JEAN VERNETTE

L'ALDILA'

Editori Riuniti, Roma 1999

1.

"C'è un aldilà dopo la morte, oppure l'essere umano sparisce definitivamente in quanto tale in quell'istante? L'umanità si pone da sempre questa domanda, antica quanto l'Uomo. La rappresentazione dell'aldilà è un punto chiave dell'interrogarsi religioso sull'origine e sulla fine." (p. 9)

Professore di teologia presso l'Università di Tolosa, Jean Vernette affronta il tema dell'aldilà da un punto di vista storico e teologico. Il suo intento evidente è di dimostrare che l'attenzione prestata da tutte le culture al problema del dopo-morte è indiziaria: "I filosofi e i teologi nel loro insieme vedono in questa fede nella sopravvivenza la rivelazione, addirittura la prova stessa che la natura dell'uomo implica ed esige la propria durata. Se non riesce ad immaginare una fine che suggelli definitivamente e totalmente la sua esistenza, vuol dire che l'idea del nulla è contraria alla sua natura profonda. L'uomo è ontologicamente fatto per un'eternità che è iscritta nel suo essere e che finalizza la sua esistenza. E' questa dimensione d'immortalità che lo distingue da tutti gli altri esseri viventi" (p. 29).

La lettura del libro non mi sembra confortare molto questa tesi. E' vero che dal paleolitico sino ad oggi presso tutte le culture è reperibile una qualche credenza in un mondo dopo la morte. Il problema è che la straordinaria varietà delle credenze, se esprime un'universale preoccupazione, che può essere interpretata in termini psicologici più che ontologici, pone in luce in maniera poco confutabile la loro arbitrarietà o, per essere più precisi, la loro dipendenza dall'attrezzatura culturale, da circostanze ambientali e storiche e, addirittura, da fattori casuali. Per arrivare a questa conclusione, basta seguire l'esposizione delle varie rappresentazioni dell'aldilà maturate nel corso della storia.

Presso i primitivi, la pratica dell'inumazione, associata alla deposizione accanto al cadavere di oggetti familiari (cibo, armi, gioielli, ecc.) di cui si riteneva che il morto avesse bisogno, lascia pensare che la sopravvivenza era concepita in riferimento ad un "doppio", impalpabile e invisibile, che mantiene le caratteristiche del vivo. In quest'ottica, il "doppio" può pensare, parlare, volere, provare delle passioni, la fame, la sete, il piacere e il dolore. Esasperato dall'esclusione rispetto alla comunità, esso va onorato e curato per evitare che s'incattivisca. La continuità tra la vita terrena e il dopo-morte esclude qualunque riferimento al merito o al demerito.

Il "doppio", insomma, continua ad appartenere alla comunità, ad avanzare i suoi diritti, la cui realizzazione ricade sui vivi data la sua condizione d'impotenza, e a minacciare rappresaglie in rapporto ad una possibile inadempienza.

Non occorre molta fantasia, che all'autore del libro evidentemente difetta, per capire che l'intuizione originaria della sopravvivenza dopo la morte, che ha governato la cultura umana per un periodo sterminatamente lungo - dalla comparsa della specie umana all'avvio della storia -, è da attribuire ad un fatto psicologico: la ricorrente presenza dei morti nei sogni, espressione delle memorie e delle ambivalenze che caratterizzano tutti i rapporti umani significativi. Ancora oggi, questa presenza viene vissuta realisticamente da soggetti che appartengono a culture evolute. Data la natura proiettiva dei sogni, non sorprende che in essi i morti esprimano i bisogni dei vivi.

Se si vuol trarre una conclusione dalle rappresentazioni primitive della sopravvivenza, tale conclusione è che la mente umana non ha la capacità di rappresentare la condizione dell'esser morto, e colma questa lacuna ricostruendo una situazione omologabile, per alcuni aspetti, all'unica che essa sperimenta.

Il sorgere delle grandi civiltà mediorientali pone di fronte a due diverse rappresentazioni dell'aldilà, in una certa misura antitetiche, che pongono in luce l'incidenza dei fattori ambientali.

In Egitto il diritto all'immortalità spetta originariamente solo al Faraone, si estende successivamente ai suoi familiari, ai nobili, ai guerrieri e ai sacerdoti, e solo tardivamente (intorno al 1000 a. C.) a tutti i sudditi. Nel regno dei morti si conduce una vita simile a quella terrena in una contrada chiamata "i campi di Ialù", ove vi sono palmeti e acque rinfrescanti. Per accedere ad esso, però, l'anima deve sottoporsi al giudizio di 42 divinità presiedute da Osiride, che la pesano sulla bilancia di giustizia e verità. Solo avendo superato quest'esame, l'anima può unirisi ai beati, venendo deificata.

E' evidente, nel caso dell'Egitto, che l'identificazione originaria del Faraone con Dio si è riverberata lentamente su tutta la struttura sociale, concedendo infine ad una popolazione contadina che viveva nella miseria e nello sfruttamento la possibilità di aspirare ad un'altra vita.

In Mesopotamia, viceversa, vige un pessimismo radicale sull'aldilà. Lo si raffigura come un mondo sotterraneo chiamato la terra senza ritorno, la terra lontana, la casa delle tenebre e della polvere: è la dimora i cui abitanti mancano di luce, dove la polvere è il loro nutrimento. Anche l'accesso questo mondo è difficoltoso: l'ombra deve superare varie difficoltà. Se fallisce, essa resterà per perseguitare i vivi. Questo destino precluso all'immortalità è dovuto all'imperscrutabile volontà degli dei che, creando il genere umano, gli hanno assegnato il destino di morire riservando solo a se stessi l'immortalità.

Del tutto diversa è la rappresentazione dell'aldilà nelle culture orientali. Sia l'induismo che il buddismo non ammettono l'esistenza di un'anima individuale immortale. Nell'induismo, esiste un principio permanente - l'atman -, che però è eterno, in quanto espressione dell'Assoluto (Brahman). L'esistenza individuale è impigliata nel ciclo delle reincarnazioni, che comporta passaggi successivi nell'aldilà. Il ciclo delle reincarnazioni è riconosciuto dal buddismo, che però lo attribuisce alla pressione dei desideri, che sono la matrice del dolore. L'unica salvezza è la fuoriuscita dal ciclo delle esistenze, che può avvenire mortificando la sete di vivere, fino al punto di raggiungere uno stato d'illuminazione in conseguenza del quale si realizza la dissoluzione dell'individualità e il ricongiungimento dell'atman con l'Essere unico, impersonale.

Nelle religioni monoteistiche nate dalla matrice unica dell'Antico Testamento l'aldilà non è concepito in maniera univoca. Fino ad un'epoca tardiva, vale a dire fino al secondo secolo prima di Cristo, l'Ebraismo è una religione del mondo. Dopo la morte, i trapassati vivono come larve, in uno stato letargico, in un luogo sotterraneo (lo Scheol), nel quale non si dà distinzione tra buoni e cattivi, né, dunque, ricompense o punizioni. Solo dopo l'esilio, la catastrofe che si è abbattuta su Israele e la persistenza di una relatà tale per cui i giusti soffrono e gli empi godono, fa affiorare il riferimento alla resurrezione e ad un Giudizio finale in seguito al quale Dio concederà ai giusti l'accesso al paradiso. Accettata dai Farisei, che introducono anche la distinzione tra un giudizio individuale subito dopo la morte e uno universale alla fine dei tempi, la resurrezione viene però rifiutata dai Sadducei.

Solo alla fine del primo secolo dopo Cristo, la teologia ebraica fisserà il tema dell'aldilà sulla sequenza classica che comporta l'avvento del Messia, l'annientamento dei nemici di Israele e dei cattivi ebrei, l'inaugurazione del regno di Dio e il Giudizio finale, in seguito al quale i meritevoli saranno destinati alla beatitudine e i colpevoli alla valle maledetta, dove bruceranno.

Questa stessa sequenza viene ripresa dal Cristianesimo, che però la rinnova in due punti. La via dell'immortalità e della felicità eterna è restaurata dall'avvento di Gesù, Figlio di Dio, che affranca con il suo sacrificio l'umanità dal peccato originale. La salvezza è, peraltro, aperta a tutti gli uomini di buona volontà.

L'aldilà, nella teologia cristiana, riconosce quattro diverse destinazioni. L'inferno è il luogo di supplizio dei dannati, ove essi sperimentano sia la privazione di Dio sia la pena fisica dei sensi. I bambini che non sono stati battezzati sono destinati al limbo, ove essi sono deprivati del rapporto con dio ma non assoggettati a pene corporali. Il purgatorio, che si definisce solo nel XIII° secolo, è un luogo di transizione e di purificazione. Ivi risiedono coloro che devono scontare peccati non gravi prima di accedere al paradiso. Alla fine dei tempi, il purgatorio è destinato a rimanere vuoto. Il Paradiso o regno dei cieli è il luogo di soggiorno delle anima salvate, che godranno per sempre di una beatitudine incentrata sulla contemplazione di Dio.

La vita nell'aldilà comporta, nella teologia cristiana, la resurrezione dei corpi. Il godimento paradisiaco come la sofferenza infernale, di conseguenza, riguarderà sia l'anima che il corpo.

L'Islam modella la sua concezione dell'aldilà sulla tradizione biblica. Preceduto da sconvolgimenti cosmici, il Giudizio finale rappresenterà la vittoria di Allah sulla morte e sul male. In seguito al Giudizio, i beati accederanno al paradiso concepito come luogo di gioie terrene - sorgenti, banchetti, fanciulle radiose, ecc. I dannati precipiteranno in un inferno dominato al fuoco, dalla pece bollente e dallo zolfo fuso.

2.

La rassegna delle rappresentazioni dell'aldilà non può trascurare due aspetti piuttosto recenti, maturati all'interno della cultura occidentale. Il primo è lo spiritismo; il secondo, la negazione dell'aldilà e della sopravvivenza.

Lo spiritismo non ha solo un interesse storico. Se sotto forma di esoterismo o di teosofia esso è temporalmente coestensivo del cristianesimo, è pur vero che, dopo una crisi intervenuta sulla fine dell'800, esso ha recuperato di recente terreno dando luogo alla religione new-age. Si tratta di un orientamento estremamente composito, il cui unico elemento unificante fa riferimento all'esistenza nell'uomo di un principio spirituale diversamente definito, con accezioni talora più vicine all'anima individuale cristiana, talaltra più simili all'Atman orientale. A seconda di queste diverse accezioni, lo spirito viene considerato ora come un'emanazione di Dio, la fiammella della divinità presente nella natura umana, ora come un frammento dell'Essere unico le cui peregrinazioni devono, infine, concludersi con il ricongiungimento. In conseguenza di queste diverse accezioni, il rapporto dello spiritismo con le religioni storiche è controverso. Alcuni rappresentanti dello spiritismo sostengono la compatibilità della teoria con qualsivoglia religione; altri la ritengono una sapere profondo, esoterico, che trascende l'ottica "popolare" delle religioni.

La religione new-age porta al massimo grado la confusione intrinseca a tutte le teorie spiritiste. Essa, infatti, prescinde da una divinità personale, fa riferimento all'anima come dimensione la cui coltivazione può portare ad un benessere completo psicofisico, oscilla di continuo tra il misticismo panteistico e il distacco nirvanico dalla realtà.

Anche la negazione dell'aldilà e della sopravvivenza ha una lunga tradizione che si può fare risalire all'epicureismo. Le sue espressioni più recenti sono legate, per un verso, al materialismo storico marxiano e, per un altro, al materialismo legato alle scienze naturali (fisica, biologia). Al di là di queste influenze, occorre considerare il processo di secolarizzazione che ha investito le società occidentali, il quale comporta una concezione della vita totalmente vincolata all'orizzonte mondano. In questa ottica, le espressioni estreme dell'ateismo, che nega Dio e la sopravvivenza dell'anima, sono temperate dal riferimento generico a qualcosa che esiste dopo la morte, e che però non sostanzia un atteggiamento religioso.

3.

Se questo è il panorama storico e culturale in rapporto al problema dell'aldilà, c'è da chiedersi che cosa esso significhi nel suo complesso. L'ipotesi di Vernette, che ricava dall'universalità delle credenze sul dopo-morte la prova di un bisogno ontologico d'immortalità, mi sembra ben poco fondata. Intanto perché tale bisogno, recepito dalle grandi religioni monoteistiche e attribuito all'individuo, è negato dalle religioni orientali, e in particolare dal buddismo, nel quale non si dà alcun anelito di beatitudine riferito ad un io individuale, ma solo ansia di estinzione della vita e con essa del dolore. Nell'ottica buddista, l'immortalità come vita esente dalla morte non ha come obiettivo quello di perpetuare un'individualità, bensì di trascenderla, dissolvendola. Nella sua essenza più intima, il buddismo è una filosofia nihilistica, che giunge a definire anche l'Assoluto come vuoto e insignificante.

Le religioni monoteistiche che, ancora oggi, coinvolgono due miliardi di persone, sono indubbiamente e univocamente attestate su di una rivendicazione d'immortalità individuale. Ma c'è da considerare che tale rivendicazione non è originaria, essendosi definita solo parecchi secoli dopo la rivelazione mosaica. Fino al secondo secolo a. C., la religione ebraica è una religione del mondo, che non assegna alcun significato all'aldilà. Il tema della vittoria sulla morte è centrale nel Cristianesimo e nell'Islamismo. Ma la concezione dell'aldilà della teologia cristiana, con quattro spazi separati (paradiso, purgatorio, inferno, limbo), sembra una costruzione intellettualmente confusa più che il frutto di una rivelazione.

Quello che c'è di confuso nella teologia cristiana dell'aldilà si può spiegare in termini storici.

Il messaggio originario di Gesù è apocalittico. Esso fa riferimento alla perdita di ogni speranza, maturata nel corso della storia del popolo ebraico, riguardo alla possibilità che sulla terra s'istaurasse il regno di Dio. L'esigenza suprema della giustizia promuove dunque naturalmente il riferimento alla fine del mondo, al di là del quale i meriti e i demeriti daranno luogo ad una separazione netta e definitiva dei giusti e degli empi, destinati rispettivamente alla beatitudine e alla dannazione.

In quest'ottica di scissione dell'umanità in due categorie - giusti e empi - che, sulla terra, sono confuse, non si dà alcuna preoccupazione per problemi che affioreranno solo successivamente. Il limbo, inesistente nel vangelo, verrà inventato dai teologi quando essi, nei primi secoli dopo Cristo, affronteranno il problema della destinazione di esseri gravati dal peccato originale e non emendati dal battesimo. Destinarli all'inferno sarebbe stata un'ingiustizia, ma riservare anche ad essi il paradiso avrebbe compromesso il valore salvifico del battesimo, espressione del sacrificio di Cristo. Il compromesso intervenuto è evidentemente infelice sotto il profilo teologico. Di meglio, però, per costrizioni dottrinali, non si poteva fare.

Ancora più singolare, come ho rilevato in un articolo (La Chiesa e la Borsa), è l'invenzione cristiana del Purgatorio, che interviene, senza alcun riferimento testuale, nel XIII° secolo. In questo caso, il problema storico è il destino ultraterreno degli usurai e dei mercanti. Destinati univocamente all'inferno fino allora, in nome del tabù dell'usura biblico ripreso da Gesù, essi non potevano ulteriormente essere esclusi dalla salvezza: primo, perché la loro funzione sociale, propedeutica del capitalismo, non appariva più univocamente negativa; secondo, perché non pochi di essi finivano con il pentirsi e con il restituire il denaro "rubato" alla comunità, vale a dire alla Chiesa. La loro vita sciagurata, in quanto sottesa dal culto di mammona, non consentiva l'accesso immediato in paradiso; il loro pentimento finale, e generoso, rendeva ingiusta la dannazione. Il Purgatorio ha risolto il problema.

Basterebbe questo solo dato, che è stato ormai inconfutabilmente ricostruito dagli storici, ad attestare che le concezioni teologiche sull'aldilà sono influenzate dagli eventi storici più di quanto si voglia riconoscere.

Storicizzare il problema delle rappresentazioni del dopo-morte non è però del tutto possibile. Rimane il fatto che la loro diffusione universale attesta un qualche bisogno intrinseco all'apparato mentale umano. Il problema è se tale bisogno sia di ordine ontologico o psicologico.

4.

Un intero capitolo di Abracadabra è dedicato a auqello che ho definito il ricatto dell'infinito. Una citazione chiarisce il concetto:

"La differenziazione dell'uomo è riconducibile grosso modo a tre fattori: star ritto su due piedi, avere il pollice capace di opporsi alle altre dita, disporre di più materia grigia. Per quanto siano importanti tutti e tre, nessuno dubita che il vero tesoro (o la fregatura secondo i pessimisti) è quello che l’uomo ha finito col ritrovarsi nella cassaforte del cranio. Non appena si giunge a questo nodo, gli specialisti entrano in trance per via del pensiero e del linguaggio. Il salto dall'intelligenza animale a quella umana gli sembra incommensurabile. E lo è, ma diventa incomprensibile se lo si riduce alla capacità di costruire utensili e di maneggiare simboli. Quel salto è avvenuto anche a livello emozionale, del sentire. Ed è stato tanto rilevante che ancora oggi la ragione stenta a tenergli dietro. Ciascuno può verificarlo facilmente.

Basta chiudere gli occhi, e lasciare scorrere il tempo davanti a sè. Cos'è il tempo lo mettiamo da parte, altrimenti il gioco si ingarbuglia. Pensare al futuro è un modo di dire. Con gli occhi chiusi, si può solo vagamente sentire un qualcosa che scorre. Fino a un certo punto, si può riempirlo con i propri desideri: è il tempo da vivere. E poi? Quel qualcosa continua a scorrere, e comincia a dare i brividi. Dove va a finire il tempo? Non finisce: è questo il problema. E che ci fa nella nostra testa un tempo infinito? Già, che ci fa? Forse è un'illusione, un trabocchetto della mente. Ma ci si casca dentro egualmente.

Per un altro esperimento gli occhi bisogna aprirli e sdraiarsi a guardare il cielo (meglio se stellato). La volta trapuntata di stelle appare compatta e sferica, ma, per via di quel brillucchio, comincia a muoversi dentro un qualcosa che sa di inquietudine. Se si insiste, pensando casomai che qualche raggio di luce proviene da una stella che ormai è spenta, sopravviene una vaga vertigine. Anche lo spazio, come il tempo, si apre sull'infinito.

Due esperienze banali ma istruttive però perché ci pongono di fronte a una realtà interiore inconfutabile: l’orizzonte previsionale della mente umana è illimitato. E non si tratta di un fatto di cultura: anche un rozzo pastore errante dell'Asia lo sperimenta. Anzi gli riesce più facile rispetto a noi che viviamo iscatolati nelle case e abbiamo sempre sotto gli occhi un ingannevole orologio. Mettiamo da parte (si fa per dire) la filosofia. Qui, è il fatto nudo e crudo che ci interessa. Che ci fa l'infinito spazio-temporale nella nostra testa? Sapessi rispondere su due piedi, avrei trovato la chiave che apre tutte le porte. Accontentiamoci, per ora, del buco della serratura.

Se ci si mette a guardare delle scimmie - tralasciando il fatto che, per concederci questo trastullo, hanno dovuto acchiapparle, deportarle e ingabbiarle -, prima o poi ci si commuove. Non solo sentono tutto quello che un uomo può sentire - la gioia, la tristezza, il piacere, il dolore, l'amore, la gelosia, la colpa, la paura, la rabbia - ma lo esprimono mimicamente e gestualmente con una schiettezza che l'educazione ci ha tolto. Provano anche emozioni complesse: si vergognano se qualcosa non gli riesce, s'arrabbiano quando si sentono prese in giro, giocano, barano e talora si accapigliano. Sono capaci addirittura di sentirsi in colpa. In gruppo poi saltano subito all'occhio delle differenze individuali: un membro è imbranatello, un altro sveglio, uno gioca sempre con gli altri, un altro tende a starsene un po' in disparte. Viene da pensare che gli manca solo la parola. Ma non è così. Se chiude gli occhi, la scimmia fantastica (se in gabbia) le noccioline. Se li volge al cielo, cerca (invano) un bell'albero su cui volteggiare. Insomma, il suo orizzonte di esperienza è limitato nello spazio e nel tempo: si apre quel tanto - in termini di ore e di metri - che basta a permetterle di pensare con la fantasia di poter stare un po meglio. L’orizzonte spazio-temporale proprio degli esseri umani rischia invece di farli stare male. Certo anche noi, più delle scimmie, possiamo riempirlo con aspettative, desideri, progetti. Ma, indipendentemente dal fatto che anche l'ansia - che rovescia tutte queste cose nel contrario - ce lo riempie, rimane comunque un'eccedenza, una specie di buco nero. Un salto evolutivo sorprendente. A che serve l'educazione se, oltre a come ci si comporta in società, nessuno ci dice che diavolo farci col magone dell'infinito?

Qualcosa ci dicono. Il catechismo spiega proprio tutto. Perciò tanta gente che non crede o fa finta di credere solo a Natale e a Pasqua ci tiene che i figli a scuola facciano l'ora di religione. Intanto - si dice - perchè non fa male (e non è vero: di gente terrorizzata dal demonio e dall'inferno ce n'è in giro ancora tanta), e poi perchè il giorno che il figlio - succede presto - aggancia l'idea che tutti dobbiamo morire, e ci rimane di stucco, la risposta è bell'e pronta. Basta confermare il teorema, che già gli è stato impartito, anche se non risulta in alcun libro di geometria, per cui un segmento pare un segmento, ma in realtà è una semiretta, e il gioco è fatto. E se il frugolino poi, già informato di come è venuto al mondo, col papà e la mamma incastrati come i pezzi del Lego e il buon Dio che, in quel momento, paff!, infonde l'anima, non è contento, e vuole sapere chi c'era prima di Dio, gli si dice che non c'era niente: solo Dio, che è eterno. Punto e basta. Il problema è risolto per sempre, nel senso che uno, anche se perde la fede per via, su non ci ritorna, e convive con questa bazzecola come fosse acqua fresca.

In gran parte, il mistero della mente umana è in questa potenzialità di sentire lo spazio e il tempo aperti all'infinito prima ancora che l'essere capace di ragionare. Tra le due cose - è chiaro - un nesso c'è. Sull'infinito ci sguazzano da sempre, oltre che i preti, che hanno un filo diretto con l'al di là, i filosofi, i matematici, i fisici, gli astronomi. Segno che su di esso si può pensare. Ma, in sè e per sè, non è un prodotto del pensiero riflessivo, bensì un'intuizione emozionale propria della mente umana (dal che, con un certo anticipo, si può ricavare che le emozioni sono, a modo loro, pensiero). Onnipresente. Rubinetti a tenuta stagna (quelli dei quali si sente la mancanza quando ci si vorrebbe liberare di qualche fissa) nel congegno non se ne danno."

L'intuizione emozionale dell'infinito spazio-temporale è la matrice che ha "costretto" l'uomo a colmare lo scarto tra quest'intuizione e la consapevolezza d'essere finito, che è una conseguenza di quella, tentando di rappresentarsi l'aldilà. L'infinito non è una dimensione ontologica, bensì psicologica. Essendo in grado d'intuirla l'uomo, semplicemente non tollera che essa lo trascenda. Presuntuosamente, o per effetto dell'angoscia, tende a pensare che quella dimensione abbia qualcosa a che vedere con la sua sorte dopo la dissoluzione dell'organismo biologico. Non si arrende, insomma, al fatto che, essendo la sua mente in grado d'intuire l'infinito, ciò non significhi che essa possa perdurare fuori e al di là del tempo.

La credenza universale sull'aldilà rivela, dunque, un limite della mente umana, quello per cui, non essendo in grado di rappresentare la condizione del non esserci, essa lo nega.

Nel mio bloc-notes personale, che mi guarderò bene dal pubblicare, risulta il seguente pensiero:

"L'immortalità è una prospettiva patetica e agghiacciante. Quale significato mai potrebbe avere il prolungamento all'infinito di esperienze che già nell'arco della vita terrena sono assolutamente vuote di senso? Eppure sono proprio le persone più mediocri, incapaci di utilizzare umanamente il tempo finito da vivere, che rivendicano l'immortalità. Concepire la felicità eterna come unione appagante con l'Essere è una banalità. L'Essere è noioso perché è statico."

Il libro di Vernette mi conferma in quest'idea.

Aprile 2004