Th. Dobzhansky

Diversità genetica e uguaglianza umana

Einaudi, Torino 1981

1.

Che gli individui siano diversi tra loro è un dato empirico noto da sempre. La diversità genetica, invece, è un’acquisizione scientifica recente.

Sulla base della diversità empirica, perlomeno a partire dall’epoca storica, le società sono andate incontro a processi di stratificazione di vario genere che hanno comportato una diversa distribuzione dei privilegi, della ricchezza e delle opportunità.

La rivendicazione dell’uguaglianza tra gli esseri umani risale all’avvento del Cristianesimo, e si fonda sul fatto che essi sono tutti figli dello stesso Padre, dotati dunque della stessa dignità e degli stessi diritti. Tale rivendicazione è esplicitata da S. Paolo: “Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.” (Galati, 3, 28)

In nome della comune figliolanza, la comunità originaria dei cristiani si organizza sulla base della carità, che comporta la redistribuzione delle ricchezze: “Qui non si tratta infatti di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza.” (Corinzi II, 8, 13)

Obbligatorio all’interno della comunità, il principio ridistributivo della carità non può essere però esteso all’intera società, il cui assetto ne risulterebbe stravolto. L’accettazione dello status quo sociale è ratificato da S. Paolo stesso: “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio.” (Lettera ai Romani, 13, 1)

E’ quest’accettazione che permette di comprendere il mantenersi delle stratificazioni sociali nel corso dei secoli, anche quando la Chiesa ha acquisito un rilevante potere temporale. Il principio dell’ugualitarismo radicale cristiano viene riproposto solo da movimenti definiti ereticali.

Il verbo dell’uguaglianza torna in auge con la Rivoluzione francese, che identifica in esso – con la libertà, la giustizia e la proprietà – uno dei diritti naturali inalienabili dell’individuo.

L’attribuzione all’uomo di tali diritti, che avviene sulla base di un orientamento filosofico definito giusnaturalismo, è ancora oggi il fondamento della democrazia.

Alla domanda che verte sull’origine dei diritti naturali sono state date tre risposte diverse: la prima li riconduce ad un’attribuzione divina che investe l’uomo in quanto creatura; una seconda fa riferimento all’essere l’uomo dotato di  una Ragione che lo porta ad attribuire quei diritti a se stesso e agli altri; la terza li riconduce, infine, alla natura umana, vale a dire ad un corredo genetico che li conterrebbe sotto forma immediata di un sentire preriflessivo e precognitivo.

Dico anticipatamente che personalmente aderisco al terzo orientamento. Sono convinto, infatti, che del corredo genetico umano fa parte un senso primario di dignità e di giustizia che, in quanto emozione innata, si attiva precocemente e comporta il bisogno di essere rispettato dall’altro e di non subire violenza. Tale bisogno, in sé e per sé, non è un diritto in senso proprio perché il concetto di diritto implica un potere che lo sancisce (e il bambino non ne ha alcuno) o un referente che lo riconosce come dovere. Se si tiene conto, però, che del corredo emozionale umano fa parte anche l’empatia, la capacità di identificarsi con l'altro, non si stenta a capire come l’intersoggettività, inducendo un reciproco riconoscimento dello stesso bisogno, trasforma questo in un "dovere" reciproco.

Il giusnaturalismo cui fa riferimento il sistema democratico, così come si è definito a partire dalla celebre Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, si riconduce invece al secondo orientamento. Esso fa capo ad una Ragione che identifica i diritti in questione in uno stato di natura, vale a dire in uno stato caratterizzato dall’esistenza di singoli individui liberi e indipendenti tra i quali non si è ancora creato un patto sociale.

Non ci vuol molto a capire perché questo orientamento sia stato assunto come proprio nella cornice del liberalismo che ha prodotto la democrazia. In primo luogo, infatti, esso, definendo l’individuo come una realtà primaria, preesistente allo Stato, dotata di diritti suoi propri naturali, lo pone al riparo da qualunque arbitrio di un Potere prevaricatore. In secondo luogo, facendo rientrare il diritto di proprietà tra i diritti naturali, il liberalesimo conferma la sua fiera opposizione a qualunque tentativo critico di storicizzarlo.

Il problema è che entrambi i presupposti non appaiono fondati. Alla luce della moderna paleontologia e antropologia, l’uomo non sembra nascere come individuo se non dal seno di una società che, per produrlo, allevarlo e riconoscerne infine un’identità adulta ed un ruolo, deve avere una sua struttura e una sua organizzazione di gruppo. Il diritto di proprietà sembra poi incompatibile con il fatto che, per un periodo sterminatamente lungo, conclusosi con l’avvento dell’agricoltura, lo strumento elettivo di produzione – la Terra – è stata considerata di proprietà comune.

L’infondatezza di tali presupposti è esitata in una crisi del giusnaturalismo, in conseguenza della quale gli ideologi borghesi si sono appellati alla natura in un’ottica diversa, nell’ottica della diversità genetica tra gli individui. Questo orientamento è affiorato negli Stati Uniti verso la fine degli anni ’70, e si può considerare una delle matrici che hanno poi innescato l’avvio di un neoliberismo che ormai propugna apertamente la disuguaglianza e il diritto assoluto di proprietà dell’individuo sulle ricchezze che egli produce.

Il fenomeno della disuguaglianza si è radicalizzato ed esteso nel corso degli ultimi venti anni, in conseguenza dell’avvio della globalizzazione economica.

Non è poco importante considerare che il termine disuguaglianza, che ha un significato etico per i progressisti, ha invece un significato meramente descrittivo per i neoliberisti e i conservatori. Per costoro, esso definisce una distribuzione della ricchezza che, corrispondendo ai diversi meriti  degli individui, è ugualitaria. I meriti vengono poi ricondotti ad una dotazione di potenzialità genetiche diverse (per esempio l’intelligenza) e all’uso che l’individuo ne fa trasformandole in abilità che gli consentono di acquisire uno status rilevante.

Da questo punto di vista, la disuguaglianza sociale sarebbe una conseguenza di una disuguaglianza naturale.

Data l’attualità del problema, può essere importante ricondursi al saggio di Dobzhansky, grande genetista e intellettuale liberal, che ha affrontato in maniera esemplare e rigorosa il problema della diversità genetica e dell’uguaglianza umana. Non è un caso che egli abbia avvertito quest’esigenza agli inizi degli anni Settanta, allorché negli Stati Uniti, in reazione al Sessantotto, i  repubblicani avviavano la costruzione dell’ideologia neoliberista e conservatrice che, poi, è divenuta egemone alivello mondiale.

Nella stessa esposizione del problema si coglie l’eco del dibattito ideologico in corso all’epoca:

“Largamente diffusa nel mondo moderno, benché  certo non universalmente accettata e praticata, è la dottrina per cui tutti gli uomini sono o dovrebbero essere uguali.” (p. 2)

“Spesso il concetto si impantana nella confusione e in evidenti contraddizioni. Si confonde uguaglianza con identità e diversità con ineguaglianza. Possiamo ri-scontrare questa confusione anche negli scritti di certi eminenti scienziati da cui ci saremmo aspettati una migliore conoscenza. I propagandisti politici, di estre-ma destra come di estrema sinistra, diffondono deliberatamente la confusione. Parrebbe che il modo più agevole per screditare l'idea di uguaglianza consista nel dimostrare che gli individui sono per nascita, geneticamente e perciò irrimediabilmente, diversi e dissimili. L'insidia sta naturalmente nel fatto che l'uguaglianza umana ha a che fare con i diritti e con l'inviolabilità dell'esistenza di ogni essere umano, e non con caratteristiche corporee o anche mentali.” (p. 3)

“I difensori dell'uguaglianza rimangono impigliati nella medesima trappola quando tentano di minimizzare o negare la diversità genetica umana. Essi si lasciano sfuggire, o non riescono a comprendere che la diversità è un fatto osservabile della natura, mentre l'uguaglianza è un comandamento etico. Almeno in linea di principio, l'uguaglianza può essere rifiutata, o concessa, ai membri di una società o ai cittadini di uno stato indipendentemente dalla loro somiglianza o dif-ferenza. Anche l'ineguaglianza non è stabilita in via biologica, ma è, piuttosto, una prescrizione socialmente imposta.” (p. 4)

L’intento di Dobzhansky è di affrontare il problema a partire dal paradosso che titola il saggio: in che senso l’uguaglianza si può ritenere un diritto naturale se la genetica attesta inconfutabilmente che gli uomini sono diversi non solo nelle loro fattezze esteriori ma anche nelle potenzialità e nelle caratteristiche psichiche?

La varietà genetica è stato il punto di partenza da cui ha preso corpo l’evoluzionismo darwiniano a cui Dobzhansky aderisce e di cui è uno dei maggiori rappresentanti del Novecento:

“L'esperienza quotidiana dimostra che ogni persona in cui ci imbattiamo è diversa da tutte quelle incontrate in precedenza. Anche i cosiddetti gemelli identici, o monozigoti, non sono realmente identici, ma persone distinte in modo riconoscibile. L'identificazione dell'individualità è una generalizzazione derivata dalla pratica comune, ma la comprensione delle cause dell'individualità ebbe inizio soltanto con l'avvento della biologia e in particolare della genetica. Mendel dimostrò che genitori eterozigosi per gli stessi n geni hanno un potenziale produttivo di 3" tipi di progenie geneticamente distinti. Due genitori, entrambi eterozigosi per n geni differenti, sono potenzialmente in grado di dar vita a 4n tipi di progenie. La questione del numero di geni per cui una persona media è eterozigosa è da tempo argomento di congetture e contro-versie. È oggi evidente che la cifra è perlomeno dell'ordine delle migliaia o delle decine di migliaia. Anche se non tutti i possibili corredi genetici sono ugual-mente probabili, la varietà genetica generata nella riproduzione sessuale è immensa. Con la sola eccezione dei gemelli monozigoti e di altre nascite multiple monozigotiche, la probabilità che due individui qualsiasi, presenti passati o futuri, siano geneticamente identici è trascurabile. La fonte della varietà genetica è la ricombinazione mendeliana dei geni nella riproduzio-ne sessuale; le nascite multiple monozigotiche derivano da una moltiplicazione asessuale di ovocellule fertilizzate prodotte per via sessuale.” (p. 4-5)

Il problema sta nel valutare l’incidenza del corredo genetico nello sviluppo della personalità. Tale incidenza, infatti, può essere enfatizzata al punto di negare l’uguaglianza come diritto in nome del fatto che la natura decide che un soggetto vale più di un altro o minimizzata in nome di una diversità i cui sviluppi dipendono in larga misura dall’ambiente. Dobzhansky rifiuta il determinismo genetico e preferisce parlare di condizionamento:

“Il condizionamento genetico di molte caratteristiche umane che incontestabilmente hanno importanza per i loro possessori e per le società in cui si rinvengo-no, è stabilito con un grado di sicurezza variabile per le diverse caratteristiche. Il termine «condizionamento», al posto di «determinazione», viene qui usato di proposito. Intelligenza, personalità, particolari capacità e altri tratti sono suscettibili di modifiche a causa di fattori sia genetici che ambientali.” (p. 7)

“Ciò che realmente i geni determinano sono gli spettri di reazioni presentati rispetto all'intera gamma degli ambienti possibili da individui con un numero maggiore o minore di geni simili. Il concetto di spettro di reazioni è importante e per certuni è curiosamente difficile da afferrare. L'eredità non è uno status ma un processo. I caratteri genetici non sono preformati nelle cellule sessuali, ma emergono nel corso dello sviluppo, quando le potenzialità determinate dai geni si estrinsecano nel procedimento di sviluppo in determinati ambienti. Geni simili possono avere effetti diversi in ambienti dissimili, e cosi pure geni differenti in ambienti analoghi.” (p. 8)

Sarebbe ovviamente utile sotto un profilo scientifico accertare tutte le potenzialità fenotipiche dei diversi corredi genetici. Ma “nonostante alcune spettacolari realizzazioni della ricerca educativa e medica, la conoscenza degli ambienti più propizi all'estrinsecazione delle potenzialità socialmente desiderabili dei corredi genetici umani resta insufficiente. (p. 10)

L’alternativa è quella di tenere conto che la storia sociale, offrendo diversi ambienti culturali a diversi gruppi, rappresenta un esperimento dal quale si può trarre qualche insegnamento.

Il primo insegnamento concerne la stratificazione sociale:

“Tutte le società umane, anche quelle che si dichiarano «senza classi» (ad esempio le società comuniste di tipo sovietico), sono stratificate in classi. I membri  di una classe hanno opportunità di vita in comune, determinate dalla facoltà di disporre di beni e di acquisire delle specializzazioni grazie al loro reddito (Lipset  1968). Le classi non sono soltanto gruppi socioeconomici, ma anche popolazioni riproduttive, separate in  più o meno larga misura dalle altre popolazioni. E’ quindi legittimo chiedersi se i loro pool genici siano i diversi e, in caso affermativo, sino a che punto (Eckland 1967; Gottesman 1968b). Si può rovesciare la  domanda: in quale misura, ammesso che lo sia, il livello socioeconomico è funzione della costituzione genetica?                                                                      

I componenti di classi privilegiate amano credere  che ognuno appartenga alla classe socioeconomica per cui i suoi geni lo qualificano. I poveri vivono una vita  miserabile; se ciò non è dovuto a incapacità, allora è imputabile alla loro inferiorità generica. I ricchi e i  potenti meritano l'opulenza perché i loro geni gliene danno il diritto. Simili punti di vista sono un'infamia, non soltanto per i meno abbienti, ma anche per certi prosperi liberali.” (p 26)

E’ senz’altro vero che, rispetto a quelle castali: “le società a classi aperte consentono, o persino in­coraggiano, la mobilità sociale da una classe all'altra. Le persone entrano a far parte di -  o sono cooptate da -  classi cui sono degne di appartenere in base alle capacità e ai successi ottenuti. È il principio della meri­tocrazia. La classe è determinata non per nascita ma per qualità personali.” (p. 27)

Non è meno vero però che “l'uguaglianza di opportunità è un ideale che è stato più o meno avvicinato ma in nessun luogo del tutto raggiunto. Ciò valorizza l’importanza dell'argomentazione secondo cui anche se le classi socioeconomiche possono differire e probabilmente differiscono affettivamente nelle medie statistiche di certe caratteristiche, le differenze tra singoli membri superano di gran lunga quelle tra le medie di classe.” (p. 29)

Le varie società si differenziano, nel corso dello sviluppo storico per l’appunto a seconda di come rispondono al criterio dell’uguaglianza di opportunità, che “è un precetto etico, non un fenomeno biologico. Una società può concederla o negarla ai suoi membri. Non deve qui interessarci se la morale sia o non sia deducibile dalla conoscenza scientifica, ma è legittimo, ed anche necessario, esaminare minuziosamente le probabili conseguenze dell'adozione o del rigetto di una data etica.” (p. 30)

E’ evidente che si dà una differenza rilevante tra il sistema castale e quello a classi aperte:

 “Lo sciupio dell'ingegno costituisce in realtà un vizio fatale di tutti i sistemi basati su caste e classi rigide. Quando la mobilità sociale è interdetta o seriamente ostacolata, gli individui che per capacità sarebbero qualificati a intraprendere una determinata professione non vengono accettati, mentre gli incompetenti sono trattenuti. Man mano che la struttura delle classi acquista maggiore apertura, gli impedimenti alla mobilità sociale diminuiscono e il principio della meritocrazia diventa dominante. Lo status e il ruolo di ciascuno nella società sono acquisiti e non ereditati dai genitori. Ciò che potrebbe a prima vista apparire sorprendente è che quando l'eredità sociale del ruolo e dello status perde influenza, si accresce l'importanza dell'eredità biologica.” (p. 34)

“Nelle società a classi aperte, tanto del tipo capitalista che di quello comunista sovietico, ai livelli superiori e intermedi della piramide sociale è disponibile un numero di posti vacanti limitato, di molto inferiore alla massa dei richiedenti. Per l'occupazione di questi vuoti si verifica una concorrenza selvaggia. Ci si do-manda con quale frequenza i vincitori della gara siano realmente i migliori come esseri umani. Le società basate su caste e classi rigide sprecavano imperdonabil-mente talento genetico e capacità quando essi spuntavano tra gli ordini più bassi della società. Si deve però ammettere che tali società attenuavano gli aspetti detestabili della competizione.” (p. 38)

Ma cosa significa, in ultima analisi, uguaglianza di opportunità? La risposta di Dobzhansky è chiara:

“L'uguaglianza di opportunità presenta due aspetti. Per prima cosa, ognuno ha diritto ad accedere all'intero spettro di livelli economici e di condizioni sociali, indipendentemente dallo status o livello dei genitori e parenti. «Accedere» significa che ognuno può scegliere di lottare e competere, - o non competere, - per una qualsiasi posizione sociale; ovviamente non vuol dire che la posizione desiderata venga sempre raggiunta. Questo dipende dall'adeguatezza delle proprie qualifiche per quella posizione. L'ingiustizia delle società basate su caste e classi rigide sta nel fatto che le persone si vedono impedire arbitrariamente l'accesso a moltissime posizioni.

La seconda, e meno evidente, condizione di uguaglianza di opportunità implica il riconoscimento che persone diverse, essendo portatrici di corredi genetici differenti, richiedono ambienti diversi per autorealizzarsi… L'uguaglianza ideale dovrebbe comportare un insieme di percorsi educativi diversi che la gente sceglierà, o a cui sarà indiriz-zata, in base ai gusti e alle capacità. In pratica ciò solleva una moltitudine di spinosi problemi sociologici ed etici. È inevitabile che certi bambini e adolescenti vengano prescelti come candidati idonei per professioni o posizioni per vari motivi considerate più desiderabili, e altri siano etichettati privi di talenti particolari? Questa, facilmente, può diventare una forma camuffata di privilegio sociale.

Esiste un'uscita da questo vicolo cieco? Sembra che la si possa trovare soltanto in qualche variante del principio socialista: «Da ciascuno secondo le sue ca-pacità, a ciascuno secondo le sue necessità». Non è necessariamente impossibile raggiungere lo stesso risultato anche in società non socialiste. Si possono evitare macroscopiche disuguaglianze nelle ricompense materiali.” (p. 42-43)

Il principio cui Dobzhansky fa riferimento implica, per un verso, che ciascuno  sia messo in grado di sviluppare le sue potenzialità individuali :“è consigliabile, e persino indispensabile per una società che i possessori di abilità rare o insolite in certi campi siano indotti a prodigarsi per raggiungere in quei campi la perfezione. Di norma, ciò significa un addestramento più prolungato e difficoltoso di quello richiesto per occupazioni più comuni e più  semplici” (p. 44); “Non si insisterà mai troppo sul fatto che lo scopo dell'uguaglianza umana non consiste nel rendere tutti uguali. Esattamente l'opposto: è il riconoscere che "ciascun individuo è diverso da tutti gli altri, e che ogni persona ha il diritto di seguire la strada prescelta (a patto di non danneggiare altri).” (p. 45)

Riguardo alla retribuzione, poi, il discorso non può ridursi ad una valutazione oggettiva delle prestazioni:

 “È soltanto il desiderio di maggiori ricompense economiche e di rango sociale che induce la gen-te a dedicarsi ad imprese di rilievo? Per molti è cosi, ma per altri il successo è di per se remunerativo. Musicisti, poeti, artigiani, atleti, e persino scienziati e politici traggono una buona dose di soddisfazione e felicità dal loro lavoro quando ne vedano maturare i frutti. Non è raro sentire di persone che rifiutano offerte di maggiore tornaconto economico per il piacere di essere lasciate libere di continuare i loro tentativi favoriti.. Non è inconcepibile che si possa arrivare ad un  giorno in cui le massime retribuzioni in moneta andranno a chi è impegnato in lavori socialmente indispensabili ma sgradevoli, come l'eliminazione dei rifiuti, mentre quelli dediti a occupazioni tendenzialmente autoremunerative si accontenteranno di emolumenti inferiori.” (p. 44)

Da ciò discendono alcune considerazioni conclusive:

“La diversità genetica umana non è una disgrazia o un difetto della natura umana, ma un tesoro di cui i processi evolutivi hanno dotato la specie umana. Un altro tesoro è l’educabilità, addestrabilità o malleabilità geneticamente condizionata degli esseri umani. Qualunque società umana, dalla più primitiva alla più complessa (quest'ultima più della prima), necessita di una gamma di uomini adattati e istruiti per una varietà di funzioni. Le società basate sulle caste tentaro-no, senza riuscirvi, di realizzare la richiesta diversità sfruttando le differenze genetiche, reali o immaginarie, tra gli uomini. È opinabile che la diversità potrebbe essere conseguita in una società meritocratica mediante un'educazione differenziale se tutti gli uomini fossero geneticamente simili come i gemelli monozi-gotici. In realtà, la diversità si ottiene grazie a una combinazione di condizionamento genetico e ambientale...” (p. 45)

“L'uguaglianza è necessaria se una società desidera massimizzare i benefici della diversità genetica tra i suoi membri. Con qualunque sistema che si avvicini alla piena uguaglianza, ogni commercio, mestiere, occupazione e professione farà convergere nel suo seno coloro che sono geneticamente più idonei per i vari ruoli. Queste aggregazioni di attitudini genetiche porteranno tutte insieme alla restaurazione delle classi o anche delle caste? Le aggregazioni attitudinali si possono sviluppare in nuovi fenomeni sociali, al momento attuale soltanto adombrati.” (p. 46)

“Le aggregazioni attitudinali si distingueranno dalle vecchie classi prima di tutto per la fluidità. Un'aggregazione andrà guadagnando nuovi membri non discendenti da quelli vecchi, probabilmente ad ogni generazione. Gli aumenti saranno più o meno controbilanciati dalla perdita di una parte della progenie dei vecchi membri, che passerà ad altre aggregazioni. Gli aumenti e le diminuzioni possono essere in parte dovuti a talune professioni via via più o meno attrattive, o più o meno socialmente importanti, tanto da indurre un numero maggiore o minore di persone a richiedere un tirocinio specifico. Altri guadagni e perdite sono condizionati geneticamente, e quindi geneticamente significativi. Essi risultano dalla segregazione di geni mendeliani e non dovrebbero venire frustrati dagli impulsi «naturali» ed emozionalmente comprensibili dei genitori, desiderosi che i figli ereditino le loro pro-fessioni e la loro condizione sociale, o ansiosi di so-spingerli verso quelle che sono ritenute professioni e condizioni sociali più privilegiate.” (p. 46-47)

“La diversità che ci circonda è un impasto di differenze genetiche e ambientali. La diversità osservata è, in linea di principio, controllabile sia con mezzi genetici sia con sistemi ambientali. Più aumentano le conoscenze sulle cause alla base della diversità, più si accrescono le possibilità di controllo. È questo lo scopo ultimo e la giustificazione della ricerca scientifica in biologia, psicologia e sociologia. Una parte considerevole dell'umanità, dai bassifondi cittadini dei paesi più ricchi del mondo agli abitanti delle nazioni povere, è attualmente privata di condizioni non soltanto ottimali ma anche semplicemente tollerabili per lo sviluppo fisico e mentale. Dobbiamo aiutare questa frazione del genere umano a procurarsi tali condizioni.” (p. 51)

2.

A distanza di anni, la limpidità del discorso di Dobzhansky non può non essere apprezzata. Fermo nel sottolineare la varietà genetica che rende gli individui diversi l’uno dall’altro e ciascuno di essi unico e irripetibile, Dobzhansky non lo è di meno nel rilevare che l’uguaglianza è un precetto etico. Posto infatti che si riconosca il diritto di tutti gli esseri umani di essere posti in condizione di sviluppare i loro “talenti”, muovendo da una stessa linea di partenza, l’uguaglianza di opportunità diventa un obbiettivo imprescindibile dell’organizzazione sociale, un dovere dello Stato nei confronti di tutti i cittadini.

Non è un caso che l’uguaglianza di opportunità è divenuta uno dei capisaldi delle forze progressiste. Essa sembra a tal punto inconfutabile che, ad eccezione di alcune frange elitaristiche, anche le forse di centro-destra la riconoscono come un valore.

Sarebbe ingenuo però illudersi sul fatto che tale valore possa essere facilmente applicato alla realtà sociale. Di fatto l’uguaglianza delle opportunità richiederebbe una distribuzione equa di tutte le risorse (affettive, economiche, culturali) che rappresentano la ricchezza sociale. Ciò contrasta con il fatto che la società è organizzata su una base familista. L’appartenenza di ogni essere che viene al mondo ad un sistema familiare implica che egli è non solo erede del patrimonio economico familiare, ma utilizza tutte le risorse affettive, economiche e culturali che esso può mettere a sua disposizione.

Esclusa la possibilità di smantellare il sistema familiare, l’uguaglianza di opportunità comporterebbe una riorganizzazione sociale atta a sopperire alle disuguaglianze prodotte dall’appartenenza. Ciò implicherebbe una redistribuzione della ricchezza sociale a monte e non a valle, che riguardasse cioè le opportunità di cui l’individuo può disporre nella fase evolutiva della personalità.

E’ questo un obbiettivo che non si può ritenere del tutto utopistico, ma di sicuro è di ardua realizzazzione.

Al di là dell’aspetto sociale e legalitario, ce n’è però un altro ancora più complesso.

La diversità biologica si può ritenere per alcuni aspetti un’ingiustizia genetica. Porre ogni individuo nelle condizioni migliori per sviluppare al massimo grado le sue potenzialità, se può valorizzare quella diversità, almeno nel senso di non sopperire con i privilegi ad uno scarso valore personale e di non mortificare un valore autentico con condizioni ambientali inadeguate, nulla toglie al fatto che una diversa dotazione originaria di potenzialità e di attitudini rappresenta un premio gratuito per chi ne riceve di più e una penalizzazione per chi ne riceve di meno (posto tra parentesi il merito personale dell’uso che il soggetto fa dei “talenti” a lui assegnati dalla natura).

In un certo senso, indubbiamente paradossale, si può ritenere meno ingiusta di quella genetica l’eredità dei privilegi di classe, perché, se è criticabile il fatto che essi possano essere fruiti anche da soggetti con scarso valore, qualcuno degli antecedenti deve esserseli guadagnati.

La somma dell’ingiustizia genetica e di quella sociale spiega a sufficienza perché l’ideale dell’uguaglianza finora si è realizzata solo in misura modesta. Se si ritiene che tale ideale sia veramente la quintessenza della democrazia, procedere verso una sua ulteriore realizzazione può significare solo due cose: ridurre le ingiustizie sociali, diminuendo progressivamente l’eredità dei privilegi e creando opportunità che consentano a ogni individuo di realizzare al massimo grado le proprie potenzialità (fermo restando che egli rimane libero di non utilizzarle al massimo grado); e compensare le ingiustizie genetiche risarcendo, nella misura in cui è possibile, chi ha avuto meno dalla natura.

Quest’ultimo criterio è implicito nel discorso di Dobzhansky laddove egli fa cenno al fatto che un lavoro umile e logorante possa, in futuro, essere pagato più di un altro che è intrinsecamente appagante.

Naturalmente la realizzazione di questo criterio urta contro una serie indefinita di problemi. E’ senz’altro possibile prevedere che a scuola un bambino modestamente dotato che dà il massimo venga valutato in rapporto allo sforzo e non solo al risultato. Già estendere questo criterio al mondo del lavoro è arduo perché pagare un operaio poco dotato che dà il massimo più di un altro dotato che fornisce la stessa prestazione sicuramente disincentiverebbe quest’ultimo.

E’ possibile, e già avviene, che un soggetto affetto da un’invalidità sia privilegiato nell’acquisire un lavoro rispetto ad uno sano. Ma quale risarcimento si potrebbe dare ad una persona che nasce con un aspetto estetico mediocre o francamente brutto?

Anche se il tema del risarcimento, riferito all’ingiustizia genetica, è oltremodo complesso, penso che esso meriti una riflessione profonda. Forse non se ne troverà la soluzione, ma almeno ci si porrà al riparo dal pericolo che, via via che cresce la cultura genetica, alcune persone debbano prendere atto di essere vittime di un’ingiustizia casuale.

Avendo definitivamente accertato che gli uomini sono unici e irripetibili in conseguenza del loro corredo genetico, ma anche che i corredi genetici comportano una distribuzione casuale e non omogenea delle qualità fisiche e psichiche, la genetica pone problemi che richiedono un’attenta valutazione in sede antropologica, filosofica e politica.