Joseph Ratzinger

Gesù di Nazaret

Rizzoli, Milano 2007

1.

Il Cristianesimo si è separato dall'Ebraismo valorizzando al massimo grado la figura di Gesù, Figlio di Dio generato non creato dal Padre, incarnatosi per portare la salvezza all'umanità, il quale condivide lo statuto divino con il Padre stesso e con lo Spirito Santo. Tale valorizzazione, che ha costretto la Chiesa a sancire il dogma trinitario, che appare scandaloso agli occhi degli Ebrei e dei Musulmani, è stata imposta dall'esigenza di incorporare nel Cristianesimo la preesistente religione biblica, dando ad essa un nuovo significato. Per un verso quest'esigenza può essere ricondotta al fatto che Gesù stesso, nella sua predicazione, fa presente che non è venuto a cambiare ma a completare la rivelazione mosaica.

Posto che questo nesso di continuità con la tradizione ebraica sia autentico, e non aggiunto successivamente dagli evangelisti, è fuor di dubbio che si tratta di un nesso più mediato dal pensiero profetico che non dalla religione mosaico in sé e per sé. Laddove, infatti, per esempio, Gesù sostituisce alla legge del taglione quella del perdono e dell'amore per il nemico, egli opera una rottura culturale di enorme portata

Per un altro verso, l'esigenza suddetta fa capo alla necessità di dare un senso al sacrificio di Gesù, riscattando la sua morte dall'abominio della crocifissione e assumendola come il prezzo da pagare per restaurare l'alleanza tra Dio e l'uomo compromessa dal peccato originale. Il problema, da questo punto di vista, è che del peccato originale si parla solo nel Genesi e, più in particolare, nella seconda versione della creazione. Per mantenere il raccordo col Genesi la Chiesa è stata costretta a canonizzare tutto il Pentateuco, i Libri Storici, quelli Profetici. Certo in essi è evidente una lenta evoluzione del pensiero teologico verso una forma di monoteismo meno rozza rispetto a quello originario, che, di fatto, è una monolatria. Il prezzo però è stato elevato: con la religione mosaica e quella profetica, infatti, la Chiesa ha dovuto accettare tutto ciò che di mitologico, di inverosimile e di contraddittorio si dà nei libri. dell'Antico Testamento.

Non sorprende pertanto che, nella storia del Cristianesimo, si sia definita la tendenza ad accentuare il rilievo dei Vangeli e della figura di Gesù nell'economia della Rivelazione, fino al punto che, oggi, la religione Cattolica è marcatamente cristologica.

Il libro del Papa rientra in questo filone, ma, al di là dell'insistente tentativo di confermare l'unità e la complementarietà dell'Antico e del Nuovo Testamento, che merita ormai neppure di essere smentita tanto essa è insostenibile, offre lo spunto per molteplici riflessioni.

Una premessa è indispensabile preliminarmente.

Il messaggio di Gesù, in sé e per sé, non ha nulla di trascendentale. Nella storia della cultura si sono dati periodicamente Maestri che hanno richiamato gli uomini a riconoscere la loro sostanziale uguaglianza, a realizzare una comunità incentrata sulla fraternità, sulla solidarietà, ecc., e a praticare una morale superiore a quella corrente: una morale per cui l'uomo è un fine e non un mezzo.

La specificità del messaggio di Gesù è riconducibile al contesto in cui è vissuto: il contesto di un popolo religioso che, avendo avuto la rivelazione divina, dopo mille anni di storia era attraversato da ingiustizie di ogni genere, era dominato dai Pagani e indulgeva sterilmente a confondere la religiosità con il rispetto di regole ritualistiche. Tale specificità spiega il sostanziale pessimismo di Gesù per lo stato esistente nel mondo, la perdita di ogni speranza riferita alla possibilità dell'instaurarsi del regno di Dio sulla Terra, la sua aspirazione a morire e la prospettiva apocalittica nella quale coinvolge i suoi discepoli, i pochi eletti (ebrei) che scamperanno alla fine del mondo e alla punizione divina.

Una lettura obbiettiva dei vangeli conferma inoppugnabilmente la verità di questa interpretazione che fa di Gesù un profeta ispirato da elevati principi morali e al tempo stesso disperato sulla possibilità che tali principi potessero realizzarsi nell'orizzonte mondano.

A distanza di duemila anni, il realismo pessimistico di Gesù sembra confermato dai fatti. Il mondo è ancora preda dell'ingiustizia, dell'arbitrio, della sopraffazione dell'uomo sull'uomo. Se, come ha affermato di recente il Papa, il Comunismo e il Capitalismo sono falliti nel costruire un mondo fatto a misura d'uomo, il Cristianesimo, che ha detenuto anche il potere temporale per alcuni secoli, non si può dire certo vittorioso. Il suo attecchimento non ha mai coinvolto che una parte minoritaria, per quanto rilevante, dell'umanità - un quinto attualmente.

Per spiegare questo, si può fare riferimento all'opera di Satana, ma la Chiesa è molto cauta nel fornire tale spiegazione, che implicherebbe una potenza del Diavolo superiore a quella di Dio.

Ratzinger predilige un'altra spiegazione, più raffinata. Egli ritiene che il messaggio di Gesù non è stato ancora capito dagli uomini nella sua profondità e nel suo valore salvifico. Richiede dunque un'ulteriore sforzo esegetico. Tale sforzo non solo deve renderlo finalmente (dopo duemila anni) accessibile a tutti gli uomini, ma mira anche a salvaguardare la figura e l'opera di Gesù da un lavorio critico (dovuto a studiosi laici e a teologi liberali o modernisti) che ne avrebbero pacato il carisma.

Con ciò entriamo in medias res.

2.

Il testo è inaugurato da una Premessa estremamente densa sotto il profilo metodologico e si conclude con un apparato bibliografico imponente. Questa cornice dovrebbe dare immediatamente la misura della serietà di un lavoro che si riconduce ad una lunga riflessione sulla figura di Gesù.

Nella Premessa, Ratzinger fa riferimento alla svolta intervenuta negli studi su Gesù con l'avvento del metodo storico-critico:

"A cominciare dagli anni Cinquanta la situazione cambiò. Lo strappo tra il ´Gesù storico' e il ´Cristo della fede' divenne sempre più ampio; l'uno si allontanò dall'altro a vista d'occhio. Ma che significato può avere la fede in Gesù il Cristo, in Gesù Figlio del Dio vivente, se poi l'uomo Gesù era così diverso da come lo presentano gli evangelisti e da come, partendo dai Vangeli, lo annuncia la Chiesa?

I progressi della ricerca storico-critica condussero a distinzioni sempre più sottili tra i diversi strati della tradizione. Dietro di esse la figura di Gesù, su cui poggia la fede, divenne sempre più nebulosa, prese contorni sempre meno definiti. Nello stesso tempo le ricostruzioni di questo Gesù, che doveva essere cercato dietro le tradizioni degli evangelisti e le loro fonti, divennero sempre più contrastanti: dal rivoluzionario anti-romano che mira al rovesciamento dei poteri esistenti e naturalmente fallisce, al mite moralista che tutto permette e inspiegabilmente finisce per causare la propria rovina. Chi legge di seguito un certo numero di queste ricostruzioni può subito constatare che esse sono molto più fotografie degli autori e dei loro ideali che non la messa a nudo di una icona fattasi sbiadita. In conseguenza di ciò nel frattempo è sì cresciuta la diffidenza nei confronti di tali immagini di Gesù; la figura stessa di Gesù, tuttavia, si è allontanata ancora più da noi.

Come risultato comune di tutti questi tentativi è rimasta l'impressione che, comunque, sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo in seguito la fede nella sua divinità abbia plasmato la sua immagine." (p. 7-8)

Ora, se "il metodo storico-critico... è e rimane una dimensione irrinunciabile del lavoro esegetico [essendo] per la fede biblica fondamentale il riferimento a eventi storici reali" (p. 11), " è importante che vengano riconosciuti i limiti dello stesso metodo storico-critico." (p. 12)

Tali limiti sono da ricondurre ovviamente al fatto che quel metodo ha compromesso definitivamente ciò che la Chiesa ritiene essenziale: l'unità della "Scrittura" e in particolare il nesso di continuità che si dà tra l'Antico e il Nuovo Testamento. Il problema è che quella unità e quel nesso non sono nei testi, bensì nell'esegesi che la Chiesa fornisce di essi. Anziché rilevare i limiti del metodo storico-critico, peraltro del tutto noto a coloro che lo adottano i quali, essendo in genere storici di professione, prescindono dal mito di una ricostruzione integrale del passato, attenendosi al principio di discernere quello che si può ritenere comprovato o almeno verosimile da ciò che è solo ipotizzabile, presunto o addirittura inverosimile, Ratzinger si sarebbe dovuto piuttosto interrogare sul metodo esegetico, cioè sulla tendenza a risolvere le contraddizioni messe in luce dal metodo storico-critico omettendo ciò che essi dicono o facendo dire ad essi ciò che non dicono.

Già nell'Introduzione questa tendenza riesce del tutto evidente, preceduta peraltro da un'osservazione di un certo rilievo che concerne il significato della religione:

"In ogni epoca l'uomo si è interrogato non solo sulla sua originaria provenienza; ancor più che dall' oscurità delle sue origini egli è preoccupato dall'impenetrabilità del futuro a cui va incontro. Vuole strappare la cortina; vuole sapere che cosa accadrà per poter evitare la sventura e andare incontro alla salvezza.

Anche le religioni non mirano solo a rispondere alla domanda circa la provenienza; tutte cercano in qualche modo di sollevare il velo che copre il futuro. Esse appaiono importanti proprio in quanto trasmettono sapere su quello che verrà e possono così indicare all'uomo la strada che deve prendere per non fallire. Per questo, quasi tutte le religioni hanno sviluppato forme di previsione del futuro." (p. 21-22)

La sventura, il fallimento cui Ratzinger fa riferimento è semplicemente il destino mortale che incombe sull'uomo in quanto ente naturale. Considerare sventurato e fallimentare tale destino è un'umana debolezza, che fa capo semplicemente alla presunzione della coscienza di non riuscire ad ammettere che la realtà possa sopravvivere al suo annichilimento. Identificare nella religione lo strumento che rimedia a tale debolezza alimentando quella presunzione è una verità storica, che non fa molto onore ad essa. Non sarebbe concepibile, forse, una religione che assegnasse al credente il dovere di vivere bene la sua stagione mondana e di uscire dal mondo con la consapevolezza di avere adempiuto bene il suo compito?

Certo che sarebbe possibile, tanto è vero che la stessa religione veterotestamentaria era una religione del mondo, che, fino ad epoca tarda, non prendeva in considerazione l'al di là. Di fatto, però, la Chiesa non può rinunciare a quella che è stata ed è la sua arma vincente: la promessa dell'immortalità e della vita eterna.

3.

Con l'Introduzione si entra in medias res sul piano dell'uso esegetico (disinvolto) dei testi. Ratzinger intende sancire l'attendibilità di Gesù come testimone della volontà del Padre e, a tal fine, segue un tragitto singolare.

Parte da una citazione del Deuteronomio, nella quale Mosè afferma "Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te [...] un profeta pari a me; a lui darete ascolto" (p. 23) smentita dal versetto finale che recita "Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè ñ lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia" (id); ridimensione la grandezza di Mosè sulla base del fatto che egli poteva parlare con Dio, ma non poteva vederne il volto; estrapola dalle citazioni la promessa di un nuovo Mosè e identifica il realizzarsi della promessa in Gesù, che invece vive al cospetto di Dio e dialoga con Lui faccia a faccia, senza veli. Dunque, l'insegnamento di Gesù, non derivando da un apprendimento come quello di Mosè, è più attendibile, e perfetto: è da ultimo la Verità.

Se applichiamo il metodo storico-critico ad un'esegesi del genere, che qualcuno definirà espressiva di una grande finezza teologica, vien fuori che si tratta di un banale artificio retorico per convalidare l'unità della Scrittura sulla base del fatto che Mosè, il profeta degli Ebrei, è imperfetto, mentre Gesù, in quanto figlio di Dio, è sommamente credibile.

Anzitutto c'è da sottolineare che, facendo riferimento al Deuteronomio come quinto Libro di Mosè, Ratzinger restaura l'attribuzione a questi dell'intero Pentateuco. L'attribuzione è insostenibile perché la critica ha stabilito che il Deuteronomio, come i Numeri e il Levitico, sono stati scritti dai sacerdoti del VI secolo, a distanza di centinaia di anni dalla scomparsa di Mosè. Il fatto che in esso Mosè risulti promulgatore della nuova legge, molto più complessa rispetto ai Comandamenti, è un artificio dei redattori.

Questi peraltro scrivono in un periodo in cui ci sono stati Profeti, come il primo e il secondo Isaia, e ce ne sono, come il terzo Isaia, che hanno rinnovato profondamente la religione mosaica. Il problema è che essi, in misura maggiore o minore, sono tutti critici nei confronti del Potere sacerdotale, per cui i redattori del Deuteronomio si guardano bene, nella loro smania di tornare alla purezza della Legge mosaica, dal rilevarne la grandezza. Devono anzi sminuirla.

Mosè parla faccia a faccia con Dio senza poterne vedere il volto? La Bibbia attesta, certo, che le visioni di Mosè avvenivano mentre egli era circondato da una nuvola di fumo, ma quale volto egli avrebbe dovuto vedere? Che a distanza di secoli Gesù abbia affrancato il Padre dall'antropomorfismo dell'epoca mosaica non sorprende. Sorprende piuttosto che, nella storia del Cristianesimo, l'antropomorfismo si sia restaurato al punto tale che ogni cristiano può impunemente fissare il volto del Gran Vecchio con la barba.

Riesce evidente che il metodo storico-critico, mutatis mutandis, non si può applicare solo ai testi biblici, ma anche all'esegesi di essi.

Un ulteriore esempio si può trarre dal primo capitolo, dedicato al Battesimo di Gesù. Le riflessioni di Ratzinger a riguardo sono notevolmente contraddittorie. Per un verso, infatti, egli tenta di ricostruire lo sfondo storico entro la cui cornice si situa l'evento: uno sfondo caratterizzato dal dominio romano, dal potere sacerdotale dei sadducei, alleati con i Romani, dal rigore ritualistico dei farisei. La scrupolosità storica giunge fino al punto di riconoscere che non meno di due zeloti - vale a dire di rappresentanti di un movimento resistenziale o terroristico contro i pagani dominatori - erano presenti nelle file degli Apostoli, che Giovanni Battista era forse un aderente alla setta degli esseni, ritiratisi in comunità monastiche nell'attesa del crollo del potere sacerdotale che odiavano, e che, infine, Gesù stesso poteva avere avuto rapporti con l'essenismo. Data questa ricostruzione, in gran parte dovuta all'assiduo lavoro degli storici, ci si aspetterebbe una valutazione adeguata dell'evento battesimale.

Giovanni Battista è un predicatore del deserto, fieramente avverso ai farisei e, a maggior ragione, ai sadducei (che, anticipando Gesù, epiteta come vipere e maledice: "La scure già sta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni sarà tagliato e gettato nel fuoco" Mt 3, 10). Il Battesimo è un atto di sfida dichiarato nei confronti dell'autorità religiosa costituita, colpevole di aver portato il popolo ebraico lontano da Dio. Esso è anche una preparazione alla fine del mondo, ritenuta prossima ("Cambiate vita, perché il Regno dei Cieli è ormai vicino" Mt, 3, 2).

Sottoponendosi a questo rito iniziatico, Gesù attesta la condivisione del punto di vista di Giovanni Battista e del suo radicalismo teologico. Solo quando comincerà a predicare e a diventare "famoso" si differenzieranno due schiere di discepoli - quelli fedeli al Battista e gli adepri di Gesù - in competizione tra loro.

Certo, il Battesimo giovanneo ha un significato primario religioso e teologico, ma, dato il dominio della classe sacerdotale, il ritorno alla "vera" fede implica l'accettazione di uno scontro frontale con l'autorità costituita in nome di una visione apocalittica della realtà, la volontà dunque di giungere alle estreme conseguenze, inesorabilmente fatali.

Ratzinger, invece, lo interpreta come l'espressione della "missione" di Gesù di farsi carico dei peccati del mondo (di tutto il mondo...) per espiarli sulla croce:

"Solo a partire dalla croce e dalla risurrezione l'intero significato di questo avvenimento è divenuto chiaro. Scendendo nell' acqua, i battezzandi riconoscono i propri peccati e cercano di liberarsi dal peso di essere sottomessi alla colpa. Che cosa ha fatto Gesù? Luca, che in tutto il suo Vangelo presta una viva attenzione alla preghiera di Gesù, e lo presenta costantemente come Colui che prega - in dialogo con il Padre -, ci dice che Gesù ha ricevuto il battesimo stando in preghiera (cfr. 3,21). A partire dalla croce e dalla risurrezione divenne chiaro per i cristiani che cosa era accaduto: Gesù si era preso sulle spalle il peso della colpa dell'intera umanità; lo portò con sé nel Giordano. Dà inizio alla sua attività prendendo il posto dei peccatori. La inizia con l'anticipazione della croce. Egli è, per così dire, il vero Giona, che aveva detto ai marinai: prendetemi e gettatemi in mare (cfr. Gio 1,12). Il significato pieno del battesimo di Gesù, il suo portare ´ogni giustiziaª si rivela solo nella croce: il battesimo è l'accettazione della morte per i peccati dell'umanità, e la voce dal cielo ´Questi è il Figlio mio predilettoª (Me 3,17) è il rimando anticipato alla risurrezione. Così si comprende il motivo per cui nei discorsi propri di Gesù la parola ´battesimo' designa la sua morte (cfr. Me 10,38; Le 12,50)." (p. 38)

Il battesimo c'entra di sicuro con la Croce, ma in conseguenza del fatto che la sfida lanciata dal Battista e da Gesù all'autorità costituita è destinata inesorabilmente ad avere un esito fatale, date le forze in campo e data la suscettibilità dei Romani, inesperti di teologia biblica, nei confronti di qualunque movimento che alimentasse disordine in una nazione perennemente inquieta.

4.

Anche da questi due esempi si può prendere atto della sostanziale inconsistenza della premessa metodologica. In essa Ratzinger tributa un omaggio formale al metodo storico-critico, dei cui risultati, però, in tutto il libro non tiene alcun conto.

Non è sorprendente dunque che già nel capitolo secondo, dedicato all'analisi delle tentazioni nel deserto, si scade nel ridicolo. Ratzinger, infatti, non solo prende per buona l'esistenza di Satana come persona (dogma peraltro che la Chiesa ripropone insistentemente ancora oggi), ma dà addirittura credito alla tenzone dialettica tra Gesù e Satana, dalla quale risulta che entrambi sono profondi conoscitori della Bibbia.

Sarebbe noioso fornire ulteriori esempi delle elucubrazioni teologiche del Papa. Il metodo che egli adotta costantemente, del tutto alieno da quello storico-critico, muove dal presupposto che tutte le parole del vangelo (e dell'Antico Testamento) sono vere perché ispirate. Laddove il loro significato appare oscuro o contraddittorio, ciò non può significare, dunque, che lo sia. Si tratta di sforzarsi nell'approfondirlo fino a raggiungere la verità luminosa che esso nasconde. Il problema è che, con un metodo del genere, che trova sempre ciò che cerca, si potrebbe ricavare da qualunque testo mitologico un senso profondo, remoto, abissale.

Ma allora a che serve scrivere libri del genere, tanto più contestando vivacemente il metodo storico-critico, se in ultima analisi la fede si riduce al credo quia absurdum?

La risposta si trova a pag. 56:

"Naturalmente si può chiedere perché Dio non abbia creato un mondo in cui la sua presenza fosse più manifesta; perché Cristo non abbia lasciato dietro di sé un ben altro splendore della sua presenza, che colpisse chiunque in modo irresistibile. Questo è il mistero di Dio e dell'uomo, che non possiamo penetrare. Noi viviamo in questo mondo nel quale appunto Dio non ha l'evidenza di una cosa che si possa toccare con mano, ma può essere cercato e trovato solo attraverso lo slancio del cuore."

Chi non ha questo slancio, naturalmente, non è un essere che accetta con relativa serenità la propria finitezza, la "sventura" di essere mortale, bensì un tracotante narcisista:

"La presunzione, che vuole fare di Dio un oggetto e imporgli le nostre condizioni sperimentali da laboratorio, non può trovare Dio. Infatti si basa già sul presupposto che noi neghiamo Dio in quanto Dio, perché ci poniamo al di sopra di Lui. Perché mettiamo da parte l'intera dimensione dell'amore, dell'ascolto interiore, e riconosciamo come reale solo ciò che è sperimentabile, che ci è stato posto nelle mani. Chi la pensa in questo modo fa di se stesso Dio e degrada così facendo non solo Dio, ma il mondo e se stesso." (p.60)

Certo, se si dà per scontato che l'uomo ha bisogno di trascendenza per reggere il peso della sua consapevolezza di esserci e di essere finito, il rinunciare alla trascendenza non può coincidere, nell'ottica religiosa, che con la presunzione di poter colmare da solo lo scarto tra finito e infinito.

Al Papa però non viene in mente che quella rinuncia può coincidere, in un'ottica laica, con l'accettazione della propria finitezza e con tutte le conseguenze che essa comporta (morte compresa). Quale vantaggio deriva da tale accettazione? Il non avere più bisogno di illusioni religiose per vivere e dare alla vita il significato di un'avventura affascinante anche se casuale.

E' inutile aggiungere che, nel libro, Ratzinger trova modo di criticare il capitalismo, il consumismo, l'egoismo, il razionalismo, il relativismo, ecc. Tutto naturalmente in nome di testi traballanti scritti duemila anni fa.

E' superfluo anche specificare che non manca una mezza paginetta critica dedicata a Nietzsche. Ratzinger sfodera la sua cultura filosofica nel sottolineare che il pensatore tedesco non ce l'aveva con il Cristianesimo in sé e per sé, ma con la morale che la Chiesa ha ricavato da esso. Non gli si potrebbe chiedere di riconoscere quanto di umanamente sublime c'è nel Gesù di Nietzsche rispetto all'immagine devozionale e stereotipica che egli tratteggia del Figlio di Dio.