenitori assunse le caratteristiche di un dogma) che tutta l'evoluzione fosse riducibile al darwinismo di base che sosteneva il concetto del cambiamento adattativo graduale all'interno di singole popolazioni. A mio avviso, oggi siamo in grado di percorrere una strada intermedia tra l'anarchia che caratterizzava il periodo di Bateson e la visione ristretta proposta dalla sintesi moderna. La spiegazione proposta dalla sintesi moderna funziona efficacemente per il ristretto campo dal quale si è sviluppata, ma gli stessi processi di mutazione e selezione proposti da Darwin potrebbero agire in maniera sorprendentemente diversa a più alti livelli di una gerarchia evolutiva. Ritengo che possiamo ancora sperare nell'uniformità delle cause e, di conseguenza, in un'unica teoria che si sviluppi attorno ad un nucleo tipicamente darwiniano. Tuttavia dobbiamo fare i conti con la molteplicità dei meccanismi che ci impedisce di spiegare i fenomeni che appartengono a livelli superiori con il modello della sostituzione adattativa del gene sviluppatosi dall'analisi di fenomeni di livello inferiore.

Le radici di questo fermento affondano nella irriducibile complessità della natura. Gli organismi non sono palle da biliardo che vengono spinte sul tavolo verso nuove posizioni da forze esterne semplici e misurabili. I sistemi sufficientemente complessi presentano una ben maggiore ricchezza. Gli organismi hanno una storia che contiene il loro futuro in modi sottili e molteplici. La complessità delle loro forme contiene una quantità di funzioni che si sono sviluppate incidentalmente rispetto alle pressioni della selezione naturale subite dalla struttura primitiva. Gli intricati e largamente sconosciuti modi del loro sviluppo embrionale ci garantiscono che fattori semplici (ad esempio, una modesta trasformazione dei ritmi di crescita) possono aver dato luogo ai più sorprendenti risultati.” (pp. 4-6)

In breve: la teoria evoluzionistica è fuori discussione; la selezione naturale è il meccanismo fondamentale ma non unico dell’evoluzione; l’ipotesi dei lenti e graduali cambiamenti genetici che avverrebbero a livello di individui va sormontata considerando la possibilità che tali cambiamenti avvengano anche più rapidamente a livello di gruppo; oltre a funzioni adattive, occorre considerare anche funzioni che si sono sviluppate incidentalmente, in conseguenza di una trasformazione dei ritmi di crescita.

Queste tematiche trovano il più ampio svolgimento nel cap. 17 (La natura episodica del cambiamento evolutivo), che riproduco integralmente:

“Il 23 novembre 1859, il giorno prima che il suo rivoluzionario libro facesse la sua esplosiva comparsa, Charles Darwin ricevette una lettera sorprendente dal suo amico Thomas Henry Huxley. Questi gli offriva il suo caloroso appoggio e si dichiarava pronto perfino al supremo sacrificio: «Se sarà necessario, son pronto ad andare sin sul rogo... mi preparo affilando le unghie e i denti». La lettera conteneva però anche un avvertimento: «Vi siete sobbarcato una difficoltà non necessaria quando avete adottato senza riserve il principio del Natura non facit saltus».

L'espressione latina, attribuita a Linneo, afferma che la natura non procede per salti». Darwin fu uno strenuo sostenitore di questo antico motto. In quanto discepolo di Charles Lyell, apostolo del gradualismo in geologia, Darwin considerava l'evoluzione come un processo regolare e ordinato, operante a velocità cosI bassa che nessun essere umano può sperare di osservarne l'opera nel corso della vita. I progenitori e i discendenti, secondo Darwin, devono essere collegati da «legami di transizione infinitamente numerosi» formanti una successione di sottili passaggi graduali; solo un tempo lunghissimo ha permesso a questo lento processo di ottenere tanto.

Huxley riteneva che Darwin stesse scavando la fossa alla sua stessa teoria. La selezione naturale non implicava alcun postulato sulla velocità, essa poteva operare altrettanto bene a ritmo sostenuto. La strada da percorrere era già abbastanza difficoltosa, perché imbrigliare la teoria della selezione naturale con un assunto non necessario e probabilmente falso? I documenti fossili non sembravano offrire prove di un processo, graduale: intere specie apparivano come spazzate via in intervalli di tempo sorprendentemente brevi. Nuove specie quasi sempre apparivano all'improvviso nei documenti fossili, senza legami intermedi con antenati nelle roche piü antiche delle stesse regioni. Secondo Huxley, l'evoluzione poteva procedere tanto velocemente che il lento e irregolare processo di sedimentazione di rado l'ha colta sul fatto.

Lo scontro tra i sostenitori dell'evoluzione rapida e quelli dell'evoluzione graduale era stato particolarmente acceso nei circoli geologici negli anni dell'apprendistato scientifico di Darwin. Non so perché Darwin scelse di seguire decisamente Lyell e i gradualisti, ma di una cosa sono certo, la preferenza per un punto di vista o per un altro non aveva nulla a che vedere con il modo di considerare i dati empirici. Su questa questione, la natura si è espressa (e continua ad esprimersi) con voci contrastanti. Preferenze culturali e metodologiche hanno influenzato le scelte almeno quanto i vincoli dei dati.

Su di un tema cosI fondamentale come è quello di una filosofia generale del cambiamento, la scienza e la società lavorano in genere affiancate. I sistemi statici delle monarchie europee ottennero l'appoggio di frotte di studiosi, che li considerarono incarnazioni dell'ordine naturale. Alexander Pope ha scritto: «L'ordine è la prima legge del cielo; una volta detto questo, alcuni sono, e devono essere, superiori agli altri».

Quando le monarchie cominciarono a cadere e il XVIII secolo divenne un'era di rivoluzioni, gli scienziati iniziarono a considerare il cambiamento come parte di un ordine universale e non come qualche cosa di aberrante ed eccezionale. Gli studiosi cominciarono allora a trasferire alla natura il programma liberale di lenti e ordinati cambiamenti che auspicavano per la trasformazione della società umana. Molti scienziati consideravano i cataclismi naturali eventi tremendi quanto il terrore di cui era rimasto vittima il loro grande collega Lavoisier.

Tuttavia, i reperti geologici sembravano poter dare ragione sia alla teoria dei cataclismi che a quella dei cambiamenti graduali. Di conseguenza, per difendere il gradualismo come ritmo quasi universale, Darwin dovette adottare il metodo di Lyell e rifiutare le apparenze fenomeniche, i portati del senso comune in favore di una «realtà” sottostante. (Contrariamente a quel che sostiene la tradizione, Lyell e Darwin non erano eroi della vera scienza che difendevano l'obiettività contro gli attacchi dei fantasmi teologici sollevati da «catastrofisti» come Cuvier e Buckland. I sostenitori della teoria delle catastrofi erano difensori della scienza altrettanto validi dei gradualisti; in realtà, adottavano il piü obiettivo punto di vista secondo cui si deve credere a ciò che si vede e non interpolare pezzi mancanti di una documentazione graduale in un contesto di rapido cambiamento.) In breve, Darwin sosteneva che i reperti geologici erano assolutamente insufficienti e li paragonava ad un libro del quale siano rimaste solo poche pagine, e di ogni pagina poche righe, e di ogni riga poche parole. Noi non siamo in grado di vedere il lento cambiamento evolutivo nei documenti fossili perché possiamo studiare solo un numero limitato di passaggi. Il cambiamento ci appare improvviso perché ci mancano i dati relativi ai passaggi intermedi.

La rarità di reperti fossili che testimonino delle forme di transizione rimane un segreto problema della paleontologia. Gli alberi evolutivi che popolano i nostri testi possono vantare il sostegno dei dati solo per quanto riguarda le estremità e i nodi dei rami; il resto sono supposizioni, anche se ragionevoli, non sostanziate da alcun ritrovamento fossile. Tuttavia, Darwin era talmente preso dall'ipotesi del gradualismo da basare tutta la sua teoria sulla negazione di queste prove evidenti: «I nostri documenti geologici sono estremamente imperfetti, e ciò spiega perché non troviamo varietà intermedie che colleghino insieme tutte le forme estinte a quelle esistenti attraverso passaggi graduali della maggior sottigliezza possibile. Chi respinge questo punto di vista sui documenti geologici rigetterà giustamente l'intera mia teoria.»

La spiegazione di Darwin è tuttora la scappatoia preferita dalla maggior parte dei paleontologi di fronte all'imbarazzo prodotto da documenti che sembrano mostrare cosI poco del cammino dell'evoluzione. Nel presentare le radici culturali e metodologiche del gradualismo, io non intendo negare la validità di questa teoria (tutte le teorie hanno radici dello stesso genere). Voglio solo indicare che non è mai stata «letta» nelle rocce.

I paleontologi hanno dovuto pagare un prezzo altissimo per quanto sostenuto da Darwin. Noi ci picchiamo di essere gli unici studiosi autentici della storia della vita, eppure, per conservare la nostra teoria preferita sull'evoluzione basata sulla selezione naturale, consideriamo cosI cattivi i nostri dati che quasi mai arriviamo a vedere il vero processo che diciamo di studiare.

Sono molti anni che Niles Eldredge, dell'American Museum of Natural History di New York, ed io ci battiamo perché sia superato questo paradosso poco simpatico. Noi crediamo che l'avvertimento di Huxley fosse valido. La moderna teoria dell'evoluzione non ha bisogno di postulare un cambiamento graduale. I processi darwiniani dovrebbero funzionare esattamente nel modo mostrato dai documenti fossili. E il gradualismo che deve essere rigettato e non il darwinismo.

La storia della maggior parte delle specie fossili presenta due caratteristiche che sono in contraddizione con la teoria del gradualismo:

1. La stasi. La maggior parte di queste specie non mostra alcun cambiamento in una particolare direzione durante la loro permanenza sulla Terra. Nei documenti fossili esse mostrano al loro apparire lo stesso aspetto che hanno alla loro scomparsa: i cambiamenti morfologici sono in genere limitati e privi di direzione.

2. L'improvvisa comparsa. In tutte le zone in cui questo si è verificato le specie non sono emerse gradualmente dalla trasformazione stabile dei loro progenitori, esse sono apparse all'improvviso e «completamente formate».

Sono due i principali modi di procedere dell'evoluzione. Il primo è quello della trasformazione filetica, un'intera popolazione cambia da uno stato all'altro. Se tutti i cambiamenti evolutivi avvenissero in questo modo la vita non esisterebbe a lungo. La trasformazione filetica non prevede alcun aumento della diversità, si tratta solo della trasformazione di una cosa in un'altra. Poiché l'estinzione (per eliminazione e non per evoluzione in qualche cosa di differente) è cosI comune, un biota privo di meccanismi per aumentare la diversità verrebbe presto spazzato via. Il secondo modo, la speciazione, ripopola la Terra. Nuove specie emergono da un ceppo ancora esistente.

Darwin certamente riconobbe e discusse il processo di speciazione. Egli tuttavia improntò la sua argomentazione riguardo al cambiamento evolutivo quasi esclusivamente sulla base della trasformazione filetica. In questo contesto, i fenomeni di stasi e di comparsa improvvisa difficilmente potrebbero essere attribuiti a qualcosa di diverso dalla imperfezione dei documenti fossili: se le specie emergono dalla trasformazione di intere popolazioni progenitrici e se non vediamo quasi mai la trasformazione (perché le specie sono essenzialmente statiche), allora i nostri reperti devono essere disperatamente incompleti.

Eldredge ed io siamo convinti che la speciazione sia responsabile di quasi tutti i cambiamenti evolutivi. Inoltre il suo modo di operare è una garanzia del fatto che i documenti fossili sono prevalentemente caratterizzati dalla stasi e dalla comparsa improvvisa.

Tutte le più importanti teorie sulla speciazione sostengono che le scissioni avvengono rapidamente in popolazioni molto piccole. La teoria della speciazione geografica o allopatrica è quella favorita dalla maggior parte degli evoluzionisti per la maggior parte delle situazioni (allopatrico significa «in un altro posto»)1. Una nuova specie può emergere quando un segmento della popolazione madre viene isolato alla periferia della zona da essa originariamente abitata. Le popolazioni centrali grandi e stabili hanno una forte influenza uniformante. CosI le nuove mutazioni favorevoli sono diluite dal grosso della popolazione nella quale devono diffondersi. Esse possono lentamente aumentare la loro frequenza, ma i cambiamenti ambientali in genere ne annullano il valore selettivo prima che possano fissarsi. CosI, le trasformazioni filetiche in grandi popolazioni dovrebbero essere rare, come confermano i documenti fossili.

Ma i piccoli gruppi isolati alla periferia sono tagliati fuori dal ceppo originario. Essi vivono come minuscole popolazioni agli estremi lembi delle terre popolate dal ceppo d'origine. La pressione selettiva su questi gruppi è in genere troppo forte, perché le periferie segnano i confini della tolleranza ecologica per le forme ancestrali. Le variazioni favorevoli si diffondono rapidamente. I piccoli gruppi isolati alla periferia sono un laboratorio per il cambiamento evolutivo. Che cosa deve esserci nei documenti fossili se l'evoluzione ha luogo, per lo più, per speciazione in gruppi isolati periferici? Le specie dovrebbero apparire statiche perché i fossili che rimangono sono quelli delle grandi popolazioni centrali. In una regione abitata dai progenitori una specie discendente dovrebbe apparire all'improvviso per immigrazione dalla periferia nella quale si è evoluta. Nelle zone periferiche dovrebbe essere possibile trovare prove dirette di speciazione ma sarebbe una rara fortuna, perché l'evento ha luogo rapidamente in una popolazione piccola. CosI i documenti fossili sono testimoni fedeli di ciò che la teoria dell'evoluzione predice e non i poveri resti di una storia molto più ricca. Eldredge ed io definiamo questo modello degli equilibri punteggiati.

Le specie rimangono statiche per la maggior parte della loro storia ma rapide speciazioni di quando in quando punteggiano questa tranquillità. L'evoluzione è costituita dalla sopravvivenza differenziale e dall'amplificazione differenziata di questa «punteggiatura». (Quando descrivo la speciazione di gruppi isolati periferici come rapida, parlo dal punto di vista del geologo. Il processo può impiegare centinaia ed anche migliaia di anni; non sareste in grado di vedere nulla anche se osservaste delle api in speciazione per tutta la vostra vita. Ma un migliaio di anni non è che una minuscola frazione dell' 1% dell'esistenza media della maggior parte delle specie invertebrate fossili che, in genere, si aggira attorno ai 5-10 milioni di anni. I geologi raramente possono analizzare un intervallo di tempo cosI breve, noi tendiamo a considerarlo come un attimo.) Se il gradualismo rappresenta un prodotto della cultura occidentale, piuttosto che un fatto di natura, allora dovremo cercare una nuova filosofia del cambiamento per allargare il nostro orizzonte oltre i confini del pregiudizio.

In Unione Sovietica, ad esempio, gli scienziati si basano su di una teoria del cambiamento completamente diversa: le cosiddette leggi della dialettica riformulate da Engels a partire dalla filosofia di Hegel. Le leggi della dialettica hanno molto in comune con il concetto di equilibrio per punti. Esse parlano, ad esempio, della «trasformazione di quantità in qualità». Questo potrebbe apparire confuso, ma suggerisce che i cambiamenti avvengono attraverso grandi salti in seguito ad una lenta accumulazione di sforzi a cui il sistema oppone la sua resistenza fino a che non ha raggiunto il punto di rottura. Riscaldate l'acqua e, alla fine, essa bollirà. Opprimete i lavoratori, e dai e dai scoppierà una rivoluzione. Eldredge ed io siamo rimasti affascinati dalla scoperta che molti paleontologi sovietici sostengono un modello molto simile ai nostri equilibri punteggiati.

Devo mettere in evidenza che non affermo la generale «verità» di questa filosofia del cambiamento punteggiato. Ogni tentativo di sostenere la validità assoluta di tale grandiosa concezione confinerebbe con il nonsenso. Anche il gradualismo a volte funziona. (Spesso, passando in volo sugli Appalachi mi sono meravigliato delle linee estremamente parallele tracciate dalle erosioni.) Semplicemente vorrei che le filosofie dominanti fossero basate sul pluralismo e che fosse riconosciuto il fatto che queste filosofie, benché nascoste e inarticolate, impongono delle direzioni al nostro pensiero. Le leggi della dialettica sono ideologia in termini abbastanza evidenti; anche il gradualismo preferito dal pensiero occidentale è un'ideologia, anche se più nascosta.

Tuttavia devo confessare che, a mio parere, la teoria degli equilibri punteggiati descrive i ritmi dei cambiamenti biologici e geologici in maniera più accurata e spesso più esatta delle teorie concorrenti, forse solo perché i sistemi complessi in stato stazionario sono i più comuni e quelli più resistenti al cambiamento. Come scrive il mio collega geologo inglese Derek V. Ager a sostegno di questa teoria: «La storia di ogni parte della Terra è, come la vita del soldato, costituita da lunghi periodi di noia e da brevi periodi di terrore».” (pp. 169-175)

2.

Ci si può naturalmente chiedere che rapporto hanno queste controversie, che sembrano interne alla teoria evoluzionistica, con l’uomo. Il rapporto c’è ed è profondo. Per capirlo occorre tenere conto del conflitto originario tra Darwin e Wallace. Wallace ha sostanzialmente ragione nel sottolineare che la singolarità della struttura e delle funzioni del cervello umano sono irriducibili al gradualismo sostenuto da Darwin. Egli però ha torto nel sostenere che quella singolarità postula un intervento trascendente, vale a dire l’intervento di un Creatore.

Gould riassume in questi termini la questione:
“La selezione naturale poteva solo dotare il selvaggio di un cervello di poco superiore a quello di una scimmia antropomorfa, mentre in realtà egli ne possiede uno di poco inferiore a quello di un filosofo».

Wallace non si riferiva solamente all'intelletto astratto ma a tutti gli aspetti «raffinati» della cultura europea e, soprattutto, al linguaggio e alla musica. Consideriamo il suo punto di vista su «la magnifica potenza, estensione, flessibilità e dolcezza dei suoni musicali emessi dalla laringe umana, specie da quella delle donne: «Le abitudini dei selvaggi non ci forniscono alcuna indicazione su come questa facoltà possa essersi sviluppata grazie alla selezione naturale, perché essi non ne hanno mai bisogno o non ne fanno uso. Il canto dei selvaggi è una sorta di lamento monotono, e le femmine, poi, cantano raramente. Certamente i selvaggi non scelgono mai le loro mogli per la dolcezza della voce, ma per la salute, la forza e la bellezza fisica.

La selezione sessuale non avrebbe perciò potuto sviluppare questo magnifico potere che emerge solo tra gli uomini civilizzati.

Sembra che un organo sia stato preparato in anticipo per il progresso futuro dell'uomo, perché le sue capacità risultano inutili nelle condizioni primitive.

Infine, se le nostre capacità superiori sono sorte prima che le usassimo o prima che ne avessimo bisogno, allora esse non possono essere il prodotto della selezione naturale, ma , se sono sorte anticipando bisogni futuri, esse devono essere la creazione di una intelligenza superiore: «Quanto io ho dedotto da questo gruppo di fenomeni è che un'intelligenza superiore ha guidato lo sviluppo dell'umanità in una specifica direzione e per uno scopo speciale». Wallace era rientrato nel campo della teologia naturale, Darwin protestò, senza riuscire a smuoverlo, e, infine, si accontentò di lamentarsi.

Il punto debole della tesi di Wallace non era semplicemente il rifiuto di estendere la teoria dell'evoluzione all'uomo, ma piuttosto il suo «iperselezionismo» che permeò tutto il suo pensiero riguardo la selezione. Infatti, se l'iperselezionismo è valido, se cioè ogni parte di ogni creatura è costruita per un uso immediato, Wallace non può essere contraddetto. I primi uomini di Cro-Magnon, con cervelli poco più grandi dei nostri, dipinsero meravigliosamente le pareti delle loro caverne, ma non scrissero sinfonie e non costruirono computer. Tutto quello che siamo stati capaci di realizzare da allora è il risultato di una evoluzione culturale basata su di un cervello le cui capacità non sono mai cambiate. Dal punto di vista di Wallace un tale cervello non sarebbe mai potuto essere il prodotto della selezione perché ha sempre posseduto capacità in eccesso rispetto alla sua funzione originale.

Tuttavia, una concezione estremista della selezione è priva di qualsiasi validità. Essa è una caricatura di quel che intendeva Darwin, e ignora e nello stesso tempo interpreta erroneamente la natura della forma e della funzione organiche. La selezione naturale può costruire un organo «per» una funzione specifica o per un gruppo di funzioni. Tuttavia, non è necessario che questo «scopo» specifichi completamente le capacità dell'organo. Gli oggetti che sono stati progettati per uno scopo specifico possono, a causa della loro complessità strutturale, essere utilizzati altrettanto bene per altri scopi. Si può installare un calcolatore in una fabbrica solo per organizzare il pagamento degli stipendi, ma la macchina è in grado di compiere molte altre funzioni, come ad esempio analizzare risultati elettorali, in maniera eccellente.

I nostri voluminosi cervelli possono essersi sviluppati «per» garantire una serie di capacità necessarie alla ricerca del cibo, alla socializzazione o altro; tuttavia, queste capacità esauriscono le possibilità di una macchina così complessa. Fortunatamente per noi, queste possibilità includono la capacità per tutti di scrivere una lista della spesa e, anche se per pochi, grandi opere. La nostra laringe può essersi sviluppata «per» un ristretto numero di suoni articolati necessari al coordinamento della vita sociale. Tuttavia la sua struttura ci permette molto di più: tutti possono canticchiare sotto la doccia e qualcuno può diventare un divo della canzone.

La posizione estremista sulla selezione ci ha sempre accompagnato, anche se sotto forme diverse, perché essa rappresenta una versione scientifica, caratteristica del XIX secolo, del mito dell'armonia della natura: tutto accade per il meglio nel migliore dei mondi possibili (nel nostro caso, ogni struttura è stata accuratamente progettata per uno scopo preciso). Si tratta dunque della concezione del folle dottor Pangloss che Voltaire ci presenta con tanta abilità satirica nel Candide: il mondo non è necessariamente buono ma è certamente il migliore che potremmo mai avere...

Il panglossianesimo non è certo oggi morto se in tanti libri “divulgativi” che si occupano del comportamento umano si dichiara che il nostro grande cervello si è evoluto per la caccia e poi si fanno risalire tutti i limiti e i malanni che oggi affliggono il nostro intelletto e i nostri sentimenti a questa maniera di vivere.” (pp. 48-49)

Ma - c’è da chiedersi – se il gradualismo darwiniano e il panglossianesimo wallaciano non spiegano la comparsa del cervello umano, qual è la spiegazione giusta?

Gould la fornisce in uno dei capitoli più sorprendenti e accattivanti del libro dedicato all’evoluzione dell’immagine di Topolino di Walt Disney, che, nel corso degli anni, si è “infantilizzata”:

“Le caratteristiche astratte dell'infanzia umana suscitano in noi potenti reazioni emotive anche quando le riscontriamo nell'animale. Io ritengo che l'evoluzione verso una progressiva infantilizzazione di Topolino rifletta la scoperta •inconscia di questo principio biologico da parte di Disney e dei suoi disegnatori. Infatti, il tono emotivo di molti altri personaggi di Disney si basa sullo stesso principio. Il regno fantastico di Disney poggia su di una illusione di origine biologica: la nostra capacità di astrazione e la nostra disponibilità a trasferire in modo inappropriato ad altri animali le risposte suscitate in noi dalle trasformazioni determinate dal mutamento di forma dei nostri corpi. Anche Paperino ha adottato nel tempo un aspetto sempre più fanciullesco. II suo lungo becco si è accorciato e i suoi occhi si sono ingranditi ed egli tende ad assomigliare a Qui, Quo e Qua come Topolino a suo nipote. Tuttavia, Paperino, che è l'erede della personalità del primo Topolino, mantiene una forma più adulta col suo becco prominente e la sua fronte dritta.

I topi che impersonano i «cattivi» con cui Topolino si scontra hanno sempre un aspetto più adulto, anche se spesso hanno la stessa età cronologica dell'eroe. Nel 1936, Disney fece un cortometraggio intitolato Mickey's rival. Mortimer, una sorta di playboy con una macchina sportiva gialla, si intromette nel tranquillo picnic di Topolino e di Minnie. Mortimer, che è evidentemente un losco figuro, ha una testa le cui dimensioni sono pari al 29% di quelle del corpo contro il 45% raggiunto dalla testa di Topolino; il suo muso è lungo l'80% della testa, mentre quello di Topolino non va oltre il 49%. (Tuttavia, Minnie sembra apprezzarlo, fino a quando un toro di una vicina fattoria non scaccia l'intruso.) Prendiamo in considerazione anche gli altri personaggi di Disney che mostrano caratteri adulti: lo spavaldo Pietro Gamba di legno o l'ingenuo adorabile Pippo.

L'odissea subita dall'aspetto di Topolino suscita un altro commento di tipo biologico. Il suo cammino verso l'eterna giovinezza ripete la nostra stessa storia evolutiva. Quello umano è, infatti, un genere neotenico. Ci siamo evoluti mantenendo nella maturità quelle che erano le caratteristiche infantili dei nostri antenati. L'australopiteco, come Topolino in Steamboat Willie, aveva una mascella pronunciata e una fronte bassa.

I crani degli embrioni umani differiscono di poco da quelli degli embrioni di scimpanzé. La nostra forma si modifica nella crescita seguendo la stessa strada, si ha una relativa diminuzione delle dimensioni della volta cranica perché il cervello cresce molto più lentamente del corpo, mentre le mascelle diventano sempre più pronunciate. Tuttavia, mentre negli scimpanzé queste trasformazioni sono molto accentuate, e producono alla fine degli adulti estremamente diversi dai piccoli, in noi questi mutamenti procedono molto lentamente e non vanno mai molto lontano. Così da adulti, manteniamo le fattezze che avevamo da bambini. Naturalmente cambiamo abbastanza da determinare una notevole differenza tra il bambino e l'adulto, ma questo cambiamento è molto inferiore rispetto a quello che si ha negli scimpanzé e negli altri primati.

La nostra neotenia è stata provocata da un notevole rallentamento dei ritmi di crescita. I primati si sviluppano molto lentamente rispetto agli altri mammiferi, e noi abbiamo portato questa tendenza ad un punto che non ha confronto con gli altri mammiferi. Abbiamo tempi di gestazione molto più lunghi degli altri mammiferi, una fanciullezza estremamente prolungata e una vita media che supera di molto quella degli altri mammiferi. Gli aspetti morfologici di eterna giovinezza sono stati per noi importanti. I nostri grandi cervelli sono, almeno in parte, il risultato di un'estensione del rapido tasso di crescita prenatale al periodo postnatale. (In tutti i mammiferi, il cervello cresce molto rapidamente nell'utero, ma il più delle volte la sua crescita postnatale è irrisoria. Nell'uomo questa fase fetale si prolunga nella vita postnatale.)

Anche i tempi in cui si susseguono le trasformazioni hanno avuto la loro importanza. Noi siamo soprattutto animali che apprendono, e la nostra infanzia prolungata ci permette di trasferire la cultura attraverso l'educazione. Molti animali dimostrano plasticità nella loro infanzia ma seguono modelli rigidamente programmati in età adulta. Scrive Lorenz nell'articolo già citato: «La caratteristica fondamentale che rende l'uomo tale, lo stato di perenne sviluppo, è quasi certamente un dono che dobbiamo alla natura neotenica dell'umanità».” (pp. 96-98)

Ritengo che la capacità di osservazione e di valorizzazione di indizi apparentemente poco o punto significativi di Gould è del tutto straordinaria e geniale. Ciò è attestato non solo dalla citazione riportata, ma da tutta la sua opera. La stessa teoria degli equilibri punteggiati, che integra il darwinismo e lo mette al riparo dagli attacchi dei creazionisti, è nata, stando alla sua testimonianza, osservando i pennacchi di S. Marco.

Di tale capacità, Gould dà prova anche nella “trilogia” che inaugura il saggio.

Il primo articolo, da cui è tratto il titolo del saggio, è un piccolo capolavoro di epistemologia scientifica. Il problema che Gould prende in considerazione sembra del tutto banale: perché il panda gigante è dotato di uno pseudopollice che gli consente di maneggiare con destrezza le canne di bambù di cui si nutre?

Il panda, in realtà, ha regolarmente cinque dita. Il pollice non è per nulla un dito. Esso si è sviluppato da un osso del polso (sesamoide radiale) che si è ingrandito sino a raggiungere la lunghezza delle dita vere. Anche i muscoli che ne permettono la funzione, che nella maggior parte dei carnivori si attaccano alla base del vero pollice, nel panda sono ristrutturati per fare funzionare lo pseudopollice.

Da un’inezia del genere Gould ricava che non sono le meravigliose perfezioni della natura bensì le imperfezioni a fornire la prova del carattere casuale dell’evoluzione. Egli scrive:

“Il vero pollice del panda ha un ruolo determinato ed è troppo specializzato in una funzione diversa per potersi trasformare in un dito opponibile adatto alla manipolazione. Così il panda deve utilizzare quanto ha a disposizione ed accontentarsi di un osso del poiso ingrandito, e di una soluzione forse un po' rozza ma abbastanza efficace. Il pollice sesamoide non vincerebbe alcun premio in un concorso di ingegneria. Si tratta, per usare una frase di Michael Ghiselin, di un'invenzione bizzarra piuttosto che di un progetto perfetto. Tuttavia è una soluzione efficace ed eccita la nostra immaginazione proprio perché poggia su fondamenta tanto improbabili...

La metafora di Darwin riflette la sua meraviglia di fronte al fatto che la natura sia in grado di costruire un sistema così diversificato e funzionante, a partire da materiale grezzo tanto limitato: «Anche se un organo può non essersi formato in principio per uno scopo particolare, se oggi viene utilizzato efficacemente per quello scopo, possiamo giustamente dire che è particolarmente adatto ad esso. Per lo stesso principio, se un uomo avesse dovuto costruire una macchina per uno scopo particolare, ma avesse dovuto utilizzare, modificandole di poco, ruote, molle e pulegge vecchie, si potrebbe dire che l'intera macchina, con tutte le sue parti, è stata costruita per quello scopo specifico. Così in tutta la natura quasi ogni parte di ciascun essere vivente è probabilmente servita, con poche modifiche, ad altri scopi e ha funzionato come parte della macchina vivente di molte e diverse forme antiche».

La metafora delle vecchie ruote e pulegge riutilizzate può non lusingarci, ma pensiamo come lavoriamo bene. Nelle parole del biologo Francois Jacob, la natura non è un divino artefice ma un eccellente bricoleur.” (pp. 16-17)

3.

E’ quella stessa capacità, del resto, che lo ha orientato non solo a “revisionare” la teoria evoluzionistica, ma a ricostruire anche la sua storia con uno sguardo critico che lo porta ad inserire tra i panglossiani i sostenitori del neodarwinismo e a recuperare il significato di autori temerari, che hanno osato sfidare il dogma della nuova sintesi. Tra questi c’è Goldschmidt, il quale arditamente avanzò l’ipotesi di un’evoluzione saltazionista piuttosto che gradualista. Egli, in particolare, “ruppe drasticamente con la teoria sintetica, affermando che le nuove specie emergono all'improvviso grazie a variazioni discontinue o macromutazioni. Egli ammise che la maggior parte di queste macromutazioni possono essere considerate disastrose e le definì «mostri». Tuttavia, di tanto in tanto, una di queste mutazioni può, per puro caso, adattare un organismo ad un nuovo modo di vita; egli chiamò questo tipo di mutazioni «mostri di belle speranze». La macroevoluzione procede grazie al successo, raro, di questi mostri e non attraverso l'accumulazione di piccoli cambiamenti all'interno delle popolazioni.” (p. 178)

Goldschmidt stesso avanzò l’ipotesi che le mutazioni in questione agissero modificando i tempi di crescita. Egli, addirittura, lavorando sui lombrichi, “identificò il gene responsabile di queste modificazioni del ritmo di crescita e dimostrò che le grandi differenze finali potevano essere fatte risalire all'azione di uno o di pochi «geni del ritmo di sviluppo» agenti nelle primissime fasi della crescita.” (p. 178)

La teoria di Goldschmidt è stata considerata eretica dai neodarwinisti e messa sdegnosamente da parte. Essa, di fatto, nella sua versione originaria, è inaccettabile amche per Gould, che però in qualche misura la riabilita scrivendo:

“Dal mio punto di vista, profondamente preconcetto, il problema di conciliare l'evidente discontinuità nella macroevoluzione con il darwinismò viene risolto dall'osservazione che piccoli cambiamenti nelle prime fasi di crescita embrionale si accumulano durante lo sviluppo fino a produrre profonde differenze fra gli adulti. Continuate con l'alto tasso di crescita prenatale del cervello anche nello sviluppo postnatale e sarete in grado di trasformare il cervello di una scimmia in un cervello delle dimensioni di quello umano.” (p. 178)

E aggiunge:
“Se non riteniamo possibile che cambiamenti discontinui avvengano attraverso piccole alterazioni dei tempi di sviluppo non capisco come possano realizzarsi le grandi trasformazioni evolutive. Sono pochi i sistemi che offrono più resistenza ai cambiamenti di base degli adulti fortemente differenziati, altamente specializzati e complessi dei gruppi animali «superiori».” (p. 178)

E’ evidente, insomma, che Gould ritiene che sia la neotenia a spiegare la comparsa del cervello umano e delle sue funzioni ridondanti, vale a dire in parte sicuramente utili ai fini adattivi all’epoca della comparsa della specie homo sapiens sapiens, ma in parte “exattate”, vale a dire utilizzate solo successivamente.

Chi ha avuto occasione di leggere i capitoli del saggio Il mostro di belle speranze, che sto progressivamente pubblicando, conosce l’uso che ho fatto delle acquisizioni di Gould, che ritengo una delle figure più rappresentative del panorama intellettuale del Novecento. Non ritengo un caso che egli sia stato un intellettuale progressista di formazione marxista, capace quindi di applicare anche al darwinismo un singolare approccio storicistico. Ricostruendo la genesi dell’ipotesi della selezione naturale, maturata lentamente nella mente di Darwin e alimentata da letture che nulla hanno a che vedere con la biologia, egli scrive:

“[Darwin]lesse una lunga recensione dell'opera principale del famoso filosofo e scienziato sociale Auguste Comte: Cours de philosophie positive. [Egli] rimase particolarmente colpito dall'insistenza con cui Comte difendeva la necessità che una teoria fosse in grado di predire o che, almeno, fosse potenzialmente quantitativa. Con la lettura di On the life and writing of Adam Smith di Dugald Stewart, assorbi dall'economista scozzese la nozione che le teorie sulla struttura sociale debbono partire dall'analisi delle libere azioni degli individui. (La selezione naturale è soprattutto una lotta per la riproduzione dei singoli organismi.)

Dopo di che, cercando esempi di quantificazioni, lesse una voluminosa analisi del lavoro di Adolphe Quételet, il più noto esperto di statistica del suo tempo. Nell'opera di Quételet, tra l'altro, egli trovò un'importante conferma delle affermazioni di Malthus: mentre la popolazione cresce in progressione geometrica, le scorte di cibo possono crescere solo in progressione aritmetica, e questo fatto determina la possibilità di una intensa lotta per la sopravvivenza. Darwin aveva già letto varie volte questa affermazione di Malthus, ma solo ora era in grado di apprezzarne a pieno il significato. Possiamo quindi concludere che egli non lesse Malthus accidentalmente e che, anzi, conosceva già parte del contenuto della sua opera. Lo «svago» procurato dalla lettura derivava semplicemente dal desiderio di leggere nella forma originale quella affermazione riportata da Quételet che lo aveva così colpito.

Nel leggere la ricostruzione fatta da Schweber delle settimane che precedettero la formulazione della teoria della selezione naturale, fui particolarmente colpito dalla mancanza di un contributo decisivo proveniente dal campo della biologia. Le spinte principali avevano origine da uno scienziato sociale, da un economista e da un esperto in statistica. Se dovessi ipotizzare su queste basi il comune denominatore del genio, concluderei che esso è caratterizzato da vasti interessi e dalla capacità di costruire analogie fruttuose tra campi diversi.

Ritengo, infatti, che la teoria della selezione naturale debba essere considerata come un'analogia, non importa se conscia o inconscia da parte di Darwin, del laissez faire di Adam Smith. L'essenza della posizione di Smith è un paradosso del tipo: se volete un'economia ordinata che offra benefici a tutti quelli che vi partecipano, lasciate che gli individui competano e lottino tra loro per il proprio vantaggio personale. Il risultato, dopo l'individuazione e l'eliminazione degli inefficienti, sarà una società stabile e armoniosa. L'ordine apparente emerge naturalmente dalla lotta tra gli individui e non da principi precostituiti o da un controllo superiore. Così Dugald Stewart riassume il sistema di Smith nel libro letto da Darwin: «Il piano più efficace per il progresso di un popolo.., è garantire a ciascun uomo, fintanto che questi seguirà le regole della giustizia, il diritto di perseguire il proprio interesse secondo la propria volontà e di mettere liberamente in competizione la propria attività e il proprio capitale con l'attività e il capitale dei suoi concittadini. Ogni sistema politico che offre... ad un tipo particolare di industria una parte del capitale della società maggiore di quello che gli spetterebbe naturalmente... è, in realtà, un sistema che sovverte proprio quel grande proposito che vorrebbe promuovere». Come scrive Schweber, «l'analisi della società, proposta dallo scozzese, porta a concludere che gli effetti combinati delle azioni individuali determinano quelle istituzioni su cui si basa la società e che una tale società è stabile e in continuo progresso ed è in grado di funzionare senza l'intervento di alcuna intelligenza superiore».

Sappiamo che la genialità di Darwin non risiede nell'aver fornito un sostegno alla teoria dell'evoluzione, poiché molti altri scienziati lo avevano preceduto in questa opera. Il suo contributo personale è rappresentato dalla documentazione che egli ha raccolto e dalla novità della teoria da lui proposta per spiegare il modo di funzionare dell'evoluzione. Gli evoluzionisti che lo avevano preceduto avevano proposto schemi che non potevano funzionare, basati su di una interna tendenza alla perfezione e su direzioni intrinseche. Darwin sostenne una teoria naturale e verificabile basata sull'interazione immediata tra individui (che i suoi oppositori consideravano meccanicistica e disumana). La teoria della selezione naturale è una trasposizione creativa dei principi di Adam Smith dal campo dell'economia a quello della biologia: l'equilibrio e l'ordine naturali non sono determinati né da un controllo superiore ed esterno (divino) né da leggi che operano direttamente sull'intero sistema; esso scaturisce dalla lotta, tra gli individui per il proprio bene” (pp- 58-59).